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martedì 18 agosto 2015

Indagine su Guernica di Picasso


Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi” e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.

Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste, posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero 7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu, ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989, Mursia 1993, pp. 28 e 29:

Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.

Aggiunge qualche giorno dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.

* * *

Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26 aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata “pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935 (bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.

Scrive lo storico Giorgio Bonaccina, Le bombe dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:

È stato detto che nei paraggi di Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono, lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai “dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far compiere un test ai nostri bombardieri”.

La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i lavori del 1933 sul tema Minotauro che preparano il terreno a Guernica) già il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare l’attenzione altrove.

Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un problema interno, esportalo. E così è per Guernica, che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.

* * *

Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941 nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.

Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore, di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:

Antonina VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions Albin Michel, Paris 1961
Edizione italiana: Storia di Picasso
Traduzione di Renzo Federici
Giulio Einaudi editore 1961
pp. 362-63

Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera, press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».

Patrick O’BRIAN
Pablo Ruiz Picasso. A Biography, 1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15

Fu nell’estate che seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942 migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di résistants, di comunisti, di ebrei, di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau, Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora, appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari, mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se non alcune cartoline di Guernica che Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No», rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso. Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze, lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.

Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28

Tout de suite, il faut froid. Mon énorme poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand regarde une reproduction de Guernica et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : « Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.

Conclusione: dopo aver letto non meno di trenta biografie su Picasso, un’opinione in merito me la sono fatta: quel botta e risposta, almeno così come raccontata, è un’invenzione “popolare” e questo lo si capisce chiaramente anche, ma non solo, dalle parole che Perry fa recitare a Picasso: j’adorais inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel. Che tradotto vuol dire: se nei momenti più tristi questa storia è servita a tenere alto il morale del popolo francese …va bene così. Si stampi.

lunedì 6 luglio 2015

Picasso a Céret, 1911


Da un po di tempo Manolo e sua moglie Totote chiedono a Picasso di raggiungerli a Céret, un villaggio catalano nei Pirenei orientali francesi, ai piedi del Canigut, ultima sosta prima di Puigcerda e della Spagna.
Per Manolo - che non essendosi presentato alla chiamata di leva ...e non aver sborsato l’importante cifra utile ad assicurarsi l’esenzione, cosa che per Picasso fece lo zio Salvador versando 1200 pesetas - tornare in Spagna significa finire diritto diritto nelle fauci della galera. E adesso questo villaggio di confine per lui rappresenta la terra promessa, dove può tranquillamente lavorare alle sue sculture. In verità, la scultura è una forma d’arte non molto apprezzata dai collezionisti, quindi economicamente poco redditizia, ma lui riesce a sopravvivere grazie all’aiuto di Frank Haviland e, soprattutto, del fisso garantito che ogni mese gli passa Kahnweiler, il suo mercante a Parigi. Per casa e studio a Céret Manolo dispone delle parti abitabili di un monastero del XVIII secolo, da lui ristrutturate e rese vivibili.

All’inizio di luglio del 1911 Picasso decide di raggiungerli. Quando arriva è solo: la sua compagna, Fernande - che da tempo non nasconde di essere diventata insofferente alla vita di coppia con un artista tutto dedito al lavoro - ha deciso di restarsene a Parigi, nel decoroso appartamento che Pablo, per accentuare il contrasto tra un passato ricco di fame, di gelo invernale e di bollori estivi e l’agiatezza pian piano guadagnata, ha preso in affitto al numero 11 di Boulevard de Clichy - una proprietà di Delcassé, ministro per gli Affari esteri. Lo raggiungerà più tardi, promette, scendendo a Céret in compagnia di Georges Braque. Nel frattempo Picasso alloggia all'Hôtel du Canigou.

Braque e Fernande arrivano a Céret verso la metà di agosto e subito i due pittori si buttano a capofitto nel loro gioco preferito, quello che occupa la loro vita giorno e notte: il lavoro. Per i due, questo di Céret è un periodo ricco di invenzioni creative (cubismo ermetico, scriveranno i critici), quali la composizione piramidale e l’inserimento di lettere dipinte o ritagliate dai giornali nei loro quadri. «Ero molto felice a Céret; Fernande anche, io credo» fa dire a Picasso Jacques Perry nel suo Yo Picasso, biografia edita nel 1982 da J.C. Lattès, Paris, che aggiunge poche righe più avanti: «La sera, tutti noi andavamo al Grand Café de Céret di Michel Justafré, dove i ballerini dell’austera sardana, come a dire metà del paese, guardavano con difficoltà e rimprovero le nude gambe delle nostre donne.»

1911 - Amics, cantem la ceretana...

1911 - Paesaggio di Céret

Il cielo comincia a rabbuiarsi il 23 agosto. Seduto coi suoi amici sotto i grandi platani del Gran Café di Céret Picasso legge sull’Indipendent di Perpignan la notizia del furto della Gioconda di Leonardo, facilmente trafugata dal Louvre. Scherzando, Braque propone di rimpiazzarla con il Busto di Madame Putman, una contadina da loro conosciuta anni prima a La-Rue-des-Bois, la cui testa, sempre secondo Braque, assomiglia ad una forma di camembert e il naso ne sarebbe una porzione. «Noi tutti abbiamo riso di questo sacrilegio». Tutto qui? No, il peggio ha ancora da venire: #staiserenopicasso avrebbe cinguettato un circoncelliano (o parabolano, che è poi lo stesso) dei nostri tempi.
Il primo di settembre i quotidiani rendono nota la scomparsa dalle sale del Louvre di alcune preziose teste iberiche, sculture che pochi giorni dopo tale Géry Piéret porta alla sede del Paris-Journal, dimostrando la fragilità in fatto di sicurezza di quel museo. Ne nasce un nuovo scandalo - e Géry Piéret prudentemente fa sparire le sue traccia.

In data incerta - il 5 settembre per la maggior parte dei biografi, attorno al 25 per Josep Palau I Fabre - Fernande e Picasso lasciano Céret e in treno raggiungono Parigi. Per lui è un viaggio tribolato e ne ha ragione: a suo tempo, nella redazione della Guide de Rentiers Guillaume Apollinaire aveva conosciuto Géry Piéret, un uomo dal passato fumoso che pare avesse vissuto quattro anni in Brasile prima di rientrare a Parigi. Un bel giorno questo Géry Piéret arriva con due sculture - due teste tipiche di quell’arte iberica che tanto aveva scosso Picasso al tempo in cui lavorava alle Demoiselles d’Avignon - e generosamente le regala al poeta (alcuni scrivono che vennero pagate 50 franchi l'una: vai a sapere...) e questi a sua volta ne fa dono al pittore. Ora, dopo i recenti fatti del Louvre, Picasso ha intuito che quel dono a suo tempo gradito è diventato un pericolo.

A Parigi Picasso si mette subito in cerca di Apollinaire, che trova in angoscia - «sembrava aver perso la sua rotondità, come se si fosse sgonfiato», dirà in seguito - e ne ha ben donde: non contento di quanto già fatto, ora Géry Piéret ha pure scritto una lettera ai giornali auto-accusandosi di essere il ladro della Gioconda. I nostri due artisti sono letteralmente presi dal panico: e se la prossima mossa di questo pazzo farneticante fosse quella di rivelare ai quotidiani che Picasso ha in casa due sculture iberiche rubate al Louvre?

Il panico è sempre un pessimo consigliere. Ormai nel pallone, i due decidono che devono assolutamente liberarsi delle due statuette e per farlo scelgono una strada tortuosa: portarsi in piena notte sulle riva della Senna e far scivolare le sculture nelle acque del fiume. Fosse facile: dopo aver camminato avanti e indietro sui lungosenna per una notte intera, macinando chilometri e chilometri col loro fardello sotto braccio, all’arrivo della luce del sole i due non trovano altra soluzione che non recarsi alla sede del Paris-Journal, dove lavora il loro amico André Salmon, affinché fosse il giornale a restituire al Louvre, in forma anonima, le due statuette. Questo gesto non passa inosservato e un loro nemico, un detrattore della poesia e del cubismo, li denuncia alla polizia. Il 7 settembre Guillaume Apollinaire viene arrestato e portato alla Santé.

Pur tra tanti errori, il giorno dopo tutti i quotidiani scrivono di questo arresto:
«Lindividuo arrestato per complicità nel furto, in qualità di ricettatore, è di origine russa. Si chiama Guillaume Hostrowsky [anziché Kostrowitsky, il vero cognome di Apollinaire]. Il ladro sarebbe un certo V., che ha già varcato la frontiera.»
«Pare confermato il fatto che ci sia una correlazione tra i diversi furti di statue fenice e la sparizione del dipinto la Gioconda.»
«Si ha limpressione, presso il palazzo, che ci si trovi di fronte a una banda di ladri internazionali, arrivati in Francia per smantellare i nostri musei.»

Picasso è sempre più in preda al terrore: lui è straniero in Francia e quindi teme l’espulsione, che ai suoi occhi equivale all’esilio. Un’onta, un disonore, soprattutto per la sua famiglia e per i suoi parenti che vivono in Spagna, ancorati ai principi morali e sociali tipici di quella terra.

Un mattino all’alba suona il campanello di casa Picasso. Lui è ancora a letto, addormentato, uso come è a lavorar di notte e dormire fino a mezzogiorno e oltre. Un ispettore di polizia gli chiede di vestirsi e di seguirlo. No, non è in arresto, ma un giudice istruttore vuole un confronto diretto tra lui e Apollinaire. Messi faccia a faccia, i due amici piagnucolano, vaneggiano, pronunciano frasi insulse, si comportano come due perfetti idioti. Del resto non è questo che la gente si aspetta dagli artisti, tutta arte e follia? Stranamente, il giudice non è uno sciocco: comprende il giusto e li manda liberi.

Per dimenticare in fretta questo terribile momento ai due non resta che rituffarsi nel lavoro. Picasso fa di tutto per liberarsi dalla struttura piramidale che ha dominato l'estate 1911 a Céret, Apollinaire lascerà traccia di questi giorni nei sui Calligrammes:

Avant d’entrer dans ma cellule
Il a fallu me mettre nu
Et quelle voix sinistre ulule
Guillaume qu’est-tu devenu




© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri