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domenica 8 maggio 2016

Picasso e Max Jacob visti da Misia Sert

Max Jacob, by Pablo Picasso (1907)

MISIA
di Misia Sert
Titolo originale: Misia
1952 Librairie Gallimard
Traduzione di Nancy Marotta
Adelphi Edizioni 1981
pp. 227-238

[…] Sì, proprio per un eccesso d’amore Reverdy si allontanava da un mondo dai molti spigoli che rischiavano di ferirlo a morte.
E tuttavia, degli amici, delle pietre e della luce di Parigi l’artista che egli era aveva bisogno come ogni altro. Di Picasso, per esempio, non poteva fare a meno. Fin da giovane gli aveva dedicato un fervore che nessuna tempesta poté offuscare.
Il caso di Picasso, ora che la sua vita, come la mia, è entrata nel suo ultimo ciclo, mi appare un esempio ben tipico dell’equivoco a cui è improntata la vita artistica dopo la guerra del 1914. Lo snobismo di coloro che parlando di lui si contentano di alzare le spalle definendolo un «grosso bluff» mi esaspera, se possibile, anche più di quello dell’orda dei sedicenti iniziati che fanno di Picasso un Dio Indiscutibile, la cui minima stupidaggine scarabocchiata su uno straccetto sarà costosamente incorniciata e troneggerà al posto d’onore nell’appartamento del fortunato possessore. Ambedue gli atteggiamenti sono ridicoli, ma, ahimè!, col tempo sono divenuti egualmente pericolosi. Perché la vastità della fama di Picasso, probabilmente unica nella storia, trattandosi d’un artista vivente - visto che dall’Australia all’Oklahoma non c’è essere umano che sappia leggere che non conosca il suo nome -, comporta una responsabilità altrettanto ponderosa. Si rende egli veramente conto delle proporzioni di questa responsabilità, soprattutto nei confronti dei giovani? Questa gioventù sconvolta, straziata, cresciuta davanti allo spettacolo del crollo di tutto quello che le si era insegnato a rispettare... Una gioventù che non crede più a niente, perché ha visto scalzare i valori reputati indiscutibili, calpestare la morale più elementare -ma pur sempre assetata di ideali e di bellezza come lo saranno tutti i giovani di ogni epoca finché ci sarà il mondo...
Che lui lo voglia o no, Picasso è uno dei rarissimi astri che sono passati attraverso lo sconquasso e le macerie di questo mezzo secolo senza che la sua capacità di attrazione abbia cessato di crescere. Anzi. Per centinaia di migliaia di intellettuali sparsi in ogni parte del globo, oggi il suo nome non evoca solo un genere di pittura, ma piuttosto una scuola, una posizione spirituale o morale - perfino una certa visione dell’esistenza - un atteggiamento che va molto al di là dell’estetica e sconfina con la filosofia e addirittura con la politica. Per quanto possa sembrare inverosimile, parlate con dei ragazzi di vent’anni e vedrete che essere per Picasso non vuol certo dire limitarsi a preferire il cubismo a un’altra corrente e, in genere, la pittura di Picasso a quella di un altro artista. Vi renderete subito conto che ciò implica ogni sorta di diverse posizioni relative a un mucchio di problemi. Posizioni molto spesso negative e quasi sempre vaghe, nel senso che l’adepto avrebbe una grande difficoltà a definirle.
Ai tempi della mia giovinezza eravamo un gruppetto di qualche decina di persone ad amare un quadro di Bonnard, una poesia di Mallarmé o un balletto di Stravinsky. Oggi, troverete non migliaia, ma milioni di essere umani pronti a dichiararvi che adorano Picasso. Tra queste il vostro calzolaio, il muratore all’angolo della strada o il signore che viene a riparare lo scarico del lavandino.
Nell’universalità di una simile religione, in sé e per sé non vedo niente di male. Ciò che mi sconvolge, e insieme mi terrorizza, è l’idea di un dio del quale gli appassionati adepti ignorano completamente i precetti - dato che lui stesso non ha mai cercato di stabilirli. Egli è stato trasportato da una marea montante che l’ha deposto su una sommità fittizia dove chiunque può raffigurarselo attraverso la luce d’un prisma moltiplicato all’infinito, che permette a ognuno di vederlo secondo l’angolazione scelta.
Eppure l’uomo, sotto questa inverosimile ondata di gloria, non ha cessato di essere la tenera argilla di cui è plasmato ogni artista: ed è questo che mi mantiene profondamente legata a lui. Non posso credere che egli non abbia mai dubitato - e anche in certi momenti, disperato. Tuttavia, il pubblico s’impadronisce avidamente di qualunque cosa di Picasso senza che mai si sia levata la voce del bambino del racconto di Andersen che, malgrado la cieca ammirazione delle folle prosternate, gridò nella sua innocenza: «Ma il re è nudo!». Lui, Picasso, in molti casi lo sapeva. Non si fanno 365 capolavori all’anno... e a Picasso è capitato di dipingere diverse tele al giorno...
Ho troppo amato e apprezzato le sue qualità profonde e costanti per fargli il torto di credere che lui per primo possa essere pienamente soddisfatto di alcune delle innumerevoli opere che la gente si è accaparrata come fossero obbligazioni del Canale di Suez.
Picasso è un tenero, e il suo gusto è così perfetto da avere del miracoloso. Per giudicarlo, guardate la casa che si è scelto in rue des Grands-Augustins. Ne conosco poche così sobriamente belle e nobili.
... Ma quest’uomo la cui influenza è sopravvissuta a tutti gli sconvolgimenti è, per un certo verso, di una fragilità smisurata: niente, ai suoi occhi, ha mai valso la pena di sopportare cinque minuti di imposizione, di sforzo e, soprattutto, di noia. La sua giovinezza, intrecciata con quella di Apollinaire in un’epoca in cui era così poco grave dire con la massima serietà: «sinistra e destra, bene e male, nero e bianco, non presentano che differenze apparenti ma puramente convenzionali...», non solo l’ha segnato profondamente, ma gli ha fatto prendere una strada che si è immediatamente rivelata quella d’un favoloso successo. Come si può biasimarlo?
Pure, a rischio di sembrare più realista del re, mi sento obbligata a dire: «Picasso ha in sé infinitamente più di quanto ha dato».
Forse farò sorridere i suoi zelanti ammiratori. «Che cosa si può chiedere di più che essere il sommo tra i più illustri?» mi si dirà.
Il fatto è che, avendolo conosciuto così giovane, credo che meritasse molto di più di quella vita - per quanto gloriosa -, nel corso della quale non credo che Picasso uomo abbia realizzato tutto quello che aveva in sé.
Certamente i mercanti e coloro che si sono autoconsacrati sacerdoti della sua religione gli hanno fatto un grandissimo torto (un po’ come i proustiani hanno fatto venire a molta gente la nausea di Marcel Proust). Quando parlo di mercanti lascio da parte Rosenberg; quando egli, alla fine, partì per l’America, lasciò Picasso libero di occuparsi della divulgazione della propria pittura, abbandonandolo inerme nelle mani di quella specie di amici che vi fanno fare solo importanti e gravi sciocchezze...
Rosenberg avrà anche ammucchiato dei Picasso nelle sue cantine in attesa che i prezzi decuplicassero, tirandoli fuori solo col contagocce. Ma almeno seppe scegliere con un fiuto meraviglioso i quadri migliori, ed ebbe l’abilità di esperii a ragion veduta. Le sue mostre offrivano al pubblico qualche decina di tele abilmente selezionate e messe splendidamente in risalto dalle cornici, dalla disposizione e dal colore dello sfondo, che donavano loro quell’aspetto raro e prezioso di cui questa pittura (malgrado i prezzi richiesti) aveva un assoluto bisogno. Almeno la percezione dell’importanza dell’opera di Picasso era ancora circoscritta a un nucleo di collezionisti che era perfettamente plausibile provassero interesse per lui. Ahimè! poco dopo la guerra andai a una di quelle grandi esposizioni ufficiali al Museo d’Arte Moderna, quai de Tokio: ai quadri di Picasso era riservata un’immensa sala dai muri nudi e freddi; erano appesi a chiodi e ganci senza alcuna cornice e come a casaccio, secondo le dimensioni o l’ordine d’arrivo.
Ero appena entrata in quella sala che una vera e propria angoscia mi strinse il cuore. Una folla di perdigiorno, di macellai e di erbivendoli vagava là dentro sganasciandosi dalle risate davanti all’una o all’altra di quelle povere tele consegnate tutte nude alla pubblica idiozia... Avevo il senso d’un sacrilegio. Lacrime che ero incapace di controllare colavano scioccamente dai miei occhi increduli davanti a un tale massacro... Un guardiano, stile Courteline, mi batté gentilmente sulla spalla per dirmi: «Su, su, signora mia, non bisogna prendersela... Che direste allora se, come me, foste obbligata a star qui tutto il giorno!».
L’uomo del sipario di Parade, della scenografia di Tricorne, l’amico di cui seguivo da più di trent’anni la battaglia che ingaggiava continuamente con se stesso, aveva acconsentito a tutto questo...! (All’improvviso mi ricordai di una sua minuscola tela, una tauromachia di un verde ideale, per la quale avevo trovato una cornice talmente perfetta che per anni quei pochi centimetri di pittura mi erano sembrati l’oggetto più prezioso del mondo...).

Sipario per Parade, by Pablo Picasso (1917)
Poco dopo aver visitato quella sinistra Esposizione provai il bisogno di andare a trovare Picasso nel suo studio in rue des Grands-Augustins. Sentivo il bisogno di trovarmi faccia a faccia con l’uomo, l’amico che m’aveva scelta come testimone alle sue nozze, come madrina del suo primo figlio. Attraversai il grande cortile lastricato del palazzo povero e sontuoso che gli si addiceva tanto e salii i gradini di una delle più belle scale di Parigi per accedere al pianerottolo dove lavorava. Mi mostrò le alte stanze dai soffitti sostenuti da travi enormi, gli angoli - il suo tesoro che accoglieva statuette d’arte negra, oggetti semplici scolpiti in materiali levigati dai secoli - e più in là, con una gioia infantile, la vasca da bagno e i lavabi nei quali, appena ebbe girato i rubinetti, scese un’acqua così bollente che ci trovammo istantaneamente in un bagno di vapore! (Di quest’ultimo dettaglio era particolarmente orgoglioso... e a ragione, se ci si raffronta a un periodo in cui il carbone e il riscaldamento rappresentavano il colmo del lusso!).
Con le sue mani commoventi, staccò dal muro i quadri per metterli alla portata della mia vista indebolita. Ce n’erano decine e decine... Come mi sarebbe piaciuto potergli dire che li adoravo! Come sarebbe stato felice di vedermene portare via uno!... Ahimè! Di tutto ciò che faceva in quel periodo non c’era una sola tela di fronte alla quale avrei potuto vivere. L’amavo infinitamente troppo per essere capace di barare con lui sui miei sentimenti. Quando mi riaccompagnò alla porta e mi abbracciò, vidi i suoi grandi occhi limpidi velarsi di lacrime... cosa non avrei dato per potergli dire: «Adoro quella tela la...».
Mi ritrovai in macchina; piangevo senza ritegno per tutto ciò che non era stato...
La mostra dei quadri senza cornici corrispondeva pressappoco all’epoca in cui Picasso s’era iscritto al partito comunista. Aveva finito per farlo probabilmente per stanchezza, a forza d’essere sollecitato dalla gente che gli stava intorno. Forse fu lui il più sorpreso di tutti nel vedere, un bel mattino, la sua fotografia e il suo nome campeggiare più o meno su tutta la prima pagina dell’«Humanité». Si vede che, un giorno che era in vena di firme (cosa che gli succedeva il meno possibile, data la sua ripugnanza per ogni decisione...), ne avevano approfittato per fargli firmare una scheda d’adesione!
Picasso comunista, che bandiera per i Soviet! E cosa poteva esserci di più logico da parte loro che sfruttare al massimo un nome tanto prestigioso?... Ma qui cominciava il pericolo. Picasso era da tempo la bandiera di se stesso. Perché limitarsi a un partito e diventare il suo migliore strumento di propaganda? Che Picasso sia «a sinistra», anzi completamente di sinistra, ringraziamo Iddio! Ma, è forse questo, per un artista, motivo valido per farsi prigioniero della più rigida delle dottrine? Picasso se ne è reso conto molto presto: tuttavia l’enorme peso che lui rappresentava era già stato buttato sulla bilancia.
Che responsabilità spaventosa! Quante migliaia di intellettuali, di giovani ansiosi di rendersi utili avevano già seguito senza la minima esitazione colui che ammiravano con ardore?... Forse, la sua decisione egli l’ha revocata con la stessa facilità con cui l’aveva presa... ma gli altri, hanno potuto permettersi un gesto del genere?
Questa sensazionale adesione ha ricordato a molti nostri amici quella di Gide. Conosco André Gide fin dall’infanzia. Una prolungata - e quanto penosa! - crisi di coscienza l’aveva portato a vedere la verità (o quello che lui credeva le fosse più vicino) nel comunismo. Dopo il suo viaggio in URSS aveva aperto gli occhi. Resosi conto della portata e delle dimensioni del suo errore, attraversò ancora una volta un’atroce crisi spirituale e si sentì in dovere di pubblicare subito un libro la cui stesura dovette essere un vero e proprio calvario. Sebbene per me sia sempre stato un amico, io non mi sento vicina a Gide: il suo rigido protestantesimo, le sue lunghe dispute con se stesso sono l’opposto di quanto mi attrae. L’amore, secondo me, è una rivelazione accecante che si impone in maniera talmente evidente che non c’è più ragione di discuterne. Ma Gide è uno scrittore, un filosofo. Mi reputerei molto sciocca se non riconoscessi tutta l’importanza della sua opera e, per di più, ho una particolare stima di lui per la sincerità che ha dimostrato in tutto.
In un secolo in cui non si parla che di persone ‘impegnate’, probabilmente era necessario che un pensatore della statura di André Gide definisse la propria posizione riguardo una dottrina che sta sconvolgendo il mondo. Ma Picasso?... Che andava a fare in quella galera? Nessuno può obbligare un pittore a impugnare una bandiera politica...
So benissimo che oggi la regola è che i musicisti facciano dell’architettura, i pittori della letteratura, gli scrittori della scultura, ecc... Per quanto mi riguarda, ho orrore dei pasticci. Non che non mi piaccia scherzare, ma ho sempre trovato giusto che ci siano dei limiti. Credo che, a forza di estenderli, e col povero pretesto di fare scalpore, si è spesso arrivati sull’orlo del baratro. Se Picasso si diverte a dire a qualche amico: «Anch’io posso scrivere un lavoro teatrale» e a scrivere una farsa in cinque atti intitolata Le désir attrapé par la queue, non ci vedo niente di male, e probabilmente se fossi stata presente l’avrei anche trovato molto divertente. Che ci sia un editore così balordo da pubblicare questa ingenua farsa goliardica e farne un’edizione su carta di lusso speculando sul nome dell’autore, questo mi sembra molto stupido (a maggior ragione se si tiene conto che Picasso aveva superato l’età per questi divertimenti). Ma che poi si arrivi a spingere il «perché non autore drammatico?... perché non ceramista?... perché non... ecc. » fino al «perché non comunista?» ... a questo punto mi rifiuto di stare al gioco. Un uomo della sua levatura ha, di fronte alle nuove generazioni, una responsabilità che è funzione diretta della sua fama.
Non bisogna credere, con questo, che a causa della sua celebrità io neghi a Picasso il diritto di fare quel che gli pare e di distrarsi come più gli piace. Nessuno più di me sarà mai per l’assoluta libertà in ogni campo.
Nello stesso tempo ho sempre pensato che un grande destino comporti enormi doveri. Perché coloro che diventano un polo di attrazione trascinano inevitabilmente nella loro scia una quantità di uomini. Intorno a quelli che, come Picasso, hanno avuto in dono alla nascita un po’ di luce, si riuniscono un’infinità di giovani che cercano, lontano dallo spirito dei partiti che li hanno sempre ingannati, di trovare qualcosa in cui credere. La fede (non uso affatto questo termine nel suo significato religioso) è un bisogno essenziale. Che incubo sarebbe un mondo in cui non ci fossero che disincantati! E come non capire, stando così le cose, che la libertà di alcuni privilegiati deve arrestarsi là dove comincerebbe a distruggere il pensiero di quelli che credono in loro?
Per quanto strano possa sembrare, Picasso ha sempre avuto ai miei occhi il colore della tenerezza, e la sua tavolozza aveva tutte le sfumature essenziali per esprimere l’amore.
Certe cose non si perdonano solo a chi si ama più profondamente. Forse è quanto succede a me nei riguardi di Picasso. I suoi veri amici sono stati anche i miei. Non posso parlare di lui se non con loro. Non sopporto più né i suoi detrattori né i suoi sedicenti ‘difensori’. Ci sarà della gente che vi dirà: «Misia trova ridicoli i piatti di Picasso». Non è assolutamente vero. Anzi, alcuni mi piacciono molto. E penso che avrebbe fatto malissimo a non farli, se ne aveva voglia. In compenso, sono convintissima che mentre li faceva non pensava di venderli a trecentomila franchi. Credo anche che se ci avessimo mangiato, tête-à-tête, del manzo lesso e il cameriere ne avesse rotti un paio, Picasso si sarebbe fatto una gran risata. Ma queste sono cose che non provo neanche a spiegare ai ‘picassisti’... come molte altre.
Oltre a Reverdy, Max Jacob è stato uno dei pochissimi che l’hanno realmente conosciuto e amato. Povero Max Jacob! Nello spaventoso disordine delle poche carte che il caso ha lasciato nei miei cassetti, di lui ritrovo soltanto - a parte quelle quartine che mi aveva scritto per Marcelle Meyer - una lettera terrificante, l’ultima, datata 1944. In miseria, braccato nel suo villaggio di Saint-Benoît, viveva là i suoi ultimi giorni prima dell’orrenda morte a Drancy:
«Nella mia angoscia, chiedo aiuto... l’amicizia che mi avete tanto spesso dimostrato mi torna abbastanza forte alla memoria perché io abbia l’audacia di rattristarvi con lo spettacolo del mio dolore... la casa di famiglia saccheggiata, distrutta con tutti i ricordi della mia infanzia. La mia sorella più grande è morta di dolore. Mio cognato morto in un campo di concentramento. Mio fratello portato in prigione... Ho sopportato tutto, rassegnato alla maledizione della mia povera razza! Ma ora il colmo dell’orrore: la mia sorella più giovane, la mia preferita, quella che chiamavo “piccola mia” è stata arrestata senza una ragione, portata prima al carcere provvisorio e poi a Drancy. È per lei che chiedo il vostro intervento, prima che venga deportata in Germania e che ci muoia in qualche cella... La poveretta non ha conosciuto che disgrazie, il suo unico figlio è in un manicomio.
«Cara amica, permettetemi di baciarvi le mani, l’orlo del vestito... Vi supplico, fate qualcosa...».
Mi ricordo che nel trovare questa povera lettera mi salirono agli occhi lacrime di indignazione e di pietà. La sola consolazione che ebbi nel dolore che provavo per quell’uomo così buono sul quale si accanivano tutto l’orrore e la crudeltà degli uomini fu di constatare che il cuore di Sert non era invecchiato di un solo anno nei quaranta che lo conoscevo. Appena l’ebbi messo a parte della lettera, senza pensare neanche per un istante a tutte le noie che poteva attirarsi intervenendo in favore di un ebreo sotto il terrore tedesco, mise immediatamente in moto tutte le persone influenti che era in grado di manovrare. Ahimè! Il povero Max fu trascinato a Drancy e l’ordine di liberazione che Sert riuscì a ottenere arrivò troppo tardi.
Non una sola volta, nel corso di quei quattro anni di dure prove, ho visto Sert rimanere insensibile davanti a una disgrazia o a un’ingiustizia, qualunque fossero la nazionalità, la razza o il partito di chi le subiva. Come a vent’anni, era rimasto uno di quegli uomini per i quali contano soltanto il valore individuale e la creatura umana.
Reverdy non si era ingannato quando, trent’anni prima, mi scriveva di lui: «... Io so che vita è la sua e voi dovete pensare, vista quella che ho scelto io, fino a che punto io possa apprezzarla. Quella nobiltà d’atteggiamento, quell’ardore paziente e discreto durante il lavoro e la grandezza di questo lavoro fanno della sua vita una bella linea senza fratture... Il tempo che passa, cara Misia, non è niente in confronto a quello che perdura...».

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martedì 18 agosto 2015

Indagine su Guernica di Picasso


Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi” e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.

Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste, posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero 7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu, ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989, Mursia 1993, pp. 28 e 29:

Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.

Aggiunge qualche giorno dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.

* * *

Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata “pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935 (bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.

Scrive lo storico Giorgio Bonaccina, Le bombe dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:

È stato detto che nei paraggi di Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono, lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai “dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”.

La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i lavori del 1933 sul tema Minotauro che preparano il terreno a Guernica) già il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare l’attenzione altrove.

Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un problema interno, esportalo. E così è per Guernica, che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.

* * *

Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941 nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.

Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore, di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:

Antonina VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions Albin Michel, Paris 1961
Edizione italiana: Storia di Picasso
Traduzione di Renzo Federici
Giulio Einaudi editore 1961
pp. 362-63

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».

Patrick O’BRIAN
Pablo Ruiz Picasso. A Biography, 1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15

Fu nell’estate che seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942 migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di résistants, di comunisti, di ebrei, di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau, Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora, appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari, mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se non alcune cartoline di Guernica che Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No», rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso. Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze, lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.

Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28

Tout de suite, il faut froid. Mon énorme poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand regarde une reproduction de Guernica et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : « Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.

Conclusione: dopo aver letto non meno di trenta biografie su Picasso, un’opinione in merito me la sono fatta: quel botta e risposta, almeno così come raccontata, è un’invenzione “popolare” e questo lo si capisce chiaramente anche, ma non solo, dalle parole che Perry fa recitare a Picasso: j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel. Che tradotto vuol dire: se nei momenti più tristi questa storia è servita a tenere alto il morale del popolo francese …va bene così. Si stampi.

giovedì 18 giugno 2015

Balzac e Picasso in Rue des Grands-Augustins



«C’è crisi. Nonostante il suo ottimismo di fondo, Kahnweiler era preparato. Ormai la si deve affrontare. Il 25 ottobre 1929, la borsa di New York crolla secondo uno schema tutto sommato banale, poiché lo riscontriamo nella crisi che ha colpito la Francia nel 1882 e in quella degli Stati Uniti del 1907. Ma questa sarà più lunga e più ampia.
Si prospettano anni di vacche magre. Il cosiddetto commercio del lusso, qual è il mercato dell’arte, come potrà non soffrirne? ... Kahnweiler ha la sgradevole impressione che niente valga più niente. Nessuno compera. ... Tutti sono nella stessa barca. Ogni tanto il morale risale. Si parla di una leggera ripresa. ... Kahnweiler esprime queste opinioni nelle lettere al cognato Michel Leiris che sta percorrendo l’Africa come segretario-archivista della missione Dakar-Gibuti. Anche le opinioni di quest’ultimo sulla crisi, vista da Dakar o da Yaoundé, sono interessanti: “Ho una gran fretta di essere nella savana, lontano dagli europei imbecilli e dai negri truccati. ... Vista da lontano la situazione europea mi sembra più che mai insensata. In ogni caso essa costituisce la prova più schiacciante dell’inutilità della nostra civiltà”.
Alla galleria ci si annoia a morte. È un deserto. ... Fra il 1929 e il 1933 la galleria Simon non organizza neppure una mostra. Anche l’attività editoriale è considerevolmente ridotta: escono solo le poesie di Carl Einstein e L’anus solaire di Georges Bataille. Gli altri aspetteranno. Non si può ingozzare un pubblico restio.»
Pierre Assouline. Il mercante di Picasso
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990, pp 275-277



Certo, sono anni difficili, aiutati dalla vecchia regola della coperta corta: se la massa ha i piedi al freddo è perché pochi hanno le spalle al caldo. Le gallerie d’arte cercano di sopravvivere e le loro attività collaterali, quali l’edizione di libri da collezione, boccheggiano per mancanza d’ossigeno.
È proprio in questo momento storico che un ricco mercante di quadri, Ambroise Vollard, lancia il guanto e sfida il destino - e qui mi fermo per fare un balzo indietro nel tempo di cent’anni, quando il 31 luglio e il 7 agosto 1831 il periodico L’artiste pubblica Le chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac,[1] che inizia così:

Vers la fin de l’année 1612, par une froide matinée de décembre, un jeune homme dont le costume était de très-mince apparence, entra dans une maison de la rue des Grands-Augustins, ...&tc. &tc.



Ritorno all’anno 1931. Come detto sopra, la crisi morde i polpacci ai poveri e al ceto medio, ma non sono queste masse ad aver reso ricco Vollard. Il mercato ristagna, è vero, ma lui, che ama il rischio (calcolato), chiede a Picasso se ha dei disegni utili ad illustrare una nuova edizione de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tirata in poche copie e in grande formato. Roba di lusso, per collezionisti ricchi.
Scrive Patrick O’Brian in Picasso (pp. 320-321), una biografia già citata in altri miei post:

Un artista al lavoro, talvolta un pittore, talaltra uno scultore, spesso con una modella, fa ora la sua comparsa tra i personaggi di Picasso: una figura che ritroveremo spesso nei suoi quadri, in varie forme, mai però ispirata a un sentimento di autostima.
Spesso si tratta di un uomo tarchiato, con barba, abbastanza «classico» non fosse per i calzoncini corti, dall’aria sbalordita se non stupida, quale a volte può avere un toro; in una delle prime acqueforti l’uomo è seduto davanti al cavalletto e fissa attentamente la modella o qualcosa attraverso di lei; intanto con la destra traccia una mirabile serie di curve e di piani rettilinei che non sembrano avere molta attinenza con la donna: costei, d’aspetto gradevole, di mezz’età, lavora a maglia in grembiule ed è disegnata, al pari dell’uomo, con il perfetto realismo descrittivo che Picasso, quando voleva, sapeva produrre.
Sarebbe interessante sapere se l’acquaforte fu eseguita prima che Vollard parlasse a Picasso della sua intenzione di realizzare un’edizione illustrata del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac, poiché il libro narra di un pittore il cui capolavoro non può essere capito da nessuno se non dal suo stesso autore, ma in proposito gli studiosi hanno pareri contrastanti e anche i ricordi di Vollard sono vaghi. Altrettanto interessante sarebbe sapere se Picasso avesse letto il romanzo o no. Dalla descrizione che ne fece a Geneviève Laporte molti anni più tardi sembrerebbe di no, eppure poche opere gli sarebbero maggiormente piaciute. Molto succintamente la storia, ambientata nel 1612, è questa: il giovane Nicolas Poussin va a trovare il noto pittore Pourbus in Rue des Grands-Augustins e, dopo qualche esitazione, entra nello stesso istante in cui sopraggiunge anche un ricco signore anziano, di nome Frenhofer: Frenhofer critica il lavoro di Pourbus con grande libertà, esprimendo alcune opinioni molto interessanti in fatto di pittura. Poussin, sconosciuto a entrambi, si intromette ed è riconosciuto da ambedue quale un vero artista. Pourbus è gentile con il giovane, lo incita a lavorare, gli dice che Frenhofer era stato allievo di Mabuse e che adesso è pittore dilettante giacché, essendo ricco, non è obbligato a vendere, ma capace al punto che Pourbus ha scambiato i suoi dipinti per quelli di Giorgione. L’amicizia si fa più stretta, grazie anche al fatto che Poussin ha una giovane amante molto bella («una di quelle anime nobili e generose capaci di soffrire accanto a un grand’uomo, condividendone angosce e difficoltà e facendo tutto il possibile per comprenderne gli umori, sopportando l’indigenza e attingendo forza all’amore»), una donna che a Frenhofer piacerebbe avere come modella. Un giorno si trovano tutti nello studio di Frenhofer, dove Poussin vede alcuni quadri di mirabile fattura, che tuttavia Frenhofer giudica di poco conto a paragone del suo capolavoro, un dipinto che egli è estremamente riluttante a mostrare; infine si decide e lo fa vedere agli amici. Poussin non riesce a capire nulla in quel caos di colori, in quelle «gradazioni incerte, in quella specie di bruma informe», tranne «un solo piede, vivo e squisito». Dice però che non riesce a distinguere alcuna figura femminile nel dipinto. Frenhofer piange, per un attimo cerca di confortarsi immaginando che i due siano ladri, ma finisce per bruciare il quadro quella stessa notte, e muore.
Nel 1931, quando finalmente fu pubblicato, il libro conteneva acqueforti e disegni di Picasso puntiformi e cubisti, certamente precedenti all’idea del libro, oltre a qualche acquaforte realizzata per l’occasione; in tutto ottanta illustrazioni.

Sebbene Picasso abbia scelto le incisioni “a naso”, l’unità dell’opera non ne esce alterata. Il successo di critica e di vendita premiano il coraggio dell’editore.



Potrei fermarmi qui, se non fosse che il bello è ancora da venire.
Siamo ai primi giorni di gennaio del 1937 e Picasso, privato del grande studio di Boisgeloup che il tribunale ha assegnato a sua moglie Olga, da cui si è separato, cerca una nuova sistemazione per lavorare. Gli viene incontro Vollard che gli affitta una vecchia casa da lui comperata a Le Tremblay-sur-Mauldre, col granaio trasformato in studio; come abitazione, a Parigi il pittore mantiene i due piani acquistati in Rue La Boëtie, mentre la sua nuova fiamma, Dora Markovich - in arte Dora Maar - vive in un appartamento in Rue de Savoie, vicinissimo al complesso di studi che Picasso ha preso in affitto da alcuni anni, ma che finora ha poco o nulla frequentato.
Lo fa verso la fine di marzo, quando decide di occupare saltuariamente i due piani della vecchia casa del Settecento al n. 7 di Rue des Grands-Augustins, chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino - e il caso vuole che questa fosse proprio la casa in cui Balzac aveva ambientato Le chef-d’œuvre inconnu, una storia che ruota attorno a un pittore ...cubista.
Poche settimane dopo, il 26 aprile, la città di Guernica è distrutta dai bombardieri tedeschi, ma la notizia arriva a Parigi il 28. Nello studio di Rue des Grands-Augustins il primo maggio Picasso esegue i primi cinque schizzi preparatori della tela che a giugno sarà esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi, da allora nota col nome della città martire, Guernica.
Ma è solo nel mese di giugno del 1939 che Picasso si insedia definitivamente al numero 7 di Rue des Grands-Augustins, seppur continuando a conservare l’appartamento di Rue de la Boëtie, dove lascia parte delle sue pitture. Per l’occasione, l’artista decide di far mettere il riscaldamento centrale per rendere abitabili i due piani dell’ex granaio Barrault. Decide anche di impiantare in casa un laboratorio d’incisione e fa venire da Boisgeloup il vecchio torchio e tutto il materiale necessario. Verso la fine di giugno ogni lavoro è terminato e Picasso può iniziare la sua ennesima vita, entusiasmando Vollard con i suoi progetti di stampe per edizioni future. Purtroppo il sogno di Vollard è di breve durata: il 21 luglio, a causa di incidente d’auto, muore dopo essere stato colpito alla nuca da una pesante scultura di Maillol che stava trasportando.



Anno 1940, anno di guerra. Picasso continua ad abitare in Rue La Boëtie, ma i tragitti tra la casa e lo studio divengono difficili. Decide così di trasferire la residenza in Rue des Grands-Augustins, installandovi una camera da letto. Per i pasti, capita spesso in un ristorante che porta un nome suggestivo, Le Catalan - 25, Rue des Grands-Augustins. Ed è qui che una sera di maggio del 1942, mentre sta cenando con Dora Maar, Marie-Laure de Noailles e altri amici, nota due giovani belle donne sedute a un tavolo in compagnia di Cuny, un attore allora in auge. Dopo le presentazioni e scambiata qualche battuta Picasso invita le ragazze a fargli visita nella sua casa-studio e molti anni dopo una delle due, Françoise Gilot, scriverà nelle sue acide memorie (pp 12-15):

Il lunedì seguente, verso le undici, Geneviève e io ci arrampicavamo per una buia e stretta scala a chiocciola, nascosta nell’angolo del cortile acciottolato del numero sette di rue des Grands-Augustins, e bussavamo alla porta dell’appartamento di Picasso. Dopo una breve attesa, la porta si aprì di pochi centimetri per rivelare il naso lungo e sottile del suo segretario, Jaime Sabartés. Non l’avevamo mai incontrato prima di allora, ma sapevamo chi era. Avevamo visto riproduzioni dei disegni che Picasso gli aveva fatto e Cuny inoltre ci aveva avvertito che sarebbe stato lui ad accoglierci. Ci guardò con aria sospettosa e chiese: «Avete un appuntamento?» Risposi affermativamente. Ci lasciò entrare. Aveva un aspetto inquieto e ci scrutava dietro le spesse lenti.
Entrammo in un vestibolo pieno di uccelli - c’erano delle tortore e un certo numero di uccelli esotici dentro a gabbie di vimini - e di piante. Le piante non erano belle; verdi e spinose come se ne vede spesso nei vasi di rame delle portinerie. Là invece erano disposte in un modo più attraente, e facevano un bell’effetto di fronte alla finestra spalancata. Avevo visto una di quelle piante un mese prima, in un ritratto recente di Dora Maar, esposto, a dispetto dei nazisti che avevano messo al bando le opere di Picasso, in un angolo della galleria di Louise Leiris, in rue d’Astorg. Era un magnifico ritratto in rosa e grigio. Sul fondo della tela c’era una vetrata a piccoli riquadri, che riconobbi nella vecchia e grande finestra, una gabbia d’uccelli e una di quelle piante verdi.
Seguimmo Sabartés in una seconda stanza, molto lunga. Disposti su vecchi divani e su sedie Luigi XIII si trovavano chitarre, mandolini ed altri strumenti musicali che pensai Picasso avesse usato per i suoi quadri del periodo cubista. Egli mi raccontò più tardi che aveva acquistato quegli strumenti dopo aver dipinto i quadri, non prima, e che li conservava a ricordo degli anni del Cubismo. La stanza era bella e ampia, ma vi regnava un disordine indescrivibile. La lunga tavola che si stendeva fino a noi e due banchi da falegname, uno a prolungamento dell’altro, ridosso alla parete di destra, erano coperti da pile di libri, di riviste, di quotidiani, di fotografie, di cappelli e di oggetti di vario genere. Sopra uno di questi banchi era posato un pezzo di cristallo grezzo d’ametista, grande quanto una testa umana. Al centro di questo blocco c’era una piccola cavità, totalmente chiusa, piena di qualcosa che sembrava acqua. In un ripiano sotto al tavolo si trovavano una pila di vestiti da uomo e tre o quattro paia di scarpe.
Mentre costeggiavamo la grande tavola centrale, notai che Sabartés girava attorno a un oggetto di color bruno scuro, posato sul pavimento, vicino alla porta che dava nella stanza accanto. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di una scultura: un cranio in bronzo.
La stanza successiva era uno studio quasi totalmente stipato di sculture. Vidi così L’uomo col montone, ora fuso in bronzo e collocato nella piazza del mercato di Vallauris, e che, a quel tempo, era semplicemente di gesso. C’erano inoltre numerose grandi teste di donna che Picasso aveva eseguito a Boisgeloup, nel 1932, un ammasso di manubri di bicicletta, rotoli di tele, un Cristo spagnolo di legno policromo del XV secolo, e una bizzarra e affusolata scultura, rappresentante una donna che teneva in una mano una mela e nell’altro braccio qualche cosa che assomigliava a una borsa dell’acqua calda.
La cosa più sorprendente, tuttavia, era costituita da uno squillante Matisse, una natura morta del 1912, che rappresentava una fruttiera piena d’arance posata sopra una tovaglia rosa e contro un fondo oltremare e color rosa di Tiro. Ricordo anche un Vuillard, un Doganiere Rousseau e un Modigliani; ma in quello studio avvolto d’ombra, lo splendore del Matisse squillava fra le sculture. Non potei trattenermi dall’esclamare: «Oh, che bel Matisse!» Sabartés si volse e disse, austero: «Qui non c’è che Picasso!»
Per un’altra scaletta a chiocciola, all’estremità della stanza, salimmo al secondo piano dell’appartamento di Picasso. Là il soffitto era molto più basso. Passammo in un grande studio. Sul fondo, circondato da sette od otto persone, scorsi Picasso. Indossava un vecchio paio di pantaloni che gli stavano larghi e una maglia da marinaio a righe bianche e blu. Quando ci vide il suo volto si illuminò di un sorriso. Lasciò il gruppo e ci venne incontro. Sabartés brontolò qualcosa circa il nostro appuntamento e scomparve.
«Volete vedere lo studio?» chiese Picasso. Rispondemmo di sì. Speravamo che ci mostrasse dei quadri, ma non osavamo chiederlo. Ci ricondusse al piano inferiore, nello studio di scultura.
«Prima che m’installassi qui,» disse, «questo primo piano era il laboratorio di un tessitore, quello di sopra, lo studio di Jean-Louis Barrault. In questa stanza ho dipinto Guernica.» Si era seduto su una tavola Luigi XIII, davanti alle finestre che davano sul cortile interno. «A parte questo, non lavoro quasi mai in questa stanza. Ho scolpito qui L’homme au mouton,» disse indicando il grande gesso dell’uomo che tiene fra le braccia la pecora, «ma dipingo lassù e, di solito, eseguo le sculture in un altro studio che si trova poco più avanti su questa strada. «La scala a chiocciola che avete preso per venir qui è quella che il giovane pittore de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac saliva per andar a trovare il vecchio Pourbus, l’amico di Poussin che dipingeva tele non comprese da nessuno. Oh, tutto il luogo è ricco di fantasmi storici e letterari. Bene, torniamo su.» Scivolò giù dalla tavola e lo seguimmo per la scaletta a chiocciola. Ci condusse attraverso il grande studio, attorno al gruppo dei visitatori, nessuno dei quali alzò la testa al nostro passaggio, fino a una piccola stanza, proprio in fondo.
«Qui lavoro alle mie incisioni,» disse. «Guardate qui.» Si diresse verso l’acquaio e aprì il rubinetto. Dopo un po’ l’acqua prese a fumare. «Meraviglioso, vero? Nonostante la guerra ho l’acqua calda. Del resto,» aggiunse, «potete venire a fare il bagno quando volete.» Ma non era l’acqua calda che ci interessava, nonostante che allora fosse scarsa. Guardando Geneviève pensai: «La smettesse di parlare dell’acqua calda e ci facesse vedere almeno dei quadri!» Invece cominciò a tenerci un piccolo corso sulla tecnica dell’acquaforte e stavo proprio pensando che con tutta probabilità ce ne saremmo dovute andare senza vedere alcuna delle sue opere e che non saremmo mai più ritornate, quando, finalmente, ci condusse nel grande studio e ci mostrò alcuni quadri. Ricordo un gallo, ricco di colore e forte nell’impostazione, che lanciava un vigoroso chicchirichì. Ricordo anche un altro quadro, dello stesso periodo, molto rigoroso e tutto in bianco e nero.
Verso l’una, il gruppo dei visitatori ci lasciò e ciascuno prese congedo.
Ciò che mi colpì in modo curioso fin da quel primo giorno fu il fatto che lo studio sembrava il tempio di una specie di «religione picassiana», e che tutti i presenti apparivano completamente immersi in quel culto - tutti, eccetto quell’uno cui quell’attenzione era rivolta. Egli sembrava prender tutto per scontato, senza dare importanza a nulla in particolare come se volesse mostrarci che non intendeva affatto essere al centro di un culto.
Mentre ci apprestavamo ad andarcene, Picasso ci disse: «Se volete ritornare, fatelo. Ma non come pellegrini che vanno alla Mecca. Venite perché trovate interessante la mia compagnia e perché volete avere con me uno scambio semplice e diretto. Se volete vedere soltanto i miei quadri, potete benissimo andare in un museo.»
Non presi troppo seriamente quest’osservazione. Prima di tutto perché a quel tempo non c’era quasi alcun Picasso nei musei parigini. Secondo, perché egli si trovava nella lista dei pittori proibiti dai nazisti e nessuna delle gallerie private poteva esporre apertamente le sue opere e in una certa quantità. E a un pittore non basta vedere le opere di un altro pittore riprodotte in un libro. Per conoscere meglio i suoi lavori, ed era il mio caso, la cosa più semplice era di recarsi al numero 7 di rue des Grands-Augustins.

Per essere la prima visita, i fin troppo precisi dettagli rendono poco credibile questo racconto. Comunque sia, per alcuni anni i due si frequentano come amici, finché, scrive ancora la Gilot, «una sera sul presto, verso la fine di maggio 1946, mentre mi preparavo a lasciare Rue des Grands Augustins per tornare dalla nonna, Pablo ricominciò a insistere … e rimasi lì, senza dire addio e senza dare una spiegazione a nessuno … Non uscii di casa per un mese intero dal giorno in cui ero andata a vivere con Pablo.»
Risultato: da questa relazione il 15 maggio 1947 nasce un figlio, Claude. Il mese dopo la famiglia si sposta al Sud, a Golfe-Juan, dove abitano la casetta di Louis Fort. Nell’autunno Picasso comincia a lavorare nella fabbrica Madoura di Vallauris condotta dagli amici Ramié: un nuovo amore, una nuova casa è la costante di Picasso.


Françoise Gilot e Pablo Picasso
by Robert Doisneau, 1952

Gran finale. A Milano, sotto i portici di piazza Diaz, una volta al mese si tiene una ricca fiera del libro usato. Domenica scorsa, 14 giugno 2015, vengo attratto da una custodia marroncina, quadrata. La prendo, sfilo il libro e che mi ritrovo tra le mani? La riedizione de Le chef-d’œuvre inconnu curata nel 1966 dalle Éditions L.C.L. Il colophon recita (in francese, qui da me tradotto): Questo volume della collezione «Les Peintres du Livre» composto in carattere Bodoni corpo 18 è stato tirato dallo stampatore Firmin-Didot, Parigi - Mesnil - Ivry su carta Blanchemer delle Papeteries Prioux. La stampa delle illustrazioni è stata curata dall’Imprimerie Genése di Parigi. La rilegatura è stata realizzata da Bonnet-Madin a Dreux. La tiratura è stata limitata a 3000 esemplari numerati da 1 a 3000 e a 50 esemplari fuori commercio marcati H. C. destinati ai fondatori e ai collaboratori della collana.
Questa copia porta il numero 1490. Dentro vi sono le incisioni di Picasso, mentre il Pittore osservato dalla modella nuda è stampato e inserito a parte, su cartoncino bianco, fuori dal libro.
Domando: «Quanto chiede per questo libro?».
«Dieci euro.»
È in casa.

[1] Racconto inserito lo stesso anno 1831 nel terzo tomo dei Romans et contes philosophiques par M. Balzac, Paris, Charles Gosselin Libraire, poi ripubblicato con leggere modifiche nel 1847 col titolo Gillette ne Le provincial à Paris par H. de Balzac, Paris, Gabriel Roux et Cassanet Éditeur.



Atelier di Rue des Grands-Augustins
Guernica, dettaglio, 1937
by Dora Maar


Picasso e la stufa
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1939



Kazbek
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944

Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944


Pittore osservato dalla modella nuda, 1927