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martedì 18 agosto 2015

Indagine su Guernica di Picasso


Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi” e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.

Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste, posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero 7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu, ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989, Mursia 1993, pp. 28 e 29:

Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.

Aggiunge qualche giorno dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.

* * *

Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata “pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935 (bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.

Scrive lo storico Giorgio Bonaccina, Le bombe dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:

È stato detto che nei paraggi di Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono, lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai “dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”.

La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i lavori del 1933 sul tema Minotauro che preparano il terreno a Guernica) già il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare l’attenzione altrove.

Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un problema interno, esportalo. E così è per Guernica, che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.

* * *

Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941 nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.

Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore, di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:

Antonina VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions Albin Michel, Paris 1961
Edizione italiana: Storia di Picasso
Traduzione di Renzo Federici
Giulio Einaudi editore 1961
pp. 362-63

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».

Patrick O’BRIAN
Pablo Ruiz Picasso. A Biography, 1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15

Fu nell’estate che seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942 migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di résistants, di comunisti, di ebrei, di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau, Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora, appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari, mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se non alcune cartoline di Guernica che Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No», rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso. Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze, lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.

Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28

Tout de suite, il faut froid. Mon énorme poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand regarde une reproduction de Guernica et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : « Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.

Conclusione: dopo aver letto non meno di trenta biografie su Picasso, un’opinione in merito me la sono fatta: quel botta e risposta, almeno così come raccontata, è un’invenzione “popolare” e questo lo si capisce chiaramente anche, ma non solo, dalle parole che Perry fa recitare a Picasso: j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel. Che tradotto vuol dire: se nei momenti più tristi questa storia è servita a tenere alto il morale del popolo francese …va bene così. Si stampi.

giovedì 18 settembre 2014

Picasso visto da Antonina Vallentin (1939-1944)






Antonina Vallentin. Storia di Picasso. Giulio Einaudi editore 1961, pp. 350-377.
Titolo originale: Pablo Picasso. Editions Albin Michel, Paris, 1957.
Traduzione di Renzo Federici

XIV.    La deriva dell’umano. 1939-1944

Per il 1939 è prevista una di quelle mostre retrospettive che si risolvono in un’apoteosi per un artista. Il 15 novembre dovrebbe aprirsi al Museo d’Arte Moderna di New York la mostra intitolata «Quarant’anni della sua arte», destinata a consacrare definitivamente la fama di Picasso negli Stati Uniti. L’Art Institute di Chicago collabora con New York; tutti i musei americani, tutte le gallerie, tutti i collezionisti hanno inviato opere; molti quadri di collezionisti europei sono già arrivati, altri, nell’autunno, sono in viaggio per gli Stati Uniti. La mostra è stata preparata da tempo. Picasso ha trovato nel direttore del Museo d’Arte Moderna, Alfred H. Barr jr, che prepara il catalogo, il suo interprete più scrupoloso e penetrante, e il lavoro di Barr servirà di guida a tutti i lavori del genere che verranno in seguito. Picasso stesso ha spedito molti quadri di sua proprietà, anche certi dai quali si separa solo a malincuore. Certe sculture sono state fuse in bronzo apposta per la circostanza. Ma al momento dell’inaugurazione certi quadri non sono ancora arrivati: l’Europa è precipitata nella guerra.
Sempre in questo anno muore sua madre. Muore a ottantatre anni, lontano da lui, a Barcellona, dove Picasso, per la posizione politica da lui assunta, non può andare a trovarla. Sono passati più di quindici anni da quando ha dipinto il suo ultimo ritratto, raffigurandola ormai con l’aria di vecchia signora, maestosa e tuttavia con lo sguardo pieno di vivacità e penetrazione. Picasso era rimasto in corrispondenza con lei. Le scriveva meno spesso di quanto lei avrebbe voluto, ma la sua fede nel figlio non era diminuita e considerava il suo clamoroso successo come qualcosa di debito. Un legame profondo, fatto di risonanze lontane, di tratti comuni del carattere, esisteva tra la vecchia signora e Picasso e alla sua fedeltà di figlio spagnolo andava congiunta la gratitudine per averlo sempre sostenuto. Il suo dolore, come tutti i suoi sentimenti profondi, è muto e anche coloro che gli sono vicini non sanno se gioca d’astuzia con la pena o se in lui, abitudinario com’è, la lontananza ha attenuato la sofferenza.
Nell’estate del 1939 il Sud l’attira, come sempre. Ormai ha tutte le comodità per muoversi. Dispone di una macchina e di un autista, Marcelle, che d’altronde diventa un personaggio importante nella sua vita. Il personale che lo serve, come le cose di cui si serve, giungono ad essergli indispensabili per via di durata. Una volta entrati nella sua vita quotidiana sembrano prendervi un posto immutabile, di cui lui stesso si irrita a volte, senza tuttavia riuscire a rompere un legame che spesso è nato solo dal caso. Anche la sua sistemazione di quest’anno ad Antibes, sistemazione che avrà più tardi tanta importanza nella sua vita, si deve al caso: è Man Ray che gli consegna la chiave di un piccolo appartamento nel palazzo Alberto I.
Picasso sgombra i mobili dalla stanza più grande per trasformarla in studio. È preso allora da una sorta di impazienza, dal desiderio di cominciare un’opera di grande mole. Forse, grazie alla costante sensibilità che ha per il suo tempo, avverte che la quiete necessaria al lavoro ormai gli è misurata, che le ore di sollievo saranno ancora poche. Scosso dal suo recente lutto, è ancora più sensibile a quello che accade intorno a lui. Per spiegare il suo accanimento nel lavoro bada a ripetere a Sabartés: «È per non buttarmi dalla finestra».
Si avverte, nel suo fare, anche quel senso di fretta precipitosa che c’è nell’uomo inseguito. Se questa effettiva disperazione non diventa totale, al punto da paralizzare le sue facoltà creative, è per un sentimento assai simile a quello di chi sta annegando ma sa di poter contare su un colpo di reni così forte da poter risalire alla superficie.
Non ha ancora deciso il soggetto quando tende su tre pareti dello studio una grande tela che può essere tagliata successivamente. «Picasso vuole dipingere quello che gli passa per la testa senza doversi tenere alle dimensioni di un telaio», spiega Sabartés.
Ha assorbito profondamente l’atmosfera del luogo prima di mettersi al lavoro. A Sabartés fa vedere tutti i punti della costa che lo incantano, le mura che piombano bruscamente in mare, come il bastingaggio di una gigantesca nave di pietra, dominata dalla massa imponente del Castello Grimaldi, di cui il sole tinge di biondo i muri austeri. Per quanto sia fanatico del gran sole, questa volta non è il fulgore del giorno ad attirarlo, ma una scena notturna: come se queste notti d’estate, con la loro ricchezza di colore, gli apparissero più preziose delle rivelazioni della luce piena. Una scena di genere gli serve da punto di partenza. Nel porto di Antibes la notte si pesca a fiocina alla luce di fanali. Sul molo due ragazze guardano i pescatori al lavoro. Una, che regge una bicicletta, ha i tratti deformati di Dora Maar, l’altra ricorda Jacqueline Breton-Lamba. «Era caldo la sera che si fece il giro del porto, - racconta Dora Maar, - e si erano comprati dei coni gelati». La ragazza con la bicicletta lecca infatti con la lingua aguzza un doppio cono. Ma scena di genere ed aneddoto sono per Picasso solo pretesti per trasferire nel suo mondo una fantasmagoria notturna. Sullo sfondo del cielo d’un blu vellutato naviga un’enorme luna rossiccia che lascia filtrare la sua luce come tra due ciglia. Le torri e i tetti delle case si profilano violetti su questo caldo cielo d’estate; il mare smalta di un azzurro verde il molo azzurro, ma una murata di esso luccica verde sotto la luce artificiale; dal fondo della piccola barca, di un azzurro cupo sul viola, emergono dei pescatori come pallidi fantasmi. Gli esseri umani e gli oggetti non sono più che segni di un baluginare di forme in fondo a una notte di luna, nella quale le ombre rimaste trasparenti si urtano alla forza esplosiva delle luci. La deformazione che riscatta la sagoma volgare della bicicletta con le sue curve ondeggianti, le curve delle braccia, dei capelli, delle vesti, tutto prende un senso particolare, tutto sembra ridotto a una durata limitata, a una realtà appena intravista e già sul punto di dissolversi.
Chi ha vissuto le notti di questo agosto del 1939 nel Sud, le ricorda come struggenti di dolcezza e fulgore. La Péche de nuit à Antibes (New York, Museum of Modern Art), come inquadrata, ai due lati, dalla tela bianca, che funge da riflettore, prende uno splendore di cristallo.
Picasso ormai lavora accanitamente; lavora contro il tempo. I frequentatori del caffè di Place Victor-Massé commentano con angoscia crescente le gravi notizie del giorno. Ci si aggrappa alla speranza come se la quiete immobile di queste notti d’estate escludesse ogni mutamento. Picasso dipinge, quasi suo malgrado, un mondo stabile già pronto a saltare in aria. È solo una scena, quanto mai tranquilla, in un angolo del porto: in realtà è già il cataclisma del mondo che si preannuncia.
Le notizie si fanno sempre più allarmanti. Picasso si aggrappa alla sua vita operosa come volesse farsene una difesa. I primi manifesti di mobilitazione appaiono sui muri dei municipi. «Proprio ora che ho cominciato a lavorare!», brontola Picasso. Place Victor-Massé si è improvvisamente vuotata; il caffè è deserto. Autocarri attraversano la città carichi di soldati. Poi, all’improvviso, la difesa antiaerea ordina l’oscuramento. Una notte opaca si abbatte su Antibes. Le lanterne dei pescatori non ondeggiano più sull’acqua verde. Tutto è chiuso nelle tenebre. Si stacca in fretta la grande tela.
Ed è la Parigi delle voci contraddittorie, delle notizie, false o vere, scambiate come fossero confidenze segrete; è il panico irragionevole che si diffonde e l’affacciarsi di speranze più assurde ancora. Tutti corrono da Picasso, fin dal mattino, tutti quelli che, per la sua celebrità, lo credono meglio informato di tutti gli altri.
Anche se lui stesso è indeciso e disarmato, esercita tuttavia una singolare attrazione sui dubbiosi e gli agitati, come se comunicasse loro un po’ della forza che nel profondo resiste in lui. Tuttavia anch’egli si trascina alla cieca in questo mondo fantomatico di vigilia di guerra, di una guerra ancora senza volto. A Rue La Boétie e nel suo studio fa imballare i quadri, ma poi lascia i pacchi a mezzo, comincia a ordinare certe cose, ma poi lascia fare. Si comporta in pratica come tutti coloro che, pur sapendo la guerra inevitabile, si ribellano, in un sussulto del loro istinto vitale, contro la loro stessa certezza.
Parigi si vuota. Il fuggi fuggi generale è cominciato. «Ogni separazione sembra un addio per l’eternità», racconta Sabartés. Anche Picasso sfolla, accompagnato da Sabartés e sua moglie, da Dora Maar e il suo cane Kazbek. In questa notte del 1° settembre ci si attende la comparsa degli aerei tedeschi su Parigi.
Come tutti quelli che si rifanno alle esperienze della prima guerra mondiale, Picasso ha scelto per rifugio la zona costiera, che è considerata al riparo dall’avanzata nemica. Sulla strada di Royan l’auto incrocia dei gruppi di cavalli requisiti dall’esercito. Se ne vanno due a due o tre a tre, guidati da un uomo a piedi. Picasso è impressionato dall’aria sottomessa, stanca degli animali. Le sofferenze degli animali lo toccano sempre profondamente, in modo più forte forse di quelle degli uomini. «Sembra che capiscano, - osserva, - e capiscono certo che non vanno al loro solito lavoro». I primi disegni che butta giù a Royan, non appena ha un blocco di carta a disposizione, rappresentano dei cavalli requisiti.
Scende all’Hotel du Tigre e affitta una stanza nella villa «Gerbier de Joncs». Questa stanza, che serviva da sala da pranzo, è stipata di mobili, buffet, scrivania, mensole, tavolini, tutto il bric-à-brac che si trova in certi interni di provincia. «Muoversi tra questi mobili sovraccarichi è difficile come manovrare in un porto minato», osserva Sabartés. Picasso trova a stento posto per le tele, i colori, i pennelli. Tuttavia vuole mettersi subito al lavoro. «Tende sempre a risolvere ogni problema, per quanto grave, assoggettandosi a una cura di lavoro». Quando vede Sabartés disoccupato e irritato di questo ozio forzato, gli consiglia la stessa disciplina: «Scrivi, vecchio mio, scrivi... Scrivi quel che vuoi. Scrivi per te se vuoi, anche se sarà solo per te e vedrai che il cattivo umore se ne andrà...»
Da questo saggio consiglio è nato poi il libro Portraits et souvenirs, libro chiave per la conoscenza di Picasso. Ma quanto a Picasso, la ricetta non serve a difenderlo contro l’angoscia del momento. È venuto a sapere che i forestieri arrivati dopo il 25 agosto non hanno diritto di soggiornare in città, dichiarata zona di frontiera. La sua celebrità basterebbe a proteggerlo da ogni fastidio della polizia, ma questo eterno oppositore, questo indisciplinato feroce conserva uno strano rispetto per l’autorità. «Il fatto di sapere che non è del tutto in regola con la legge lo inquieta a tal punto che non riesce a lavorare». Corre a Parigi per ottenere il permesso di soggiorno necessario e l’indomani è di ritorno.
[...]
Nonostante la strana calma che regna nel mondo, che pure è in guerra, egli si preoccupa della sorte dei quadri che ha lasciato nei suoi vari domicili. Verso la metà di novembre, con Sabartés e Dora Maar, parte per Parigi. Arriva anche a Tremblay e a Boisgeloup per mettere in luogo sicuro tele e disegni e prendere dei colori e un vero cavalletto.
La ex sala da pranzo che gli serve da studio sembra farsi più piccola e meno luminosa via via che le giornate si accorciano. Picasso si decide alla fine ad affittare uno studio e una stanzetta all’ultimo piano della villa «Les Voiliers», una stretta casa incuneata tra i due grandi alberghi di Royan. Avrà una vista magnifica davanti. «Non ho bisogno, da solo, di un panorama così grande, - commenta, - ma non aver niente davanti a sé pesa molto». Quando vi si trasferisce, verso la fine di gennaio del 1940, indugia a lungo davanti alla finestra a contemplare il mare e il ciclo arrossato dal tramonto. «Andrebbe bene per qualcuno che fosse pittore», gli scappa detto, quasi con una punta d’invidia per tutti coloro che non si sentono investiti della missione di scomporre l’universo. Sembra che gli dispiaccia di aver lasciato la stanza scomoda e ingombra, dove bisognava piegarsi in due per lavorare. Così si porta dietro dei mobili bizzarri, una poltrona coperta di velluto verde oliva, un’altra fatta di legni flessibili ritorti e lavorati come giunchi.
Questa poltrona è uno degli accessori che s’imporranno, tirannici, nell’opera di Picasso come unico elemento di continuità nella sua perpetua dispersione. Dipinge, soprattutto facendo posare Dora Maar, una serie di ritratti sempre più distanti dal modello e sempre più tendenti alla maschera, alla magia terrifica. Le Donne sedute di questo momento, figure dai tratti decomposti, dipinte come fantasmi di carne beige su fondo grigio o involte in bluse multicolori giocate su accordi stridenti, sono il più delle volte ridotte a piani lineari, a forme geometriche infernali. Ma ritorna anche alle sue antiche figure da prua di nave, a forte rilievo. La Femme nue se coiffant, dipinta in quest’estate di Royan, è un monumento all’atroce dismisura del tempo. Il corpo che, con le sue curve abbondanti, sembra di legno tornito, a differenza delle bagnanti che compivano i loro gesti barcollanti da robot sullo sfondo del cielo e del mare, è incuneato tra muri verdi, in uno spazio così ristretto che ne urta i limiti con i gomiti, i piedi e la testa. Visto dal sotto in su, il nudo seduto su un guanciale violetto presenta anzitutto i suoi piedi giganteschi, la cui pianta enorme è dipinta in modo quasi realistico, e nei quali sono accuratamente segnate le unghie degli alluci. «Picasso vuole fare vero, più vero che la natura, - scrive Frank Elgar; - i suoi peggiori attentati contro la figura umana sono la contropartita malefica della sua passione di veridicità».
Il colosso dilaga nelle natiche e nel ventre, si strozza invece alla vita grazie a due pieghe fortissime; incavi profondi fanno risaltare le coste, i seni puntano verso l’alto, metà carne metà legno tagliato, con punte a forma d’occhio. Questo mostro si assottiglia in cima, il pezzettino di testa si scompone in un naso volto verso destra, in una bocca volta a sinistra, negli occhi che si urtano alle palpebre arrossate. Il tratto più spaventoso in questo viso devastato è che una delle narici freme ancora in questo legno tagliato e che, sulla superficie piallata, la bocca si allarga piatta, rossa, provocante di femminilità.
Questo modo di disarticolare i tratti delle figure ha avuto inizio con Guernica, come fa notare Sidney Janis, che aggiunge: «Proprio come la guerra, che da conflitto spagnolo, localizzato, è dilagata a lotta mondiale, così queste deformazioni si sono dilatate invadendo tutta la sua opera e dando inizio a una nuova fase della sua arte».
Si agita a quell’epoca in Picasso un sordo rancore contro l’umanità stravolta. «Ci crediamo superiori agli animali, - brontola, - è falso». Si ribella alle invenzioni dell’uomo, l’orologio, ad esempio, di cui denuncia i misfatti. «Con tutte le nostre scienze siamo arrivati a perdere il senso della direzione; ora non abbiamo che un residuo di istinto per portare la mano al punto del nostro corpo che vogliamo grattare quando ci prude».
Una nuova inquietudine si impadronisce di lui. Ha lavorato molto. Oltre ai quadri, ha dipinto a olio su carta innumerevoli schizzi, per lo più a monocromo. A volte, lasciando la tela che aveva nel cavalletto, ha fatto parecchi schizzi in un sol giorno. Per lui non sono che appunti, benché spesso si tratti di cose molto elaborate. «Questo accumulare idee pittoriche sulla carta, - ha spiegato più tardi, - è una eventuale aggiunta a qualche cosa che posso utilizzare nei quadri, benché non sia mai esattamente la stessa cosa».
Via via che l’inquietudine aumenta riduce il lavoro. Il momento è gravido di minacce. Si sente che la guerra ben presto cambierà fisionomia. Verso la metà di marzo Picasso parte con Dora Maar per Parigi. «Lavoro, dipingo e mi secco tremendamente», scrive in una cartolina a Sabartés. Una mostra di suoi acquarelli, guazzi e disegni dovrebbe aprirsi alla Galleria M. A. I. il 19 agosto. In questa Parigi tutta voci allarmanti gli prende nostalgia della quiete di Royan. Il 27, 28 e 29 marzo, tre giorni di seguito, dipinge delle nature morte. È il mercato di Royan che ha davanti agli occhi nel suo studio di Rue des Grands-Augustins quando scrive a Sabartés: «Ho lavorato. Ho fatto tre nature morte, dei pesci, con una bilancia, un grande granchio e delle anguille».
La grande offensiva tedesca è cominciata. Le proporzioni del disastro si immaginano a fatica. Una ventata di panico piomba su Parigi. Picasso ritorna a Royan il 17 maggio. Si butta al lavoro come per mettere un muro tra sé e gli avvenimenti. Ma la guerra prende un volto anche per coloro che non riuscivano a immaginarne l’orrore. Si scavano trincee, difesa irrisoria contro forze esplosive ignote. I primi rifugiati arrivano a Royan. Picasso incontra per la strada amici o conoscenti in fuga, uomini politicamente compromessi, artisti ebrei, che vogliono imbarcarsi a Bordeaux o rifugiarsi nel Sud.
Le truppe francesi ripiegano senza ancora aver capito quel che accade. I locali sono requisiti, i ristoranti rigurgitano di gente. Davanti ai fornai si formano le prime code. I tedeschi sono entrati a Parigi.

È un’altra razza, - brontola Picasso. - Si credono molto intelligenti e lo sono a volte... In ogni caso è certo che noi dipingiamo meglio di loro. Tante truppe, tante macchine, tanta forza e tanto spavento per venire fin qui... Immaginano d’aver preso Parigi. Per contro noi, senza muoverci di qui, da molto tempo siamo padroni di Berlino e non credo che saranno capaci di sloggiarcene.

Sembra parlare per rassicurare se stesso. Una sera le truppe tedesche arrivano a Royan. Picasso le vede sfilare dalla finestra del suo studio. La Kommandantur si insedia nelle immediate vicinanze dell’Hotel de Paris.
Il 15 agosto Picasso dipinge il Café a Royan. Ha profuso nella tela tutte le sonorità della sua tavolozza e la freschezza dei colori è ravvivata dal lucido degli smalti. Sopra i verdi, i lillà, i violetti della piazza si leva una casa gialla con le imposte azzurre entro cornici rosse. Il balconcino di legno al quale si è spesso affacciato suggerisce l’idea di un grazioso scenario teatrale, le tende che lo riparano sono a righe festose verdi e gialle.Il cielo d’un azzurro cristallo, toccato di verde per il riverbero del mare, sembra spazzato da un vento fresco. Il quadro è un’esplosione di gioia, di fede nella vita. È l’addio di Picasso a Royan.
Fra poco non resterà nulla della Royan che ha conosciuto. L’Hotel de Paris, dove i tedeschi si sono arrogantemente insediati, scomparirà sotto i bombardamenti. La villa «Les Voiliers», nella quale ha dipinto il volto felice della città, sarà anch’essa ridotta a macerie. Amici consigliano a Picasso di lasciare la Francia occupata. È l’esponente per eccellenza di quel «Kunstbolschevismus» contro il quale un pittore mancato, l’onnipotente vincitore del momento, riversa il suo rancore personale. È noto l’aiuto che l’autore di Guernica ha prestato ai repubblicani spagnoli e l’odio dei tedeschi tiene una contabilità precisa. Picasso riceve inviti da tutte le parti, dal Messico, dall’Argentina, dagli Stati Uniti. La sua grande mostra di New York ha attirato su di lui l’attenzione generale. Egli invece decide di rientrare a Parigi occupata. Al momento della partenza, quando sta per salire in macchina, con Kazbek dietro, un ufficiale tedesco, che se ne stava rigido davanti alla porta della Kommandantur, gli si accosta: «Bitte, - e facendo appello a tutte le sue conoscenze di francese, - le dispiacerebbe dirmi di che razza è il suo cane?»
È una Parigi deserta e triste quella in cui ritorna. Dapprima va ad abitare in Rue La Boétie. Ma i tragitti tra casa e studio divengono difficili. Decide così di trasferirsi in Rue des Grands-Augustins. Nel generale clima di freddo e di fame si mette al lavoro.
Gli ultimi giorni del soggiorno a Royan, quando già aveva imballato tutte le sue tele, ha dipinto ancora due ritratti sui coperchi delle casse d’imballaggio. Sempre a Royan, a un collega agitatissimo che gli chie­deva: «Cosa faremo con i tedeschi alle calcagna?», «Delle mostre», ha risposto. In realtà invece, compromesso com’è agli occhi dei tedeschi, gli sarà proibito di esporre a Parigi. Provvede a mettere al sicuro la maggior parte dei suoi quadri nei sotterranei blindati di una banca, ne trattiene però presso di sé più di un centinaio. E lavora.

Non era il momento per un artista di venir meno, di tirarsi indietro, di arrestarsi nel lavoro, - dirà più tardi; - non gli restava altro da fare che lavorare, seriamente, con fervore, che lottare per il cibo, che incontrare con calma gli amici, e aspettare la libertà.

La lotta anche semplicemente per sopravvivere è dura. Fa freddo nella grande casa di Rue des Grands-Augustins, dove l’impianto di riscaldamento centrale, messo di recente, è inutilizzabile. Le dita intirizzite reggono con fatica un pennello. Un giorno scova da qualche parte una immensa stufa a carbone che viene issata a fatica per la scala ripida e a curve strette. Non si riesce a trovare abbastanza carbone per alimentarla, ma Picasso trova che assomiglia a una scultura negra. Tuttora essa domina con la sua massa sgraziata lo studio di Rue des Grands-Augustins. Per semplificare le cose, gli prestano una cucina economica che riempie di fumo la stanza.
Ai primi di febbraio del 1941, «unicamente come passatempo, - dice Sabartés, - Picasso comincia a scrivere». Riempie un album di appunti. Gioca con le parole come con la carta pieghettata, il filo di ferro, i fogli di stagnola, i fiammiferi, i pezzi di crine o gli spaghi con i quali fa innumerevoli oggettini ricordo. Ma le sue dita impazienti sembrano spontaneamente arrivare a forme coerenti; le parole invece prendono in lui strade autonome. Il suo pensiero letterario non ha la disciplina, la sicurezza istintiva della sua visione plastica. Il surrealismo, che non ha influito sulla sua pittura, se si tolgono certi disegni del 1933, impronta invece sensibilmente il suo stile. Gli appunti di cui riempie i suoi taccuini prendono forma di una commedia che scrive guidato da idee vagabonde, da frammenti di quel che ha visto e sentito. Bruschi contrasti tra l’assurdo e il quotidiano formano arabeschi imprevisti, un pulviscolo di colori. Picasso si diverte molto a scrivere questa commedia che intitola Le désir attrappé par la queue.
L’opera conserva un’eco delle privazioni del tempo, da lui interpretate secondo il suo particolare senso dell’humour. L’inizio del secondo atto si svolge in un corridoio del Sordid Hotel con due piedi davanti a ogni porta che si torcono di dolore e urlano in coro: «I miei geloni! i miei geloni!...» C’è anche il ricordo della stufa che fa fumo, «la mia cuoca, schiava slavo-ispano-moresca e serva e padrona albuminurica». L’isolamento degli uomini fra gli egoismi ripiegati su se stessi, nella sete d’amicizia e nella diffidenza dei vicini, si rispecchia in questa battuta di uno dei personaggi, l’Angoscia magra: «Io batto il mio ritratto contro la mia fronte e offro la mercé del mio dolore contro le finestre chiuse a ogni misericordia». Le désir attrappé par la queue è un riso un po’ forzato, esploso attraverso le notti di Parigi.
Nel marzo del 1943 i Leiris invitano alcuni amici per una lettura dell’opera. È la Parigi del coprifuoco, delle perquisizioni a ogni ora, dei colpi violenti alla porta che sono l’incubo di ogni notte. È la Parigi cantata da Eluard con parole che ogni francese allora sapeva a memoria, è la Francia del terrore di cui ha fissato il volto:

Que voulez-vous la porte était gardée
Que voulez-vous nous étions enfermés
Que voulez-vous la me était barrée
Que voulez-vous la ville était matée
Que voulez-vous elle était affamée...

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono di quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germain Hugnet, Jacques Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».
In un articolo pubblicato in «Comoedia» Vlaminck fulmina contro di lui, Camille Mauclair lo proclama responsabile della crisi dell’arte moderna, un volantino fascista americano lo accusa della decadenza della pittura e il suo nome figura degnamente in un libro di Vanderpyl dal titolo ben eloquente: L’Art sans patrie est un mensonge; le pinceau d’Israel.
È in questo momento che la forza d’astrazione di Picasso, quella sua impermeabilità a tutto ciò che può distoglierlo dalla sua strada, si manifesta a pieno. Come se, in un mondo in piena distruzione, volesse aggrapparsi a qualche cosa di stabile, egli varia all’infinito un unico motivo, quello della Donna seduta. Ma il senso di distruzione che è nell’aria s’insinua anche in lui e scatena le catastrofi che egli compie sul viso di Dora Maar. Ecco ad esempio la Femme au corsage bleu (Galleria Leiris), dove appare una blusa punteggiata di bolli bianchi che ritornerà a più riprese nei suoi quadri e che in realtà Dora Maar non ha mai portato.
Questo frammento di testa troppo pesante non è che un primo segno, si direbbe ancora timido, delle deformazioni future. Picasso dipinge Dora Maar a due riprese in un abito che ha veramente portato nell’estate del 1941: un corto giacchetto scozzese ad ampi risvolti, il bustino col colletto a punte. Ma tra questo abito elegante e il cappellino con una grande piuma si leva, sul minuscolo cuneo del collo, una testa immensa, costruita a forza di mutilazioni atroci, come per diffondere l’orrore. Il fondo del quadro rappresenta la solita cella di prigione, col soffitto così basso che il cappello vi urta. In questi quadri, in cui l’intero viso umano si decompone, l’unico elemento che perdura uguale è una poltrona metallica a schienale diritto con due palle in cima: una sorta d’armatura che resiste alla distruzione.
La poltrona, la cella e il soffitto basso, solcato da travi grigio acciaio, ritornano anche in un ritratto dipinto nell’inverno 1941-1942 (Milano, coll. Carlo de Angeli Frua), in cui il modello porta un elegante vestito azzurro con maniche a sbuffi e un cappello a minuscola calotta e orli ondeggianti. Le deformazioni dell’immensa testa, issata su una base aguzza, sono così accentuate che sembra essere stata tornita in legno prima d’essere stata mutilata.
In forme ugualmente scultoree è dipinto il Garçon à la langouste, con lo stesso gruppo naso-occhio che sporge verso l’alto mentre una bocca a mezzaluna con denti rari sorride, come sorridono i monelli di Murillo. La parte inferiore del corpo, con due enormi piedi, è nuda e scopre un piccolo sesso. È un ricordo di Royan che affiora in questa Parigi tormentata, un ricordo dei tempi felici in cui dei ragazzi giocavano ridendo con degli animali in riva al mare. Il ragazzetto del quadro è già una visione infernale, tipica di un mondo sconvolto.
Ma gli incubi di Picasso non infieriscono solo sui visi. I nudi che dipinge o disegna in questo tempo si presentano sempre più spesso, se pure sotto aspetti diversi, con i loro corpi stretti insieme senza elementi di passaggio. Essi sembrano evocare gli incubi di Goya, il Goya che nelle Disparates disegna donne con molte membra e con la testa di Giano. Picasso però non si propone, come Goya, di raffigurare le contraddizioni che si agitano in un essere umano, ma la simultaneità tormentosa della sua esistenza. Una serie di schizzi, eseguiti nel mese di maggio del 1941, studia, attraverso molte variazioni, la veduta circolare di un corpo disteso. Un disegno dai contorni quasi realistici mostra un nudo con due profili saldati insieme, una veduta da tergo unita alla veduta frontale.
Il tormento dei corpi persiste attraverso la tormenta del tempo. Su un letto appaiono una donna nuda, vista di fronte e di profilo, distesa, e una seconda donna seduta, vista anch’essa di schiena e di fronte, con le gambe penzoloni scostate sì che lasciano vedere il sesso ombreggiato. Picasso ripete più volte, soprattutto nel 1942, il motivo torbido delle due donne e le dipinge nude, con gran violenza di verdi, gialli, rossi, bruni e violetti: l’una in piedi, l’altra stesa sul divano in fondo al quale si leva un armadio a specchio.
Il tema delle due donne amorose, accentuato dalla presenza di uno specchio, si conclude nell’Aubade (Parigi, Museo d’Arte Moderna), nella quale una donna nuda, tutta contorta in modo da presentarsi da ogni lato, sta distesa su un divano a righe, mentre l’altra, dall’aria curiosamente di maschiaccio, sta seduta su una sedia, vestita, con un mandolino sulle ginocchia. I diversi aspetti simultanei del nudo sono resi a piani continui o a sfaccettature, spigoli aguzzi e ombre marcate, disseminate qua e là. In pratica però è l’incastro dei piani netti che prevale in lui, con contrasti violenti di colore.
Egli svolge metodicamente la sua visione con la serie delle Donne sedute, esercizio d’interpretazione condotto su vastissima scala. Le forme sfuggono sempre più in direzioni opposte, come se fossero prese dal panico. Della Femme assise dipinta in ottobre non rimane che un vestito azzurro appoggiato alla poltrona, molto scollato, contro un fondo arancione, mentre il triangolo del collo si è rifugiato su una spalla e sostiene sul suo fragile vertice i grossi triangoli e rettangoli che compongono il viso azzurro, lillà e rosso. Il tutto è sormontato da un cappello a guarnizioni complicate come se il nodo, il fiore o la penna che regge avessero il compito di legare l’indicibile e l’assurdo alla femminilità.
Nella Femme assise tenant un alphabet, eseguita nello stesso mese, la poltrona sormontata dalle palle rimane la sola struttura stabile di un mondo sconvolto. Come dice Barr, i tratti completamente centrifugati del viso avvicinano la figura a un totem rituale della Nuova Irlanda.
Nella serie delle Donne sedute i toni violenti si alternano a colori spenti. La Femme assise dipinta nel novembre porta un vestito nero a riflessi azzurri e la sola nota di colore in questo notturno è il lungo ovale rosa del viso mezzo mangiato da un’ombra azzurra. Secondo la legge intima di Picasso, le cose resistono mentre l’elemento umano va alla deriva, e il vestito, con il suo drappeggio complicato (inventato da lui, d’altronde, non copiato dal vestito della modella) è dipinto minuziosamente, al pari del fermaglio d’oro che lo chiude. Fra tutte le sue barbariche evocazioni di donne sedute, nelle quali l’urlo dei gialli, rossi e verdi si fa sempre più forte, questo ritratto fatto di penombra, con un occhio verticale accanto a uno orizzontale e la piccola macchia purpurea della bocca contro la guancia, è uno dei più allucinanti. Gli occhi, resi con una semplice macchia nera ovale, con un puntino al centro, sono invasi dalla paura. La donna seduta in nero potrebbe anch’essa servire da emblema a questi anni che scorrono tetri con appena un vago soffio di speranza.

Non ho dipinto la guerra, - ha detto Picasso dopo la Liberazione, - perché non sono di quei pittori che, come fotografi, vanno in cerca d’un soggetto. Ma non c’è dubbio che la guerra c’è nei quadri che ho dipinto allora. Più tardi forse uno storico dimostrerà che la mia pittura ha cambiato per effetto della guerra. Io, personalmente, non lo so.

La guerra c’è, in realtà, nei quadri di Picasso. C’è perfino nelle nature morte di quegli anni. La vita quotidiana di allora è fatta di privazioni sordide. Picasso, che ha nel sangue la grande sobrietà degli spagnoli, si adatta facilmente alle condizioni di vita più austere. Ma la crescente penuria di ogni cosa intacca perfino la sua indifferenza in fatto di cibo. Un giorno dipinge il Buffet du «Savoyard», il ristorante dove mangia spesso, con i pezzi forti dei pasti di quel tempo: un sanguinaccio nero e dei carciofi, e in più un grande coltello da cucina e una bottiglia. Il quadro è dipinto con gli stessi toni spenti del ritratto precedente e vi domina, secondo le parole stesse di Picasso, «un’atmosfera grigia e tetra come Filippo II»; i coltelli e le forchette spuntano dal cassetto «come anime del Purgatorio». Gli anni bui si riflettono anche nelle Nature morte col cranio di toro del 1942 (Parigi, Galleria Leiris), condotte in un verde crepuscolare contro un muro grigio, al di sopra di una tavola viola cupo, accanto a una pianta verde. Attraverso la finestra penetra obliquamente un’onda di luce rosa sul lillà, ma la finestra ha un’inferriata spessa come quella d’una prigione.
Gli anni di freddo e di fame si ritrovano, evocati con un humour nero, nella Femme assise avec chapeau aux poissons, dove il viso della figura, immerso in un’ombra d’un grigio verdastro segnato di nero, è sormontato, come fosse un cappello, da un piatto di un azzurro festoso sul quale posano una testa di pesce, un limone tagliato, un coltello e una forchetta.
Di quando in quando Picasso si concede una pausa, una breve evasione dalla tristezza dei tempi. Dei fiori appaiono sulla tavola, in una brocca di cristallo posta davanti a una finestra o a un muro chiaro, con in fondo uno specchio che capta tutta la luce. Altro momento di sollievo: un ritratto di Dora Maar (maggio 1941) che riproduce il suo vero volto oppure il ritratto di Nush Eluard (Parigi, Museo d’Arte Moderna) dell’agosto dello stesso anno. Sul busto nudo di un corpo giovanissimo si erge un collo fragile, sul quale la testa, con la sua massa di capelli, appare troppo pesante; nei lunghi occhi, mezzo abbassati sotto la frangia delle ciglia, sembra passare il sorriso che non c’è sulla bocca dolce, quasi infantile. Questo straordinario ritratto è un avvertimento del destino, è il viso, tessuto di luce, di quelli che non sono fatti per resistere e che già portano in sé una morte precoce.
I mostri continuano nell’opera di Picasso, prendendo volta a volta l’apparenza di tutti i terrori che ossessionavano l’uomo primitivo quando aveva freddo e fame, quando lottava per sopravvivere. Ecco la Femme tenant un artichaut, un carciofo grosso come una mazza irta di punte, idolo barbarico con un occhio-narice, un orecchio issato più in alto del sopracciglio, una bocca a mezzaluna (1942). Oppure quella personificazione della collera che è la Femme assise dell’anno dopo con gli occhi rivoltati, il vestito a pieghe che assomiglia a un’armatura d’acciaio, o ancora, quelle Donne in grigio che divengono sempre più allucinanti. Si direbbero vittime di una vendetta oscura che attribuisce loro occhi sovrapposti, folli e tristi, una cattiva bocca a mezzaluna oppure un rettangolo di denti messi a nudo. Dipinge anche donne il cui profilo invade il viso visto di fronte e che sembrano dipinte in una materia fosforescente. Tale è la forza di distruzione che emana da queste creature che sembrano mettere in pericolo tutto ciò che le circonda: quando si cullano su una poltrona a dondolo il pavimento a mattonelle si alza gonfiandosi come un’onda.
Ma il cerchio infernale della sua opera non ha presa su Picasso. Circondato da incubi e da violenze condotte contro il mondo visibile, egli tuttavia conserva quell’estrema sensibilità che lo porta a solidarizzare con tutte le sofferenze e tutta la sua lucidità di giudizio. La sua penetrazione psicologica e i grandi mezzi di cui dispone per rivelare intero un essere umano appaiono nel drammatico ritratto di Dora Maar dell’ottobre del 1942. Tuttavia questo viso dalle mascelle quadrate che si stringono è un viso chiuso; esso spicca, bianco e rosa, contro le ombre azzurre e verdi, entro la sua cornice di capelli scuri con riflessi che vanno dal rosso al verde. La veste che figura nel ritratto, e che in realtà Dora Maar non ha mai portato, è d’un tessuto a righe allegre, verdi e rosse, con un collettino bianco orlato di smerli. Ma contro il vestito vivace, che si tende sul petto alto, le braccia si stringono con un gesto freddoloso. Col suo ricco cromatismo questo ritratto era forse destinato a segnare uno dei momenti di speranza che illuminavano quegli anni, o uno dei sogni sul futuro che permettevano di resistere. Anche i tratti del modello spiravano calma: la fronte liscia oltre le sopracciglia, la bocca segreta e ferma; solo il fremito delle nari rivelava la forza emotiva della figura. Ma mentre il ritratto è ancora in lavorazione Dora Maar è sconvolta da un dolore famigliare: sua madre si ammala e muore prima che il ritratto sia finito. L’angoscia del modello è penetrata a poco a poco nel quadro e si rivela nella contrazione dolorosa della fronte, nelle ciglia corrugate, nello sguardo che si rifiuta di capire, in un muscolo della guancia che freme. Di fronte a questa donna che muta espressione via via che il ritratto procede, vestita d’un abito troppo festoso per la circostanza, Picasso si sforza di cogliere ciò che è quasi impossibile fissare: un viso umano che passa dalla spensieratezza all’apprensione, dall’apprensione alla certezza dolorosa. Tutto il quadro è permeato, e in modo evidente anche non conoscendo le circostanze, d’un sentimento drammatico. Il fondo con i suoi azzurri che schiariscono o incupiscono, i suoi bruni che s’infuocano o trapassano al verde, ha qualche cosa d’una tenda o d’un paravento chiuso su un mistero. Sempre seguendo la simbolica di quel senso di gelosia che assegnava a Dora Maar una stretta cella come sfondo dei suoi ritratti, anche qui Picasso aveva messo nel fondo un’inferriata, una brocca d’acqua e un pezzo di pane. Ma di fronte al dolore della sua bella prigioniera il feroce sentimento di possesso di Picasso scompare, e scompare anche l’inferriata sim­bolica del quadro.
Nel ciclo della donna prigioniera rientrano però ancora il Buste devant la fenétre (Galleria Leiris) dall’apparenza di un manichino di modista con un doppio profilo giustapposto. Una gabbia di uccelli, uno dei simboli cari a Picasso, e la pianta nel vaso sottolineano questo carattere di figura sottratta alle tentazioni del mondo.
Il Buste è condotto nella tonalità spenta di cui Raynal ha detto: «La tavolozza di Picasso si era messa in lutto». Questo periodo è stato anche chiamato «l’epoca grigia». Ma la sua gamma consta di lillà, verdi, azzurri, bruni, di tutto il ricco gioco di sfumature che si dispiega al crepuscolo, e che è simile all’effetto delle voci che, parlando basso, rivelano una cantilena segreta. C’è nelle nature morte di questo periodo un fondo di mistero e Picasso stesso sembra preso dalla magia da lui creata. Capita spesso in un ristorante vicino a casa sua e che porta un nome suggestivo per lui: «Le Catalan». Verso la fine di maggio del 1943 dipinge in due riprese la Desserte del ristorante, contro un fondo giallo con le cornici barocche di un mobile scuro alle quali corrispondono le curve dei piatti. Ha raccontato più tardi:

Desinavo al «Catalan» da mesi e da mesi guardavo il buffet senza pensare altro che: «È un buffet». Un giorno decido di farne un quadro. Lo faccio. Il giorno dopo, quando arrivo, il buffet non c’è più, il suo posto è vuoto. Dovevo averlo preso senza accorgermene, dipingendolo.

Come tante altre battute di Picasso, anche questa nasconde un grano di verità: il suo stupore di fronte a tutto ciò che gli succede di strano, di fronte ai suoi rapporti, del tutto speciali, con gli oggetti che la vita convoglia per depositarglieli accanto. Le sue nature morte, anche quando la tavolozza si schiarisce, anche quando riversa sulla tela tutta la festa dei suoi colori, rimangono permeate da un senso di dramma. Così la Nature morte ù la colombe suggerisce con poderoso realismo l’idea di una creatura morta, come se l’uccello non avesse un triangolo appena abbozzato per testa e due occhi uno sopra l’altro.
La Nature morte avec la guitare et l’épée de matador sembra fatta anch’essa d’accenti festosi, d’un accostamento d’oggetti piacevoli, ad esempio il sigaro che si consuma in un portacenere di cristallo.
Si nota allora in Picasso, così restio ad ammettere soggetti nuovi, un desiderio di novità. Nelle sue nature morte introduce oggetti che finora non gli erano mai serviti. Un campo nuovo si apre nella sua opera: l’infanzia. Tanto il soggetto che il modo di trattarlo sono del tutto imprevisti. Un grosso bimbo paffuto sta seduto a terra, vicino a una sedia sulla quale stanno appollaiate due colombe, una sul sedile, l’altra sullo schienale. Nella testa tonda del bambino gli occhi appaiono sbarrati con insistenza. Non si è servito di modello, tuttavia i tratti della figura hanno qualcosa di vagamente famigliare. «L’abbiamo chiamato Churchill, - spiega Picasso ridendo; - abbiamo trovato che gli somigliava». Dello stesso anno 1943 sono anche Les premiers pas. Picasso non ha rappresentato l’incanto del goffo muoversi dei bambini, la grazia di un corpicino appena formato, ma l’immensità dello sforzo sostenuto da questo bimbo più grande del vero, il dinamismo della sua conquista del mondo. Il bimbo in un primo tempo doveva figurare da solo nel quadro; solamente più tardi Picasso vi ha aggiunto la madre piegata su di lui. La scelta del soggetto è dovuta al caso o non indica invece qualcosa come un impeto di tenerezza, che non sa ancora che un giorno sarà soddisfatta?
Fra i soggetti rari in Picasso (e tanto più significativi quando sporadicamente fanno la loro comparsa) sono anche i paesaggi. Il primo è la Fenêtre de l’atelier, con una cascata di tetti e di camini che rappresenta un termine di passaggio tra le nature morte davanti a una finestra e il paesaggio vero e proprio. L’elemento più significativo di questo quadro è quella manopola di radiatore smisurata che rappresenta da sé sola un sogno di calore, l’attesa di tempi migliori in cui di nuovo non ci sarà che da girare la manopola per non avere più da soffrire il freddo (quando l’inverno verrà, beninteso, dato che il quadro è stato dipinto in piena estate).
L’estate del 1943 è illuminata dalla speranza. L’incubo regna ancora nel cuore della città, il passo dei soldati tedeschi risuona ancora sui selciati, il terrore s’aggrava, trovando sempre nuovi mezzi, ma i rovesci degli eserciti tedeschi in Russia preannunciano una svolta nella guerra. La vittoria sta cambiando campo. Picasso non aveva quasi mai passato l’estate a Parigi, ma dal suo rientro da Royan non viaggia più: gli spostamenti sono difficili per gli stranieri. Tuttavia uscendo di casa vede, proprio a due passi, come se lo vedesse per la prima volta, il giardinetto del Vert-Galant, ai piedi del Pont-Neuf, con i suoi alberi che sembrano parte integrante dell’architettura e, nel fondo, la statua equestre di Enrico IV. Il giardino è luogo d’appuntamento per gli innamorati e Picasso li dipinge in forma grottesca, con occhi tondi, baffi appoggiati contro la mezzaluna rovesciata di un viso di donna e il cerchio della bocca. Il Vert-Galant e la serie degli innamorati che si baciano mostrano che la tendenza a cambiare si va accentuando. Il moto pendolare del suo lavoro lo porta dalle forme lineari, dai piani di colore, chiusi da un segno scuro, a un rilievo sempre più marcato.
Dipinge in questo momento una delle sue sfingi più strane; egli la intitola ancora Femme assise, ma in realtà è solo un monumento della sua inquietudine, intagliato nel legno duro. Nella piramide tronca della massa dei capelli è inserito l’uovo appuntito di un viso dai tratti indicati sommariamente, che ondeggia piccolo, troppo piccolo, sopra le masse immense dei seni. La plasticità del quadro rivela il desiderio sempre maggiore di esprimersi in scultura.
Dal 1941 Picasso si era rimesso a scolpire: gatti di grande mole, uccelli, teste vagamente umane, oggetti senza una base precisa, da tenere nel cavo della mano. Da Boisgeloup fa venire dei gessi degli anni tra il 1931 e il 1933, dato che da una decina d’anni aveva quasi completamente abbandonato la scultura. Le difficoltà per farli fondere in bronzo sono molto grandi in questo momento in cui gli occupanti portano via le statue dalle piazze e dalle strade di Parigi per fame cannoni.
Forse in questo ritorno alla scultura c’è anche un gesto di sfida, che viene ad aggiungersi all’audacia del suo stile. Le opere di scultura di questi anni sono infatti senza legame alcuno con il lavoro fatto finora, senza alcuna continuità con il passato, né con la sua visione pittorica. Il suo spirito inventivo vi si scatena con allegra furia. Per le sue sculture egli si serve di tutto ciò che gli capita sotto mano, degli oggetti più umili, più negletti. Uno stampo da torte sembra aver servito per il suo Fauceur au grand chapeau. Un giorno scova da qualche parte un manichino da sarta di forma antiquata, col busto alto, e lo trasforma in donna «belle époque», con la sottana lunga e senza piedi, che bilancia una testa asimmetrica su un collo vezzoso. Al contrario la Femme a l’orange è costituita da un fusto stretto che si apre in rami che sono braccia, coronato da una placca quadrata che funge da testa: le scanalature del busto si devono al cartone ondulato che gli era stato messo intorno per la fusione. L’acutezza della sua visione si palesa nel modo straordinario con cui sa scoprire una parentela tra il fatto quotidiano, l’oggetto famigliare e l’insolito che vi si nasconde, invisibile per tutti tranne che per lui. Un giorno il suo sguardo (e si pensa a quale inventore avrebbe potuto essere) cade su una sella e un manubrio di bicicletta. Nella sella Picasso scopre un cranio di bue e il manubrio fornirà le corna. L’illusione è sorprendente. L’abilità della trasformazione, compiuta quasi in spregio alla «bella materia», ha assicurato a questa Tête de taureau una strepitosa celebrità. Quando fu esposta dopo la Liberazione Picasso la guardò con aria divertita.

Una metamorfosi c’è stata, - dichiara allora a Andre Warnod, - ma ora vorrei che ne avvenisse un’altra in direzione opposta. Mettete che la mia testa di toro sia gettata nei rifiuti e che un giorno arrivi uno e dica: «Ecco qualcosa che potrebbe servirmi come manubrio per la mia bicicletta». In questo modo la metamorfosi sarebbe stata doppia...

Picasso sembra particolarmente soddisfatto di aver potuto, grazie alla sua abilità manuale, dimostrare la fondamentale identità di tutte le cose. Cocteau l’ha chiamato un giorno: il re dei cenciaioli. In questo suo gusto per la roba vecchia c’è il rispetto per la cosa creata e nello stesso tempo un interesse appassionato per le possibilità di trasformazione che sono in essa, come se, scoprendole, partecipasse lui stesso al divenire e si facesse anello di una catena senza fine.
Fra le sculture eseguite in questi anni ritorna a più riprese un teschio, non però reso come un cranio scarnificato, ma come un blocco segnato da qualche piccola cavità. Queste teste di bronzo hanno piuttosto l’aria di pietre che abbiano rotolato per un tempo infinito, scavate e levigate dalle onde.
La guerra domina senza possibilità d’equivoco in questi teschi, dei quali il più intenso data del 1944, del momento in cui il conflitto si conclude nell’orrore. L’apertura tonda degli occhi dà sul vuoto, il naso pare roso dalla lebbra, la bocca assomiglia a una cicatrice mal chiusa. Questo teschio non ha nulla in comune con i crani che ripetono il terribile monito dal fondo degli ossari, come è lontano dagli scheletri ghignanti che lungo tutto il corso dell’arte spagnola ricordavano ai vivi la vanità delle cose: con i suoi occhi vuoti, la carne tagliuzzata della bocca, sembra l’immagine stessa del terrore, dedicata ai morti anonimi.
Tutto quello che Picasso crea negli ultimi anni della guerra esprime il suo rifiuto di capitolare, la sua volontà di resistere. Amici della Resistenza si incaricano di trasportare di notte i gessi verso le fonderie clandestine. È il tempo delle cose inconcepibili, quando si diffonde un manifestino qualunque a rischio della vita, senza stare troppo a chiedersi se l’effetto di questo foglio di carta valga una morte sotto la tortura. I gessi di Picasso, per fondere i quali si sottrae materiale bellico, sono avviati, coperti di rifiuti, in carrettini a mano sotto il naso delle pattuglie tedesche, e i bronzi vengono riportati nello stesso modo. Quel che importa è la sfida in sé, l’affermazione di vita contro la volontà di distruzione del nemico.
Picasso si mette a una grande opera di scultura. La prepara attraverso molti schizzi e disegni, che un critico americano fa ammontare a un centinaio. La preparazione è così approfondita, la concezione così completa, definita anche nei minimi particolari, che la statua, alta due metri, viene eseguita dall’artista in una sola giornata di lavoro, nel febbraio del 1943. L’opera appare senza alcun rapporto con il presente e senza radici nel passato di Picasso: un tema isolato nella sua opera. Soprattutto è di una estrema semplicità. «Nessuno è mai riuscito a superare la scultura primitiva», diceva Picasso a Sabartés nel corso di una delle loro conversazioni a Royan.
Picasso, il cerebrale, sembra aver ritrovato il segreto dell’istinto primitivo quando scolpisce l’Homme au mouton. Questa immagine, spoglia all’estremo, è apparsa, cosa curiosa, davanti agli occhi d’un uomo di città che fa una vita da assediato.
I precedenti artistici dell’Homme au mouton, se di precedenti si può parlare, potrebbero risalire al Buon Pastore dei primi tempi cristiani. Ma la presentazione della figura umana e il suo modo di tenere l’animale smentiscono ogni intenzione simbolistica. La figura è piantata sui suoi enormi piedi che escono appena dal suolo, il nudo corpo sale alto sopra le lunghe gambe. Non è un giovane nel pieno vigore delle forze, che confronta la bellezza del suo corpo con il vigore dell’animale, né uno di quei robusti apostoli che portavano allegramente sulle spalle un agnello. Picasso l’ha fatto con la barba tonda e la testa calva. Il suo corpo, che già invecchia, invecchia bene, è secco come un ceppo di vigna e dritto come un pioppo, la testa è gettata indietro come per schivare i colpi dell’animale. Le braccia sono abbastanza forti per poter chiudere la bestia nella loro stretta. La bestia è pesante; guardandola di lato si scopre tutta la sua greve massa dominata a fatica. La statua è modellata a colpi rapidi, differenziando il corpo liscio dell’uomo dalla superficie a bioccoli della pecora. All’uscire da questi anni di guerra l’opera si leva come l’incarnazione stessa della sopravvivenza: non un giovane David trionfante, ma un uomo calmo, dal corpo indurito e smagrito dalle privazioni. Stranamente solenne nel suo gesto semplice, esso si pone sulla stessa linea di tutti coloro che hanno dominato la vita, salvando la specie e la dignità dell’uomo.
Gli ultimi guizzi della guerra arrivano a fine. La liberazione è ormai vicina e proprio allora il terrore si fa più duro, l’odio si esaspera. Ogni giorno arriva la notizia della scomparsa di un amico, di un ebreo che fino allora era rimasto nascosto, di un militante della Resistenza. Max Jacob, sfollato a Saint-Benoît-sur-Loire non sfugge alla persecuzione razziale, alla discriminazione che equivale alla segregazione dei lebbrosi: «Felice tu, rospo! Tu non hai la stella gialla», scrive.
L’arresto della sorella lo colpisce dolorosamente, ma non fa nulla per sfuggire alla stessa sorte, non lascia nemmeno il villaggio dove è troppo conosciuto. Arrestato nel febbraio del 1944, morirà a Drancy. Quando riportarono la sua salma a Parigi per seppellirla nel cimitero di Ivry, Picasso fu tra i rari amici che osarono seguire il corteo funebre. C’è qualche cosa di ben spaventoso in questa serie di morti dell’ultima ora. La solitudine infittisce intorno a quelli che restano.
Le notti di Parigi sono sconvolte dai bombardamenti alleati, sempre più frequenti. Un giorno bombe lanciate da aerei inglesi provocano danni rilevanti nei paraggi della Gare du Nord: un quadro di Picasso, che si trovava allora presso lo stampatore Lacourrière, viene colpito da schegge di vetro. È la Nature morte à la lanterne chinoise, dipinta agli inizi dell’anno, col suo frammento di cielo stellato, il cielo pauroso dei bombardamenti. Picasso è particolarmente attratto da questa Parigi minacciata e la fissa in termini durevoli rappresentando il paesaggio che ha davanti agli occhi, cioè i lungosenna, come il Greco dipingeva Toledo, facendovi convergere motivi sparsi che gli sono cari. Pare vagheggi, secondo Sydney Janis, una grande opera, una versione della Grande Jatte nel gusto del nostro tempo. Al pari di tanti stranieri che hanno terribilmente sofferto della disfatta della Francia, si esalta dei fremiti d’eroismo che la scuotono, dei suoi eroi anonimi. Dipinge così, il 14 luglio, due quadri con la veduta di Notre-Dame. Il primo anno del suo soggiorno parigino aveva dipinto la festa popolare con l’allegria di quel fuoco d’artificio che era allora la sua tavolozza. Gli occupanti hanno proibito di celebrare le feste nazionali, ma la Francia ha dato prova di saper ancora prendere delle Bastiglie. Forse Picasso non si è mai sentito tanto francese come questo 14 luglio, quando dipinge la Parigi eterna.
Ai primi d’agosto gli eserciti alleati avanzano. Picasso indugia alla finestra dello studio. In un vaso cresce una pianta di pomodoro. La pianta vigorosa solleva l’arabesco dei suoi rametti contro un fondo di muri grigi verso il cielo sereno. I frutti sono per lo più ancora verdi. Picasso sembra meravigliato della tenacia di questa pianta prigioniera. Ogni giorno ne esamina i frutti, li vede colorirsi di un rosso scarlatto e, tra il 3 e il 10 agosto, dipinge quattro quadri sullo stesso soggetto: Tomates.
La guerra s’avvicina. La fucileria scoppia per le strade. Si diffonde la voce che i tedeschi, prima di abbandonare Parigi, la faranno saltare. Nessuno più è sicuro di sopravvivere alla grande distruzione. Il 21 e il 22 agosto Picasso dipinge due ritratti della figlia Maia: sono due ritratti realistici, condotti all’acquarello, di quelli che si fanno con particolare cura per lasciarli ai posteri.
Il 24 agosto la battaglia infuria per le strade. Tedeschi e miliziani si sono asserragliati al Luxembourg. La prefettura, vicina com’è alla Senna, è diventata il quartier generale della Resistenza. Giovanotti, per lo più ancora ragazzi, muniti di fucile e di bracciale, montano la guardia agli incroci. Domani Parigi sarà punteggiata di steli commoventi applicate ai muri delle case con la scritta laconica: «Qui è morto per la Francia...» I giovani che muoiono in queste ore estreme non avevano ancora raggiunto, per lo più, l’età adulta.
I carri armati passano su e giù. La fucileria crepita fitta sul Boulevard Saint-Michel. Nello studio di Picasso i vetri tremano. Egli deve spezzare questa tensione troppo forte, riempire questa attesa, fare qualche cosa d’altro, qualcosa di così diverso che non possa in nessun modo riportarsi all’angoscia dell’ora.
Tra il 24 e il 29 agosto rifà, secondo i principi della sua visione, il Baccanale di Poussin. Un giorno dice a Kahnweiler: «Prenda Poussin, quando dipinge l’Orfeo, ecco, è raccontato. Tutto, anche la più piccola foglia, racconta il mito». Sono affinità segrete quelle che spingono Picasso a curvarsi su un’opera d’arte, come per carpirne il segreto. «I capolavori, sono quelli degli altri», ha detto una volta a Malraux. Nel gran quadro di Poussin è la frenesia del movimento che sembra averlo sedotto, e quell’ossessione della voluttà che è tipica di chi sfiora la morte da vicino. «Non omettendo quasi nulla dell’opera di Poussin, cambia quasi tutto», scrive John Lucas. Il Baccanale, ridotto a un quarto del suo formato, eseguito ad acquarello e non a olio, è diventato una pagina tipica dell’erotismo di Picasso, dei suoi sogni e dei suoi incubi. La coppia centrale è rappresentata qui da una di quelle coppie che sono consuete a Picasso: il fauno barbuto e una ninfa più vicina a Goya che all’Antico, col suo profilo aguzzo e il collo segnato da rughe, con le anche immense e i suoi seni serrati. Il capro al suo fianco ha due occhi segnati da una profonda tristezza umana. Il quadro presenta esempi di quasi tutti gli stili di Picasso. La donna col canestro di frutta dal profilo classico, le baccanti con la testa a forma di minuscola sfera, un nudo a sfaccettature cubiste, giù giù fino ai mostri con la testa di Giano. Dai grovigli dei corpi escono piedi smisurati, enormi seni gonfi, mani a paletta. Uno strano turbine antropomorfo percorre il quadro, nel quale gli alberi si torcono come corpi inarcati dal desiderio e le membra umane si trasformano in alberi e foglie.
Picasso dipinge febbrilmente durante la battaglia di Parigi: dipinge in un frastuono di finestre sbattute, di carri armati che passano con rombo di tuono, tra il fragore del cannone e della fucileria vicinissima, delle pallottole che rimbalzano da una casa vicina. A chi più tardi si meraviglierà che abbia potuto essere così presente al suo lavoro, così assorbito in esso, risponderà: «Era un esercizio di disciplina».

Le truppe alleate entrano in Parigi liberata. Si era sparsa la voce che Picasso era stato arrestato, che era morto in prigione o in un campo di concentramento. I corrispondenti dei giornali americani che fanno il bilancio delle rovine della Francia vogliono controllare la notizia; i giornali sono immediatamente informati: «Picasso è sano e salvo!» E la notizia di colpo appare molto importante anche a coloro che hanno solo un’idea molto vaga della sua opera.

© per le foto di Giancarlo Mauri










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