Antonio THIERY
A che punto è la
questione mozarabica
Pubblicato in Arte Medievale
Periodico
internazionale di critica dell’arte medievale
II Serie, Anno
II, n. 2, 1988, pp. 29-62
Istituto della
Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani
Roma
San
Baudelio de Berlanga
(Soria), dell’XI secolo. L’edificio riassume molti motivi simbolici
dell’architettura spagnola dal VII all’XI secolo: una grande aula cubica, dalla
quale si accede ad una grotta (la cappella dei primitivo insediamento) e ad
un’abside quadrata, sopraelevata, che fa da scrigno all’altare. La grande aula
è segnata al centro da una maestosa colonna, dalla quale si dipartono otto
costoloni a costituire la nervatura della copertura a vela. Si fa riferimento
ai rami di una grande palma, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad un
complesso mandalico che significa la resurrezione e la perfezione finale. Il
grande senso di moto che viene conferito alla costruzione è accentuato dalle
otto strettissime feritoie poste tra i costoloni che si dipartono dalla colonna
centrale e che lasciano intravedere un vano impenetrabile, con una copertura a
cupola, il cui ombelico, alla maniera araba, è costituito da un complesso
sistema di travi che genera una figura circolare (simbolo della libertà
cosmica) e otto linee di forza che incrociandosi danno vita ad un quadrato (la
perfezione terrena) e che sono riassunte in un rapporto unitario da due assi
posti a croce, che richiamano la lettera ebraica heth, alla quale si attribuisce il valore numerico di otto.
Il vano cieco e inaccessibile, sopra le
absidi il più delle volte, è presente nell’architettura dell’età visigotica
(San Pedro de la Nave, San Julián de los Prados) e mozarabica (San Miguel de
Escalada) ed il significato non può che essere simbolico.
A Berlanga, la copertura del vano cieco
ricorda con grande chiarezza la scena di Gog e Magog dei Commentari di Beatus, otto teste di coloro che
dettero testimonianza della propria fede attorno alla testa centrale del
Cristo. Nel mandala che viene a configurarsi anche a Berlanga è fondamentale il
ruolo del centro, della divinità, da cui sono emanate le otto divinità
periferiche.
Alcuni ipotizzano che si tratti di una
cella eremitica, ma manca un possibile accesso. La cella impenetrabile ricorda
bene nei suoi significati e nelle sue funzioni il senso misterico della
cultura, vicino-orientale. B. Bagatti ricorda che per svelare
ai soli adepti delle sètte il significato dei segni e dei simboli, i popoli
antichi, compresi i giudeo-cristiani, tendevano per principio a conservare il
segreto (mysterium absconditum). E
perciò la spiegazione di molti segni risulta difficile. Il Vangelo di Filippo, evidenziando che a
Gerusalemme tre erano le case che fungevano da luogo di sacrificio, dice che
“il battesimo è la casa santa;
l’unzione è il santo del santo, la
camera nuziale è il santo dei santi...
prima che il velo fosse strappato, non avevano altra camera nuziale, ma solo
un’immagine della camera nuziale che è lassù. È per questo che il velo fu
strappato dal basso in alto, perché era opportuno che qualcuno andasse dal
basso in alto.” La cella, alla quale si guarda dal basso in alto, ricorda anche
la grotta mistica o splendente, non per la luce che vi penetra, ma per la
presenza divina,
ben sottolineata dal mandala che fa da chiave alla volta.
La colonna centrale che si apre negli
otto costoloni richiamando il grande albero, da cui emana la forza vitale, non
è certamente una novità. Segna il legame fondamentale tra l’umano e il divino,
simboleggia la croce nella quale il Dio morente si immedesima al punto da diventare
solo “voce”, solo “spirito vitale.” Dice Ephrem: “Dio ha piantato un bel
giardino. Egli ha costruito pure la Chiesa e in mezzo alla Chiesa ha piantato
il Verbo.” È una descrizione, a secoli di distanza, del San Baudelio di
Berlanga, che, nel suo sistemico insieme, è segno di Cristo.
Il vano centrale della chiesa è
caratterizzato ancora sul fondo, in contrapposizione all’abside, da una tribuna
sorretta da 18 colonne, forse richiamo allo spazio riservato alle donne nella
sinagoga, alla quale si accede da una piccola scala, simbolo di Cristo, come
ricordano Ireneo e Giustino. Dalla tribuna si accede
ad una piccola cappella addossata alla colonna centrale e sorretta, quasi fosse
un pulpito da quattro colonne che sorreggono quattro archetti.
Modeste pitture, staccate in epoca
recente e sostituite da copie, coprivano le pareti esterne della tribuna e
della cappella.
A tanta inventiva architettonica, a
testimonianze di una complessa sofisticata tradizione culturale, che mira a
creare un composito ed esoterico sistema di comunicazione, fanno da
contrappunto balbettanti esercizi pittorici, a testimonianza di forme
espressive che hanno trovato solo nelle architetture e nelle miniature la
propria ragion d’essere e le proprie “funzioni.”
[…] Il riferimento all’architettura
araba, nelle chiese mozarabiche, è costante. Non sono molti gli edifici
musulmani giunti fino a noi, ma la Moschea di Cordoba è sufficiente per
testimoniare forme comunicative che presero il via nel VII secolo dalla grande
Moschea di Abd al-Malik, sulla spianata del tempio di Gerusalemme.
Non mi soffermerò ad esaminare
l’architettura araba di Spagna; metto soltanto in evidenza come il sistema a
costoloni di San Millán de la Cogolla e di San Baudelio de Berlanga è presente,
con innumerevoli soluzioni nella Moschea di Bid-Mardúm, dalla fine del X
secolo, a Toledo - ora nota come chiesa del Cristo della Luce - e come il
fantasmagorico fiorire di mandala sia presente, appunto, nella grande Moschea
di Cordova, ad esempio nelle cupole della cappella reale o della cappella
antistante il mihrab. Non va dimenticato il
forte accento ad una impostazione labirintica della pianta, né che l’edificio
sacro, sia nel mondo islamico, sia in quello cristiano, è il centro di una
liturgia che ha nella deambulazione interna ed esterna la sua caratterizzazione.
Nel contesto culturale definito da tante
chiese, vanno studiati i codici miniati del X secolo, che meglio individuano i
modi comunicativi dell’età mozarabica. Non dovrà meravigliare il costante
riferimento ai testi apocrifi o al mondo arabo, giacché appare sempre più
evidente la natura sincretistica della religiosità mozarabica, centrata non
sulla ricerca di una teologia dogmatica o morale, ma nell’attesa apocalittica
della fine già operante dei tempi, non disdegnando connotazioni giudaiche e
islamiche.