Jacques FONTAINE
L’art mozarabe
Zodiaque 1983
Edizione italiana:
San Baudel de Berlanga
L’ultima arte mozarabica nella nuova Castiglia
pp. 215-225
La volta così
raffinata e perfetta di questa lanterna nascosta di San Baudel è il prodotto di
una sorta di atto gratuito. Certo, se si ammette l’ipotesi del locale di
«reclusione», avrebbe potuto esserci là, nei primi tempi dell’edificio, l’intenzione
di sfuggire all’insicurezza, mediante un nascondiglio difficilmente accessibile
- e, prima di tutto, avvistabile -, dove in caso di emergenza si sarebbero
potuti nascondere tutti gli oggetti preziosi del culto. Si pensa qui non solo
ai «locali rifugio» («?) situati sopra l’abside in certe chiese visigotiche e
mozarabiche, ma anche alla funzione delle alte torri sormontanti i monasteri
irlandesi (Glendalough) o mozarabici (la «torre di Távara»). Ma anche se questa
spiegazione di una funzione utilitaristica non dovrà essere scartata, è allora
strano che si sia aperto questo tesoro da ogni lato: i predoni, attraverso le
minuscole aperture, non avrebbero avuto meno possibilità di accedervi dei
proprietari del luogo! Ed è ancora più singolare che si sia concentrata in
questo spazio una tecnica inventiva così raffinata nelle forme e nei mezzi.
Come San Millán
de la Cogolla, San Baudel de Berlanga deve probabilmente la sua esistenza a un
eremo, attirato là dalla presenza di una sorgente (l’acqua qui è ancora meravigliosamente
fresca); di una grotta, il cui accesso si trova nell’angolo sud della chiesa,
all’interno; infine, di un bosco di querce, che è scomparso solamente nel
secolo scorso. Ma il paesaggio è molto più austero che a San Millán. Su questa
estremità orientale dell’altopiano della Nuova Castiglia si è ai confini del
luogo a partire dal quale si dividono le acque che confluiscono nel Tago verso
sud-ovest, nell’Ebro verso est, e prima nel Duero - a una decina di chilometri
a nord - verso nord-ovest. L’eremo si eleva piuttosto in alto, nel recesso di
una piccola valle arida, sul suo versante meridionale. Di là in alto, solo il
verdeggiare dei pioppi segnala il modesto corso d’acqua della vallata più ampia
attraverso la quale si è giunti da Berlanga a Casillas. Da un lato e dall’altro
del corso d’acqua, dei massi calcarei scavati dall’erosione scolpiscono questo
vasto paesaggio austero: l’ocra rossa e il bianco del gesso si armonizzano con
l’ocra gialla e con qualche macchia di colture, lungo il rio Escalote.
Lo strano cubo
grigio di San Baudel, posato sullo strato roccioso che affiora - lo stesso da
cui si sono ricavate le pietre grossolanamente tagliate delle sue mura -, non è
per nulla fuori luogo in questo ambiente ascetico. Tre minuscoli segni caratterizzano
questa fortezza offerta a Dio: la piccola abside sporgente verso est; la porta
nord dal doppio arco a ferro di cavallo; infine la porta stretta e a tutto
sesto che dava allora, a sud, accesso diretto alla tribuna interna, - ma questa
è oggi murata. Si pensa qui alla torre di doña Urraca, piuttosto che a una
chiesa o ad un monasterium: non è
fuori luogo l’immagine di una casamatta. Davanti alla valle del Duero,
raggiunta come si è visto nel 912, si è rimasti qui nell’insicurezza, anche
dopo la presa di Toledo nel 1086. Non si sa ancora bene se la riconquista della
piccola città vicina di Berlanga, dalle mura ancora imponenti, debba essere
attribuita a Ferdinando I nella prima parte dell’XI secolo, o ad Alfonso VI
nella seconda, ma sembra molto probabile che la regione fosse abbandonata
subito dopo la conquista, e che non venisse ripopolata che da Alfonso I d’Aragona
all’inizio del XII secolo.
I monaci di San
Baudel de Berlanga si trovavano dunque in un luogo avanzato al di là della
frontiera del Duero, anche se si volesse collocare la costruzione della loro
cappella oltre gli inizi dell’XI secolo. Erano là come le sentinelle di Dio,
oltre il fossato della nuova frontiera, così come già lo erano stati i loro
fratelli di Silos al di là dell’Arlanza. La miglior epigrafe su San Baudel,
quando si sale verso l’edificio sul fianco della collina pietrosa, si può ben
trarre dall’inizio del Salmo 18: «Jahvé è la mia roccia e il mio baluardo [...]
mi rifugio in lui, mio sostegno [...]». Chi è il santo Baudilio che ha dato il
suo nome alla chiesa? È naturale pensare che si tratti del martire di Nîmes.
Non soltanto il suo culto si era largamente diffuso nel medioevo nelle terre
catalane; il suo nome compare anche in tutti i calendari mozarabici al 20
maggio, e la sua Passione figura
giustamente nell’XI secolo nel Passionario
di Silos. Félix Ransanz, l’attuale guardiano dell’eremo, ci ha testimoniato che
ancora qualche decennio fa il pellegrinaggio annuale raccoglieva qui i fedeli
dei dintorni il 27 maggio (dunque per l’ottava della festività), e che «si
beveva più vino che in Aragona, mangiando lumache» (!). Come sono cambiati i
tempi!
Come le prime
notizie sul ripopolamento di questa regione, la più antica menzione scritta di
questo eremo è tarda. Infatti è nel 1137 che una bolla di Innocenze II regola
le contestazioni di frontiera fra il vescovado di Osma e quello di Siguenza,
attribuendo a quest’ultimo, fra altre parrocchie situate a sud del Duero,
«Berlanga con tutto il suo territorio, e con il monastero di San Baudilio». Cum monasterio sancti Baudili, che
significato ha? Qui si è sicuramente rimasti molto lontano dalle centinaia di
monaci di San Millán o di Silos. E non è impossibile che il termine monasterium abbia qui mantenuto il suo
significato più frequente negli impieghi più antichi del termine nel IV secolo,
ossia quello di eremitaggio, tutt’al più si può supporre che la grotta, il
bosco e la sorgente abbiano attirato parecchi eremiti, che si riunivano
periodicamente per la preghiera comune, secondo il principio orientale della
lavra. La stessa disposizione dell’interno suggerisce che questo o questi
eremiti sono passati da una primitiva anacoresi, che forse fu di tipo
semplicemente rupestre, a una vita di volontaria reclusione all’interno dello
strano edificio che era stato loro costruito, o che essi avevano costruito. In
ogni caso, sembra proprio che la grotta sia stata all’origine della fondazione
monastica: si pensi all’insieme dei santuari rupestri dell’Arlanza, della
Rioja, della Castiglia, da cui Berlanga non è così distante.
Oltrepassata la
doppia porta dalla curva moresca, si esce da questo deserto pietroso per
entrare nelle fantasticherie di una architettura di sogno. Il miraggio qui è
all’interno, come si conviene in questo alloggio mistico dei discendenti
spirituali di sant’Antonio. Da molto tempo, la singolarità delle strutture
interne di questo edificio ha confuso e sconcertato gli archeologi che hanno
cercato di darne una spiegazione. Tuttavia, l’affinità della sua struttura con
i grandi temi simbolici del «paesaggio ascetico», quali apparivano nella
letteratura monastica dei primi secoli, è sembrata offrirci un principio di
spiegazione, al tempo stesso adeguato al suo oggetto e chiarificatore di
ciascuno degli elementi di questa architettura. Infatti è forse partendo da
questo paesaggio ascetico del monachesimo primitivo che si può di colpo
cogliere la funzione fantastica che riunisce in un fascio interno queste membra
architettoniche disperse (fig. 62). Un’immensa palma di pietra copre con i suoi potenti
rami questo cubo (dall’antichità figura simbolica dell’elemento terrestre) di
terra consacrata. Sotto la palma, a sinistra, l’accesso tramite cinque gradini
all’altare della «cappella» (di fatto, una pseudo-abside aggiunta al grande
cubo). A destra, una specie di mini-moschea introduce all’entrata della grotta,
e già la configura. Questa sostiene, ad un terzo dell’altezza delle volte, una
piattaforma che è come la montagna di Dio, sulla quale l’eremita vive e prega
più vicino al Cielo. Su questa montagna simbolica si innalza un’altra cappella
in miniatura, anch’essa orientata come l’abside, e affiancata all’enorme tronco
di palma - già sospesa fra la terra e il cielo.
Ma la cosa più
raffinata e gratuita è qui la più invisibile. Nel punto più centrale, più
segreto, più inaccessibile, nel cuore e in cima alla palma, all’origine dei
rami, in questo luogo comune tipico di tante teofanie (dal roveto ardente alla
Vergine basca di Aranzazu!), l’architetto ha disposto nell’incavo dove nasce la
volta, il più raffinato dei piccoli chioschi che abbia mai concepito il
paesaggista di un giardino orientale (fig. 63, in cima allo spaccato). Santuario dei santuari - è il terzo che
incontriamo -, è significativo che lo si possa intravvedere (non vederlo
completamente), con una certa chiarezza, solo dalla «santa montagna» della
tribuna. È al centro (in pianta), e alla sommità (in alzato), il culmine di
questa architettura mistica in cui si è pietrificata l’intuizione di un
architetto monastico: quella di un’iniziazione spirituale che sale e scende
dalla terra al cielo, su una scala di Giacobbe di un modello inatteso. Potrebbe
darsi, secondo la recente ipotesi di Juan Zozaya, che il chiosco nascosto nella
parte superiore della colonna sia stata la dimora di un eremita recluso (si
pensi ai santi stiliti dell’Oriente). Questa funzionalità e questo simbolismo
cristiano dell’insieme architettonico non impediscono affatto di cercare
ugualmente una convergenza con dei simbolismi orientali e islamici. La palma è
in effetti una delle piante particolarmente benedette da Dio, nel Corano; e il
suo significato paradisiaco potrebbe avere ugualmente qui un’origine islamica,
che non toglierebbe le affinità cristiane.
Ma occorre
riprendere ad uno ad uno gli elementi di questo straordinario paesaggio
interno, in cui sembra riassumersi tutta una mistica dell’eremitismo
mozarabico. Ecco dunque la palma del repertorio decorativo omaiade passata da
due a tre dimensioni. Questo motivo pittorico di certe miniature dei Beatus (figg. 64-65), apparso anche nella plastica dei
fregi, dei capitelli e delle balaustre di Escalada (fig. 66), si trova qui promosso alla
sua rappresentazione naturale nello spazio. Non è l’ultima volta che pilastri e
nervature ritrovano la loro trasparenza vegetale. Per non citare che un esempio
celebre, e molto più tardo, si ricorderà la «palma» che sostiene tutta l’abside
della chiesa abbaziale, sulla rocca di Mont-Saint-Michel. Astraendo dall’enorme
tronco centrale, e dai costoloni fortemente oltrepassati che raffigurano con
tanta elegante precisione il pesante ricadere delle palme che si piegano su se
stesse, bisogna vedere bene che il sistema della volta è identico, nel
principio e nella linea, a quello di ciascuna delle due volte su pianta
quadrata, nella parte più antica di San Millán de La Cogolla. È simile, nella
proiezione in piano, il tracciato alla «Union Jack» degli otto costoloni,
allineati due per due da una parte e dall’altra della loro ricaduta sul
pilastro centrale, e quello dei quattro costoloni a tutto sesto che
attraversano da parte a parte i due quadrati di La Cogolla. Simile è anche il
profilo «a carena» della volta, che prima sale, e si eleva sulla verticale
lungo i muri, ma poi si flette per appiattirsi e ribassarsi al centro.
L’unica
differenza è nelle dimensioni. Questa mette in luce la prodezza tecnica: i
quadrati di San Millán non avevano che poco più di m. 3,50 di lato; qui si è in
presenza di uno pseudo quadrato di m. 7,50 per 8,50, cioè più del doppio. Ciò
spiega il fatto che, per assicurare la coerenza di questa enorme massa, si sia
contato, più che su un calcolo troppo arduo delle spinte, sulla imponenza dei
muri, che raggiungono in media quasi un metro di spessore (vedere la porta d’ingresso
o quella della cappella). La precauzione era tanto più necessaria in quanto il
taglio dei blocchi era sommario e la muratura di qualità scadente: donde i
cedimenti e le crepe che hanno richiesto, particolarmente nel nostro secolo,
interventi urgenti di restauro. Si osserverà d’altronde che le curve attuali
dei costoloni della palma non sono tutte regolari. La volta si è tanto deformata
che certi hanno assunto parzialmente il suo profilo deformato.
Le soluzioni
adottate per la linea di ricaduta dei costoloni, lungo i muri, sono
particolarmente interessanti negli angoli, dove si ponevano, in forma più
difficile, problemi analoghi a quelli delle linee di caduta angolare degli
archi incastrati in una volta sul tipo del quadrato di Peñalba. Si osserva qui
una singolare combinazione della tromba e del pennacchio. Per accogliere l’estremità
(ricurva verso l’esterno, per concludere l’oltrepassamento) di ciascun
costolone in angolo, si è effettivamente smorzato l’angolo rientrante con una
sporgenza in un quarto di cilindro (corrispondente ai quarti di piramide
gradinata, a Peñalba), raccordato nel punto in cui iniziano gli spicchi di volta
laterali tramite due triangoli curvilinei e concavi. Poi, sotto il coronamento
a «navicella» curvo (con smusso concavo) del costolone, questo quarto di
cilindro rientra a sua volta nell’angolo dei muri tramite un pennacchio a
conchiglia, che non intacca che parzialmente il suo volume. Di qui due piccoli
piani di raccordo curvilinei, leggermente concavi, da entrambe le parti. L’insieme
da un’impressione di tentativo empirico, e questo aspetto di «laboratorio
architettonico», che davvero presentano certe caratteristiche tecniche della
costruzione, è un altro fascino dell’edificio. Ben lo completa l’inventiva,
così notevole a livello di programma d’insieme: ciò non si poteva compiere
facendo sempre riferimento a soluzioni già perfettamente sperimentate. Pertanto,
lo studio delle linee e delle misure dell’edificio ha portato Juan Zozaya a
scoprire nella trama della pianta e in quella dell’alzato, suddivisioni a
scacchiera e ritmi basati su una precisa modulazione matematica. Questa
sembrava suggerirgli «che bisogna necessariamente supporre forti conoscenze
matematiche presso i costruttori contemporanei, o l’esistenza di una fonte nota
di trasmissione di conoscenze matematiche, proveniente dalla tarda antichità».
Le due porte che
danno rispettivamente sull’esterno e sulla cappella absidale sono sicuramente
le opere rifinite nel modo più notevole. Non presentano la novità come la
«palma», ma s’impongono all’occhio per l’armonia delle rispettive proporzioni e
dei moduli esterni, per la nettezza della linea e, in correlazione, del taglio
e della struttura, per il relativo gioco delle curve dei due archi in funzione
prospettica. La purezza del loro impianto mozarabico è riscontrabile in molti
tratti, per i quali si avvicinano a vari altri monumenti dello stesso stile. Ad
esempio, il raddoppiamento della porta, per evitare l’impressione di «tunnel»
data da un arco dello spessore di un metro che attraversa l’enorme muro; questo
impianto produce, come a Celanova, un effetto di arco trionfale (all’entrata di
questa cappella ve ne è proprio uno). Ed ancora, l’imposta a doppia navicella,
contemporaneamente vertice del piedritto, imposta e dunque primo concio dell’arco
(tipo di imposta riscontrabile a San Millán). Si noterà anche l’opposizione fra
le proporzioni, piuttosto in altezza nella porta esterna, e più in larghezza
all’entrata della cappella. La piccola foresta di colonne che sostiene la
tribuna non è soltanto il riflesso simbolico del bosco all’esterno, per noi
scomparso; non è meno originale nelle sue caratteristiche tecniche. Le file di
piccole colonne cilindriche senza capitelli, posate su grossi plinti cubici che
ricordano quelli delle colonne del porticato interno di San Millán, sostengono,
su abachi tozzi di forma parallelepipeda, piccole volte a cinque falde che
assomigliano a cassettoni di artesonado
appiattiti. Le basi diversamente scolpite delle colonnette, proprio sotto il
plinto, sono gli unici ornamenti scolpiti visibili nell’edificio. La tribuna ha
conservato solo nel lato settentrionale l’alta balaustra che isolava i o le
recluse. Quanto alla piccola scala laterale, non se ne trovano di analoghe che
nello stile asturiano, e per salire anche su una tribuna opposta all’abside, a
Santa Cristina de Lena; ma là è a sinistra rispetto all’orientamento assiale
dell’edificio. Salendo su questa piattaforma, si possono scoprire insieme la
cappella superiore e il «chiosco».
Edificio in
miniatura nell’edificio, questa strana cappella, montata su colonne come una
sporgenza della tribuna, si configura nello spazio come, in due dimensioni, le
«immagini nell’abisso» dell’arte barocca. Con il suo tetto a due spioventi, la
volta a tutto sesto, l’arco d’entrata di m. 1,80 alla chiave, fortemente
oltrepassato, questo minuscolo oratorio dalla struttura piuttosto rustica
ricorda le piccole chiese mozarabiche di campagna che abbiamo incontrato in
Catalogna; ma è senza paragone più piccolo! Permetteva senz’altro ai reclusi di
vivere in una completa autarchia spirituale, senza nemmeno scendere nella
cappella absidale, doppiamente sottratta alla loro vista dal piccolo muro di
fondo cieco della cappella, e dal grosso pilastro della «palma», che si trova
proprio sull’asse. Questa cella di preghiera - la superficie utile non supera
il metro quadrato - è senz’altro il luogo che più colpisce in tutto l’edificio.
È proprio la sorella di quelle minuscole casematte di preghiera, quasi cieche,
che sono le absidi laterali di Escalada, o quella di Celanova. Ma, doppiamente
isolata dall’esterno dal principio stesso dell’edificio nell’edificio, organizzata
come una piccola scatola dalle pareti rettangolari (senza le curve multiple dei
muri e delle volte, nelle absidi che stiamo ricordando), ornata sul muro di
fondo da un bellissimo affresco romanico della Vergine col bambino affiancata
dai donatori, ricorda per queste tre caratteristiche gli antichi oratori
domestici dell’antichità cristiana. Tale, per esempio, la piccola cappella
martiriale che si visita in cima ad una minuscola scala, nella ricca casa
scoperta sotto la basilica dei Santi Giovanni e Paolo, sul Celio a Roma. La
strana mediocrità dei rivestimenti imbiancati a calce sullo stile moresco mette
qui in risalto l’affresco nella penombra, e la patina di secoli di preghiera invita l’anima alla quiete silenziosa di Dio.
Ma il mistero
della Presenza, intravisto e inaccessibile, si materializza in forma delicata
attraverso questo «negativo di architettura» - simbolo apofatico! - che è, sopra la cappella, il «chiosco» nascosto ed
incavato in cima al pilastro centrale. Lo si intravede, sulle pietre angolari
che formano fra i costoloni le linee di ricaduta centrali delle volte,
attraverso strane aperture a ferro di cavallo situate sopra gli «stipiti» che
terminano a punta verso il basso: si direbbero delle spade dei cavalieri di San
Giacomo, la cui elsa cruciforme sia stata sostituita dal pomolo di una falce
dalla curva oltrepassata. Queste piccole aperture (otto, una per ciascuna
volta: cifra perfetta dell’«ottavo giorno»!) hanno tutt’al più 24 cm. di
larghezza, e qualche decina di centimetri di altezza totale. Attraverso queste
feritoie, dalla linea più islamica che cristiana, si intravede perciò l’incavo
del pilastro, sopra la ricaduta dei costoloni e della volta. E proprio in cima,
una cupola completamente califfale per la sua duplice armatura di sei costoloni
dalla curva regolare a ferro di cavallo: quattro di essi sono assemblati a
forma di croce greca, e altri due incrociati semplicemente al centro della
volta (fig. 67). Per le loro minuscole dimensioni, il sistema di assemblaggio, per le
ricadute su piccole mensole a navicella, l’intonaco rosso che le fa risaltare
sulla volta intonacata di bianco, sono direttamente affini alle volte a
costoloni della moschea di Cordova, e più ancora alle cupole su pianta quadrata
del Cristo de la Luz a Toledo. Questa tecnica sarà introdotta da capomastri
mudéjars perfino negli edifici romanici, come si può vedere, a una trentina di
chilometri a nord-est di San Baudel, nella meravigliosa cupola di San Miguel d’Almazán.
Certo, inoltre,
bisogna in questo senso riferirsi alla lunga tradizione orientale, cara all’arte
islamica, di una rifinitura tanto perfetta, nella decorazione di certi spazi
poco o per nulla visibili, quanto nelle altre parti dell’edificio e nei settori
particolarmente curati. Ma in questa direzione, si supera nettamente l’utilitarismo
per accedere all’estetica, se non - si pensi alla «zona del mihrab» nella
grande moschea di Cordova - all’espressione estetica della più alta spiritualità.
Se Dio solo è Dio, si realizza che l’Islam, dopo gli architetti religiosi del
Medio Oriente, ne ha a sua volta tratto un principio di estrema sobrietà
espresso da interdetti iconografici sempre più stretti; ma anche, insoddisfatto
di asservire ugualmente la sua estetica ad una teologia negativa e negatrice,
ha saputo cercare qualche volta l’altro estremo: quello di un’opulenza barocca,
spesso celata per Dio soltanto, che è anche una forma superiore di arte
religiosa. È questo polo estetico che appare qui, attraverso le ricerche così
personali dei costruttori di San Baudel.
Lo spirito fu
ben colto dai loro successori, i frescanti romanici (o ancora mozarabici?), poi
gotici, che avevano coperto di pitture perfino le facce dei costoloni della
«palma». Le vicissitudini moderne di questo insieme di affreschi eccezionali
hanno fatto echeggiare, ormai da più di mezzo secolo, il nome di San Baudel de
Berlanga sulle due rive dell’Atlantico, e fino al Senato e al Tribunale supremo
di Spagna. Nel 1922 infatti un processo strepitoso oppose i venti abitanti del
vicino villaggio di Casillas, allora proprietario dell’eremo, ai compratori
stranieri che pretendevano di staccare gli affreschi e portarli fuori della
Spagna. La vicenda fu lunga e complicata. Solo il suo esito ci importa; l’insieme
degli affreschi autentici di San Baudel si trova oggi disperso in parecchi
musei degli Stati Uniti, da cui la maggior parte del ciclo cinegetico e
animalista ha fatto ritorno nel 1954 al Museo del Prado, col favore di uno
scambio con la piccola chiesa di Fuentedueña (nella provincia di Segovia). Si
vedranno dunque, al Prado di Madrid, in una delle piccole sale situate al
centro del pianterreno di questo museo, gli affreschi originali che
rappresentano la caccia al cervo, l’elefante nella torre, il guerriero barbuto
con lo scudo e la lancia, l’orso, il cacciatore a cavallo che insegue due
cerbiatte con tre cani che corrono, infine il tappeto araldico con dodici
aquilotti nei medaglioni circolari.
Le copie che
hanno preso nel monumento il posto esatto degli originali, permettono molto
meglio di farsi un’idea del programma e della sua collocazione nell’edificio. È
tutto l’universo terrestre e profano che, attraverso una tematica di sicure
affinità islamiche, ricopre così gli alti muri della «santa montagna» dei
reclusi. Non manca un profumo di orientalismo, specialmente nella situazione ai
piedi della «palma», in quel cammello, e in quell’elefante, che accennano un
serraglio di principe arabo in questo luogo santo... Effettivamente, la maggior
parte dei temi trovano il loro parallelo nell’iconografia degli avori e delle
ceramiche dell’epoca califfale, e di certi manoscritti dei Beatus. In questi omologhi, i simbolismi principali sono di due
tipi: la regalità (aquile, cammello, elefante), la morte e il suo trionfo, il
paradiso (temi cinegetici). Tutti questi temi possono ben integrarsi qui ad una
iconografia di carattere religioso, se non spirituale e mistico, da cui il
mozarabismo formale non trae alcun attacco contro il significato cristiano.
Non insisteremo
sui resti degli affreschi di soggetto evangelico che ornano la base della
volta, né sul retablo tardo gotico della cappella bassa (nell’abside), con quei
due vecchi barbuti che sono probabilmente i santi Nicola e Baudilio stesso. Vi
si legge ancora in effetti, a sinistra del personaggio di destra, su due righe:
BAU|DILI, sotto un medaglione che doveva portare un Pantocrator circondato da due angeli; l’autore
di questi affreschi potrebbe essere l’artista che ha lavorato nella cappella di
Sant’Anna della collegiata di Berlanga, che si data al 1494. Quest’ultima
sedimentazione pittorica doveva felicemente completare la particolarità di un’architettura
rispetto alla quale non si possono trovare che paralleli parziali e dispersi.
San Baudel de Berlanga conserva il mistero e il fascino particolari delle opere isolate, dove si afferma nella sua purezza l’insostituibile ruolo della creazione individuale nell’arte, sia quel che sia. L’esame attento delle sue particolarità costruttive consente di affermare senza esitazioni il suo mozarabismo: nell’occasione, il mozarabismo tardo nei confini della valle dell’Ebro. Le sue affinità, talvolta chiare, con San Millán de suso, invitano a cercare nella direzione dell’arte islamica dell’Aragona le ragioni di queste somiglianze. Così, senza ricadere nello schema della «scuole» nel momento in cui lo si è severamente ripudiato da parte degli specialisti dell’arte romanica, non si può negare, non fosse che a titolo di ipotesi di lavoro, il condizionamento dell’arte mozarabica nello spazio. E neppure nel tempo: questo mozarabismo avanzato, dalla fantasia senza pari, che inventava per il piacere, e anche per una estrema simbolizzazione dello spazio sacro, una specie di scenario d’auto sacramental ante litteram, questo mozarabismo ritrova con naturalezza le raffinatezze complicate e teatrali di quello che Eugenio d’Ors ha chiamato l’eone barocco. Resterebbe da spiegare come questo piccolo gruppo di anacoreti, precariamente installati su una frontiera molto aperta e ancora mal riconquistata, abbia trovato i mezzi e la creatività necessaria per realizzare un’opera così insolita. Non è il minore enigma di questa torre di Dio sperduta nel recesso di un vallone, apparentemente lontano da tutte le grandi vie della cultura dell’alto medioevo, ivi comprese soprattutto quelle della mozarabia dell’XI secolo, già così scemata.
San Baudel de Berlanga conserva il mistero e il fascino particolari delle opere isolate, dove si afferma nella sua purezza l’insostituibile ruolo della creazione individuale nell’arte, sia quel che sia. L’esame attento delle sue particolarità costruttive consente di affermare senza esitazioni il suo mozarabismo: nell’occasione, il mozarabismo tardo nei confini della valle dell’Ebro. Le sue affinità, talvolta chiare, con San Millán de suso, invitano a cercare nella direzione dell’arte islamica dell’Aragona le ragioni di queste somiglianze. Così, senza ricadere nello schema della «scuole» nel momento in cui lo si è severamente ripudiato da parte degli specialisti dell’arte romanica, non si può negare, non fosse che a titolo di ipotesi di lavoro, il condizionamento dell’arte mozarabica nello spazio. E neppure nel tempo: questo mozarabismo avanzato, dalla fantasia senza pari, che inventava per il piacere, e anche per una estrema simbolizzazione dello spazio sacro, una specie di scenario d’auto sacramental ante litteram, questo mozarabismo ritrova con naturalezza le raffinatezze complicate e teatrali di quello che Eugenio d’Ors ha chiamato l’eone barocco. Resterebbe da spiegare come questo piccolo gruppo di anacoreti, precariamente installati su una frontiera molto aperta e ancora mal riconquistata, abbia trovato i mezzi e la creatività necessaria per realizzare un’opera così insolita. Non è il minore enigma di questa torre di Dio sperduta nel recesso di un vallone, apparentemente lontano da tutte le grandi vie della cultura dell’alto medioevo, ivi comprese soprattutto quelle della mozarabia dell’XI secolo, già così scemata.
[continua]
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