PICASSO, di
Patrick O’Brian
Traduzione
dall’originale inglese
Pablo Ruiz Picasso. A
Biography
di Paola
Merla
Longanesi
& C. Milano 1989
pp. 366-380
Dora
non viveva con lui, ma gli aveva trovato uno studio magnifico a Parigi e si era
trasferita in un appartamento vicinissimo, in Rue de Savoie.
Lo
studio, o meglio il complesso di studi e di altre stanze, occupava gli ultimi
piani e i solai di un palazzo nobiliare, ormai cadente, che era stato costruito
nel diciassettesimo secolo per la famiglia Savoia-Carignano: sorgeva abbastanza
incongruamente in Rue des Grands-Augustins, dove Balzac aveva ambientato l’inizio
del suo Chêf-d’œuvre inconnu; a giudicare dalla descrizione della scala a
chiocciola, poteva trattarsi proprio dello stesso edificio dove si trovava lo
studio di Picasso, al numero sette. Leggermente arretrato rispetto all’antico
vicolo, con un cortile cinto da un muro sul fronte della casa, fino a pochi
anni fa vi si sarebbero potuti immaginare Poussin, Watteau o Balzac stesso
affacciati sul portone. Oggi l’edificio è stato ristrutturato: bianco, pulito,
severo, poco accogliente e un po’ falso, appare del tutto diverso da come era
al tempo di Picasso, il quale scoprì con sua grande delizia che la parte da lui
occupata ricordava molto il Bateau-Lavoir.
Anche
prima di trasferirvisi aveva lavorato moltissimo. Stimolato da Dora Maar e
dalla guerra civile in Spagna, il flusso creativo aveva ripreso a scorrere
copioso: eppure sorprende notare come il primo quadro del 1937 sia una
Marie-Thérèse dalla cromia vivace, seduta su una poltroncina, in uno spazio
ristretto dove non c’è quasi posto per il suo allegro cappello. Indossa un
abito multicolore, solcato da fitte linee nere, cosicché le diverse superfici
ricordano il cartone ondulato che Picasso usava per le sue figure in gesso: la
figura appare perfettamente serena, con i dolci occhi posti sullo stesso lato
del volto, un artificio che permise a Picasso di conservare la linea del
profilo e che sollevò grande scalpore a quel tempo, mentre oggi è
universalmente accettato.
La
guerra in Spagna volgeva al peggio; sebbene l’attacco a Madrid fosse stato
respinto dopo un terribile corpo a corpo per le strade e nell’università, era
ormai chiaro che la neutralità delle grandi potenze era una crudele farsa; la
Francia e l’Inghilterra agirono probabilmente in buona fede, pur con idee molto
confuse, ma si perdettero in un mare di parole mentre Hitler e Mussolini
facevano affluire rinforzi in aiuto di Franco. C’erano ormai circa diecimila
tedeschi e quarantamila italiani schierati a fianco delle truppe nazionaliste,
per non parlare dei nordafricani, mentre Hugh Thomas calcola che il numero
totale dei russi fosse di circa cinquecento, anche se naturalmente l’Unione
Sovietica inviò anche aeroplani, armi e carri armati, in parte usati dai
volontari delle Brigate internazionali. Le truppe tedesche e italiane erano
forze regolari e addestrate e tra i tedeschi si contavano molti comandanti e
piloti della Luftwaffe, ansiosi di migliorare il proprio rendimento e di
sperimentare tecniche e armi su bersagli veri, in vista della più grande guerra
che si andava preparando.
Con
slancio appassionato Picasso scrisse una poesia, Sogno e menzogna di Franco, un poema surrealista in cui parole
rabbiose si affastellano l’una sull’altra raggiungendo quasi quel delirio
ritenuto un tempo da Eluard come l’espressione della ragione all’apice della
sua purezza: «fandango de lechuzas escabeche de espadas de pulpos de mal aguero
estropajo de pelos de coronillas de pié en medio de la sartén en pelotas -
puesto sobre el cucurucho del sorbete de bacalao frito en la sarna de su
corazon de cabestro - la boca llena de la jalea de chinches de sus palabras». Una
traduzione letterale di questo frammento «Fandango di civette salamoia di spade
di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un
tegame a coglioni nudi posto sul cono del gelato di merluzzo fritto nella rogna
del suo cuore di bue la bocca piena della gelatina di cimici delle sue parole»
non rende la sonorità violenta e gli echi dell’originale spagnolo: la poesia
era però rivolta a un pubblico di spagnoli ed era accompagnata da illustrazioni
secondo la tradizione spagnola e catalana, come fosse un’aleluya o un’auca, ossia
da una serie di piccoli quadri, ognuno in sé conchiuso ma tutti collegati fra
loro. Sono acqueforti, qualcuna con scene ispirate agli orrori della guerra -
donne uccise, case incendiate, l’innocenza violata - altre relative a Franco,
rappresentato di volta in volta come un essere amorfo e ributtante, una sorta
di ascidia piena di protuberanze setolute, ma umana quel tanto che basta a
farla riconoscere come tale, in procinto di distruggere con un piccone un busto
di marmo; o come un fallo con gli stivali che cammina sulla fune sventolando un
vessillo sacro; o ancora, circondato da filo spinato, in preghiera davanti a un
ostensorio sul quale è scritto «1 duro» (cinque pesetas: simbolo del denaro);
nell’atto di uccidere Pegaso o come una specie di meschino centauro sventrato
da un toro. La figura del toro compare tre volte, due volte mentre attacca il
Caudillo e un’altra nell’atto di spaventarlo. Inizialmente le scene erano
quattordici, ma in giugno Picasso ne aggiunse altre quattro: donne urlanti,
bambini massacrati, una ragazza uccisa.
La
sequenza non è chiara, ma non è necessario che lo sia: il complesso di
incisioni accompagnate dalla poesia esprime il caos mostruoso, la follia, l’assurda
crudeltà della guerra e il rifiuto assoluto da parte di Picasso non soltanto
della guerra ma anche dei valori della destra. È forse significativo che non vi
compaia la croce.
Il
Sogno e menzogna di Franco fu l’enunciazione
più chiara dell’atteggiamento di Picasso in un momento in cui correvano voci
sul suo scarso appoggio alla causa repubblicana, a favore della quale ora si
schierava senza incertezze e senza possibilità di ripensamenti; e dal momento
che il 1937 avrebbe dovuto essere l’anno di un’altra grande esposizione
internazionale a Parigi, il governo iberico gli chiese di contribuire
dipingendo un’intera parete del padiglione spagnolo.
Picasso
accettò, certo; ma in Spagna ciò significa molto spesso il contrario ed è
probabile che i funzionari che gli avevano trasmesso la richiesta, anche se
ignari della riluttanza di Picasso ad accettare ordini e commissioni che
inevitabilmente lo avrebbero condizionato, se ne ripartissero in preda a un
certo sconforto.
In
effetti Picasso si dedicò ad altre opere: un ritratto di Marie-Thérèse, con una
ghirlanda di fiori sul grazioso capo, altre nature morte, una Marie-Thérèse
seduta sul pavimento con le gambe ripiegate sotto di sé, la schiena rivolta a
una finestra che si apre su un balcone, uno specchio semiaperto a lato e un
vaso da fiori di fronte. L’incisivo ritratto di Dora Maar risale anch’esso all’incirca
allo stesso periodo, anche se il mese non è noto con sicurezza: il colore è
assai più carico e l’atmosfera emotiva completamente diversa, ma anche qui
ritroviamo gli occhi (uno azzurro chiaro, uno arancione) sullo stesso lato del
viso, visto di fronte e di profilo, e anche qui la figura è seduta in una
piccola poltrona, all’interno di uno spazio compresso e indicato con precisione
da linee verticali e orizzontali.
Dopo
l’innaturale e prolungato periodo di riposo Picasso stava lavorando a ritmo
accelerato; ancora nature morte e un gruppo di dipinti molto curiosi. Dei
quattro o cinque della serie quello riprodotto più frequentemente è la Baignade, che a prima vista sembra
dipinto nello stesso periodo della terribile bagnante dalla testa di mantide
del 1929. Il vasto spazio di mare e di cielo è lo stesso e le grandi forme di
legno levigato dall’apparenza quasi ossea presentano un ovvio richiamo a quel
mostro, ma lo spirito è del tutto diverso e le figure - in questo caso due
fanciulle dalla struttura architettonica con facce appena accennate, ventre a
forma di uovo, seni ovali e appuntiti, intente a giocare con una barchetta
sulla riva, sono miti, innocue; e persino la prodigiosa testa che si fa loro
incontro all’orizzonte e le guarda ha soltanto un’espressione di benevola
curiosità. La calma non cela la minaccia, l’incubo si è allontanato.
Eppure,
proprio in quei giorni Málaga si trovava sotto l’incubo più terribile della sua
lunga storia di assedi, assalti, incendi, massacri. Fin dai primi giorni della
guerra, Málaga e il territorio circostante erano stati un’isola repubblicana in
zona nazionalista, unita al resto della Spagna quasi solo dalla strada
costiera. A metà gennaio del 1937 l’attacco ebbe inizio: ai primi di febbraio i
fascisti, inclusi nove battaglioni di italiani con automezzi blindati e carri
armati, entrarono nella città, semidistrutta dai cannoni e dai bombardamenti.
Immediatamente ebbe luogo un’epurazione feroce e la morte avanzò lungo la
strada di Almeria, dove mezzi corazzati e aerei inseguirono e raggiunsero gli
innumerevoli fuggitivi.
La
caduta di Málaga coincise quasi esattamente con una delle più serene fra le
nuove tele «ossee», una donna seduta sulla spiaggia che si toglie una spina di
riccio dal piede, e con il quadro di Marie-Thérèse accanto allo specchio. Non c’è
dubbio che le notizie raggiungevano Parigi in ritardo, incomplete e poco
sicure, ma comunque arrivavano. In un primo momento mi era sembrato che l’assenza
di una reazione immediata da parte di Picasso stesse a indicare il suo distacco
dalla città natale e il suo identificarsi con la Catalogna; ma, riflettendoci,
credo di aver capito che il furore covava già, si gonfiava man mano che
giungevano le notizie, incapace però, per alcune settimane, di trovare
espressione, finché un’altra tragedia agì da catalizzatore, liberando le
emozioni in un’esplosione che abbracciò non soltanto quell’avvenimento, ma la
guerra civile spagnola intera.
Verso
il mese di marzo o di aprile Picasso si era trasferito in Rue des
Grands-Augustins. Non aveva intenzione di rimanervi, tanto che aveva conservato
l’appartamento in Rue de La Boëtie, ma il trasloco dei cavalletti, delle tele,
degli attrezzi e di tutti gli oggetti che voleva avere con sé nello studio
generò un certo trambusto. La sua attività comunque non si interruppe e quasi
subito gli ampi locali si riempirono del familiare odore di colori e trementina
e i quadri cominciarono ad allinearsi lungo le pareti.
Adesso
finalmente aveva spazio a volontà. Dall’esterno la casa non appare tanto
grande, ma all’interno gli spazi assumono proporzioni diverse e i due ultimi
piani abitati da Picasso disponevano di locali vasti, come cattedrali dalle
basse volte, ancor più sorprendenti perché vi si accedeva da una buia scala a
chiocciola. Nel corso dei secoli l’edificio era stato rimaneggiato in modo
caotico e c’erano perciò numerose stanzette aggiunte, oltre a scale e scalette,
ma notevoli erano soprattutto gli studi: grandi locali polverosi con vetrate
affacciate sul cortile. Erano esposti a ovest, ma Picasso non si era mai
preoccupato molto della luce: da ragazzo quando la luce del giorno era scarsa
usava una candela o una lampada e adesso quando il ciclo era scuro o quando,
come spesso accadeva, voleva lavorare di notte si avvaleva dell’illuminazione
elettrica.
Al
secondo piano della casa un ampio locale si apriva su una piccola anticamera in
cui Picasso riceveva i visitatori meno intimi; un altro locale comunicante, che
un tempo era stato adibito a laboratorio di tessitura, fu in seguito conosciuto
come lo studio delle sculture, mentre quello al piano superiore, dove un tempo
Jean-Louis Barrault provava i suoi copioni, fu adibito a studio di pittura.
Aveva le pareti spioventi e attraverso le tavole del basso soffitto filtrava la
polvere del solaio. Annesso vi era un piccolo ripostiglio con acqua corrente,
che gli serviva per le incisioni, e nel complesso lo spazio era più che
sufficiente; all’inizio comunque Picasso lavorò soltanto nello studio al piano
inferiore.
Qui,
nel maggio del 1937, dipinse uno dei suoi quadri più importanti, forse il più
grande di tutta la sua vita.
Il
26 aprile alcuni aerei tedeschi bombardarono per ordine di Franco la città di
Guernica: stormi di Heinkels e di Junkers lasciarono cadere bombe incendiarie e
ad alto potenziale e mitragliarono le strade dalle quattro e mezzo del
pomeriggio fino al tramonto. Dei settemila abitanti 1654 furono uccisi e 889
feriti: la cittadina fu virtualmente distrutta.
Dopo
gli orrori della seconda guerra mondiale, dopo Hiroshima e Nagasaki, per non
parlare di Londra, di Dresda, della Ruhr, duemila morti in un pomeriggio
purtroppo non suscitano più grandi emozioni: nel 1937, tuttavia, l’evento
sconvolse il mondo intero. Era il primo esempio di sterminio sistematico, a
sangue freddo, della popolazione civile, un nuovo vertice di barbarie e di
disumanità, una vittoria delle tenebre sulla luce. Corrispondenti di guerra
indipendenti e fotografi erano presenti a smentire i nazionalisti, secondo i
quali erano stati gli stessi abitanti di Guernica a far saltare la città
ponendo delle cariche di dinamite nelle fognature, e non ci fu il minimo dubbio
su ciò che era successo: la notizia si diffuse quasi immediatamente, autentica
e tragicamente convincente. Giunse a Parigi il 28 aprile.
Picasso
questa volta reagì istantaneamente, con tutto se stesso, e la sua risposta fu
naturalmente un quadro. Il 1° maggio eseguì cinque schizzi, tre di figure
singole e due dell’intera composizione come la concepiva in quel momento; fin
dall’inizio erano presenti le tre forme essenziali: il cavallo morente, il
toro, la donna che regge una lampada fuori della finestra. Dall’inizio di
maggio a metà giugno lavorò febbrilmente: Zervos rivela che «la prima versione
del quadro fu concepita in uno stato di estrema tensione emotiva». Picasso
trovò persino il tempo di scrivere una ponderata dichiarazione che cominciava
così: «Il conflitto spagnolo è la lotta della reazione contro il popolo, contro
la libertà. Tutta la mia vita di artista non è stata altro che una lotta
continua contro la reazione e contro la morte dell’arte. Come si potrebbe
pensare per un solo momento che io possa essere d’accordo con la reazione e con
la morte?... Nel quadro al quale sto lavorando in questo momento e che chiamerò
Guernica e in tutte le mie opere
recenti esprimo chiaramente il mio odio per la casta militare che ha
sprofondato la Spagna in un oceano di sofferenza e di morte».
Nonostante
la collera e l’amarezza, Picasso lavorò con grande meticolosità. Guernica non fu buttato giù, sull’immensa
tela, nell’eccitazione di un giorno, ma fu il risultato di settimane di
continua tensione e, come tutte le sue opere di maggiore impegno, fu preceduto
da decine di studi preliminari che misero a fuoco le sue emozioni, la sua
capacità di visione originale, la sua vasta esperienza. Doveva essere un atto d’accusa
contro il male e se voleva essere efficace le armi dovevano essere usate nel
modo migliore: non c’era spazio per l’improvvisazione e la fretta.
Gli
studi sono stati conservati e molti di essi si possono ammirare al Casón del
Buen Retiro di Madrid, insieme al grande dipinto. Grazie a essi, alle precise
datazioni e alla presenza di Dora Maar che scattò alcune belle fotografie di
Picasso al lavoro, lo sviluppo di Guernica
può essere seguito dal primo schizzo a penna alla tela finita; è un panorama
completo e affascinante del lavorio mentale di Picasso portato al vertice
estremo della creatività. Prima di accennare ai successivi stadi dell’opera,
bisognerebbe forse tentare di descrivere il quadro stesso, la versione finale
quale oggi la vediamo. È una tela immensa, più di sette metri per tre e mezzo;
eppure non sono le dimensioni che colpiscono immediatamente, ma piuttosto la
sensazione improvvisa di trovarsi in presenza di un mondo nel quale è l’emozione
a essere immensa. Né si nota la totale assenza di colore; nero, grigio, bianco
sono i colori naturali di questo universo silenzioso, silenzioso nonostante le
urla: lo stordimento senza suoni dell’estremo dolore, del disastro, degli
istanti successivi all’esplosione della bomba.
Alta,
quasi al centro del dipinto, una lampada elettrica splende nel buio, simile a
un occhio, l’occhio onniveggente di tanti affreschi primitivi; al di sotto un
cavallo magro, la bocca aperta in un nitrito selvaggio, barcolla trafitto da
una lancia, la cui punta fuoriesce da un fianco; sotto gli zoccoli giace il
corpo di un uomo, frantumato in blocchi come una statua, un braccio teso fino
al bordo sinistro del dipinto, mentre l’altro afferra una spada spezzata la cui
elsa sfiora un piccolo fiore appena abbozzato. A destra del cavallo, la testa
dolente di una donna si affaccia da una finestra, il braccio irrigidito a
reggere una lampada a olio che si allunga fin quasi a toccare la testa del cavallo:
la lampada non illumina la casa dalla quale la donna si sporge, ma un’unica
area nettamente definita, il petto del cavallo e il busto di un’altra donna,
seminuda, che si muove a fatica, come stordita, verso il centro del dipinto: la
gamba che si trascina, con il piede e il ginocchio enormi, si spinge fino al
limite inferiore destro del quadro. Dall’oscurità, a sinistra del cavallo ma su
un altro piano, emergono la testa minacciosa, le spalle e una zampa di un
grande toro, mentre sotto il toro una donna urlante è accovacciata con un
bambino morto tra le braccia. All’estrema destra il suo urlo è riecheggiato da
un altro, quello di una donna intrappolata in un groviglio in fiamme, le
bianche braccia protese verso l’alto e la testa anch’essa bianca gettata all’indietro
nella stessa atroce agonia. Il riquadro illuminato della finestrina, sovrastata
da pallide fiamme, corrisponde alla coda bianca del toro sulla sinistra del
quadro, che s’innalza dalla parte posteriore della bestia contro un piano
rettangolare grigio, mentre il collegamento fra la testa illuminata e il corpo
immenso nel buio rimane oscuro: e, indistinto, dietro quella testa paurosa, un
volatile - colomba, gallo, oca - certamente domestico, leva il suo canto
stridulo nelle tenebre.
Tutte
le figure sono fortemente distorte: tranne che nel caso del bambino morto (il
cui naso è posto sopra il livello degli occhi sul volto capovolto con un
effetto sconvolgente, come in alcuni studi per la Crocifissione), gli occhi si trovano entrambi sullo stesso lato del
viso e le superfici sono piatte, prive di modulazione chiaroscurale. Un accenno
di profondità si trova nei contorni appena accennati della finestrina e della
casa, nello scorcio del muso del cavallo e della spada spezzata, ma per il
resto lo spazio fra le figure è organizzato in piani angolari sovrapposti.
Superata
la prima impressione ci si rende conto che c’è un ordine in quel caos apparente
e che, sebbene a un’occhiata superficiale il dipinto possa sembrare un
polittico, composto di diversi pannelli contenenti ognuno il toro, il cavallo,
la donna con la lampada e infine la donna intrappolata, l’insieme è invece
legato non soltanto dai piani che si compenetrano e dalla sequenza quasi
continua di membra nella parte bassa del dipinto, ma anche, e assai più
saldamente, da un triangolo dalla base ampia, formato da linee e da piani
sovrapposti, con il vertice collocato appena al di sopra della lampada
centrale, e da diagonali, un po’ meno evidenti, che si innalzano dalla base
fino ai bordi esterni.
Lo
stadio finale, apparentemente così spontaneo, non fu raggiunto se non dopo
moltissimo lavoro; le tre figure principali erano presenti fin dall’inizio,
quasi sempre nella sequenza toro-cavallo-donna con la lampada, ma dovettero
essere ricollocate più volte insieme alle altre figure e forme perché l’insieme
potesse esprimere tutte le proprie potenzialità espressive. Prima che fosse
stabilita la versione definitiva ci vollero circa cinquanta studi, disegni,
dipinti e forse altri cinquanta durante e dopo la realizzazione.
Il
2 maggio fece la sua apparizione l’uomo morto, un guerriero classico: in questo
disegno la testa e l’intero corpo del toro non sono rivolti verso la donna con
la lampada e la testa del cavallo s’impenna all’indietro verso la parte
posteriore del toro, mentre dalla ferita nel ventre spunta un piccolo Pegaso;
in un altro studio dello stesso giorno il toro in movimento si allontana dalla
donna e si volge indietro verso la lampada, il cavallo è crollato a terra e il
guerriero volge la testa a sinistra. Sempre il 2 maggio Picasso dipinse una
versione ingrandita della testa del toro, quasi un’immagine speculare di quello
adottato nella versione finale, ma ancor più tesa: è la testa di un vecchio
ronzino, con la lingua che sporge appuntita, come nei suoi primi lavori.
Man
mano comparvero le altre figure: alcune sarebbero rimaste, altre sarebbero
state scartate. Il 9 maggio la composizione era arrivata a uno stadio pressoché
definitivo. A quel punto le figure essenziali erano la donna che regge la
lampada (scomparsa per qualche tempo) e il toro che la guarda; il cavallo è
crollato a terra accanto a un carro, ci sono più figure di morti o di esseri
che piangono e si lamentano e il fuoco sulla destra divampa più alto che nelle
versioni successive, mentre dalle rovine si leva un braccio, il pugno chiuso
nel saluto repubblicano.
Il
giorno successivo Picasso attribuì al toro un benevolo e alquanto stolido volto
umano, che però non adottò nella versione definitiva, come accadde anche per la
scala che in un abbozzo aveva collocato contro la parete della casa incendiata,
con una donna che ne discendeva tenendo un bambino in braccio.
Infine,
l’11 maggio, montò l’enorme tela. Entrava di misura fra le pareti del grande
studio, ma sebbene toccasse il pavimento non si incastrava perfettamente sotto
le travi del soffitto; per dipingere la parte inferiore Picasso dovette quindi
sedersi per terra, mentre per quella superiore usò una scaletta, pur essendo
comunque obbligato a dipingere su una superficie inclinata; ma nessuna di
queste difficoltà lo preoccupò minimamente. Le fotografie scattate da Dora Maar
durante le varie fasi del lavoro rivelano la posizione scomoda della tela, le
pile di giornali che usava come tavolozza, i barattoli, i tubetti strizzati e
gli innumerevoli mozziconi di sigaretta: Picasso aveva sempre fumato molto, ma
in quel momento, sottoposto a una tensione quasi continua, dovette certamente
superare il numero abituale. Tensione quasi continua; perché nel lavoro Picasso
era capace di una straordinaria autodisciplina, ma, nonostante la pressione e l’impulso
a continuare, non smise di recarsi fino a Le Tremblay per dipingere le sue
nature morte in un’atmosfera del tutto diversa. Senza queste pause gli sarebbe
stato impossibile conservare una capacità di giudizio distaccato e puntuale per
più di un mese continuato di sforzo creativo intensissimo.
La
prima fotografia che Dora Maar scattò a lavoro ultimato mostra il toro rivolto
decisamente dalla parte opposta rispetto alla donna, il cavallo abbattuto al
suolo con la testa arcuata verso il basso in uno spasimo convulso e il
guerriero, una figura quasi neoclassica paragonata al resto, steso a terra sul
dorso, con il braccio destro racchiuso in uno stretto rettangolo e levato nel
saluto repubblicano: questo braccio verticale, lungo due metri e che quasi
sfiora la lampada, è uno degli elementi più importanti del quadro, mentre la
lampada stessa presenta una seconda verticale, simile alla rocca di un
arcolaio, che scende verso il basso fino alla zampa del cavallo. Dalla cima
della lampada una diagonale s’inclina in basso, verso l’estremità destra del
dipinto, da dove risale nuovamente fino alla casa incendiata. Sulla sinistra,
anche se meno distintamente, si può individuare il corrispondente lato del
triangolo e la relativa diagonale ascendente. Questi elementi rimasero
costanti, costituendo la solida struttura della composizione. La fotografia
successiva mostra tuttavia un sole con i raggi simili a petali dipinto dietro
il pugno chiuso, che ora stringe qualche spiga di grano. Nella terza il sole è
stato sostituito da un ovale appuntito e bianco; il braccio (già più corto nell’ultima
versione) è scomparso, perché il soldato, rivolto nuovamente con la testa a
sinistra, giace adesso supino.
L’abolizione
di questa verticale produsse un’enorme differenza nella composizione, nelle
potenzialità del dipinto, e dopo qualche altro cambiamento, importante ma meno
vitale, Picasso afferrò subito l’opportunità offerta dallo spazio al centro,
come era probabilmente nelle sue intenzioni più o meno consapevoli fin dall’inizio.
Non si conosce esattamente la data della decisione definitiva; probabilmente fu
raggiunta dopo una pausa a Le Tremblay o dopo che Picasso si fu concesso
qualche ora libera per aggiungere quattro acqueforti, composte nello spirito di
Guernica, alla serie Sogno e menzogna di Franco. Con lo
spazio centrale libero a sua disposizione fu infine in grado di tornare per il
cavallo all’idea primitiva, riportando la testa in alto e all’indietro così
come appare adesso, facendone di nuovo una delle figure più significative dell’opera:
in questo modo però veniva a coprire la parte posteriore del toro, con la coda
rivolta alla donna. Picasso all’improvviso decise di rovesciare la figura,
lasciando la testa com’era: ora solo il corpo, non la testa, era rivolto verso
la donna.
Tornando
al cavallo, ne dipinse la superficie con pennellate regolari e leggere
rendendolo simile a un collage: il soldato fu smembrato, come se fosse
veramente una statua, volgendone il viso verso il cielo, con la bocca
spalancata, e accentuando l’importanza del fiore (tutto ciò che restava di una
figura di donna precedente) che ora toccava la mano con la spada. Infine, al
grande occhio, che era stato nelle versioni precedenti un sole, aggiunse una
lampadina elettrica come pupilla; qualche altro piccolo cambiamento e il
dipinto fu completo.
Si
era a giugno inoltrato. Poco tempo dopo la tela fu collocata nel padiglione
spagnolo. Fin dal primo momento in cui fu visto dal pubblico Guernica suscitò ammirazione, avversione,
stupore, discussioni, spiegazioni; in effetti Guernica è uno dei pochi quadri di Picasso per il quale le parole
non sono del tutto inutili, essendo uno dei rari esempi della sua produzione
matura ad avere un chiaro contenuto narrativo e simbolico, che può essere,
almeno in parte e in modo approssimativo, trascritto.
Molto
si può dire, ed è stato detto, sul suo aspetto puramente estetico, sulle fonti
della tradizione alle quali Picasso ha forse attinto, sul posto che il quadro
occupa nella storia dell’arte in generale e di Picasso in particolare; in gran
parte si tratta di commenti di notevole interesse, perché in Guernica si ritrova qualcosa del periodo
blu, parecchio del Picasso cubista, molto del disegnatore straordinario, dell’amico
dei surrealisti, del pittore della Crocifissione
e dei quadri metamorfici, dell’autore della
Minotauromachia: una specie di epitome dei Picasso degli ultimi trent’anni,
dato che tutte le sue esperienze e tutte le sue scoperte vi rientrano in
qualche misura. E nonostante siamo ancora tanto vicini all’evento commemorato
che pochi, tranne i più giovani, riescono a dissociare il dipinto dal suo
contesto storico e dalla carica emotiva che vi è implicita, molto è stato
scritto sui suoi pregi squisitamente pittorici: io non aggiungerò altro se non
che concordo con la maggioranza nel ritenere Guernica un quadro nobilissimo, un atto di purificazione attraverso
la pietà e il terrore.
Guernica è però anche un’allegoria,
con un uso del tutto consapevole di simboli. È dunque ragionevole domandarsi
fino a che punto e a che livello questa parte del «messaggio» sia stata
recepita. Siamo qui su un terreno in una certa misura meno soggettivo; infatti
se alla domanda: «Commuove questo quadro?» si può rispondere con un sì o con un
no, all’interrogativo: «Che cosa esprime?» è possibile dare una risposta assai
più significativa.
Tutti
concordano nell’ammettere che si tratti essenzialmente di una denuncia della
guerra come crimine, della crudeltà insensata, dell’odio, del massacro degli
innocenti; al di là di questo però le opinioni cominciano a differire. Alcuni
scorgono in Guernica un preciso atto
di accusa contro i nazionalisti spagnoli, il che lo scredita agli occhi di
altri come mera propaganda. Si tratta certamente di un punto di vista errato:
Picasso condannava Franco e lo espresse chiaramente in Sogno e menzogna, ma in Guernica
trasferì la protesta su un piano superiore, facendone un grido appassionato
contro ogni guerra, ogni oppressione. Sarebbe stato semplice moltiplicare i
pugni chiusi nel saluto repubblicano: al contrario, li abolì. Evitò ogni
riferimento specifico all’uno o all’altro degli schieramenti e, sebbene il
cavallo e il toro simboleggino la Spagna, proprio in quanto simboli trascendono
l’allusione specifica.
Insieme
alla donna con la lampada costituiscono i simboli principali, e l’efficacia
dell’allegoria sembrerebbe apparentemente dipendere dalla loro interpretazione
da parte del pubblico di tutto il mondo. Le spiegazioni fornite sono state diverse,
generalmente in relazione diretta con la guerra civile spagnola: per alcuni il
toro è il fascismo, che teme la donna con la lampada, una versione della
fanciulla con la candela della Minotauromachia;
la luce dovrebbe respingere il mostro, mentre il cavallo sarebbe simbolo della
Repubblica; per altri invece i ruoli sono capovolti e il cavallo, secondo un’interpretazione
abbastanza sorprendente, rappresenterebbe il nazionalismo spagnolo. Altri
ancora si sono rifatti ai primi lavori di Picasso per far luce sui simboli di Guernica, in particolare alle molte
scene di corrida, e sono rimasti stupiti e al contempo dispiaciuti dall’atteggiamento
ambivalente di Picasso verso il toro e il minotauro, di volta in volta eroe o
mostro: in Sogno e menzogna è il toro
che affronta Franco, incornandolo a morte.
Per
quanto concerne il toro di Guernica,
tuttavia, conosciamo esattamente ciò che Picasso aveva in mente. Dopo la
liberazione di Parigi un soldato americano, Jerome Seckler, lo andò a trovare e
gli chiese di spiegargli il quadro. Il giovane soldato doveva essere
accattivante quanto ingenuo perché, sebbene Picasso fosse stato perseguitato
per più di trent’anni da continue domande di quel genere, lo condusse nel suo
studio al piano superiore, ascoltò pazientemente il giovane mentre analizzava a
briglia sciolta i vari quadri, compreso Guernica,
e gli parlò a lungo, molto gentilmente e credo senza la consueta malizia che
sfoderava quando veniva importunato. Il giovane ricorda: «Gli parlai del
simbolo del toro, del cavallo, delle mani con la linea della vita, eccetera e
dell’origine dei simboli nella mitologia spagnola. Picasso continuava ad
accennare col capo mentre parlavo. ‘Sì’, disse, ‘il toro qui rappresenta la
brutalità, il cavallo rappresenta il popolo. Sì, qui ho usato dei simboli, ma
non negli altri’».
Durante
la medesima conversazione osservò, a proposito delle sue convinzioni politiche:
«Nella mia pittura non c’è una propaganda intenzionale».
«Tranne
che in Guernica», osservò Seckler.
«Sì,
tranne che in Guernica. Lì c’è un
appello deliberato alla gente, un deliberato richiamo propagandistico.»
L’atteggiamento
di Picasso riguardo ai simboli variava: una volta affermò che era compito dell’osservatore
crearli, a partire dal materiale che il pittore gli forniva, e poi
interpretarli, ma nel caso di Guernica
è forse meglio attenersi a quanto ha affermato lo stesso Picasso e accettare il
toro come segno della brutalità e il cavallo come simbolo del popolo: l’allegoria
assume allora un significato universale. Il crimine non è più commesso dai
fascisti in un preciso momento della guerra civile spagnola, ma da ogni potere
stupidamente brutale e fondamentalmente malvagio, e il dipinto diventa un’immane
protesta contro la sofferenza universale che ne deriva. Può anche essere letto
non come un’esortazione morale, ma come un disperato riconoscimento dell’impossibilità
di una vittoria, della sconfitta inevitabile di ogni contendente, così che
dopo ogni guerra non rimangono che esseri abbrutiti in un campo di battaglia
desolato e apocalittico, colmo di odio, privo di decenza, di arte, di umanità.
Questa chiave di lettura è avvalorata dal fatto che Picasso, mentre dipingeva Guernica, fece qualche esperimento con
il papier collé: uno dei collage era una lacrima di sangue che egli spostò da
un volto all’altro, indugiando più a lungo sul toro, quasi fosse una creatura
da compiangere al pari delle altre. Alla fine eliminò la lacrima, ma disse al
poeta José Bergamín: «La metteremo in una scatola e andremo almeno
ogni venerdì ad attaccarla sul toro».
Si
è detto che i simboli di Guernica
sono privati, oscuri, persino ermetici, che il messaggio perciò non riesce e
non può riuscire a raggiungere l’osservatore, e che la grande varietà di
interpretazioni esistenti ne è una dimostrazione; ma si tratta di una critica
più appropriata a un manifesto pubblicitario inteso a esaltare un prodotto o un
avvenimento: può essere applicata a Guernica?
Al di fuori delle scienze esatte, quasi nulla che valga la pena di essere
espresso può essere detto se non in via indiretta; per il fatto stesso di
esistere, un simbolo efficace assume una sorta di potere magico e anche se, in
senso letterale, non può essere compreso se non oscuramente (chi «capisce» le
statue dell’isola di Pasqua o le sculture africane antiche? Eppure, chi non ne
rimane turbato?), viene tuttavia accolto a un livello di sensibilità profonda,
una sensibilità che non ha niente a che vedere con la logica e che reagisce con
forza primordiale. È possibile che il latino della messa, percepito forse
confusamente come semplice suono e probabilmente non inteso affatto nel suo
significato letterale, avesse un effetto assai più profondo delle chiare parole
del vernacolo quotidiano usate nel rito odierno, con le loro associazioni
tristemente banali. E così come è possibile affermare che la vitalità e la
verità dei più riusciti quadri cubisti di Picasso scaturiscano da un fondamento
legato a una realtà osservata, allo stesso modo il valore dei suoi simboli
deriva innanzitutto dalla loro validità per il pittore stesso.
Un’altra
critica rivolta a Guernica riguarda l’elemento
propagandistico insito nel quadro: vi è chi sostiene che, come gli slogan non
sono letteratura, così la propaganda non è arte, la quale non deve aver nulla a
che vedere con la politica né con la morale. Tenendo presenti le parole dello
stesso Picasso, è impossibile negare che si trovi in Guernica un elemento propagandistico: nella sua furia iniziale lo
avrà probabilmente concepito come un’accusa diretta ai fascisti, così come
aveva già fatto per Franco, ma nel corso dell’opera ogni intenzione particolare
e ogni riferimento a eventi immediati furono certamente sublimati.
In
quanto all’universalità di Guernica,
soltanto gli anni futuri, l’obiettività dei posteri, potranno consentire un
giudizio; quanti però credono in essa, e chi scrive è fra questi, hanno trovato
a conferma un alleato nello stesso governo spagnolo, che, lungi dal sentirsi giudicato,
ha fatto di tutto per riportare il dipinto a Madrid. Forse l’arte non ha nulla
a che fare con la politica e con la morale, ma certamente ha molto a che vedere
con la distinzione fra il vero e il falso. A un certo livello la differenza fra
verità estetica e menzogna si fonde con quella fra luce e tenebre: e di fronte
a tale scelta, non c’è dubbio da quale parte Picasso intendesse schierarsi.
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Minotauromachia
acquaforte e raschietto su carta vergata
incisa da Lacourière, autunno 1935
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Sogno e menzogna di Franco
acquatinta su carta di China
prima lastra, incisa da Lacourière, primavera 1937
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Sogno e menzogna di Franco
acquatinta su carta di China
seconda lastra, incisa da Lacourière, 7 giugno 1937
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Testa di cavallo
olio su tela
Parigi, 2 maggio 1937 |
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Guernica, stato 1
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937
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Guernica, stato 2
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937
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Guernica, stato 3
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937
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Guernica, stato 4
Foto di Dora Maar
Parigi, maggio 1937
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Guernica
olio su tela
Parigi, maggio 1937
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Guernica, dettaglio
olio su tela
Parigi, maggio 1937
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Donna che piange
Puntasecca, acquatinta, acquaforte e raschietto su rame
Parigi, 1 luglio 1937 |
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Donna che piange con fazzoletto
olio su tela
Parigi, 17 ottobre 1937
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