lunedì 30 giugno 2014

Da Parigi alla Pliniana (3)


feuilleton in tre puntate, #3

«Nella solitudine di un’insenatura, a ridosso del monte boscoso al limite est del territorio di Torno, la Villa Pliniana si profila nella sua misteriosa bellezza sul fianco roccioso del torrente omonimo che precipita dall’alto di una rupe con una cascata di circa 90 metri.»
[Da Nesso a Blevio, un lavoro di Pietro Müller
edito a Como da Pietro Cairoli, anno 1968, pagina 97].

Con atto notarile datato 25 novembre 1573 il governatore di Como, conte Giovanni Anguissola, acquista da Gerolamo Gallo l’intera area da questi posseduta a Torno, dando poi incarico all’Alessi (o al Pellegrini?) di abbattere la casa e i due mulini del Gallo e al loro posto erigere una residenza estiva a picco sul lago. Continua Müller: «Alla morte del Governatore (1578), dall’erede Conte Giulio la villa passò al Conte Pirro Borromeo Visconti (1590), poi ai Marchesi Canarisi di Torno (1676?) e, di proprietario in proprietario, ai Principi Belgioioso (1849)».

Vorrei crederle, caro Müller, ma non è proprio così. La Villa Pliniana era in possesso dei Belgiojoso ben prima del 1849, come imparo da alcune lettere scritte da Emilio e rese note da Léon Séché sotto il titolo Alfred de Musset (Documents inédits), Paris 1907, di cui ho una copia in casa. Da questa raccolta apprendo che il principe, lasciate le delizie austriache (J’ai ici tous les amusements possibles, école de natation, bon vin et bon dîner, et une énorme quantité de femmes), trascorre gli anni 1840 e 1841 a Milano, occupato a ricostruire la Pliniana per renderla una confortevole casa di campagna dove passare “quelques mois comme nous les aimons, aprés les fatigues du Grrrrrrand Mond”. E lui è uno che delle fatiche del grrrrrran mondo - bere, mangiare, cantare, ballare e far sesso - proprio non riesce a farne a meno.

Aggiungo: le acque che precipitano a lato della Villa Pliniana sono quelle del torrente di Val Colorée, mentre la Fonte Pliniana - tutt'altra cosa - sgorga da un anfratto inserito nella proprietà, con un suo sbocco autonomo nel Lario ai piedi delle mura della Villa.

* * * * *

Nel 1842 - mentre la sua sposa, la principessa Cristina, si trova a Locate, nella bassa Lombardia, qui accorsa per dare aiuto morale ai suoi contadini - il bell'Emilio riappare nei salotti di Parigi, ridando gioia alle tante signore rimaste orfane della sua voce …ma non solo. Fin da subito s’intuisce che le sue attenzioni sono tutte rivolte alla giovane dama bionda sposata all’iracondo conte di Plaisance. Il colpo di grazia arriva nel mese di giugno, quando Cristina rientra a Parigi, seppur con casa a Port-Marly, al 10 di rue de Paris. Malata di nervi, scossa dalla gelosia per l’amore pubblicamente esibito dal marito, la principessa non perde occasione per arrecare disturbo al ménage degli amanti.
La liaison tra i due corre di bocca in bocca e trovar loro un posto segreto dove incontrarsi diventa sempre più difficile. Sono questi i frangenti che fanno scaturire la proposta (in)decente: perché non fuggire e trovare riparo tra le mura della restaurata Pliniana? Immagino lui, il quarantenne uomo di mondo, intrigare la giovane amante (25 anni) raccontandole di come quelle mura abbiano ospitato poeti (l’innamorato Foscolo s’ispirò per il poemetto Le Grazie), musicisti (alla Pliniana in tre giorni Rossini aveva composto il Tancredi), scienziati (uno su tutti: Niccolò Stenone, elevato al rango di beato da Giovanni Paolo II), re e imperatori. Inoltre, a Milano lui ha tanti amici desiderosi di fare la sua conoscenza...

Quel che accade è subito detto: il 27 aprile 1843, al termine di una festosa serata tra amici, il principe Emilio di Belgiojoso e la contessa Anne de Plaisance, figlia di Berthier, principe di Wagram, in carrozza raggiungono i sobborghi di Parigi, dove amici fidati fanno trovare due cavalli sellati. La loro fuga ha inizio. Il giorno dopo, scoperta l’assenza della moglie, il conte di Plaisance manda a chiedere ai Wagram se per caso sua moglie si trovi a Grosbois, ospite del fratello. Ottenuta risposta negativa (e arrivata ai suoi orecchi la bisbigliata verità) sia lui che la madre di Anne cercano in tutti i modi di far arrestare i fuggiaschi, sapendo che dovranno passare i confini di Stato. Ma i due riescono a infilarsi tra le larghe maglie della polizia e calpestare il suolo italiano, dove, finalmente liberi, ben presto possono riposarsi dalle fatiche della lunga corsa entro le mura della Pliniana.
Gongolante di gioia per quanto accaduto è Alfred de Musset, l’ultimo degli spasimanti malamente respinto da Cristina, che in data 22 maggio 1843 annuncia la fuitina in una lettera che si legge a pag. 167 della già citata raccolta: «Je ne sais pas si vous savez, vous autres, à Catane, que le Principe *** a enlevé la comtesse de ***. Il y avait deux ans qu’ils étaient ensemble au su de tout Paris. La comtesse s’est disputée, à ce qu’il paraît, avec son mari; elle est arrivée chez le prince (qui devait chanter le soir dans un concert) ornée de son mouchoir pour tout bagage, et elle lui a dit: «Allons-nous-en!» Ils sont en route. Le vent est aux enlèvements à Paris, dans ce moment-ci, ou pour mieux dire, aux séparation. Je viens de voir de mes yeux la même plaisanterie, qui est beaucoup moins gaie qu’on ne pense. Je t’expliquerai cela un jour; mais si tu m’en crois, n’enlève jamais personne, à moins que ce ne soit la reine d’Espagne.» Inutile dire che dietro gli asterischi si celano i nomi dei due fuggiaschi.
Il 14 maggio 1843, il periodico la Caricature informa i parigini di questa incredibile storia, raccontando in prima pagina e in prima colonna - sotto il titolo Un principe e una principessa - del “rapimento” della nobildonna francese da parte di un nobile straniero. Nei giorni a seguire tutti gli altri periodici parigini danno grande risalto a questo “lutto” che ha colpito le grandi casate dei Plaisance e dei Wagram.

E gli amanti? Lontani dallo spettegolare dei giornali e dalle ipocrisie dei salotti si godono i loro corpi. Nel tempo rimasto libero praticano il nuoto e l’equitazione, mentre la sera viene dedicata a banchettare con gli amici - e tra questi vi sono i Sommariva (proprietari di Villa Carlotta), i Melzi (con villa a Bellagio), il marchese Arconati (anche lui con una villa sul lago), il conte Arrivabene, ma anche - orrore! - la principessa di Metternich, moglie dell’antico odiato nemico e ora, dopo gli anni d’ozio a Vienna, divenuto intimo di Emilio. In queste occasioni Anne si mette al piano e accompagna Emilio nel canto. Nei mesi estivi, irrinunciabile per Emilio e Anne è l’abitudine di avvolgersi nudi in un lenzuolo e gettarsi insieme dalla loggia nelle acque del Lario, gesto che ha dato origine alla leggenda del “fantasma del lago" che puntualmente appare a mezzanotte.

Il tempo scorre. Lontano da Torno - a Parigi, a Berlino - scoppiano moti di ribellione. Da parte sua Milano contribuisce al momento storico dando vita alle “cinque giornate”, con Radetzky costretto fuori dalla Lombardia. Esponenti della Giovine Italia, memori dell’antico ardore patriottico di Emilio e Cristina arrivano fiduciosi alla Pliniana, salvo poi ripartirne adirati per il tradimento del principe: Emilio, isolatosi da quel mondo che un tempo fu suo, vive gli accadimenti esterni con apatico distacco. Ora lui, precocemente incanutito, non desidera far altro che vivere pigramente in compagnia di Anne. Agli occhi degli ospiti la situazione è chiara: il focoso amante di un tempo si è mutato in un indolente marito. E lei, Anne, è ancora appagata da questo stile di vita? ci si chiede.

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La Pliniana, per la sua posizione poco baciata dal sole, è fredda e umida per gran parte dell’anno. Al contrario, sull’opposta sponda del Lario, a Carate vi è un villino chiamato Il Ripiego: la sua posizione è amena e il sole vi è di casa. In gran segreto, nel 1852 Anne prende la decisione: dapprima stipula un contratto d’affitto e poi, in un caldo pomeriggio di giugno, mentre l’amico si riposa dormendo, carica pochi bagagli su di una barca e si fa trasportare sull’altra sponda del lago per installarsi tra le calde mura del Ripiego. Così, come oggi si farebbe con un sms, lei chiude per sempre la sua storia d’amore con Emilio, senza una parola.
L’abbandonato - ignaro (?) che l’amica ha trovato rifugio nella casa che lui vede al di là del lago, proprio di fronte alla Pliniana - dà sfogo alla sua rabbia inviando lettere su lettere all’amico parigino Alton Shée, in gran parte pubblicate nella sopra citata raccolta. Sono lettere cariche di smarrimento e di dolore per l’affronto subito, dove l’uomo ammette d’essere divenuto pigro, nemico del mondo, incapace di fare e ricevere visite e di trovare conforto solo con la lettura, il disegno, il cibo, i sigari, il sonno e, qualche rara volta, la musica.

Da Carate la notizia dell’abbandono del principe da parte di Anne raggiunge in fretta i salotti di Milano e di Parigi, dove i più sentenziano che per Emilio è arrivata l’ora di raccogliere quel che ha seminato. Il principe di Wagram, fratello di Anne, in cuor suo se ne rallegra: passata la bufera, l’amata sorella sarebbe certamente tornata a Grosbois, riaccolta in seno alla famiglia. Il conte Jules de Plaisance continua a dichiarare che per lui Anne è morta dal giorno della sua fuga da Parigi; oltre agli impegni politici - è deputato della Manica - e i suoi poderi da gestire, ha una figlia di 17 anni, Jeanne Lebrun de Plaisance, la figlia avuta da Anne, in procinto di sposarsi col trentaseienne Armand de Maillè de la Tour Landry, fratello del terzo duca di Maillé, consigliere generale e deputato del dipartimento di Maine-et-Loir.

Da par suo, Cristina di Belgiojoso - votatasi ad un cattolicesimo intransigente e rigoroso - è in procinto di partire per un lungo viaggio che la porterà in Grecia, Turchia, Siria e Palestina. Al suo rientro a Parigi trova un alloggio al n. 36 del Boulevard de Courcelles, dove, in un villino separato, ospita e fa curare lo storico Augustin Thierry, ormai cieco. Lanciata nel campo letterario, accanto ai libri filosofici la Belgiojoso non disdegna di pubblicare Scene della vita turca e Ricordi della Siria e dell’Asia minore, libri che le attirano nuovi consensi ma anche nuove inimicizie.

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Sul Lario Anne apre la sua nuova casa agli ospiti che a frotte accorrono, desiderosi di conoscere il perché e il percome della sua frastornante decisione. Gli amici parigini di passaggio le portano le ultime notizie.
La villa è piccola, gli ospiti abbondano. A poca distanza, in quel di Moltrasio, i Passalacqua dispongono di una villa molto più spaziosa. Anne la visita: fa per lei e in breve tempo Il Palazzo di Moltrasio diventa, sotto la sua regìa, uno dei ritrovi più importanti della società lombarda. Di tanto in tanto Anne interrompe il suo isolamento lacustre per “scendere” a Milano, dove dispone di pied-à-terre di un sua proprietà.
Come si può immaginare, nel salotto di Moltrasio si presentano anche uomini decisi a conquistare il cuore di Anne. Il più focoso è certamente il conte Spaur, che per lei scialacqua una fortuna pur di tenerla avvolta nel lusso. Preoccupati dallo spreco di denaro, lo zio-tutore del conte austriaco ricorda al nipote che Anne è separata e che i Plaisance mai le concederanno il divorzio. Quindi, essendo di fatto il matrimonio impossibile, la sua relazione è destinata al fallimento: che le visite a quella donna abbiano fine! impone il severo tutore. Il nipote si ribella e si fionda sul lago, carico di nuovi costosi regali per la sua amata, ma lei, informata della guerra in atto in casa Spaur, reagisce respingendolo con toni definitivi: resa matura dalle esperienze vissute con suo marito e con Emilio, ora non vuole nuovi fardelli da portare.
Sull’altra sponda, Emilio passa le estati dedicandosi a piccoli lavoretti in giardino, accettando nei mesi invernali l’ospitalità offertagli dagli amici più intimi. Una vita, questa, destinata ad essere breve: distrutto dalla sifilide, il principe di Belgiojoso muore il 17 febbraio 1858, coi funerali celebrati tre giorni dopo nella milanese chiesa di San Fedele.

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Saputa la morte di Emilio, Cristina a Parigi si dedica con ancor maggior impegno all’attività politica a fianco di Cavour e nella stesura di ponderosi libri.
A Moltrasio, anche per Anne (informata delle crudeltà riversate su di lei nei salotti parigini) è tempo di dare una svolta alla sua vita, restringendo il suo salotto a pochi ma fidati amici. Nel frattempo, suo fratello la informa che in seguito alla morte del padre il titolo di duca de Plaisance è stato ereditato da Jules e che a lei, perché non divorziata, compete il titolo di duchessa. Piccole soddisfazioni…

Il passare del tempo e il mutare degli accadimenti politici convincono Cristina a lasciare per sempre Parigi e tornare in Italia. Per l’occasione, sceglie quale nuova residenza una proprietà di famiglia a Oleggio Castello, sul lago Maggiore, punto strategico per le sue incursioni di carattere politico a Torino e a Milano. Nel tempo libero, scrive una Storia di Casa Savoia, che tanto piace a Camillo Benso.
Poi - galeotto l’ingresso a Milano di Napoleone III e Vittorio Emanuele, che di fatto mette una provvisoria parola fine alla guerra d’indipendenza, ma anche l’offerta dei cognati che le mettono a disposizione la Pliniana (e Cristina ovviamente rifiuta) - nasce in lei il desiderio di lasciare il lago Maggiore per trovare una miglior sistemazione sul Lario, acque che i medici ritengono più adatte per la cura delle sue malattie.
A Blevio la sua scelta cade sulla Villetta Schuwaloff, a suo tempo fatta edificare da un russo, il conte Gregorio Petrovich Schuwaloff, per degnamente ospitare una giovane donna di cui era perdutamente innamorato. Solo che lei morì presto e il conte, novello san Francesco, per lenire il dolore non trovò di meglio che recarsi a Parigi per indossare il saio dei Barnabiti, offrendo ogni suo bene mobile e immobile alla congrega. Ed è proprio dai Barnabiti che Cristina compra questa casa, dalle cui finestre - come in un gioco di specchi - può vedere, sulla riva opposta, la residenza di Anne.

Sul Lario lo spazio è ristretto, le notizie viaggiano. Cristina sente parlare della conversione di Anne, ora dedita alle opere di carità. Da parte sua Anne sente parlare degli impegni sociali, politici e religiosi di Cristina. A Moltrasio Anne ha chiuso il suo salotto, a Blevio Cristina ne apre uno, frequentato da letterati e politici italiani e stranieri. Ammalatasi gravemente, Anne riceve la visita di un “sant’uomo”, che si dice le sia stato inviato proprio da Cristina, desiderosa di salvarle l’anima: in questa occasione, convinta dal sacerdote, Anne si riavvicina alla fede perduta. Forte di questo successo, lo zelo cattolico di Cristina la spinge a proseguire: certa dell’imminente fine di Anne e sapendo della sua solitudine, l’ex rivale mette nero su bianco che lei si sarebbe impegnata, in caso di necessità, di far accudire Anne da qualche discreta persona e di darle un’onorevole sepoltura, chiedendo al municipio di Moltrasio la garanzia della presenza “in eterno” di fiori freschi sulla sua tomba.

Talvolta il destino gioca con carte truccate: mentre Anne si rimette dalla malattia, Cristina cade vittima di una ipertrofia del fegato e muore il 5 luglio 1871. Pochi mesi dopo, il 15 gennaio 1872, Anne resta vedova del duca di Plaisance; si consola sapendo che una nuova legge garantisce, in mancanza di figli maschi, il passaggio del titolo ducale allo sposo della figlia - che sa abitare una bella residenza alla Jumellière, nel Maine-et-Loir. Tutte notizie, queste, che pian piano la convincono che per lei è arrivato il momento di rientrare a Parigi, se non altro per riabbracciare l’amato fratello e - perché no? - azzardare un approccio con la figlia.
Rassicurata dagli amici, nel giugno del 1878 si decide al grande passo, quando un forte raffreddore la ferma. Ripartirò in luglio, dice. Ma il raffreddore si trasforma in bronchite acuta, con febbre continua. Il genero di Cristina di Belgiojoso, marchese Lodovico Trotti-Bentivoglio, rispettoso delle volontà della suocera, invia il nobiluomo Luigi Vigoni al capezzale dell’ammalata. Questi vi arriva il 19 luglio e la sera stessa scrive un biglietto per informare che la duchessa di Plaisance è agli estremi. Tre giorni dopo, il 22 luglio, Vigoni invia al Trotti un messaggio urgente: «Mio caro Lodovico, due sole righe per dirti, che la duchessa di Plaisance, è spirata stamane alle ore 5,30 antimeridiane.»
Un anno dopo, la salma di Anne Berthier lascia il cimitero di Moltrasio per essere tumulata, per volontà del fratello, in territorio francese, nell’arca dei principi di Wagram.
(La saga si è conclusa).

© Testo e immagini di Giancarlo Mauri





















Da Parigi alla Pliniana (2)

Dal film Malombra, 1942
diretto da Mario Soldati

feuilleton in tre puntate, #2

Seppur circondata dall’affetto dei suoi cari, la vedova Berthier decide che il futuro suo e dei suoi figli è in Francia. Appena gli accadimenti politici lo permettono (Napoleone è sconfitto, Luigi XVIII è di nuovo sul trono, i beni immobili restituiti), Elisabetta lascia la Baviera per il castello di Grosbois, con migrazioni invernali all’Hôtel d’Estignac di Parigi, Boulevard de la Madeleine, una proprietà del defunto marito sita al centro dei più rinomati salotti, allietati dai letterati e dagli artisti più à la page del momento. Rammentando i balli del mattino, i balli della sera e tutte le altre feste, annota madame de Girardin: “Parigi balla, Parigi salta, Parigi si diverte”. Beh, forse non proprio tutti...

* * *

I PRINCIPI DI BELGIOJOSO-ESTE. Nel 1824 l’esile Cristina Trivulzio - la sedicenne figlia di Gerolamo Trivulzio e di Vittoria dei marchesi Gherardini - molla al suo destino un piagnucoloso cugino per sposare il desiderato principe Emilio Barbiano di Belgiojoso-Este, uomo affascinante che ha fama (meritata, a dispetto dei suoi 24 anni) d’essere un grande collezionista di cuori femminili. Dotato di una voce calda e sensuale (Rossini lo ammira sperticatamente), Emilio è il re dei salotti milanesi. Come facilmente previsto dalla vox populi, la vita matrimoniale tra il principe ingordo di piaceri e la più intellettuale sposina non può durare a lungo. Infatti, quattro anni dopo le nozze i due si separano, seppur decidendo di restare amici in virtù dell’unica loro affinità: l’odio verso la dominazione austriaca. Entrambi amici di Mazzini e iscritti a società segrete, strettamente sorvegliati dalle spie e perseguitati dalla polizia, ai due non resta che lasciare Milano e raggiungere a Parigi gli amici colà già espatriati.
La prima a partire è Cristina, gravata di un fardello di non poco conto: il bel mondo parigino vive nel lusso più sfrenato mentre a lei il governo austriaco ha sequestrato tutti i beni mobili e immobili. Comunque decisa ad aprire un suo salotto politico, a Parigi Cristina affitta una casa all’angolo della Rue de l’Arcade e la Rue neuve des Mathurins. Il quartiere è popolare …ma la società bene parigina, infatuata dell’Italia e degli italiani, comprende l’emergenza e fin da subito personaggi altolocati - tra cui Thiers, Lafayette, Victor Cousin, Mignet - prendono a salire i gradini che portano al quinto piano e a bussare alla porta su cui è infisso il cartello La princesse malheureuse. Lei ricambia col suo fascino romantico, accentuato dall’abitudine di vestirsi di nero, un segno di lutto in ricordo delle sue disavventure coniugali, e guadagnandosi da vivere dipingendo ventagli e cristalli. Nei salotti che contano si prende a parlare di lei e della sua ardente passione patriottica e gli inviti ad unirsi alla bella società non tardano ad arrivare.

Dopo essersi goduto a Milano la ritrovata indipendenza, arriva anche per Emilio il momento di emigrare a Parigi. Momentaneamente riunitisi, i due sposi prendono in affitto due appartamenti contigui al n. 1 di Place de la Madeleine, nella casa di proprietà del duca di Plaisance, locali che ben presto si rivelano inadatti per offrire una degna ospitalità ai nuovi amici e conoscenti, affascinati dall’antitesi Emilio il frivolo e Cristina la colta. Un trasloco s’impone e i due trovano un più vasto alloggio al 23 di Rue d’Anjou, che arredano - grazie alla generosità del nuovo imperatore d’Austria, che ha restituito alla Trivulzio ogni suo bene - con un lusso sfarzoso, inatteso ...e talvolta incompreso: “una serie di catafalchi” scrive Téophile Gautier. Le signore, invece, spettegolano sul giovane e robusto africano che le accoglie alla porta d’ingresso. Cristina, ormai riconosciuta regina dei salotti, riceve due volte la settimana: il mercoledì lo riserva alla musica, il sabato alla politica e alla teologia.

Il successo attira l’invidia dei nani e ben presto intorno alla coppia crescono i pettegolezzi e le insinuazioni, soprattutto da parte dei tanti mariti resi becchi da Emilio e dai troppi spasimanti respinti da Cristina. Di lei scrive Arsène Houssaye: Più intelligente che sensibile […] ella serviva con grazia il festino dell’amore, poi volava via nel momento di condividerlo. Il respinto conte Rodolfo Appunyi non esita a chiamarla Saffo e Corinna. Balzac la descrive saccente e pedante, sempre pronta a rubare gli amanti alle donne che frequentano la sua casa, facendone pure i nomi: Lizst a madame d’Agoult, Lord Normanby alla moglie, Mignet a madame d’Aubernon, Musset a George Sand …salvo poi mandarli tutti in bianco. De Musset, altro spasimante respinto (“Aveva gli occhi terribili della sfinge, così grandi così grandi che mi ci sono perso e non mi ci raccapezzo più”) la battezza la dotta Urania, soprannome che fa subito presa nei salotti mondani.

Sul fronte opposto, quello degli amici fedeli, troviamo nomi di rilievo. Oltre ai già citati Thiers, Mignet e Victor Courbin troviamo Chopin, Victor Hugo, Dumas padre, Stendhal, Chateaubriand e i pittori Delacroix e Lehmann, autore, quest’ultimo, del ritratto di Cristina visibile al Louvre. Di tanto in tanto appare anche il conte di Cavour, che con Cristina condivide la passione per l’occultismo e lo spiritismo. Tra i musicisti, la coppia conta sull’amicizia di Rossini, Meyerbeer, Bellini e Alton Shée, usi ad accompagnare al pianoforte i gorgheggi della Malibran e della Grisi in duetto con Emilio.

Conseguenza della breve riconciliazione parigina è la nascita nel 1838 di una figlia, Maria-Gerolama. Ma già un anno dopo la situazione precipita: lei, che la troppa adulazione ha messo a nudo il lato autoritario, lascia Parigi e col fratello Alberto raggiunge l’isola di Wight. Lui da Vienna non esita a scrivere che è “molto felice con ragazze giovanissime e bellissime”.

* * *

Altrove, lontano dal borbottio dei salotti, re Luigi-Filippo mai dimentica di ricevere a Corte la principessa di Wagram, dandole modo d’incontrare sovrani, ambasciatori e nobiltà di passaggio. Da parte sua, la vedova Berthier usa ricambiare con festosi ricevimenti al castello di Grosbois, ottima locazione per cercare di sistemare al meglio i suoi figli. L’unico maschio, il principe Napoleon Alexandre, impalma Zenaïde, figlia del conte Clary e nipote di Désirée Clary, diventata regina d’Olanda. Un anno dopo è la volta di Caroline, che sposa Alphonse Napoleon d’Hautpoul, ufficiale di cavalleria, barone dell’impero e, più tardi, sindaco di Trouville, una spiaggia alla moda (suo padre, Jean-Joseph d’Hautpoul, morto nella battaglia di Eylau, era tra i più cari amici del defunto Berthier). Rimane Anne, viziata dalla famiglia e molto legata al fratello.
Tra i frequentatori dell’Hôtel d’Estignac e del castello di Grosbois vi è il duca di Plaisance, figlio del terzo Console Lebrun, arcitesoriere di Napoleone Bonaparte. A suo tempo, come aiutante di campo dell’Imperatore, aveva ammirato il coraggio di Berthier in occasione delle battaglie di Austerlitz, Eylau e Wagram. Educato all’estremo senso di lealtà e di giustizia, non esita a mostrare il suo disprezzo per il lusso e per la vita da salotto. Morto il duca, è Charles, il figlio maggiore sposato alla figlia del signor de Barbé-Marbois, a ereditarne il titolo. Essendo suo fratello Alexandre-Louis, barone dell’Impero e colonnello di cavalleria, morto nel 1812 in Russia, e sua moglie morta di parto, l’orfano Charles-Louis-Alexandre-Jules conte di Plaisance viene cresciuto dal rigoroso zio Charles e da questi avviato alla carriera politica.
All’Hôtel d’Estignac o a Grosbois il giovane Jules ha modo d’incontrare la bellissima Anne. Apprezzando il rigido stile di vita e le alti doti morali dei Plaisance, la vedova Berthier caldeggia l’unione di sua figlia con Jules e il loro matrimonio si celebra il 24 giugno 1833, ma per Anne Berthier de Wagram, ora contessa di Plaisance, la nuova vita si rivela ben presto dolorosa. Il marito non cerca in lei l’amante ma la madre mai conosciuta. Lei, giovanissima e propensa alla mondanità, reagisce fuggendo dal marito per ritrovare la perduta felicità a Grosbois. Quando è costretta a Parigi la si vede nei salotti sempre sola, mai accompagnata dal consorte. Fra una fuga e l’altra dalla casa e dal marito che non ama, quel che deve accadere accade: il 5 aprile 1835 mette al mondo una figlia, Jeanne. Subito dopo, per ritemprarsi dalle fatiche del parto, sverna a Grosbois per godere della compagnia del principe suo fratello - ora seduto alla Camera dei Pari -, di sua sorella e delle loro famiglie.

Gli anni passano, i figli crescono. A Parigi Anne può contare sull’amicizia della contessa Merlin, moglie di un generale, e della signora Bourdon de Vatry. Ed è nel salotto della prima che incontra la principessa di Belgiojoso - che a suo tempo aveva abitato nel palazzo dei Plaisance - e tutta la pletora di artisti e letterati che l’adorano. Benché tra loro rivali, la Merlin e la Belgiojoso usano scambiarsi grandi cortesie, con rappresentazioni teatrali ora a casa dell’una ora dell’altra. A differenza del salotto Belgiojoso, quello della Merlin è decisamente più leggero: non solo rappresentazioni teatrali, ma anche giochi e balli e gorgheggi musicali accompagnati al pianoforte dallimmancabile Bellini. Tra le ospiti, attira gli interessati sguardi maschili una graziosa ed elegante signora con capelli biondi e carnagione chiara. Cosa non secondaria, lei porta dalla nascita due cognomi amatissimi dai parigini: uno, Berthier, scalda il cuore dei napoleonici; l’altro, Wagram, è caro ai fedeli alla monarchia.
Inoltre, in casa Merlin è facile trovare il sempre affascinante principe di Belgiojoso. Si dice che quando lui canta, accompagnato al piano da Rossini, regali alle signore un brivido di piacere e di certo non sfuggono gli sguardi che l’esperto Emilio rivolge all’infelice moglie del frigido conte di Plaisance.

Nella più distinta residenza dei Vatry sia i Wagram che i Plaisance si recano con piacere, anche perché qui possono incontrare il duca di Nemours, il figlio del re. Stando al conte d’Appony “Monsignore è invaghito a modo suo di madame de Plaisance, figlia del principe di Wagram”. In realtà l’erede al trono spasima per la signorina Beresford, un’inglese che in Rue de Rivoli abita una casa vicina a quella dei Plaisance. E alla contessa le sue frequenti visite all’inglesina provocano un inutile scontento: pochi anni dopo il duca di Nemours trova nella duchessa Vittoria di Saxe-Coburg la moglie degna del suo casato.

In una Parigi dove tutti i nobili si dannano per divertirsi, solo il conte Jules de Plaisance s’ostina a vivere una vita castigata, ignorando ogni esigenza di un’ancor bellissima Anne Berthier de Wagram, sua infelice sposa. La tempesta si avvicina.
(continua)


© Testo di Giancarlo Mauri















Da Parigi alla Pliniana (1)

Louis-Alexandre Berthier

feuilleton in tre puntate - #1

Il 9 marzo 1808 Louis-Alexandre Berthier, lo stratega di tante battaglie napoleoniche, porta all’altare la duchessa Maria Elisabetta in Baviera, nipote del re Massimiliano I Giuseppe di Baviera, 29 anni più giovane del marito. Un’unione decisa da Napoleone Bonaparte e comunicata allo sposo con lettera datata La Malmaison, 1° aprile 1806:

Vi mando Le Moniteur; vedrete quanto ho fatto per voi. Vi pongo una sola condizione: che vi sposiate, ed è questa una condizione legata alla mia amicizia. La vostra passione è durata troppo a lungo: è diventata ridicola ed io ho il diritto di sperare che colui che ho nominato mio compagno d’armi, che la posterità citerà sempre accanto a me, non rimarrà più a lungo abbandonato a una debolezza senza pari. Voglio dunque che vi sposiate, o non vi vedrò mai più. Avete cinquant’anni, ma siete di una stirpe in cui si vive fino a ottant’anni, e quei trent’anni sono quelli in cui le blandizie del matrimonio vi saranno sommamente necessarie.

Queste maschie parole, da soldato a soldato, svelano alcuni fatti: Le Moniteur, organo ufficiale dell’Impero, riporta la fresca nomina del Primo maresciallo di Francia al rango di principe di Neuchâtel e Valengin. La “passione durata troppo a lungo” mette invece a nudo l’amore di Berthier per la signora Visconti-Aimi, un’italiana nota per non porsi limiti nel numero degli amanti.

Residenza ufficiale degli sposi è il castello di Grosbois, immensa proprietà terriera a sud di Parigi appartenuta fino a due anni prima a Fouché. Lo sposo fa riverniciare il palazzo e apre le porte al bel mondo parigino omaggiandolo con feste sontuose.
La luna di miele è di breve durata: poco dopo le nozze Berthier si deve recare a Schönbrunn per preparare la battaglia di Wagram e a vittoria avvenuta è lo stesso Napoleone a rendere partecipe l’abbandonata Elisabetta che “Abbiamo eretto a principato col titolo di principato di Wagram, il castello di Chambord che abbiamo acquistato dalla Legion d’Onore, coi parchi dipendenti e le foreste circostanti, per essere posseduti da nostro cugino, il principe di Neuchâtel, e dai suoi discendenti”.
Al nuovo titolo nobiliare il “nostro cugino” (titolo che l’Imperatore riserva a pochi intimi) si vede aggiungere le rendite provenienti dal demanio di Trzcianca Schelanka, dai granducati di Hannover, di Westfalia, della Ruhr e della Sarre. La divisa di Berthier gronda di onorificenze e nuovi incarichi - connestabile, capo delle cacce imperiali, colonnello generale degli Svizzeri e tant’altro - si sommano ai vecchi. Ai possedimenti di Grosbois il capofamiglia aggiunge altre proprietà, quali la casa delle Guardie di Hyéres, gli aranceti di Crosne, alcune cascine nel Marais e altri stabili a Parigi.

* * *

Ogni medaglia ha il suo rovescio. Berthier, che non approva la campagna di Russia, presenta le dimissioni, rifiutate da Napoleone: “Ho bisogno nel mio esercito della fama che vi ho creata”. Dopo la disfatta i marescialli inducono l’Imperatore a un trattato di pace, propedeutico all’abdicazione e all’esilio all’Elba. Da Fontainebleau il 14 aprile 1814 un addolorato Berthier scrive alla moglie: “Amica mia […] Abbandonate questo triste castello di Chambord, e tornate nel vostro palazzo. […] Potrete vivere a Parigi con dignità ma con semplicità. Bisogna prepararsi a certe grandi riforme. Riceverete poca gente senza però chiudere la vostra porta. I nostri affari si sistemeranno bene e sarà assicurata la sorte dei nostri figli. Vi abbraccio, cara Elisabetta mia; un bacio ai nostri amori.
Al tempo, i “nostri amori” sono due marmocchietti che rispondevano ai nomi di Napoléon Alexandre (nato l’11 settembre 1810) e Caroline-Joséphine (22 agosto 1812). Una terza figlia, Marie-Anne vedrà la luce più tardi, il 19 febbraio 1816.
La confusione di quei giorni gioca un brutto scherzo alla serenità della coppia. Frugando negli archivi di Grosbois Carolina scopre che a Parigi il marito ha messo a disposizione della signora Visconti alcune case dipendenti dall’hôtel in Rue Neuve des Capucines e che alla stessa lui passa una cospicua rendita annua. Dopo un primo momento di sgomento, vuoi per l’educazione ricevuta alla Corte di Baviera vuoi per una visione pragmatica dei fatti, Carolina decide di soprassedere conservando il rispetto e l’affetto al padre dei suoi figli.
Partito Napoleone per l’Elba e restaurata la monarchia, per non perdere il titolo di principe di Wagram Berthier s’iscrive alla Guardia del re; e così, mentre il fedele compagno di Napoleone è in viaggio al seguito di Luigi XVIII, a Grosbois sua moglie ospita Maria-Luisa, ex imperatrice sulla via dell’esilio.

* * *

Il mare è in tempesta e tenere la barca a galla non è facile. Ben presto Berthier si vede costretto a rendere il principato di Neuchâtel al suo legittimo proprietario, il re di Prussia; in cambio riceve la carica di pari di Francia, il comando della compagnia di Wagram e la commenda dell’Ordine di San Luigi. Anche la sua nuova vita al servizio di re Luigi non è indolore. Del resto, come dimenticare la frase pubblicamente pronunciata da Napoleone in procinto di lasciare Fontainebleau per l’Elba: “Amo Berthier e mai cesserò di amarlo” e la polizia, convinta che Berthier stia tramando per portare soccorso al suo imperatore, applica nei suoi confronti un asfissiante controllo.
Al contrario, Berthier ha ormai perso ogni fiducia in Napoleone - la sua assenza da Waterloo sarà decisiva per le sorti della battaglia - e da buon stratega riesce a valutare ogni cambiamento con freddezza e precisione. Una settimana dopo la nascita di Marie-Anne Napoleone sbarca al Golfe Juan. Annusando laria, subito Berthier mette la moglie e i figli su di una carrozza diretta in Baviera, mentre lui (con un milione e mezzo di franchi in un baule) scorta re Luigi fino a Gand. Qui arrivato si accomiata da Luigi XVIII e in gran fretta raggiunge la famiglia a Bamberg, dov’è accolto con affetto dal suocero, il duca di Birkenfeld. Nel frattempo Napoleone, deluso ma non sorpreso di non aver trovato a Parigi “il più intelligente e il più abile dei suoi marescialli-maggiori” provvede a fargli sequestrare tutti i beni immobili.

Sebbene a Bamberg tutti si prodigassero per rallegragli la vita con feste danzanti e spettacoli teatrali, l’ossessione di Berthier resta una sola: rientrare in Francia. A questo progetto dedica tutto il suo tempo, scrivendo lettere su lettere al re di Baviera, chiedendogli il permesso di tornare libero a Grosbois, e a Luigi XVIII per rinnovargli la sua fedeltà. Al duca di Feltre, invece, invia una lettera rassegnando le dimissioni da ogni incarico accumulato: “A 63 anni, tra cui cinquanta di servizio, quaranta campagne militari per terra e per mare, incessanti sforzi hanno alterato la mia salute e mi costringono a rinunciare ad ogni impiego militare o civile.” Il duca di Feltre prende tempo e gli consiglia di rivolgersi direttamente al re. Berthier esegue, inviando a Sua Maestà la lettera di dimissioni. Luigi XVIII le rifiuta.



Il 1° giugno 1816 una lunga fila di cavalleggieri russi s’avvicina a Bamberg. Per una miglior visione della sfilata Berthier sale al terzo piano, entra nella camera dei bambini, accosta una sedia alla finestra, vi sale sopra in piedi e porta il binocolo agli occhi. È il suo ultimo gesto da vivo: perso l’equilibrio, cade nel vuoto e si rompe la testa sul selciato. La polizia non ha dubbi e liquida il fatto con una parola: suicidio. Sbagliando, come storia insegna. I resti del vecchio soldato, a cui più tardi saranno affiancati quelli della moglie, riposano nel castello reale di Tegernsee.

Alla morte del padre, Marie-Anne Berthier non era ancora entrata nel suo quarto mese di vita.
(continua)

© Testo di Giancarlo Mauri


Il generale Berthier in battaglia

Battaglia di Wagram

Chateau de Grosbois

Berthier e madame Visconti

Maria Elisabetta in Baviera

venerdì 27 giugno 2014

Lo sciacquone di Hemingway


Il motto “non credere a niente di quel che ti dicono e credi a metà di quel che vedi” è sempre valido. Da qui il duro lavoro di chi scrive di Storia, l’opposto dello scrivere amene storielle. Una prova? Eccola: ho in casa diverse biografie sulla vita e il lavoro di Ernest Hemingway, tutte scritte da rinomati e ben retribuiti cronisti. Tutti questi libri riportano la disgraziata caduta di un lucernario sulla testa di Hemingway, incidente che portò lo scrittore ad una momentanea sospensione della sua vena creativa.

Seguendo l’ordine cronologico, apro Papà Hemingway. Ricordi personali di E. A. Hotchner, libro uscito nel 1965 e stampato in Italia da Bompiani nel 1966, e alle pp. 63-64 leggo:

Un altro giorno che i cavalli di Auteuil riposavano, attraversammo il Pont Royale per pranzare alla Closerie des Lilas, altro locale caro ai ricordi di Ernest. Lungo la strada, egli mi indicò un edificio alto e stretto, all’ultimo piano del quale aveva un tempo abitato con Pauline. “Era un grande appartamento,” disse, “con un lucernario che lo rendeva luminoso. Un giorno venne a trovarci un bohémien di nome Jerry Kelley, un dadaista scomunicato, che prima di partire ebbe bisogno di andare al cesso. Ma invece di tirar la catena della toilette, agguanta la corda del lucernario, le dà un violento strattone, e il lucernario piomba giù in un diluvio di vetro. Io mi trovavo proprio lì sotto e i vetri mi hanno squarciato il cranio. Quando ho visto zampillare il sangue, il mio primo pensiero è stato di salvare il mio unico vestito. Corro in bagno e, per salvare il vestito, mi chino a sanguinare sulla vasca. Contemporaneamente metto un dito sul punto di pressione alla tempia per rallentare un po’ il flusso del sangue che veniva giù come un figlio di puttana. Pauline andò a chiamare Archie MacLeish che si mise in contatto con un suo amico, medico all’Ospedale americano, quel dottor Carl Weiss, che più tardi ammazzò Huey Long. Fece un lavoro davvero orribile sulla mia testa e mi lasciò con questa chiazza di pelle nuda che s’allarga tutte le volte che m’arrabbio. Dopo di che misurammo il sangue che era finito nella vasca e risultò che era più di mezzo litro. Weiss fu certamente più in gamba quando s’occupò di Huey Long che quando dovette badare a me.

Hotchner è un giornalista infilatosi alla corte di Hemingway e queste “memorie” – fin da subito contrastate da Mary, l’ultima moglie di Ernest - sono apparse in libreria tre anni dopo la morte di Hemingway. Più che una biografia a me pare un libro auto-celebrativo, da prendere con le pinzette.

Il secondo libro è un lavoro serio, da topo di biblioteca, con tanti rinvii bibliografici. L’ha scritto Carlos Baker e s’intitola Hemingway. Storia di una vita; la traduzione è di Ettore Capriolo, l’editore è Arnoldo Mondadori, 1970. Apro alle pp. 281-282:

Si era appena riavuto da questa indisposizione, quando all’inizio di marzo gli capitò uno dei più curiosi incidenti della sua carriera. In seguito avrebbe smentito di essere eccessivamente soggetto agli incidenti, ma la vista debole e la goffaggine fisica unite provocarono una notevole serie di disavventure. Questa volta era andato a cena con Ada e Archie MacLeish ed era tornato a casa verso le undici. Alle due andò in bagno. La stanza era freddissima. Qualcuno, volendo tirare lo sciacquone, aveva invece dato uno strattone alla corda che serviva per aprire il lucernario, spaccando il vetro in più punti. Adesso, mentre lui annaspava tutto assonnato con la corda, tutto quel decrepito lucernario precipitò sulla sua sfortunata testa, raschiandogli la fronte poco sopra l’occhio destro[1] e facendolo cadere come un manzo colpito da una scure. Pauline cercò di stagnare l’emorragia con strati di carta igienica, poi chiese aiuto a MacLeish che chiamò un taxi. A questo punto Ernest era stordito e quasi in delirio. Arrivarono all’American Hospital di Neuilly poco prima delle tre. Il medico di turno chiuse con sette punti la ferita aperta che aveva forma di triangolo.
Era ormai troppo famoso perché si potesse ignorarlo e le agenzie d’informazione trasmisero la notizia. Ezra Pound mandò un messaggio da Rapallo. [...] Perkins telegrafò a Guy Hickok chiedendo un resoconto particolareggiato. Hadley, appena lo seppe, inviò una lettera di solidarietà.

Come disse Sciesa: tiremm innanz. Il terzo libro s’intitola Tutti i racconti di Ernest Hemingway, a cura di Fernanda Pivano; Mondadori 1993, pag. LVII:

1928. In febbraio ritorna a Parigi, trova l’appartamento in Rue Ferou gelato perché è saltato l’impianto di riscaldamento e si ammala; in marzo ha uno dei suoi soliti incidenti spettacolari: questa volta andando di notte nel bagno tira un cordone credendo che sia quello dello scarico dell’acqua e invece fa azionare un lucernario, che gli precipita sulla testa provocandogli una ferita di cinque centimetri sopra l’occhio destro,[2] suturata con nove punti all’ospedale americano di Neuilly e di cui conserverà la cicatrice tutta la vita. A cercare di arginare l’emorragia con la carta igienica è Pauline (non Hadley come risulta da una riduzione cinematografica italiana.

La stessa Pivano in Hemingway, Bompiani 2001, pag. 117, scrive:

Gli infortuni culminarono a Parigi nel marzo 1928 quando gli crollò sulla testa un lucernario producendogli sulla fronte una ferita abbastanza grave da richiedere nove punti di sutura: la cicatrice gli restò tutta la vita entrando nella sua aneddotica e confondendosi con gli incidenti di guerra i cui confini nei resoconti dei mass-media non furono mai molto precisi. A me, per esempio, raccontò addirittura che il lucernario era caduto perché Martha Gellhorn aveva cercato di entrare dalla finestra del soffitto in un tentativo di seduzione o per perseguitarlo, in due versioni che cambiavano a seconda dell’umore e non tenevano conto del fatto che aveva conosciuto la Gellhorn nel 1936.

Per finire: ma lui, l’interessato, non ha mai scritto niente sull’incidente? Certo che si: basta aprire Ernest Hemingway. Lettere 1917-1961, un volume curato dal citato Carlos Baker, tradotto da Francesco Franconeri per Mondadori, 1984, e leggere a pag. 184 quanto Hemingway scrive a Maxwell Perkins:

Parigi, 17 marzo 1928
Caro Mr. Perkins,
Guy Hickock mi ha mostrato oggi un cablo della Scribner in cui si chiede come sto di salute e spero quindi che lei non si sia preoccupato. Ero stufo di raccontare i miei incidenti così non ho voluto accennarne. Comunque è stato il lucernaio nel gabinetto - un amico aveva tirato la corda che lo alza invece di tirare quella dell’acqua provocando una crepa nel vetro così quando ho cercato di agganciare la corda (andando in bagno alle 2 del mattino e vedendola penzolare) è caduto tutto quanto. Abbiamo fermato l’emorragia con trenta strati di carta da gabinetto (un magnifico assorbente che ho ormai adoperato due volte per questo scopo in analoghe emergenze) e una legatura emostatica con la tovaglia e un pezzo di legno da ardere. Le prime due legature non sono riuscite ad arrestare niente perché troppo corte - (asciugamani di quelli piccoli) ed ero alquanto preoccupato dato che non avevamo telefono né c’è la possibilità di trovare un medico alle 2 del mattino e c’erano due arterie tagliate. Ma la terza ha funzionato molto bene e siamo andati a Neuilly all’ospedale americano dove hanno messo a posto tutto, legato le arterie, e messo i punti sotto e poi sei altri per chiudere. Nessun effetto collaterale però un maledetto fastidio.

Questa lettera è stata scritta pochi giorni dopo l’incidente, quindi da ritenersi un documento veritiero, perché fin da subito verificabile. Bastava chiedere a Pauline, ai medici dell’ospedale, ai coniugi MacLeish, al tassista, tutti testimoni oculari.

Queste versioni hanno almeno un punto in comune: l’incidente dello sciacquone e del lucernario è successo nell’appartamento al numero 6 di rue Férou, dove Hemingway viveva con Pauline Pfeiffer, la sua seconda moglie. O almeno... questa certezza vale fino al 1963, anno in cui Man Ray - nato Emmanuel Radnitzsky - esce con Self Portrait, un libro pubblicato a Boston da Atlantic Monthly Press/Little, Brown and Company. In casa ho la traduzione edita da Mazzotta nel 1975 e a pag. 154 leggo:

Una sera organizzai una festicciola a casa mia, invitando alcuni amici americani e francesi. A un certo punto Hemingway entrò in bagno, e ne uscì subito dopo con la testa sanguinante: aveva tirato quella che credeva la catena, e che era invece la corda del lucernario; il vetro si era frantumato su di lui. Gli fasciammo la testa, gli misi un cappelluccio di feltro che nascondeva in parte la fasciatura e gli feci una foto.

Sul ritratto Man Ray ha ragione: esiste, quindi non si discute. A non reggere è la storia che questa fotografia sia stata scattata la sera dell’incidente: non si vede una goccia di sangue né sulla camicia né sulla benda, malgrado la ferita sia ancora aperta, non suturata - almeno stando alle parole di Ray. Ne deduco che Man Ray abbia ingrassato la sua biografia col letame altrui. In alternativa, si può leggere questo cameo su Hemingway attraverso il filtro delle parole di Lucien Treillard: «Per tutta la vita, Man Ray rimase un artista dadaista libero, attraversò il surrealismo di cui subì l’influenza, ma conservò fino alla morte la sua assoluta libertà creativa.» Vista da quest’angolazione, la verità rimane un’opinione ...anche se nessuno dei citati autori si è mai dato alla politica.




[1] Al contrario, le fotografie mostrano che la ferita è sopra l’occhio sinistro.
[2] Vedi nota precedente.

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© Per il testo e le foto di Giancarlo Mauri


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La ferita sopra l'occhio sinistro di Hemingway