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giovedì 18 giugno 2015

Balzac e Picasso in Rue des Grands-Augustins



«C’è crisi. Nonostante il suo ottimismo di fondo, Kahnweiler era preparato. Ormai la si deve affrontare. Il 25 ottobre 1929, la borsa di New York crolla secondo uno schema tutto sommato banale, poiché lo riscontriamo nella crisi che ha colpito la Francia nel 1882 e in quella degli Stati Uniti del 1907. Ma questa sarà più lunga e più ampia.
Si prospettano anni di vacche magre. Il cosiddetto commercio del lusso, qual è il mercato dell’arte, come potrà non soffrirne? ... Kahnweiler ha la sgradevole impressione che niente valga più niente. Nessuno compera. ... Tutti sono nella stessa barca. Ogni tanto il morale risale. Si parla di una leggera ripresa. ... Kahnweiler esprime queste opinioni nelle lettere al cognato Michel Leiris che sta percorrendo l’Africa come segretario-archivista della missione Dakar-Gibuti. Anche le opinioni di quest’ultimo sulla crisi, vista da Dakar o da Yaoundé, sono interessanti: “Ho una gran fretta di essere nella savana, lontano dagli europei imbecilli e dai negri truccati. ... Vista da lontano la situazione europea mi sembra più che mai insensata. In ogni caso essa costituisce la prova più schiacciante dell’inutilità della nostra civiltà”.
Alla galleria ci si annoia a morte. È un deserto. ... Fra il 1929 e il 1933 la galleria Simon non organizza neppure una mostra. Anche l’attività editoriale è considerevolmente ridotta: escono solo le poesie di Carl Einstein e L’anus solaire di Georges Bataille. Gli altri aspetteranno. Non si può ingozzare un pubblico restio.»
Pierre Assouline. Il mercante di Picasso
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990, pp 275-277



Certo, sono anni difficili, aiutati dalla vecchia regola della coperta corta: se la massa ha i piedi al freddo è perché pochi hanno le spalle al caldo. Le gallerie d’arte cercano di sopravvivere e le loro attività collaterali, quali l’edizione di libri da collezione, boccheggiano per mancanza d’ossigeno.
È proprio in questo momento storico che un ricco mercante di quadri, Ambroise Vollard, lancia il guanto e sfida il destino - e qui mi fermo per fare un balzo indietro nel tempo di cent’anni, quando il 31 luglio e il 7 agosto 1831 il periodico L’artiste pubblica Le chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac,[1] che inizia così:

Vers la fin de l’année 1612, par une froide matinée de décembre, un jeune homme dont le costume était de très-mince apparence, entra dans une maison de la rue des Grands-Augustins, ...&tc. &tc.



Ritorno all’anno 1931. Come detto sopra, la crisi morde i polpacci ai poveri e al ceto medio, ma non sono queste masse ad aver reso ricco Vollard. Il mercato ristagna, è vero, ma lui, che ama il rischio (calcolato), chiede a Picasso se ha dei disegni utili ad illustrare una nuova edizione de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tirata in poche copie e in grande formato. Roba di lusso, per collezionisti ricchi.
Scrive Patrick O’Brian in Picasso (pp. 320-321), una biografia già citata in altri miei post:

Un artista al lavoro, talvolta un pittore, talaltra uno scultore, spesso con una modella, fa ora la sua comparsa tra i personaggi di Picasso: una figura che ritroveremo spesso nei suoi quadri, in varie forme, mai però ispirata a un sentimento di autostima.
Spesso si tratta di un uomo tarchiato, con barba, abbastanza «classico» non fosse per i calzoncini corti, dall’aria sbalordita se non stupida, quale a volte può avere un toro; in una delle prime acqueforti l’uomo è seduto davanti al cavalletto e fissa attentamente la modella o qualcosa attraverso di lei; intanto con la destra traccia una mirabile serie di curve e di piani rettilinei che non sembrano avere molta attinenza con la donna: costei, d’aspetto gradevole, di mezz’età, lavora a maglia in grembiule ed è disegnata, al pari dell’uomo, con il perfetto realismo descrittivo che Picasso, quando voleva, sapeva produrre.
Sarebbe interessante sapere se l’acquaforte fu eseguita prima che Vollard parlasse a Picasso della sua intenzione di realizzare un’edizione illustrata del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac, poiché il libro narra di un pittore il cui capolavoro non può essere capito da nessuno se non dal suo stesso autore, ma in proposito gli studiosi hanno pareri contrastanti e anche i ricordi di Vollard sono vaghi. Altrettanto interessante sarebbe sapere se Picasso avesse letto il romanzo o no. Dalla descrizione che ne fece a Geneviève Laporte molti anni più tardi sembrerebbe di no, eppure poche opere gli sarebbero maggiormente piaciute. Molto succintamente la storia, ambientata nel 1612, è questa: il giovane Nicolas Poussin va a trovare il noto pittore Pourbus in Rue des Grands-Augustins e, dopo qualche esitazione, entra nello stesso istante in cui sopraggiunge anche un ricco signore anziano, di nome Frenhofer: Frenhofer critica il lavoro di Pourbus con grande libertà, esprimendo alcune opinioni molto interessanti in fatto di pittura. Poussin, sconosciuto a entrambi, si intromette ed è riconosciuto da ambedue quale un vero artista. Pourbus è gentile con il giovane, lo incita a lavorare, gli dice che Frenhofer era stato allievo di Mabuse e che adesso è pittore dilettante giacché, essendo ricco, non è obbligato a vendere, ma capace al punto che Pourbus ha scambiato i suoi dipinti per quelli di Giorgione. L’amicizia si fa più stretta, grazie anche al fatto che Poussin ha una giovane amante molto bella («una di quelle anime nobili e generose capaci di soffrire accanto a un grand’uomo, condividendone angosce e difficoltà e facendo tutto il possibile per comprenderne gli umori, sopportando l’indigenza e attingendo forza all’amore»), una donna che a Frenhofer piacerebbe avere come modella. Un giorno si trovano tutti nello studio di Frenhofer, dove Poussin vede alcuni quadri di mirabile fattura, che tuttavia Frenhofer giudica di poco conto a paragone del suo capolavoro, un dipinto che egli è estremamente riluttante a mostrare; infine si decide e lo fa vedere agli amici. Poussin non riesce a capire nulla in quel caos di colori, in quelle «gradazioni incerte, in quella specie di bruma informe», tranne «un solo piede, vivo e squisito». Dice però che non riesce a distinguere alcuna figura femminile nel dipinto. Frenhofer piange, per un attimo cerca di confortarsi immaginando che i due siano ladri, ma finisce per bruciare il quadro quella stessa notte, e muore.
Nel 1931, quando finalmente fu pubblicato, il libro conteneva acqueforti e disegni di Picasso puntiformi e cubisti, certamente precedenti all’idea del libro, oltre a qualche acquaforte realizzata per l’occasione; in tutto ottanta illustrazioni.

Sebbene Picasso abbia scelto le incisioni “a naso”, l’unità dell’opera non ne esce alterata. Il successo di critica e di vendita premiano il coraggio dell’editore.



Potrei fermarmi qui, se non fosse che il bello è ancora da venire.
Siamo ai primi giorni di gennaio del 1937 e Picasso, privato del grande studio di Boisgeloup che il tribunale ha assegnato a sua moglie Olga, da cui si è separato, cerca una nuova sistemazione per lavorare. Gli viene incontro Vollard che gli affitta una vecchia casa da lui comperata a Le Tremblay-sur-Mauldre, col granaio trasformato in studio; come abitazione, a Parigi il pittore mantiene i due piani acquistati in Rue La Boëtie, mentre la sua nuova fiamma, Dora Markovich - in arte Dora Maar - vive in un appartamento in Rue de Savoie, vicinissimo al complesso di studi che Picasso ha preso in affitto da alcuni anni, ma che finora ha poco o nulla frequentato.
Lo fa verso la fine di marzo, quando decide di occupare saltuariamente i due piani della vecchia casa del Settecento al n. 7 di Rue des Grands-Augustins, chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino - e il caso vuole che questa fosse proprio la casa in cui Balzac aveva ambientato Le chef-d’œuvre inconnu, una storia che ruota attorno a un pittore ...cubista.
Poche settimane dopo, il 26 aprile, la città di Guernica è distrutta dai bombardieri tedeschi, ma la notizia arriva a Parigi il 28. Nello studio di Rue des Grands-Augustins il primo maggio Picasso esegue i primi cinque schizzi preparatori della tela che a giugno sarà esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi, da allora nota col nome della città martire, Guernica.
Ma è solo nel mese di giugno del 1939 che Picasso si insedia definitivamente al numero 7 di Rue des Grands-Augustins, seppur continuando a conservare l’appartamento di Rue de la Boëtie, dove lascia parte delle sue pitture. Per l’occasione, l’artista decide di far mettere il riscaldamento centrale per rendere abitabili i due piani dell’ex granaio Barrault. Decide anche di impiantare in casa un laboratorio d’incisione e fa venire da Boisgeloup il vecchio torchio e tutto il materiale necessario. Verso la fine di giugno ogni lavoro è terminato e Picasso può iniziare la sua ennesima vita, entusiasmando Vollard con i suoi progetti di stampe per edizioni future. Purtroppo il sogno di Vollard è di breve durata: il 21 luglio, a causa di incidente d’auto, muore dopo essere stato colpito alla nuca da una pesante scultura di Maillol che stava trasportando.



Anno 1940, anno di guerra. Picasso continua ad abitare in Rue La Boëtie, ma i tragitti tra la casa e lo studio divengono difficili. Decide così di trasferire la residenza in Rue des Grands-Augustins, installandovi una camera da letto. Per i pasti, capita spesso in un ristorante che porta un nome suggestivo, Le Catalan - 25, Rue des Grands-Augustins. Ed è qui che una sera di maggio del 1942, mentre sta cenando con Dora Maar, Marie-Laure de Noailles e altri amici, nota due giovani belle donne sedute a un tavolo in compagnia di Cuny, un attore allora in auge. Dopo le presentazioni e scambiata qualche battuta Picasso invita le ragazze a fargli visita nella sua casa-studio e molti anni dopo una delle due, Françoise Gilot, scriverà nelle sue acide memorie (pp 12-15):

Il lunedì seguente, verso le undici, Geneviève e io ci arrampicavamo per una buia e stretta scala a chiocciola, nascosta nell’angolo del cortile acciottolato del numero sette di rue des Grands-Augustins, e bussavamo alla porta dell’appartamento di Picasso. Dopo una breve attesa, la porta si aprì di pochi centimetri per rivelare il naso lungo e sottile del suo segretario, Jaime Sabartés. Non l’avevamo mai incontrato prima di allora, ma sapevamo chi era. Avevamo visto riproduzioni dei disegni che Picasso gli aveva fatto e Cuny inoltre ci aveva avvertito che sarebbe stato lui ad accoglierci. Ci guardò con aria sospettosa e chiese: «Avete un appuntamento?» Risposi affermativamente. Ci lasciò entrare. Aveva un aspetto inquieto e ci scrutava dietro le spesse lenti.
Entrammo in un vestibolo pieno di uccelli - c’erano delle tortore e un certo numero di uccelli esotici dentro a gabbie di vimini - e di piante. Le piante non erano belle; verdi e spinose come se ne vede spesso nei vasi di rame delle portinerie. Là invece erano disposte in un modo più attraente, e facevano un bell’effetto di fronte alla finestra spalancata. Avevo visto una di quelle piante un mese prima, in un ritratto recente di Dora Maar, esposto, a dispetto dei nazisti che avevano messo al bando le opere di Picasso, in un angolo della galleria di Louise Leiris, in rue d’Astorg. Era un magnifico ritratto in rosa e grigio. Sul fondo della tela c’era una vetrata a piccoli riquadri, che riconobbi nella vecchia e grande finestra, una gabbia d’uccelli e una di quelle piante verdi.
Seguimmo Sabartés in una seconda stanza, molto lunga. Disposti su vecchi divani e su sedie Luigi XIII si trovavano chitarre, mandolini ed altri strumenti musicali che pensai Picasso avesse usato per i suoi quadri del periodo cubista. Egli mi raccontò più tardi che aveva acquistato quegli strumenti dopo aver dipinto i quadri, non prima, e che li conservava a ricordo degli anni del Cubismo. La stanza era bella e ampia, ma vi regnava un disordine indescrivibile. La lunga tavola che si stendeva fino a noi e due banchi da falegname, uno a prolungamento dell’altro, ridosso alla parete di destra, erano coperti da pile di libri, di riviste, di quotidiani, di fotografie, di cappelli e di oggetti di vario genere. Sopra uno di questi banchi era posato un pezzo di cristallo grezzo d’ametista, grande quanto una testa umana. Al centro di questo blocco c’era una piccola cavità, totalmente chiusa, piena di qualcosa che sembrava acqua. In un ripiano sotto al tavolo si trovavano una pila di vestiti da uomo e tre o quattro paia di scarpe.
Mentre costeggiavamo la grande tavola centrale, notai che Sabartés girava attorno a un oggetto di color bruno scuro, posato sul pavimento, vicino alla porta che dava nella stanza accanto. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di una scultura: un cranio in bronzo.
La stanza successiva era uno studio quasi totalmente stipato di sculture. Vidi così L’uomo col montone, ora fuso in bronzo e collocato nella piazza del mercato di Vallauris, e che, a quel tempo, era semplicemente di gesso. C’erano inoltre numerose grandi teste di donna che Picasso aveva eseguito a Boisgeloup, nel 1932, un ammasso di manubri di bicicletta, rotoli di tele, un Cristo spagnolo di legno policromo del XV secolo, e una bizzarra e affusolata scultura, rappresentante una donna che teneva in una mano una mela e nell’altro braccio qualche cosa che assomigliava a una borsa dell’acqua calda.
La cosa più sorprendente, tuttavia, era costituita da uno squillante Matisse, una natura morta del 1912, che rappresentava una fruttiera piena d’arance posata sopra una tovaglia rosa e contro un fondo oltremare e color rosa di Tiro. Ricordo anche un Vuillard, un Doganiere Rousseau e un Modigliani; ma in quello studio avvolto d’ombra, lo splendore del Matisse squillava fra le sculture. Non potei trattenermi dall’esclamare: «Oh, che bel Matisse!» Sabartés si volse e disse, austero: «Qui non c’è che Picasso!»
Per un’altra scaletta a chiocciola, all’estremità della stanza, salimmo al secondo piano dell’appartamento di Picasso. Là il soffitto era molto più basso. Passammo in un grande studio. Sul fondo, circondato da sette od otto persone, scorsi Picasso. Indossava un vecchio paio di pantaloni che gli stavano larghi e una maglia da marinaio a righe bianche e blu. Quando ci vide il suo volto si illuminò di un sorriso. Lasciò il gruppo e ci venne incontro. Sabartés brontolò qualcosa circa il nostro appuntamento e scomparve.
«Volete vedere lo studio?» chiese Picasso. Rispondemmo di sì. Speravamo che ci mostrasse dei quadri, ma non osavamo chiederlo. Ci ricondusse al piano inferiore, nello studio di scultura.
«Prima che m’installassi qui,» disse, «questo primo piano era il laboratorio di un tessitore, quello di sopra, lo studio di Jean-Louis Barrault. In questa stanza ho dipinto Guernica.» Si era seduto su una tavola Luigi XIII, davanti alle finestre che davano sul cortile interno. «A parte questo, non lavoro quasi mai in questa stanza. Ho scolpito qui L’homme au mouton,» disse indicando il grande gesso dell’uomo che tiene fra le braccia la pecora, «ma dipingo lassù e, di solito, eseguo le sculture in un altro studio che si trova poco più avanti su questa strada. «La scala a chiocciola che avete preso per venir qui è quella che il giovane pittore de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac saliva per andar a trovare il vecchio Pourbus, l’amico di Poussin che dipingeva tele non comprese da nessuno. Oh, tutto il luogo è ricco di fantasmi storici e letterari. Bene, torniamo su.» Scivolò giù dalla tavola e lo seguimmo per la scaletta a chiocciola. Ci condusse attraverso il grande studio, attorno al gruppo dei visitatori, nessuno dei quali alzò la testa al nostro passaggio, fino a una piccola stanza, proprio in fondo.
«Qui lavoro alle mie incisioni,» disse. «Guardate qui.» Si diresse verso l’acquaio e aprì il rubinetto. Dopo un po’ l’acqua prese a fumare. «Meraviglioso, vero? Nonostante la guerra ho l’acqua calda. Del resto,» aggiunse, «potete venire a fare il bagno quando volete.» Ma non era l’acqua calda che ci interessava, nonostante che allora fosse scarsa. Guardando Geneviève pensai: «La smettesse di parlare dell’acqua calda e ci facesse vedere almeno dei quadri!» Invece cominciò a tenerci un piccolo corso sulla tecnica dell’acquaforte e stavo proprio pensando che con tutta probabilità ce ne saremmo dovute andare senza vedere alcuna delle sue opere e che non saremmo mai più ritornate, quando, finalmente, ci condusse nel grande studio e ci mostrò alcuni quadri. Ricordo un gallo, ricco di colore e forte nell’impostazione, che lanciava un vigoroso chicchirichì. Ricordo anche un altro quadro, dello stesso periodo, molto rigoroso e tutto in bianco e nero.
Verso l’una, il gruppo dei visitatori ci lasciò e ciascuno prese congedo.
Ciò che mi colpì in modo curioso fin da quel primo giorno fu il fatto che lo studio sembrava il tempio di una specie di «religione picassiana», e che tutti i presenti apparivano completamente immersi in quel culto - tutti, eccetto quell’uno cui quell’attenzione era rivolta. Egli sembrava prender tutto per scontato, senza dare importanza a nulla in particolare come se volesse mostrarci che non intendeva affatto essere al centro di un culto.
Mentre ci apprestavamo ad andarcene, Picasso ci disse: «Se volete ritornare, fatelo. Ma non come pellegrini che vanno alla Mecca. Venite perché trovate interessante la mia compagnia e perché volete avere con me uno scambio semplice e diretto. Se volete vedere soltanto i miei quadri, potete benissimo andare in un museo.»
Non presi troppo seriamente quest’osservazione. Prima di tutto perché a quel tempo non c’era quasi alcun Picasso nei musei parigini. Secondo, perché egli si trovava nella lista dei pittori proibiti dai nazisti e nessuna delle gallerie private poteva esporre apertamente le sue opere e in una certa quantità. E a un pittore non basta vedere le opere di un altro pittore riprodotte in un libro. Per conoscere meglio i suoi lavori, ed era il mio caso, la cosa più semplice era di recarsi al numero 7 di rue des Grands-Augustins.

Per essere la prima visita, i fin troppo precisi dettagli rendono poco credibile questo racconto. Comunque sia, per alcuni anni i due si frequentano come amici, finché, scrive ancora la Gilot, «una sera sul presto, verso la fine di maggio 1946, mentre mi preparavo a lasciare Rue des Grands Augustins per tornare dalla nonna, Pablo ricominciò a insistere … e rimasi lì, senza dire addio e senza dare una spiegazione a nessuno … Non uscii di casa per un mese intero dal giorno in cui ero andata a vivere con Pablo.»
Risultato: da questa relazione il 15 maggio 1947 nasce un figlio, Claude. Il mese dopo la famiglia si sposta al Sud, a Golfe-Juan, dove abitano la casetta di Louis Fort. Nell’autunno Picasso comincia a lavorare nella fabbrica Madoura di Vallauris condotta dagli amici Ramié: un nuovo amore, una nuova casa è la costante di Picasso.


Françoise Gilot e Pablo Picasso
by Robert Doisneau, 1952

Gran finale. A Milano, sotto i portici di piazza Diaz, una volta al mese si tiene una ricca fiera del libro usato. Domenica scorsa, 14 giugno 2015, vengo attratto da una custodia marroncina, quadrata. La prendo, sfilo il libro e che mi ritrovo tra le mani? La riedizione de Le chef-d’œuvre inconnu curata nel 1966 dalle Éditions L.C.L. Il colophon recita (in francese, qui da me tradotto): Questo volume della collezione «Les Peintres du Livre» composto in carattere Bodoni corpo 18 è stato tirato dallo stampatore Firmin-Didot, Parigi - Mesnil - Ivry su carta Blanchemer delle Papeteries Prioux. La stampa delle illustrazioni è stata curata dall’Imprimerie Genése di Parigi. La rilegatura è stata realizzata da Bonnet-Madin a Dreux. La tiratura è stata limitata a 3000 esemplari numerati da 1 a 3000 e a 50 esemplari fuori commercio marcati H. C. destinati ai fondatori e ai collaboratori della collana.
Questa copia porta il numero 1490. Dentro vi sono le incisioni di Picasso, mentre il Pittore osservato dalla modella nuda è stampato e inserito a parte, su cartoncino bianco, fuori dal libro.
Domando: «Quanto chiede per questo libro?».
«Dieci euro.»
È in casa.

[1] Racconto inserito lo stesso anno 1831 nel terzo tomo dei Romans et contes philosophiques par M. Balzac, Paris, Charles Gosselin Libraire, poi ripubblicato con leggere modifiche nel 1847 col titolo Gillette ne Le provincial à Paris par H. de Balzac, Paris, Gabriel Roux et Cassanet Éditeur.



Atelier di Rue des Grands-Augustins
Guernica, dettaglio, 1937
by Dora Maar


Picasso e la stufa
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1939



Kazbek
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944

Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944


Pittore osservato dalla modella nuda, 1927






  

domenica 14 dicembre 2014

Gertrude Stein e Alice B. Toklas viste da Françoise Gilot

Per tornare a scrivere degli artisti attivi a Parigi nei primi anni del Novecento ho ripreso in mano non pochi libri, utili a rinfrescarmi le idee e a confrontare le diverse opinioni.
Interessante è stata la lettura (o rilettura) di molte biografie su Picasso: in casa ne ho una trentina, inclusi i lavori del servile Jaime Sabartés, del preciso Jacques Perry e del monumentale John Richardson (la sua biografia in lingua inglese si sviluppa su 4 volumi di grande formato, di cui solo il primo tradotto in Italia e in Francia).
In aggiunta, mi sono riletto i libri “cubisti” di Gertrude Stein ed ho fatto approfondite ricerche sulla sua vita prima di arrivare a Parigi, consultando non pochi Atti prodotti dagli annuali incontri di Baltimora sul tema lesbismo e suffraggette” (reperibili in rete). E qui, com’è facile comprendere, facendo ricerche sulla Stein mi sono trascinato appresso il rimorchio Alice B. Toklas, la sua fedele “mogliettina”, e i loro precedenti amori.
Quale antipasto, propedeutico ai miei prossimi scritti su Picasso a Parigi e sulla coppia Stein-Toklas, introduco alcune pagine estrapolate da Vita con Picasso, il rancoroso e poco preciso libro nato dalla collaborazione tra Carlton Lake, critico d’arte e scrittore, e Françoise Gilot, la donna che dopo dieci anni di convivenza – dal 1943 al 1953 - ha lasciato Picasso portandosi appresso i loro due figli, Claude, nato nel 1947 e Paloma, nata nel 1949 (ma non le due case che lui le aveva intestato, una a Vallauris, l'altra a Parigi).

Aggiungo: quanto qui sotto raccontato si posiziona temporalmente nella primavera del 1945, quando la coppia Stein-Toklas aveva già abbandonata la casa al numero 27 di rue de Fleurus per trasferirsi in appartamento al numero 5 di rue Christine. Gertrude Stein morirà di cancro all’ospedale Neuilly-sur-Seine il 27 luglio 1946. Alice B. Toklas morirà a Parigi il 7 marzo 1967. Sono entrambe sepolte al Père Lachaise, division 94.

Nata nel 1921, sopravvissuta a Picasso (morto nel 1973) e a due mariti - il pittore Luc Simon da cui ha divorziato nel 1962, e Jonas Salk, l'inventore del vaccino antipolio, con cui è rimasta sposata per 25 anni fino alla sua morte nel 1995 - Françoise Gilot lavora tuttora a tempo pieno come pittrice nella sua casa-studio di New York. In più di una intervista lei stessa ha raccontato come nel 1964, al termine della terza causa intentatagli dagli avvocati di Picasso al fine d’impedire l’uscita del libro Vita con Picasso - strenuo difensore della sua vita privata -lui la chiamò al telefono e le disse: «Ciao, hai vinto e a me piacciono i vincenti». Come dire: la classe non è mai acqua (anche per i Minotauri).
E adesso si può partire:


Quell’inverno Picasso mi aveva prestato L’Autobiografia di Alice B. Toklas. La trovai molto divertente e gli dissi che mi avrebbe fatto piacere conoscere Gertrude Stein. Una mattina di primavera egli mi disse: «Questa settimana andremo da Gertrude. Ti divertirà. Inoltre ho molta fiducia nel suo giudizio. Se lei ti approva, avrò di te un’opinione ancora migliore.» Da quel momento mi passò tutta la voglia di conoscerla. Ma dovevo andarci, Picasso aveva già preso l’appuntamento.
Quel giorno feci colazione con Picasso al Catalan. Era insolitamente allegro, ma io non potevo mandar giù un solo boccone. Verso le tre e trenta salimmo la grande, fredda scala della casa di Gertrude Stein, in rue Christine, e Picasso bussò alla porta. Dopo una breve attesa, la porta venne socchiusa, quasi di malavoglia, come quella dello studio di rue des Grands-Augustins. Attraverso lo spiraglio scorsi un volto magro e bruno dalle palpebre pesanti, dal lungo naso ricurvo, la bocca sottolineata da una peluria scura e folta. Quando questa apparizione riconobbe Pablo, la porta si aprì un poco di più e mi trovai davanti a una vecchietta con un enorme cappello. Era Alice B. Toklas.
Ci fece entrare nel vestibolo e salutò Pablo con una profonda voce da baritono. Quando egli mi presentò, essa brontolò un «buongiorno, signorina», con l’accento di un comico che imiti un turista americano che parla francese. Ci togliemmo il cappotto appendendolo in un piccolo vano, passammo in un ambiente più grande pieno di quadri, molti dei quali appartenevano al periodo cubista e per la maggior parte erano di Picasso e di Juan Gris, e sbucammo in un salotto inondato di sole. Là, in una poltrona, di fronte alla porta, sotto il suo ritratto dipinto da Picasso nel 1906, sedeva Gertrude Stein, larga, solida, imponente, la zazzera grigia tagliata cortissima. Indossava una gonna marrone che scendeva quasi fino alle caviglie, una brutta camicetta beige e aveva i piedi nudi dentro pesanti sandali di cuoio.
Picasso mi presentò e lei mi fece cenno di prendere posto su un divano di crine, che si trovava di fronte. Pablo si sedette sul davanzale di una finestra, accanto a lei, ma un poco più indietro, il dorso volto alla luce come se desiderasse dominare la scena senza essere obbligato a parteciparvi. Un lampo nei suoi occhi indicava che si aspettava di divertirsi moltissimo. Alice Toklas si sedette sul mio divano, ma il più discosto possibile. Al centro del nostro piccolo cerchio erano disposti parecchi tavolini, pieni di vassoi con petits fours, dolci, biscotti e ogni genere di ghiottonerie di cui si era perduto il ricordo.
Mi sentii intimidita dalle prime domande di Gertrude Stein; un po’ taglienti e qualche volta ovvie. Era evidente che si stava chiedendo: che cosa c’è fra Pablo e «questa ragazza»? Prima in inglese, poi in francese, un francese non molto corretto, cercava di farmi parlare. Era peggio che agli orali della maturità.
Risposi meglio che potevo, ma l’enorme cappello di Alice Toklas mi distraeva. In grigio antracite e nero, il largo cappello ornato di una sottile guarnizione grigia, sembrava si fosse vestita per un funerale, ma il taglio era evidentemente di prima qualità. In seguito venni a sapere che si vestiva da Pierre Balmain. Mi sentivo a disagio per quella presenza che mi stava accanto. Aveva un’aria ostile, come se fosse prevenuta nei miei confronti. Parlava di rado, contentandosi di fare qualche precisazione al discorso di Gertrude Stein. La sua voce era bassa e rauca come quella di un uomo e si poteva sentir l’aria fischiare fra i suoi denti. Ne risultava un rumore sgradevolissimo, come quando si affila una falce.
Via via che il pomeriggio trascorreva, l’interrogatorio di Gertrude Stein si fece meno serrato. Voleva sapere sino a che punto conoscessi la sua opera e se avevo già letto gli scrittori americani. Per fortuna ne avevo letti parecchi. Mi disse che era la madre spirituale di tutti: Sherwood Anderson, Hemingway, Scott Fitzgerald. Insistette in modo particolare sull’influsso che aveva esercitato su Dos Passos e su Erskine Caldwell. Voleva farmi capire l’importanza del suo ascendente, perfino su quelli che non si erano mai seduti ai suoi piedi, come Faulkner e Steinbeck, ad esempio. Affermò che senza di lei la letteratura moderna americana non sarebbe stata quella che è ora.
Dopo aver fatto il punto sui problemi letterari, passò al campo della pittura e cominciò a incalzarmi con domande sul cubismo. Con tutta la pedanteria dei miei ventitré anni rispondevo con quelle che sembravano osservazioni appropriate sul cubismo analitico, sul cubismo sintetico, sull’influsso dell’arte negra, di Cézanne, e via dicendo. Non che volessi fare una buona impressione su di lei, ma desideravo semplicemente non deludere Pablo. Da ultimo si voltò, e, indicando il suo ritratto, eseguito da Picasso, mi chiese: «Che ne pensa?» Sapevo che i suoi amici avevano trovato che, pur essendo all’inizio diversa dal ritratto, dopo un po’ gli veniva ad assomigliare. E glielo dissi. Ma secondo me, continuai, in tutti quegli anni lei era andata cambiando completamente perché non gli assomigliava più affatto. Ora, semmai, era molto più vicina all’immagine che mi facevo di un monaco tibetano. Mi guardò con disapprovazione.
Ma la cosa più fastidiosa in tutto quel pomeriggio, era che in tutto questo tempo Alice Toklas non stava mai ferma, si alzava, si sedeva, si rialzava, usciva e rientrava nel salotto portando dolci e offrendoli in giro. Prendeva un’aria così severa ad alcune delle mie risposte. Forse non le trovava abbastanza rispettose.
Certo, io ammiravo Gertrude Stein, ma non vedevo la ragione per cui si dovesse coprirla di fiori. Così, ogni volta che dicevo qualcosa che non le andava a genio, Alice Toklas mi metteva sotto il naso un altro piatto di dolci ed ero costretta a prenderne uno. Poiché erano dolci molto farciti e zuccherati e non c’era nulla da bere, non era facile parlare. Forse avrei dovuto complimentarla per il suo talento culinario, ma mi limitavo invece a mangiare i suoi dolci e a riprendere il discorso con Gertrude Stein. E così quel giorno me la inimicai di certo. Ma Gertrude Stein - a giudicare dai suoi scoppi di risa - sembrava trovarmi piuttosto divertente, almeno per il momento. Verso la fine di quel pomeriggio, lasciò la stanza e tornò con tre dei suoi libri. Ricordo che uno di essi era Wars I have seen. In tutti fece la dedica e in questo citato scrisse: «La rosa è una rosa è una rosa è una rosa... una volta ancora per Françoise Gilot.»
Al momento di congedarci Gertrude Stein mi disse: «Ora può venirmi a trovare da sola.» E qui vi fu un altro sguardo cupo di Alice Toklas. Sarei ritornata se non fossi stata tanto terrorizzata dalla piccola appendice della Stein, ma poiché lo ero mi ripromisi di non mettere mai più piede in quella casa.
Durante tutto quel tempo Pablo non aveva detto una parola, ma potevo vedere il suo sguardo illuminarsi e leggere i suoi pensieri di tanto in tanto. Evidentemente voleva vedere come mi destreggiavo sulle sabbie mobili. Eravamo sulla soglia quando egli le disse con candore: «Hai scoperto di recente altri pittori?» Gertrude Stein dovette intuire il tranello, perché chiese: «Che vuoi dire?» «No, cara Gertrude, tu sarai la nonna della letteratura americana, ma sei certa di aver avuto nel campo della pittura un giudizio altrettanto sicuro sulla generazione venuta dopo di noi? Finché si trattava di scoprire Matisse e Picasso, tutto bene. Sei arrivata fino a Gris, ma da allora mi sembra che le tue scoperte siano un po’ meno interessanti.»
La Stein appariva stizzita, ma non rispose. Per conficcare il ferro ancora più profondamente nella piaga, Pablo disse: «Tu hai dato una mano a scoprire una generazione, e questo è molto bello, ma scoprirne due o tre, qui sta il difficile e non credo che tu ci sia riuscita.»
Ci fu un momento di silenzio, poi lei disse: «Ascolta, Pablo, io dico a un pittore che cosa c’è di buono nella sua pittura e in questo modo lo incoraggio a coltivare in profondità il suo talento. Finisce che quello che c’è di cattivo nella sua pittura sparisce, perché egli se ne dimentica. Non so se il mio senso critico abbia perso la sua acutezza, ma sono certa che i consigli che ho dato ai pittori sono sempre stati costruttivi.»
In seguito, rividi qualche volta Gertrude Stein in rue de Buci, verso mezzogiorno, intenta ai suoi acquisti. Mi sembrava che avesse lo stesso abito, coperto ora da un cappotto, che le avevo visto il giorno in cui io e Pablo eravamo stati a farle visita. Essa insisteva sempre - in modo amichevole - che andassi a trovarla in rue Christine. Rispondevo di sì, ma non ne feci mai nulla, perché mi era più facile rinunciare a lei piuttosto che trovarla in compagnia di Alice B. Toklas.

© Per le fotografie di Giancarlo Mauri

La prima edizione italiana,
19 febbraio 1938

Rue Christine
novembre 2014

5, rue Christine
ottobre 2013
Le Buci (Bussi nel XIX secolo)
novembre 2014

Gertrude Stein e Alice Toklas, al n. 5 di rue Christine,
ph. Cecil Beaton (1938)

Gertrude Stein, al n. 5 di rue Christine (1938)

Gertrude Stein e Alice Toklas,
ph. Carl Mydans (1944)

Dora Maar, Portrait of Alice B. Toklas (1952)

Alice Babette Toklas (1877-1967)
in uno scatto del 1959

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27, Rue de Fleurus