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domenica 30 agosto 2015

Saint-Geosmes, o I Tre Santi Gemelli


Il tempo mi ricorda un fiume himalayano: scorre sempre troppo rapidamente, direzione foce ...e ogni sosta è impossibile. Dico questo perché mi pare ieri e invece son passati almeno vent’anni dalla mia prima volta a Saint-Geosmes, un paesello di circa 500 abitanti che l’espansione edilizia ha ormai unito a Langres, cittadina di 9600 abitanti, dipartimento dell’Alta Marna, regione Champagne-Ardenne, Francia.
In compagnia di mia moglie, a Langres ero arrivato seguendo due piste: la prima, più impegnativa, ci portava a degustare gli ottimi ed economici (vent’anni fa lo erano ancora, oggi non saprei) champagne de la maison suggeriti dai ristoratori - liquidi che poi smaltivamo pedalando pedalando, spingendo le nostre Cinelli Passatore appesantite da quattro borsoni, due davanti e due dietro (io anche la tenda e i sacchi letto per eventuali soste extra-urbane). La seconda, più facile da gestire, prevedeva la visita di vecchi borghi non toccati dal becero turismo all-inclusive, inoltrandoci nei tortuosi meandri della loro storia - e in aggiunta alle sue chiese e alle vecchie case Langres ha da offrire al viandante un qualcosa in più: qui, nel 1713, è nato l’enciclopedista Denis Diderot, come una statua ricorda.

Arriviamo che è primo pomeriggio, quindi l’ora giusta per cercare un alloggio, fare una doccia e prepararsi alla visita della città. Entro in qualche albergo ma niente mi stimola. M’informo e imparo che appena usciti da Langres vi è il villaggio di Saint-Geosmes, con un piccolo hôtel rinomato per il suo ristorante. Inforchiamo le nostre bici e partiamo. In quegli anni l’Hôtel des 3 Jumeaux era una piccola struttura più alta che larga, proprio di fronte ad un allevamento di bovini che saturava l’aria col suo forte odore di stallatico. Monsieur ci consegna le chiavi di una stanza all’ultimo piano - la migliore, dice - e ci riserva un tavolo per la cena. Piacevoli esempi di professionalità, anche se quel giorno saremo gli unici clienti sia dell’albergo che del ristorante. Ricordo un’ottima cena accompagnata da una bottiglia di pregevole Champagne rosé de la maison.
Tra una portata e l’altra, Monsieur risponde ad alcune mie domande: perché questo nome curioso “i tre gemelli”, ma soprattutto - e subito imparo che la faccenda non è disgiunta - la storia della chiesa eretta all’ingresso del villaggio, la cui architettura lascia supporre un glorioso passato. Come sempre accade, lui non va oltre alle solite storie ascoltate oralmente, fiabe “tradizionali” diventate verità rivelata. Chiedo se domani mattina noi due avremo la possibilità di visitarla, visto che oggi abbiamo trovato la porta chiusa. Lui afferma di conoscere la signora che ha in custodia le chiavi e che vedrà di fare il possibile per accontentarci. È estate, fuori fa caldo e l’odore dello stallatico è decisamente forte. Meglio restare dentro al ristorante e aspettare l’ora di salire in camera sorseggiando del buon Marc de Champagne.

Il mattino dopo, mentre siamo intenti ad espletare il rito del petit-déjeuner (e prima di vestire gli abiti da ciclo-turista, che prevedono pantaloncini rinforzati nella parte a contatto con la sella ma privi di un posto dove alloggiare i maschili pendentifs) Monsieur ci comunica d’aver già incontrato la signora incaricata delle pulizie, la quale ha promesso che quanto prima sarà da noi con le chiavi della chiesa - e così è. Lei ci accompagna fino all’ingresso della struttura, ne apre il portone, poi mi consegna le chiavi dicendo che non può trattenersi oltre ma che noi possiamo prenderci tutto il tempo che vogliamo (ricordo perfettamente la sua frase: prenez votre temps, monsieur), salvo poi chiudere la porta e riportare le chiavi alla reception dell’albergo. Ovviamente, prima di lasciarci provvede ad aprire il cancelletto d’accesso alla cripta e premere l’interruttore della luce. Noi ci troviamo padroni della chiesa, con lo scurolo a nostra completa disposizione - e seguendo il consiglio di Madame ...ci prendiamo tutto il nostro tempo.

* * *

Settembre 2013. Siamo di nuovo in Francia, ma con l’auto stavolta. Dopo una rivisitazione dei preziosi reperti merovingici custoditi nel Museo di Metz e dopo una sosta a Verdun, che vanta una bella quanto ignorata cattedrale, imbocchiamo la strada che porta a Digione, la nostra prossima meta. Langres è sulla nostra strada e Saint-Geosmes pure, dove decido di fermarmi per scattare qualche foto in digitale. Coincidenza vuole che proprio in quel momento vedo alcune persone entrare in chiesa; a me non par vero di poter rivedere quella meraviglia e subito li seguo. Una volta dentro spiego loro i miei interessi culturali, chiedendo di poter accedere alla cripta. Mi sento rispondere che sono un uomo davvero fortunato: la porta viene aperta solo per le (rare) occasioni religiose e che loro oggi sono lì del tutto casualmente, giusto per addobbarne l'interno in vista di un matrimonio che si celebrerà il giorno dopo. L'imminente sposa mi apre il cancelletto delle scale che scendono alla cripta, mi accende la luce e …prenez votre temps, monsieur.
A differenza di tanti anni fa, stavolta il fattore sorpresa non gioca a mio favore. So cosa mi attende. L’unica differenza è che al tempo della mia prima visita nella cripta erano in corso degli scavi archeologici, il soffitto era puntellato da travi, la luce decisamente scarsa. Oggi gli scavi sono terminati, il pavimento è stato sistemato, una passerella di legno contornata da parapetti - che ritengo invalicabili per i turisti che aderiscono alle visite guidate proposte nei mesi estivi dall’Ufficio del Turismo di Langres - porta al centro della cripta, dove alcuni riflettori illuminano la scena. Ancora una volta lo scurolo è tutto per noi …e io ho nuove motivazioni per scattare altre immagini, rigorosamente a mano libera e senza l’uso del flash: gli scatti devono riprodurre quello che l’occhio vede.
Delle tre sepolture un tempo furbescamente portate alla luce oggi una sola è visibile: è di pretto stampo merovingico - come già scritto in un altro articolo, sono stati loro ad inventare la bara larga alle spalle e stretta ai piedi, la stessa ancora in auge ai nostri giorni. Poi mi dedico alle colonne, decifrando i decorati capitelli. Giro, assaporo l’atmosfera, scatto foto, esco in superficie. Riossigenato ridiscendo nella cripta per un nuovo giro, sempre oltre i parapetti ma rispettoso del terreno che calpesto. Di fatto, metto in pratica quello che mi insegnato Antonio Thiery: prima di commentare uno scritto lo si deve leggere almeno tre volte, un principio che vale per ogni opera dell’ingegno umano.



Tra i molti scritti che hanno trattato la storia della cripta, della chiesa superiore e della leggenda di Saint-Geosmes ne suggerisco due - le fonti da me utilizzate -, a cui rinvio per ogni approfondimento:
1) Recherches historiques et statistiques sur les principales communes de l’arrondissement de Langres, stampato da Sommier, Langres 1836.
2) Études sur les monuments religieux du diocèse de Langres, par l’abbé Godard Saint-Jean, testo inserito nel Bulletin monumental ou Collection de mémoires ecc., publié par M. De Caumont, Paris 1847.

La leggenda vuole che nel corso del secondo secolo dell’era cristiana san Bénigne, inviato da san Polycarpe vescovo di Smirne a convertire i Galli, arriva ad Autun dov’è ricevuto da sant’Andoche e da un senatore cristiano di nome Faustus. Utilizzo i nomi alla francese non per spocchia intellettualoide bensì perché questi sono “santi-vescovi” tipicamente francesi e come tale vanno trattati - e in Francia a quel tempo essere vescovo ed essere santo era un tutt’uno già in vita. Il senatore consiglia a san Bénigne di portarsi a Langres, dove vive una sua sorella Léonille, nonna di tre gemelli rimasti orfani dei genitori in tenera età, i cui nomi sono Eléosippe, Méleosippe e Speleosippe (o Speusippe), creature allevate da maestri pagani. San Bénigne si dedica alla loro conversione al credo dei cristiani con tanta devozione che per affermare urbi et orbi la loro nuova fede i tre giovincelli trovano giusto rovesciare la statua di Némésis, la divinità tutelare di Langres, e bruciare le statue degli idoli altrui. Denunciati, vengono portati davanti a tre giudici, i cui nomi sono Hermogènes, Palmatus e Quadratus, un fatto che il diffusore di questa leggenda - Warnaharius o Varnier o Garnier, canonico di Langres verso l’anno 600 - vuole datare tra l’anno 179 e il 180, anni che cadono sotto il regno di Marco-Aurelio.
Interrogati dai tre giudici i tre gemelli confermano le accuse. La condanna a morte è inevitabile e i tre giovani vengono portati fuori dalla città e nel luogo detto Urbatus o Urbatum - il punto dove s’incrociano due strade romane: quella che da Alise porta ad Autun e quella che da Lyon porta a Genève - viene eretta la pira su cui dovranno essere arsi vivi (una buona abitudine ripresa dagli Inquisitori). Spogliati dei loro abiti, i tre vengono appesi con delle corde ai rami di un albero per l’immancabile “strappo” utile al loro pentimento. Mostrandosi indecisi a non tradire il nuovo credo, i tre vengono gettati sulla pira dove il fuoco brucia le corde che lega loro le mani e i pedi. Anziché tentare di salvarsi, i gemelli si riuniscono al centro del rogo intonando canti di lode al loro demiurgo (che ricordo essere quello proprio del popolo ebreo, rivisto e corretto) e tutto questo può accadere perché LUI ha deciso che le fiamme siano fredde: scoppiettano ma non bruciano.
Terminati i canti, i tre gemelli chiedono all’ebraico Dio (perché non al Cristo visto che si definiscono cristiani?) di permettere il loro sacrificio e benignamente lui li accontenta: i loro corpi integri cadono al centro del rogo, le loro anime salgono al cielo. Spento il rogo, ritiratisi i giudici e gli spettatori, durante la notte qualche cristiano ricupera i corpi per dare loro degna sepoltura a non molta distanza dal luogo del supplizio- ed è lì che poi sorgerà la chiesa dedicata ai Santi-Gemelli.

Può la saga finire qui? Certo che no e la fantasia di Warnaharius - che scrive tutto questo in una lettera indirizzata a san Ceraume vescovo di Parigi - ha altro da aggiungere. Dunque: Néon, lo scrivano che fungeva da segretario ai tre giudici, sconvolto dalla decisa professione di fede esibita dai tre gemelli si rifiuta di continuare a redigere le tavolette dell’interrogatorio. Passato il suo lavoro al collega Turbon, di fronte ai giudici si professa pure lui cristiano: lapidato sul posto. Vedendo i giovani avviarsi sereni al rogo una donna di nome Junille affida ad altri il neonato che tiene in braccio, si precipita in mezzo alla folla e ignorando le suppliche di suo marito urla di essersi convertita tout-court al cristianesimo: la appendono per capelli ad un albero e poi le tagliano la testa. Vedendo tutto questo, il già citato Turbon molla di colpo il suo lavoro di scrivano e urla pure lui di essersi convertito: terzo martire.  Per Warnaharius tutti questi fatti sarebbero accaduti il 17 di gennaio ...di oltre quattro secoli prima.


La storia non finisce qui. Si vuol credere che i cristiani costruissero verso l’anno 200 un piccolo oratorio sopra la tomba dei tre santi gemelli e che due secoli dopo i loro corpi siano stati esumati ed esposti per essere venerati in una piccola chiesa costruita sopra il primitivo oratorio, mutato in cripta. Nell’anno 600, ovvero ai tempi in cui scriveva Warnaharius, questa chiesa era stata ampliata, assumendo il titolo di basilica, ovvero la chiesa destinata al culto dei morti, di norma circondata da un cimitero o, più spesso, costruita laddove vi era un preesistente cimitero. E qui, a Saint-Geosmes, vale la seconda, come dimostrato da recenti scavi archeologici che hanno portato alla luce numerose sepolture risalenti ai tempi della presenza romana. In seguito, nei pressi della chiesa dei Saint-Geosmes venne costruita un’abbazia, struttura che nell’830 Albéric vescovo di Langres amplia al fine di accogliere dieci canonici e un prevosto. Nell’occasione, lo stesso Albéric farebbe abbattere la vecchia chiesa dedicata ai tre gemelli per sostituirla con una nuova. Uso il dubitativo perché scrivendo di questo aggiunge De Caumont: Ma siccome nessun documento storico parla di una costruzione posteriore, è evidente che la chiesa attuale fu elevata all’inizio del XIII secolo.
Il 19 aprile 859 l’abbazia ospita un concilio presieduto da Remy arcivescovo di Lyon e da Agilmar di Vienne, assistiti da Eblon di Grenoble e sotto la supervisione del re Charles-le-Jeune, figlio dell’imperatore Lothario. Tra i canoni emanati alcuni meritano di essere ripresi: l’8° indica che la promozione di un vescovo compete al solo giudizio del metropolita e dei vescovi dei paesi vicini, mentre il popolo non può avere alcuna parte nella sua elezione. Il 10° vuole che i principi e i vescovi istituiscano scuole pubbliche per l’insegnamento delle sacre scritture, ma solo nei luoghi dove vi sono insegnanti che il clero ritiene capaci. Nell’occasione Isaac vescovo di Langres fa introdurre un inasprimento delle punizioni da elargire ai peccatori della sua diocesi, imponendo il cilicio di spine sulla testa per i peccati “normali”, la galera da 5 a 7 anni dietro la porta della chiesa per i peccati più gravi. Chi vuole rendere meno pesante la vita a questi condannati può loro portare del vino, ma solo dopo aver versato due denari al clero.

Nell’anno 886 Albéric vescovo di Langres rimpiazza i canonici di Saint-Geosmes con dei benedettini; ci restano poco e i canonici rientrano al loro posto. Nell’anno 940 arriva la più che generosa donazione di Hugues conte di Basigny: siccome suo figlio Gotzelin ne è l’abate, lui, il padre, offre all’abbazia 8 meix (abitazione rurale con stalle, campi, orto e giardino) nel villaggio di Forcey nella contea d’Andelot; 240 meix e un mulino nella contea di Bologne; dieci meix coi loro abitanti ad Angoulancourt, nonché la chiesa e la curia di Saint-Pierre de Thivet. Una manna.
Nel 1126 Willelm vescovo di Langres ordina ai canonici di Saint-Geosmes di seguire la regola di sant’Agostino, imposizione confermata nel 1131 da papa Innocenzo II. Nei secoli altre ricche donazioni s’accumulano, rendendo questa abbazia (oggi scomparsa) decisamente ricca e importante.
Il declino inizia con Luigi XIV, che unisce il priorato di Saint-Geosmes all’abbazia di Notre-Dame-aux-Nonains di Troyes, mentre più tardi Gilbert de Montmorin vescovo di Langres ottiene l’estinzione dei canonici, destinando i loro beni immobili e gli introiti pecuniari al seminario di Langres.
Concludo: la facciata e il campanile della chiesa sono della fine del XVIII secolo, epoca in cui la lunghezza della navata è stata ridotta di un terzo.

* * *

Per quanto riguarda la cripta ecco quanto ha scritto il De Caumont, qui da me liberamente tradotto: Scendiamo nella cripta tenebrosa, che riempie l’anima d’una santa riverenza e d’una emozione che non possiamo né vincere né definire. Sedici colonne monocilindriche in pietra calcarea sostengono le volte di tre navate; compresa la base e il capitello esse sono alte 2 m e 7 cm, l’altezza sotto la volta del caveau è di 2 m 53 cm, la larghezza totale è di 6 m 27 cm. […] In paese si ricorda che durante la rivoluzione, quando la chiesa era diventata l’ospedale Geôsmes, nella cripta vi erano le latrine!
Quanto all’età della cripta non osiamo avanzare un parere, tuttavia, considerando il lavoro grossolano dei capitelli, delle cattive modanature e delle teste di animali malamente scolpite, riteniamo che essa risale a un tempo più lontano rispetto alla basilica.

Non meravigliamoci più di tanto di queste critiche: nell’Ottocento tutto ciò che esulava dai canoni dell’arte greco-romana appariva brutto …e a pensarci bene, anche oggi molti professori da salottino sostengono questa tesi: quanto avrebbero da imparare se non fossero così impegnati a sparare strapagate cazzate in TV.

© TESTO E FOTO DI
GIANCARLO MAURI





 






















venerdì 31 luglio 2015

San Baudelio de Berlanga visto da Antonio Thiery


Antonio THIERY
A che punto è la questione mozarabica
Pubblicato in Arte Medievale
Periodico internazionale di critica dell’arte medievale
II Serie, Anno II, n. 2, 1988, pp. 29-62
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma

San Baudelio de Berlanga (Soria), dell’XI secolo. L’edificio riassume molti motivi simbolici dell’architettura spagnola dal VII all’XI secolo: una grande aula cubica, dalla quale si accede ad una grotta (la cappella dei primitivo insediamento) e ad un’abside quadrata, sopraelevata, che fa da scrigno all’altare. La grande aula è segnata al centro da una maestosa colonna, dalla quale si dipartono otto costoloni a costituire la nervatura della copertura a vela. Si fa riferimento ai rami di una grande palma, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad un complesso mandalico che significa la resurrezione e la perfezione finale. Il grande senso di moto che viene conferito alla costruzione è accentuato dalle otto strettissime feritoie poste tra i costoloni che si dipartono dalla colonna centrale e che lasciano intravedere un vano impenetrabile, con una copertura a cupola, il cui ombelico, alla maniera araba, è costituito da un complesso sistema di travi che genera una figura circolare (simbolo della libertà cosmica) e otto linee di forza che incrociandosi danno vita ad un quadrato (la perfezione terrena) e che sono riassunte in un rapporto unitario da due assi posti a croce, che richiamano la lettera ebraica heth, alla quale si attribuisce il valore numerico di otto.
Il vano cieco e inaccessibile, sopra le absidi il più delle volte, è presente nell’architettura dell’età visigotica (San Pedro de la Nave, San Julián de los Prados) e mozarabica (San Miguel de Escalada) ed il significato non può che essere simbolico.
A Berlanga, la copertura del vano cieco ricorda con grande chiarezza la scena di Gog e Magog dei Commentari di Beatus, otto teste di coloro che dettero testimonianza della propria fede attorno alla testa centrale del Cristo. Nel mandala che viene a configurarsi anche a Berlanga è fondamentale il ruolo del centro, della divinità, da cui sono emanate le otto divinità periferiche.
Alcuni ipotizzano che si tratti di una cella eremitica, ma manca un possibile accesso. La cella impenetrabile ricorda bene nei suoi significati e nelle sue funzioni il senso misterico della cultura, vicino-orientale. B. Bagatti ricorda che per svelare ai soli adepti delle sètte il significato dei segni e dei simboli, i popoli antichi, compresi i giudeo-cristiani, tendevano per principio a conservare il segreto (mysterium absconditum). E perciò la spiegazione di molti segni risulta difficile. Il Vangelo di Filippo, evidenziando che a Gerusalemme tre erano le case che fungevano da luogo di sacrificio, dice che “il battesimo è la casa santa; l’unzione è il santo del santo, la camera nuziale è il santo dei santi... prima che il velo fosse strappato, non avevano altra camera nuziale, ma solo un’immagine della camera nuziale che è lassù. È per questo che il velo fu strappato dal basso in alto, perché era opportuno che qualcuno andasse dal basso in alto.” La cella, alla quale si guarda dal basso in alto, ricorda anche la grotta mistica o splendente, non per la luce che vi penetra, ma per la presenza divina, ben sottolineata dal mandala che fa da chiave alla volta.
La colonna centrale che si apre negli otto costoloni richiamando il grande albero, da cui emana la forza vitale, non è certamente una novità. Segna il legame fondamentale tra l’umano e il divino, simboleggia la croce nella quale il Dio morente si immedesima al punto da diventare solo “voce”, solo “spirito vitale.” Dice Ephrem: “Dio ha piantato un bel giardino. Egli ha costruito pure la Chiesa e in mezzo alla Chiesa ha piantato il Verbo.” È una descrizione, a secoli di distanza, del San Baudelio di Berlanga, che, nel suo sistemico insieme, è segno di Cristo.
Il vano centrale della chiesa è caratterizzato ancora sul fondo, in contrapposizione all’abside, da una tribuna sorretta da 18 colonne, forse richiamo allo spazio riservato alle donne nella sinagoga, alla quale si accede da una piccola scala, simbolo di Cristo, come ricordano Ireneo e Giustino. Dalla tribuna si accede ad una piccola cappella addossata alla colonna centrale e sorretta, quasi fosse un pulpito da quattro colonne che sorreggono quattro archetti.
Modeste pitture, staccate in epoca recente e sostituite da copie, coprivano le pareti esterne della tribuna e della cappella.
A tanta inventiva architettonica, a testimonianze di una complessa sofisticata tradizione culturale, che mira a creare un composito ed esoterico sistema di comunicazione, fanno da contrappunto balbettanti esercizi pittorici, a testimonianza di forme espressive che hanno trovato solo nelle architetture e nelle miniature la propria ragion d’essere e le proprie “funzioni.”

[…] Il riferimento all’architettura araba, nelle chiese mozarabiche, è costante. Non sono molti gli edifici musulmani giunti fino a noi, ma la Moschea di Cordoba è sufficiente per testimoniare forme comunicative che presero il via nel VII secolo dalla grande Moschea di Abd al-Malik, sulla spianata del tempio di Gerusalemme.
Non mi soffermerò ad esaminare l’architettura araba di Spagna; metto soltanto in evidenza come il sistema a costoloni di San Millán de la Cogolla e di San Baudelio de Berlanga è presente, con innumerevoli soluzioni nella Moschea di Bid-Mardúm, dalla fine del X secolo, a Toledo - ora nota come chiesa del Cristo della Luce - e come il fantasmagorico fiorire di mandala sia presente, appunto, nella grande Moschea di Cordova, ad esempio nelle cupole della cappella reale o della cappella antistante il mihrab. Non va dimenticato il forte accento ad una impostazione labirintica della pianta, né che l’edificio sacro, sia nel mondo islamico, sia in quello cristiano, è il centro di una liturgia che ha nella deambulazione interna ed esterna la sua caratterizzazione.
Nel contesto culturale definito da tante chiese, vanno studiati i codici miniati del X secolo, che meglio individuano i modi comunicativi dell’età mozarabica. Non dovrà meravigliare il costante riferimento ai testi apocrifi o al mondo arabo, giacché appare sempre più evidente la natura sincretistica della religiosità mozarabica, centrata non sulla ricerca di una teologia dogmatica o morale, ma nell’attesa apocalittica della fine già operante dei tempi, non disdegnando connotazioni giudaiche e islamiche.

mercoledì 29 luglio 2015

San Baudelio de Berlanga visto da J. Fontaine




Jacques FONTAINE
L’art mozarabe
Zodiaque 1983

Edizione italiana:
San Baudel de Berlanga
L’ultima arte mozarabica nella nuova Castiglia

pp. 215-225


La volta così raffinata e perfetta di questa lanterna nascosta di San Baudel è il prodotto di una sorta di atto gratuito. Certo, se si ammette l’ipotesi del locale di «reclusione», avrebbe potuto esserci là, nei primi tempi dell’edificio, l’intenzione di sfuggire all’insicurezza, mediante un nascondiglio difficilmente accessibile - e, prima di tutto, avvistabile -, dove in caso di emergenza si sarebbero potuti nascondere tutti gli oggetti preziosi del culto. Si pensa qui non solo ai «locali rifugio» («?) situati sopra l’abside in certe chiese visigotiche e mozarabiche, ma anche alla funzione delle alte torri sormontanti i monasteri irlandesi (Glendalough) o mozarabici (la «torre di Távara»). Ma anche se questa spiegazione di una funzione utilitaristica non dovrà essere scartata, è allora strano che si sia aperto questo tesoro da ogni lato: i predoni, attraverso le minuscole aperture, non avrebbero avuto meno possibilità di accedervi dei proprietari del luogo! Ed è ancora più singolare che si sia concentrata in questo spazio una tecnica inventiva così raffinata nelle forme e nei mezzi.
Come San Millán de la Cogolla, San Baudel de Berlanga deve probabilmente la sua esistenza a un eremo, attirato là dalla presenza di una sorgente (l’acqua qui è ancora meravigliosamente fresca); di una grotta, il cui accesso si trova nell’angolo sud della chiesa, all’interno; infine, di un bosco di querce, che è scomparso solamente nel secolo scorso. Ma il paesaggio è molto più austero che a San Millán. Su questa estremità orientale dell’altopiano della Nuova Castiglia si è ai confini del luogo a partire dal quale si dividono le acque che confluiscono nel Tago verso sud-ovest, nell’Ebro verso est, e prima nel Duero - a una decina di chilometri a nord - verso nord-ovest. L’eremo si eleva piuttosto in alto, nel recesso di una piccola valle arida, sul suo versante meridionale. Di là in alto, solo il verdeggiare dei pioppi segnala il modesto corso d’acqua della vallata più ampia attraverso la quale si è giunti da Berlanga a Casillas. Da un lato e dall’altro del corso d’acqua, dei massi calcarei scavati dall’erosione scolpiscono questo vasto paesaggio austero: l’ocra rossa e il bianco del gesso si armonizzano con l’ocra gialla e con qualche macchia di colture, lungo il rio Escalote.
Lo strano cubo grigio di San Baudel, posato sullo strato roccioso che affiora - lo stesso da cui si sono ricavate le pietre grossolanamente tagliate delle sue mura -, non è per nulla fuori luogo in questo ambiente ascetico. Tre minuscoli segni caratterizzano questa fortezza offerta a Dio: la piccola abside sporgente verso est; la porta nord dal doppio arco a ferro di cavallo; infine la porta stretta e a tutto sesto che dava allora, a sud, accesso diretto alla tribuna interna, - ma questa è oggi murata. Si pensa qui alla torre di doña Urraca, piuttosto che a una chiesa o ad un monasterium: non è fuori luogo l’immagine di una casamatta. Davanti alla valle del Duero, raggiunta come si è visto nel 912, si è rimasti qui nell’insicurezza, anche dopo la presa di Toledo nel 1086. Non si sa ancora bene se la riconquista della piccola città vicina di Berlanga, dalle mura ancora imponenti, debba essere attribuita a Ferdinando I nella prima parte dell’XI secolo, o ad Alfonso VI nella seconda, ma sembra molto probabile che la regione fosse abbandonata subito dopo la conquista, e che non venisse ripopolata che da Alfonso I d’Aragona all’inizio del XII secolo.
I monaci di San Baudel de Berlanga si trovavano dunque in un luogo avanzato al di là della frontiera del Duero, anche se si volesse collocare la costruzione della loro cappella oltre gli inizi dell’XI secolo. Erano là come le sentinelle di Dio, oltre il fossato della nuova frontiera, così come già lo erano stati i loro fratelli di Silos al di là dell’Arlanza. La miglior epigrafe su San Baudel, quando si sale verso l’edificio sul fianco della collina pietrosa, si può ben trarre dall’inizio del Salmo 18: «Jahvé è la mia roccia e il mio baluardo [...] mi rifugio in lui, mio sostegno [...]». Chi è il santo Baudilio che ha dato il suo nome alla chiesa? È naturale pensare che si tratti del martire di Nîmes. Non soltanto il suo culto si era largamente diffuso nel medioevo nelle terre catalane; il suo nome compare anche in tutti i calendari mozarabici al 20 maggio, e la sua Passione figura giustamente nell’XI secolo nel Passionario di Silos. Félix Ransanz, l’attuale guardiano dell’eremo, ci ha testimoniato che ancora qualche decennio fa il pellegrinaggio annuale raccoglieva qui i fedeli dei dintorni il 27 maggio (dunque per l’ottava della festività), e che «si beveva più vino che in Aragona, mangiando lumache» (!). Come sono cambiati i tempi!
Come le prime notizie sul ripopolamento di questa regione, la più antica menzione scritta di questo eremo è tarda. Infatti è nel 1137 che una bolla di Innocenze II regola le contestazioni di frontiera fra il vescovado di Osma e quello di Siguenza, attribuendo a quest’ultimo, fra altre parrocchie situate a sud del Duero, «Berlanga con tutto il suo territorio, e con il monastero di San Baudilio». Cum monasterio sancti Baudili, che significato ha? Qui si è sicuramente rimasti molto lontano dalle centinaia di monaci di San Millán o di Silos. E non è impossibile che il termine monasterium abbia qui mantenuto il suo significato più frequente negli impieghi più antichi del termine nel IV secolo, ossia quello di eremitaggio, tutt’al più si può supporre che la grotta, il bosco e la sorgente abbiano attirato parecchi eremiti, che si riunivano periodicamente per la preghiera comune, secondo il principio orientale della lavra. La stessa disposizione dell’interno suggerisce che questo o questi eremiti sono passati da una primitiva anacoresi, che forse fu di tipo semplicemente rupestre, a una vita di volontaria reclusione all’interno dello strano edificio che era stato loro costruito, o che essi avevano costruito. In ogni caso, sembra proprio che la grotta sia stata all’origine della fondazione monastica: si pensi all’insieme dei santuari rupestri dell’Arlanza, della Rioja, della Castiglia, da cui Berlanga non è così distante.
Oltrepassata la doppia porta dalla curva moresca, si esce da questo deserto pietroso per entrare nelle fantasticherie di una architettura di sogno. Il miraggio qui è all’interno, come si conviene in questo alloggio mistico dei discendenti spirituali di sant’Antonio. Da molto tempo, la singolarità delle strutture interne di questo edificio ha confuso e sconcertato gli archeologi che hanno cercato di darne una spiegazione. Tuttavia, l’affinità della sua struttura con i grandi temi simbolici del «paesaggio ascetico», quali apparivano nella letteratura monastica dei primi secoli, è sembrata offrirci un principio di spiegazione, al tempo stesso adeguato al suo oggetto e chiarificatore di ciascuno degli elementi di questa architettura. Infatti è forse partendo da questo paesaggio ascetico del monachesimo primitivo che si può di colpo cogliere la funzione fantastica che riunisce in un fascio interno queste membra architettoniche disperse (fig. 62). Un’immensa palma di pietra copre con i suoi potenti rami questo cubo (dall’antichità figura simbolica dell’elemento terrestre) di terra consacrata. Sotto la palma, a sinistra, l’accesso tramite cinque gradini all’altare della «cappella» (di fatto, una pseudo-abside aggiunta al grande cubo). A destra, una specie di mini-moschea introduce all’entrata della grotta, e già la configura. Questa sostiene, ad un terzo dell’altezza delle volte, una piattaforma che è come la montagna di Dio, sulla quale l’eremita vive e prega più vicino al Cielo. Su questa montagna simbolica si innalza un’altra cappella in miniatura, anch’essa orientata come l’abside, e affiancata all’enorme tronco di palma - già sospesa fra la terra e il cielo.



Ma la cosa più raffinata e gratuita è qui la più invisibile. Nel punto più centrale, più segreto, più inaccessibile, nel cuore e in cima alla palma, all’origine dei rami, in questo luogo comune tipico di tante teofanie (dal roveto ardente alla Vergine basca di Aranzazu!), l’architetto ha disposto nell’incavo dove nasce la volta, il più raffinato dei piccoli chioschi che abbia mai concepito il paesaggista di un giardino orientale (fig. 63, in cima allo spaccato). Santuario dei santuari - è il terzo che incontriamo -, è significativo che lo si possa intravvedere (non vederlo completamente), con una certa chiarezza, solo dalla «santa montagna» della tribuna. È al centro (in pianta), e alla sommità (in alzato), il culmine di questa architettura mistica in cui si è pietrificata l’intuizione di un architetto monastico: quella di un’iniziazione spirituale che sale e scende dalla terra al cielo, su una scala di Giacobbe di un modello inatteso. Potrebbe darsi, secondo la recente ipotesi di Juan Zozaya, che il chiosco nascosto nella parte superiore della colonna sia stata la dimora di un eremita recluso (si pensi ai santi stiliti dell’Oriente). Questa funzionalità e questo simbolismo cristiano dell’insieme architettonico non impediscono affatto di cercare ugualmente una convergenza con dei simbolismi orientali e islamici. La palma è in effetti una delle piante particolarmente benedette da Dio, nel Corano; e il suo significato paradisiaco potrebbe avere ugualmente qui un’origine islamica, che non toglierebbe le affinità cristiane.



Ma occorre riprendere ad uno ad uno gli elementi di questo straordinario paesaggio interno, in cui sembra riassumersi tutta una mistica dell’eremitismo mozarabico. Ecco dunque la palma del repertorio decorativo omaiade passata da due a tre dimensioni. Questo motivo pittorico di certe miniature dei Beatus (figg. 64-65), apparso anche nella plastica dei fregi, dei capitelli e delle balaustre di Escalada (fig. 66), si trova qui promosso alla sua rappresentazione naturale nello spazio. Non è l’ultima volta che pilastri e nervature ritrovano la loro trasparenza vegetale. Per non citare che un esempio celebre, e molto più tardo, si ricorderà la «palma» che sostiene tutta l’abside della chiesa abbaziale, sulla rocca di Mont-Saint-Michel. Astraendo dall’enorme tronco centrale, e dai costoloni fortemente oltrepassati che raffigurano con tanta elegante precisione il pesante ricadere delle palme che si piegano su se stesse, bisogna vedere bene che il sistema della volta è identico, nel principio e nella linea, a quello di ciascuna delle due volte su pianta quadrata, nella parte più antica di San Millán de La Cogolla. È simile, nella proiezione in piano, il tracciato alla «Union Jack» degli otto costoloni, allineati due per due da una parte e dall’altra della loro ricaduta sul pilastro centrale, e quello dei quattro costoloni a tutto sesto che attraversano da parte a parte i due quadrati di La Cogolla. Simile è anche il profilo «a carena» della volta, che prima sale, e si eleva sulla verticale lungo i muri, ma poi si flette per appiattirsi e ribassarsi al centro.





L’unica differenza è nelle dimensioni. Questa mette in luce la prodezza tecnica: i quadrati di San Millán non avevano che poco più di m. 3,50 di lato; qui si è in presenza di uno pseudo quadrato di m. 7,50 per 8,50, cioè più del doppio. Ciò spiega il fatto che, per assicurare la coerenza di questa enorme massa, si sia contato, più che su un calcolo troppo arduo delle spinte, sulla imponenza dei muri, che raggiungono in media quasi un metro di spessore (vedere la porta d’ingresso o quella della cappella). La precauzione era tanto più necessaria in quanto il taglio dei blocchi era sommario e la muratura di qualità scadente: donde i cedimenti e le crepe che hanno richiesto, particolarmente nel nostro secolo, interventi urgenti di restauro. Si osserverà d’altronde che le curve attuali dei costoloni della palma non sono tutte regolari. La volta si è tanto deformata che certi hanno assunto parzialmente il suo profilo deformato.
Le soluzioni adottate per la linea di ricaduta dei costoloni, lungo i muri, sono particolarmente interessanti negli angoli, dove si ponevano, in forma più difficile, problemi analoghi a quelli delle linee di caduta angolare degli archi incastrati in una volta sul tipo del quadrato di Peñalba. Si osserva qui una singolare combinazione della tromba e del pennacchio. Per accogliere l’estremità (ricurva verso l’esterno, per concludere l’oltrepassamento) di ciascun costolone in angolo, si è effettivamente smorzato l’angolo rientrante con una sporgenza in un quarto di cilindro (corrispondente ai quarti di piramide gradinata, a Peñalba), raccordato nel punto in cui iniziano gli spicchi di volta laterali tramite due triangoli curvilinei e concavi. Poi, sotto il coronamento a «navicella» curvo (con smusso concavo) del costolone, questo quarto di cilindro rientra a sua volta nell’angolo dei muri tramite un pennacchio a conchiglia, che non intacca che parzialmente il suo volume. Di qui due piccoli piani di raccordo curvilinei, leggermente concavi, da entrambe le parti. L’insieme da un’impressione di tentativo empirico, e questo aspetto di «laboratorio architettonico», che davvero presentano certe caratteristiche tecniche della costruzione, è un altro fascino dell’edificio. Ben lo completa l’inventiva, così notevole a livello di programma d’insieme: ciò non si poteva compiere facendo sempre riferimento a soluzioni già perfettamente sperimentate. Pertanto, lo studio delle linee e delle misure dell’edificio ha portato Juan Zozaya a scoprire nella trama della pianta e in quella dell’alzato, suddivisioni a scacchiera e ritmi basati su una precisa modulazione matematica. Questa sembrava suggerirgli «che bisogna necessariamente supporre forti conoscenze matematiche presso i costruttori contemporanei, o l’esistenza di una fonte nota di trasmissione di conoscenze matematiche, proveniente dalla tarda antichità».
Le due porte che danno rispettivamente sull’esterno e sulla cappella absidale sono sicuramente le opere rifinite nel modo più notevole. Non presentano la novità come la «palma», ma s’impongono all’occhio per l’armonia delle rispettive proporzioni e dei moduli esterni, per la nettezza della linea e, in correlazione, del taglio e della struttura, per il relativo gioco delle curve dei due archi in funzione prospettica. La purezza del loro impianto mozarabico è riscontrabile in molti tratti, per i quali si avvicinano a vari altri monumenti dello stesso stile. Ad esempio, il raddoppiamento della porta, per evitare l’impressione di «tunnel» data da un arco dello spessore di un metro che attraversa l’enorme muro; questo impianto produce, come a Celanova, un effetto di arco trionfale (all’entrata di questa cappella ve ne è proprio uno). Ed ancora, l’imposta a doppia navicella, contemporaneamente vertice del piedritto, imposta e dunque primo concio dell’arco (tipo di imposta riscontrabile a San Millán). Si noterà anche l’opposizione fra le proporzioni, piuttosto in altezza nella porta esterna, e più in larghezza all’entrata della cappella. La piccola foresta di colonne che sostiene la tribuna non è soltanto il riflesso simbolico del bosco all’esterno, per noi scomparso; non è meno originale nelle sue caratteristiche tecniche. Le file di piccole colonne cilindriche senza capitelli, posate su grossi plinti cubici che ricordano quelli delle colonne del porticato interno di San Millán, sostengono, su abachi tozzi di forma parallelepipeda, piccole volte a cinque falde che assomigliano a cassettoni di artesonado appiattiti. Le basi diversamente scolpite delle colonnette, proprio sotto il plinto, sono gli unici ornamenti scolpiti visibili nell’edificio. La tribuna ha conservato solo nel lato settentrionale l’alta balaustra che isolava i o le recluse. Quanto alla piccola scala laterale, non se ne trovano di analoghe che nello stile asturiano, e per salire anche su una tribuna opposta all’abside, a Santa Cristina de Lena; ma là è a sinistra rispetto all’orientamento assiale dell’edificio. Salendo su questa piattaforma, si possono scoprire insieme la cappella superiore e il «chiosco».
Edificio in miniatura nell’edificio, questa strana cappella, montata su colonne come una sporgenza della tribuna, si configura nello spazio come, in due dimensioni, le «immagini nell’abisso» dell’arte barocca. Con il suo tetto a due spioventi, la volta a tutto sesto, l’arco d’entrata di m. 1,80 alla chiave, fortemente oltrepassato, questo minuscolo oratorio dalla struttura piuttosto rustica ricorda le piccole chiese mozarabiche di campagna che abbiamo incontrato in Catalogna; ma è senza paragone più piccolo! Permetteva senz’altro ai reclusi di vivere in una completa autarchia spirituale, senza nemmeno scendere nella cappella absidale, doppiamente sottratta alla loro vista dal piccolo muro di fondo cieco della cappella, e dal grosso pilastro della «palma», che si trova proprio sull’asse. Questa cella di preghiera - la superficie utile non supera il metro quadrato - è senz’altro il luogo che più colpisce in tutto l’edificio. È proprio la sorella di quelle minuscole casematte di preghiera, quasi cieche, che sono le absidi laterali di Escalada, o quella di Celanova. Ma, doppiamente isolata dall’esterno dal principio stesso dell’edificio nell’edificio, organizzata come una piccola scatola dalle pareti rettangolari (senza le curve multiple dei muri e delle volte, nelle absidi che stiamo ricordando), ornata sul muro di fondo da un bellissimo affresco romanico della Vergine col bambino affiancata dai donatori, ricorda per queste tre caratteristiche gli antichi oratori domestici dell’antichità cristiana. Tale, per esempio, la piccola cappella martiriale che si visita in cima ad una minuscola scala, nella ricca casa scoperta sotto la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, sul Celio a Roma. La strana mediocrità dei rivestimenti imbiancati a calce sullo stile moresco mette qui in risalto l’affresco nella penombra, e la patina di secoli di preghiera invita lanima alla quiete silenziosa di Dio.
Ma il mistero della Presenza, intravisto e inaccessibile, si materializza in forma delicata attraverso questo «negativo di architettura» - simbolo apofatico! - che è, sopra la cappella, il «chiosco» nascosto ed incavato in cima al pilastro centrale. Lo si intravede, sulle pietre angolari che formano fra i costoloni le linee di ricaduta centrali delle volte, attraverso strane aperture a ferro di cavallo situate sopra gli «stipiti» che terminano a punta verso il basso: si direbbero delle spade dei cavalieri di San Giacomo, la cui elsa cruciforme sia stata sostituita dal pomolo di una falce dalla curva oltrepassata. Queste piccole aperture (otto, una per ciascuna volta: cifra perfetta dell’«ottavo giorno»!) hanno tutt’al più 24 cm. di larghezza, e qualche decina di centimetri di altezza totale. Attraverso queste feritoie, dalla linea più islamica che cristiana, si intravede perciò l’incavo del pilastro, sopra la ricaduta dei costoloni e della volta. E proprio in cima, una cupola completamente califfale per la sua duplice armatura di sei costoloni dalla curva regolare a ferro di cavallo: quattro di essi sono assemblati a forma di croce greca, e altri due incrociati semplicemente al centro della volta (fig. 67). Per le loro minuscole dimensioni, il sistema di assemblaggio, per le ricadute su piccole mensole a navicella, l’intonaco rosso che le fa risaltare sulla volta intonacata di bianco, sono direttamente affini alle volte a costoloni della moschea di Cordova, e più ancora alle cupole su pianta quadrata del Cristo de la Luz a Toledo. Questa tecnica sarà introdotta da capomastri mudéjars perfino negli edifici romanici, come si può vedere, a una trentina di chilometri a nord-est di San Baudel, nella meravigliosa cupola di San Miguel d’Almazán.



Certo, inoltre, bisogna in questo senso riferirsi alla lunga tradizione orientale, cara all’arte islamica, di una rifinitura tanto perfetta, nella decorazione di certi spazi poco o per nulla visibili, quanto nelle altre parti dell’edificio e nei settori particolarmente curati. Ma in questa direzione, si supera nettamente l’utilitarismo per accedere all’estetica, se non - si pensi alla «zona del mihrab» nella grande moschea di Cordova - all’espressione estetica della più alta spiritualità. Se Dio solo è Dio, si realizza che l’Islam, dopo gli architetti religiosi del Medio Oriente, ne ha a sua volta tratto un principio di estrema sobrietà espresso da interdetti iconografici sempre più stretti; ma anche, insoddisfatto di asservire ugualmente la sua estetica ad una teologia negativa e negatrice, ha saputo cercare qualche volta l’altro estremo: quello di un’opulenza barocca, spesso celata per Dio soltanto, che è anche una forma superiore di arte religiosa. È questo polo estetico che appare qui, attraverso le ricerche così personali dei costruttori di San Baudel.
Lo spirito fu ben colto dai loro successori, i frescanti romanici (o ancora mozarabici?), poi gotici, che avevano coperto di pitture perfino le facce dei costoloni della «palma». Le vicissitudini moderne di questo insieme di affreschi eccezionali hanno fatto echeggiare, ormai da più di mezzo secolo, il nome di San Baudel de Berlanga sulle due rive dell’Atlantico, e fino al Senato e al Tribunale supremo di Spagna. Nel 1922 infatti un processo strepitoso oppose i venti abitanti del vicino villaggio di Casillas, allora proprietario dell’eremo, ai compratori stranieri che pretendevano di staccare gli affreschi e portarli fuori della Spagna. La vicenda fu lunga e complicata. Solo il suo esito ci importa; l’insieme degli affreschi autentici di San Baudel si trova oggi disperso in parecchi musei degli Stati Uniti, da cui la maggior parte del ciclo cinegetico e animalista ha fatto ritorno nel 1954 al Museo del Prado, col favore di uno scambio con la piccola chiesa di Fuentedueña (nella provincia di Segovia). Si vedranno dunque, al Prado di Madrid, in una delle piccole sale situate al centro del pianterreno di questo museo, gli affreschi originali che rappresentano la caccia al cervo, l’elefante nella torre, il guerriero barbuto con lo scudo e la lancia, l’orso, il cacciatore a cavallo che insegue due cerbiatte con tre cani che corrono, infine il tappeto araldico con dodici aquilotti nei medaglioni circolari.
Le copie che hanno preso nel monumento il posto esatto degli originali, permettono molto meglio di farsi un’idea del programma e della sua collocazione nell’edificio. È tutto l’universo terrestre e profano che, attraverso una tematica di sicure affinità islamiche, ricopre così gli alti muri della «santa montagna» dei reclusi. Non manca un profumo di orientalismo, specialmente nella situazione ai piedi della «palma», in quel cammello, e in quell’elefante, che accennano un serraglio di principe arabo in questo luogo santo... Effettivamente, la maggior parte dei temi trovano il loro parallelo nell’iconografia degli avori e delle ceramiche dell’epoca califfale, e di certi manoscritti dei Beatus. In questi omologhi, i simbolismi principali sono di due tipi: la regalità (aquile, cammello, elefante), la morte e il suo trionfo, il paradiso (temi cinegetici). Tutti questi temi possono ben integrarsi qui ad una iconografia di carattere religioso, se non spirituale e mistico, da cui il mozarabismo formale non trae alcun attacco contro il significato cristiano.
Non insisteremo sui resti degli affreschi di soggetto evangelico che ornano la base della volta, né sul retablo tardo gotico della cappella bassa (nell’abside), con quei due vecchi barbuti che sono probabilmente i santi Nicola e Baudilio stesso. Vi si legge ancora in effetti, a sinistra del personaggio di destra, su due righe: BAU|DILI, sotto un medaglione che doveva portare un Pantocrator circondato da due angeli; l’autore di questi affreschi potrebbe essere l’artista che ha lavorato nella cappella di Sant’Anna della collegiata di Berlanga, che si data al 1494. Quest’ultima sedimentazione pittorica doveva felicemente completare la particolarità di un’architettura rispetto alla quale non si possono trovare che paralleli parziali e dispersi.
San Baudel de Berlanga conserva il mistero e il fascino particolari delle opere isolate, dove si afferma nella sua purezza l’insostituibile ruolo della creazione individuale nell’arte, sia quel che sia. L’esame attento delle sue particolarità costruttive consente di affermare senza esitazioni il suo mozarabismo: nell’occasione, il mozarabismo tardo nei confini della valle dell’Ebro. Le sue affinità, talvolta chiare, con San Millán de suso, invitano a cercare nella direzione dell’arte islamica dell’Aragona le ragioni di queste somiglianze. Così, senza ricadere nello schema della «scuole» nel momento in cui lo si è severamente ripudiato da parte degli specialisti dell’arte romanica, non si può negare, non fosse che a titolo di ipotesi di lavoro, il condizionamento dell’arte mozarabica nello spazio. E neppure nel tempo: questo mozarabismo avanzato, dalla fantasia senza pari, che inventava per il piacere, e anche per una estrema simbolizzazione dello spazio sacro, una specie di scenario d’auto sacramental ante litteram, questo mozarabismo ritrova con naturalezza le raffinatezze complicate e teatrali di quello che Eugenio d’Ors ha chiamato l’eone barocco. Resterebbe da spiegare come questo piccolo gruppo di anacoreti, precariamente installati su una frontiera molto aperta e ancora mal riconquistata, abbia trovato i mezzi e la creatività necessaria per realizzare un’opera così insolita. Non è il minore enigma di questa torre di Dio sperduta nel recesso di un vallone, apparentemente lontano da tutte le grandi vie della cultura dell’alto medioevo, ivi comprese soprattutto quelle della mozarabia dell’XI secolo, già così scemata.
[continua]

sabato 25 luglio 2015

Quintanilla de las Viñas visto da Antonio Thiery


Nel cuore dell’antica terra di Lara, alta sopra il villaggio di Quintanilla de las Viñas e nascosta tra le pieghe del terreno vi è Santa María, un antico “corpo sacro” su cui oggi veglia Antonio Velasco, guarda de la ermita. Io e Daniella siamo i soli visitatori (e a ben pensare lo eravamo anche nelle nostre precedenti visite), quindi possiamo muoverci con tutta la calma desiderata, assorbendo ogni positiva vibrazione emanata da queste pietre.
Chi per primo intuì la ricchezza storica di questa abbandonata ermita - in gran parte scomparsa a causa del riutilizzo delle sue pietre murali per costruire nuove abitazioni - fu un giovane sacerdote, don Jesús Vicario Moreno, che tra il 1920 e il 1930 si mosse per attirare l’interesse del Commissario centrale delle Belle Arti su questo manufatto.
Il primo a raccogliere l’appello fu Bonifacio Zamora, musico e poeta, nativo di queste terre, che arrivò armato di penna e di libretto per gli appunti nell’inverno del 1921.
Per la seconda visita si dovettero attendere sei lunghi anni, ma ne valse la pena: il visitatore, l’archeologo José Luis Monteverde, immediatamente si recò a Burgos per segnalare l’esistenza di questa ermita al cronista ufficiale della Provincia, Luciano Huidobro, la massima autorità di storia e archeologia burgalesa e il giorno seguente, 31 maggio 1927, le stradine di terra battuta che collegavano Burgos a Quintanilla furono per la prima volta percorse da un automezzo, la Whippet di Huidobro, che viaggiava in compagnia di Monteverde, di Matías Martínez, direttore del Museo Archeologico, e del señor Ojeda, tutti accademici. Ad attenderli vi era Jesús Vicario.




Rientrati a Burgos, Huidobro e Monteverde attivarono i meccanismi legali utili a salvare quel che restava dell’antica costruzione, incaricando Jesús Vicario di sovrintendere ai lavori di ripulitura e ristrutturazione in cambio 3,50 pesetas al giorno (una misera paga: un insegnante ne guadagnava 150 al mese). Da allora le stradine di Quintanilla videro passare sia gli archeologi in missione ufficiale sia le altre figure attratte dalla novità e ben presto pagine di scritti scientifici presero a trasudare di termini quali visigótico, albero della vita, arco trionfale, abside, monogramma, sasanide, paleocristiano e altro.

La “scoperta” dell’ermita di Santa María attirò l’interesse degli archeologi sull’intera terra di Lara. Nel 1932 la Delegazione delle Belle Arti organizzò una campagna di scavi in località Lara de los Infantes, riportando alla luce l’antica cittadella, luogo prediletto dagli antichi romani: monete, fibule e ceramiche confluirono nei musei. L’anno seguente la campagna di scavi si dedicò al Castro de Lara, ricco di muraglioni e di case a base quadrata, con tanto di ceramiche, spade, pugnali - e le immancabili fibule. Nel 1934, gli archeologi salirono alla Muela, a monte della ermita di Santa María. I risultati di questo terzo scavo furono eccezionali: venne alla luce un castro celta con case circolari, ricco di manufatti di ceramica. Nel 1935 a Miraveche, ai piedi dei monti Obarenes, la nuova campagna di scavi portò alla luce la necropoli più famosa della cultura post-hallstattica: agli oggetti qui trovati è stata dedicata una sala del Museo Archeológico Provincial de Burgos.
In seguito, altre campagne di scavo hanno fatto chiarezza sul passato di quest’angolo di Spagna, riportando alla luce quattordici ville romane - di cui tre nel territorio tra Quintanilla e la ermita de Santa María - e i castri celtici di Covarrubias e di Quintanalara.
Nel 1927, anno dell’arrivo della prima automobile a Quintanilla de las Viñas, le strade bastavano all’uso dei contadini e dei loro animali. Provvederà l’infaticabile Jesús Vicario, col solo aiuto di suo figlio Ramiro, ad allargare la traccia e battere il terreno per renderlo adatto al traffico su gomma - e saranno sempre loro due a costruire la strada per la ermita. Nel 1970 la Disputación Provincial de Burgos riconoscerà a don Jesús un Premio de Embellecimiento per il suo lavoro di manutenzione di Santa María e per la pulizia dello spazio che la circonda. Nel 1986 a Jesús Vicario verrà concessa la Medalla al Mérito Turistíco.


Per il testo d’accompagnamento alle immagini ho deciso di usufruire di quanto già scritto a suo tempo da Antonio Thiery, grande conoscitore del mondo visigotico e mozarabico, quindi persona altamente qualificata per introdurci con reale conoscenza di causa in questo mondo di antiche pietre. A lui la parola.

Antonio THIERY
A che punto è la questione mozarabica
Pubblicato in Arte Medievale
Periodico internazionale di critica dell’arte medievale
II Serie, Anno II, n. 2, 1988, pp. 29-62
Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma

[…] Benché si faccia un gran parlare di miniatura visigotica, i documenti pittorici, anche nel passaggio tra il IX ed il X secolo, mettono in evidenza molti elementi simbolici, grandi lettere, intrecci e labirinti, mentre la “figura umana”, se così si può chiamare, è relegata ad un ruolo decisamente marginale.
Eppure tra il VII ed il X secolo la cultura iconica della Penisola Iberica riesce a produrre testimonianze di grandissimo interesse nell’architettura. San Pedro de la Nave non è un’eccezione. Basterà ricordare Quintanilla de las Viñas (Burgos), San Juan en Baños de Cerrato (Palencia), Santa Comba de Bande (Orense), le chiese oviedane di San Julián de los Prados, San Pedro de Nora, Santa Maria de Bendones, San Tirso de Oviedo, Santa Cristina de Lena, Santa Maria de Naranco, San Miguel de Lillo, la portoghese chiesa di San Fructuoso de Montecelios (Braga).
Osservazioni particolari merita la chiesa di San Julián de Los Prados, l’unica che permetta di ricostruire un complesso ciclo di pitture murali tra l’VIII ed il X secolo. Ma, invano, al di là di una singolare sequenza di rappresentazioni architettoniche, cercheremo immagini “umane.” Evidentemente la complessità religiosa della Penisola Iberica, la fortissima influenza giudaica prima ed araba dopo, consentono una comunicazione iconica che, nella pittura, si realizza attraverso un fortissimo uso di motivi simbolici, come del resto, attraverso gli intrecci, avverrà anche nelle isole britanniche ([1]).
Scarsamente valutato, anche se ricordato fin dal 1919, è il Sinodo di Elvira, che al canone XXXVI ([2]) prescrive, già agli inizi del IV secolo con oltre quattrocento anni di anticipo rispetto alle lotte iconoclaste: Placuit picturas in ecclesia esse non debere; ne quod colitur et adoratur, in parietibus depingatur.
Il canone XXXVI di Elvira è fortemente discusso, perché mancano documenti posteriori che richiamino il divieto. In realtà basterà guardare con attenzione e complessivamente agli 81 capitoli del Sinodo di Elvira, (detto più correttamente Concilium Eliberitanum), per rendersi conto che il canone XXXVI ha una sua precisa logica nella nascita e nel successivo sviluppo del cristianesimo nella penisola iberica. Le prescrizioni non hanno nulla di teologico, ma sono una serie di norme di comportamento, a carattere fortemente protezionistico, per le nascenti comunità. Ci si deve guardare dai pagani (il capitolo I si riferisce appunto a De his qui post baptismum idolis immolaverunt), dai giudei (il capitolo I recita: si vero quis clericus vel fidelis cum Judaeis cibum sumpserit, placuit eum a communione abstinere, ut debeat emendari), da chi si discosta dalle verità essenziali, che sono delineate dai 19 vescovi che partecipano al Concilium Eliberitanum (il capitolo LI tratta De haereticis ut ad clerum non promoveatur).
Com’è evidente nelle interpretazioni riportate ed evidenziate dallo stesso Mansi ([3]): reiectas esse imagines pictas, non sculptas.
Se non troviamo pitture in età visigotica, troviamo, infatti, come testimoniano le chiese di San Pedro de la Nave e di Quintanilla de las Viñas, sculture. È chiaro il profondo significato della pietra viva che, soprattutto se incisa e caratterizzata da elementi figurativi, comunica precisi messaggi. Ma è trasparente anche l’altissimo significato comunicativo degli stessi edifici sacri, spesso scavati nella roccia o cresciuti a ridosso di una grotta, caratterizzati da complessi ritmi compositivi, che si presentano al fedele come libri aperti, fortemente simbolici, da leggere in movimento, percorrendo fisicamente gli spazi labirintici o scrutando con gli occhi i paramenti murari e le volte ([4]).
Il canone di Elvira è motivato dalla paura del culto idolatrico? Dai rischi di una profanazione che può venire alle immagini sacre da parte di pagani e giudei? Queste giustificazioni, certamente valide, non bastano a spiegare la comunicazione iconica della penisola iberica. È sempre più evidente che compositi significati simbolici sono affidati, nella pittura, alla linea ed al colore e, nella scultura e nell’architettura, alla pietra viva.
Nell’iconografia siro-mesopotamica e giudaico-palestinese non c’è mai spazio per la rappresentazione. Si evidenziano momenti e segni nodali che simboleggiano l’incarnazione del Cristo, senza la quale non ha motivo di esistere la fede cristiana. Ecco episodi che valgono per il significato profetico e simbolico (Daniele nella fossa dei leoni; il sacrificio che Abramo si appresta a fare). Ecco la parola, che di per sé è l’incarnazione stessa (il tetramorfo, simbolo degli Evangelisti e dello stesso Vangelo; gli apostoli Filippo e Tommaso presunti autori dei più importanti vangeli gnostici). Ecco soprattutto la pietra (capitelli, cancelli) e l’insieme di pietre (l’edificio sacro) che è il Cristo stesso.
Le figure umane che troveremo nel periodo mozarabico, nella miniatura, si riferiscono sempre al corpo risorto e santo, o alle visioni apocalittiche che testimoniano, come vedremo, che la fine dei tempi è già operante in noi.
L’antica prescrizione del Concilio di Elvira del 300/306 non è richiamata, perché scrupolosamente seguita. Ho già ricordato come Isidoro di Siviglia, così attento a definire i modi della comunicazione, non faccia riferimento alle pitture, né alla “immagini” come noi le intendiamo.
I testi apocrifi e gnostici ([5]) ricordano che Cristo si è manifestato per mezzo di simboli e immagini. I simboli e le immagini vanno chiaramente ricercati nella sacra scrittura ([6]); nell’altare che simboleggia la presenza di Dio ([7]) e che è al tempo stesso un microcosmo del mondo naturale e dell’universo spirituale; nello stesso edificio sacro, che è l’immagine cosmica dell’Universo ([8]).
Giovanni ([9]) vede, nelle sue percezioni apocalittiche, una croce di luce e sulla croce “lo stesso Signore che non aveva alcuna forma, ma solo una voce.” Interessante rilevare che la voce non solo la si ascolta, ma la si vede. E la croce è “sapienza dell’armonia, in essa c’è posto per la destra e la sinistra.”
Nell’Apocalisse di Pietro ([10]), di chiaro ambiente giudaico, c’è una condanna esplicita dell’immagine come la cultura latino-greca la intende: “L’Angelo del Signore... farà venire le anime dei peccatori... tutte quelle che abitano negli idoli di ogni genere, nelle statue fuse, nei simboli lascivi, nelle pitture.” Questa condanna ricorda bene un hadith dei Califfi del Bidal al-Andalus: “Il giorno della Resurrezione, i fabbricanti di immagini saranno colpiti dalla più grave delle punizioni, e a loro si dirà: date vita a quello che avete creato.” La colpa dei facitori di immagini è dunque questa: la creazione di figure illusorie, mentre Dio, Cristo, si fa scoprire attraverso immagini concrete.
Nell’ambiente siro-mesopotamico e palestinese si considera l’immagine prodotta nell’ambiente greco ed occidentale come il residuo statico della sensazione, che porta ad una conoscenza astratta.
M. Jousse parla, non a caso, di “ipertrofia oculare” dei Greci, che crea una fantasmagoria di “immagini.” Le “immagini” non esistono ([11]). Ci sono soltanto gesti accennati o compiuti: gesti corporei, gesti manuali, gesti oculari, gesti laringo-boccali, gesti papillari, gesti pituitari, ecc. Tutta la nostra vita intelligente si gestualizza. Noi vediamo, o meglio “intussuscepzioniamo”, non solo con i nostri occhi, ma con tutto il nostro corpo ([12]). Solo in questa visione acquista un ruolo preciso la liturgia, soprattutto quella spagnola del medioevo sirianizzante ([13]) che considera la chiesa, l’edificio fatto di pietra come un essere vivente, con il quale si entra in interagente rapporto con tutto il corpo.
 La chiesa, immagine cosmica dell’Universo ([14]) è in relazione con l’uomo tutto intero (l’anima ed il corpo destinati alla Resurrezione) che, come ricorda Gregorio Magno, è quadammodo omnia, cioè un’immagine cosmica dell’Universo.
“Sono venuto per rendere le cose di quaggiù simili alle cose di lassù”, si legge nell’Apocrifo di Filippo ([15]) “e le cose esterne simili alle interne. Sono venuto per unirle.” Non c’è, dunque, contrapposizione tra naturale (o cosale) e soprannaturale. Il soprannaturale si conosce non attraverso immagini che rappresentano la divinità o gli episodi della vita del Cristo (come avviene nel mondo latino-greco) e stimolano i sentimenti, ma attraverso una ricerca interiore profonda attivata da stimolazioni percettive e non tramite dipinti narrativi. “Il Regno” dice l’Apocrifo di Tommaso ([16]) “è dentro di voi e fuori di voi.”
A chiarire il significato di “simboli ed immagini” nel mondo giudeo-cristiano, africano e, certo, anche spagnolo, interviene ancora il Vangelo di Filippo ([17]): “Gesù dissimulò segretamente ogni cosa. Egli, infatti, non si manifestò qual era (realmente), ma si manifestò come lo si potesse vedere. Così si manifestò a tutti. Si manifestò grande ai grandi. Si manifestò piccolo ai piccoli... Era grande, ma rese grandi i suoi discepoli, affinché lo potessero vedere nella sua grandezza.” Gregorio Magno può scrivere: Sacra eloquia cum legente crescunt. Sacra lectio talis invenitur qualis fit ipse a quo invenitur ([18]).
È in questo contesto che vanno valutati gli edifici sacri, il cui ruolo, la cui funzione, come momento conoscitivo e di raccordo tra il mondo di quaggiù e quello lassù, è fondamentale. “La divinità... sarà sotto le ali della croce e sotto le sue braccia” ([19]): la chiesa prenderà spesso la forma di una croce; spesso, nel labirintico gioco della pianta, consentirà di vivere la croce. La chiesa, qualunque forma abbia, è croce essa stessa. E lì, infatti, che si fa memoriale della morte di Cristo, rivivendo i momenti fondamentali dell’incarnazione, della morte e resurrezione, attraverso la “voce”, la “parola” tramandata dalle sacre scritture.
È una simbologia complessa quella giudeo-cristiana. Ed il capitolo XXXVI del Concilio di Elvira non si può certamente collegare alla lotta iconoclastica dell’VIII-IX secolo. Basterà contrapporre a questa visione dell’immagine, che sono andato sommariamente delineando attraverso la citazione di alcuni apocrifi, il dettato del II Concilio di Nicea, che interviene nella disputa iconoclastica ristabilendo l’uso delle immagini nelle chiese dei Gentili. Nelle Definizioni si legge: “Infatti, quanto più continuamente essi” (Gesù Cristo, la santa madre di Dio, gli angeli degni di onore, tutti i santi e pii uomini) “vengono visti nelle immagini, tanto più quelli che le vedono sono portati al ricordo e al desiderio di quelli che esse rappresentano e a tributare ad essi rispetto e venerazione” ([20]). La penisola iberica, fin dall’età romana, ha mostrato un particolare interesse per la produzione di motivi figurali fortemente simbolici. Ricorderò il mosaico della Villa di Cuevas di Soria ([21]).
Nell’età visigotica l’interesse simbolico si sviluppa fortemente, oltre che in chiese già ricordate, nell’iconostasi e nelle doppie finestre di Santa Cristina di Lena e nella cupola della crociera della chiesa di San Fructuoso de Montecelios (Barga, Portogallo), costruita tra il 656 ed il 665. Da un impianto quadrato si passa ad una calotta semisferica, avendo come momenti fondamentali di passaggio le quattro nicchie poste agli angoli del quadrato e le quattro finestre che segnano i punti di connessione tra il quadrato ed il cerchio.





[1] Il tema è stato affrontato in: A. THIERY. L’Oriente e le origini delle miniature precarolinge, “Commentari” XVIII (1967), pp. 105-125.
[2] GOMEZ MORENO, Iglesias, p. 326. Cfr. MANSI, Sacrorum conciliorum, II, 11.
[3] Ibidem, II. 33.
[4] I simboli, p. 254.
[5] Vangelo di Filippo, 30; 67 10; 84, 20; 86, 10.
[6] GREGORIO MAGNO, In Ez., 1, 7, 15-16.
[7] I simboli, pp. 209 e 212.
[8] Ibidem, p. 133.
[9] Atti apocr. Apostoli, del Santo Apostolo ed Evangelista Giovanni il Teologo, 98, 1-3. (Cfr. MORALDI, Apocrifi, p. 1184).
[10] Apocalisse di Pietro, 6.
[11] JOUSSE, L’antropologia, p. Anno 96.
[12] Lo stesso IV Concilio di Toledo, al canone XIII prescrive: Componuntur ergo hymni, sicut componuntur missae, sive preces, vel orationes, sive commendationes, seu manus impositiones: ex quibus si nufla dicantur in ecclesia, vocant officia omnia ecclesiastica, MANSI X, 623.
[13] Il tema è ampiamente dibattuto da E. LEVI PROVENCAL, España musulmana hasta la caída del Califato de Córdoba (711-1031) in Historia de España, dirigida por Ramón Menendez Pidal, Madrid 1950, tomo IV e V; IV, pp. 89-90.
[14] I simboli, p. 133 e 254 (l’edificio è spesso assimilato ad un essere vivente e questo “potrebbe spiegare alcune anomalie architettoniche.” Spesso c’è irregolarità della simmetria, nella parte sinistra e destra di uno stesso volto; spesso leggeri cambiamenti di direzione dei muri danno a tutto l’edificio un movimento rotatorio.
[15] Vangelo di Filippo, 67, 30.
[16] Vangelo di Tommaso, 32, 20.
[17] Vangelo di Filippo, 57, 20-30. Anche Ireneo (P. G., vol. 7, coll. 1031-43) ed Origene (P. G., vol. 12, coll. 207-208) osservano che gli uomini hanno riconosciuto Cristo come uomo e gli angeli come angelo.
[18] GREGORIO MAGNO, In Ez., 1, 7, 15-16.
[19] Vangelo di Filippo, 84, 30.
[20] ALBERIGO (a cura di), Decisioni dei concili, p. 203. Sul contrasto tra l’immagine segno e l’immagine edificante, cfr. THIERY, La cultura e l’arte.
[21] B. HUGUET, Arte Romana, in Ars Hispaniae, vol. II, p. 154, fig. 162.

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