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mercoledì 25 ottobre 2017

Picasso, Fernande, Eva e Olga


Anno domini 1911. La fine del legame sentimentale tra Picasso e la belle Fernande è nell’aria - e il colpo finale lo sferra lei, quando lascia il pittore spagnolo per seguire un pittore italiano, Ubaldo Oppi, di cui si è momentaneamente innamorata. Dirà lei: l’ho fatto per ingelosire Pablo e ravvivare il nostro rapporto. Dirà lui: non avrei mai avuto il coraggio di lasciare la compagna dei giorni di povertà, ma andandosene con Oppi lei mi ha liberato. La fuitina dura pochi mesi, poi - come se niente fosse accaduto - Fernande sale su di un treno e raggiunge Picasso a Céret, certa di riprendere il suo posto accanto a lui. Le cose non vanno come lei vorrebbe, anzi ben presto prendono una brutta piega: Pablo - che è in compagnia di Eva, la sua nuova compagna - viene aggredito sia verbalmente che fisicamente da alcuni amici che hanno preso le parti di Fernande.
Il 21 giugno Picasso ed Eva lasciano i Pirenei cercando lidi più tranquilli. Dopo una breve sosta ad Avignone, il 26 ripartono con destinazione Sorgues-sur-l’Ouvèze (Vaucluse), dove Picasso affitta la Villa des Clochettes - due camere ed un atelier - per 80 franchi al mese. A luglio arriva l’amico Braque, da poco sposato con Marcelle Lapré, che s’installa poco lontano, nella Villa Bel Air e qui restano fino al 23 settembre, il giorno del loro ritorno a Parigi.
Da Sorgues Picasso, che vuole lasciare Montmartre, scrive una lettera al suo mercante chiedendogli di trovargli un nuovo appartamento con atelier. Alla fine di agosto Kahnweiler gli annuncia di aver trovato un bell’atelier-appartamento al 242 di Boulevard Raspail. Il pittore fa un salto a Parigi, vede l’appartamento e dichiara la sua insoddisfazione. Ciononostante, Kahnweiler si occupa del trasloco, cosa che permette a Pablo e ad Eva di occupare i locali sul Boulevard Raspail lo stesso giorno del loro rientro da Sorgues.
Com’era prevedibile, in Boulevard Raspail Picasso non mette radici. Un anno dopo occupa il 2° e il 3° piano di una casa da poco costruita nella vicina rue Victor Schoelcher, numero 5 bis. L’appartamento è comodo e lo studio è luminoso - seppur con finestre che danno sul cimitero di Montparnasse.


Anno domini 2017. Rieccomi per l’ennesima volta di fronte al 242 di Boulevard Raspail. Oggi tutto è nuovo, ricostruito. All’arrivo di Pablo ed Eva - che occupano il piano terra - qui vi era una casa a graticcio nota come cité Nicolas-Poussin, sede di una comunità d’artisti. Le ragioni che hanno spinto Picasso a lasciare Montmartre per Montparnasse è semplice: vuole abbandonare i luoghi che gli ricordano Fernande - una costante di Pablo, questa: una donna, una casa - e vivere una nuova vita con Marcelle Humbert, la donna che ama e che lui simbolicamente chiama Eva. Il Dôme e La Rotonde - i locali frequentati dai suoi amici scrittori - sono a due passi. Modigliani, altro amico di Picasso, ha il suo atelier sullo stesso boulevard, al numero 216. La baronessa d’Œttingen, grande ammiratrice (e collezionista) di Picasso, abita al 229. La redazione de Les Soirées de Paris, di cui Apollinaire è il direttore, è al numero 278. A Montparnasse Picasso non è solo.
Inoltre, in sintonia con Braque, il cubismo analitico caratterizzato da tinte marroni, beige e bianche cede il passo al cubismo sintetico, più ludico. Picasso ritrova i colori e le figure. Poi c’è lei, Eva, di cui Picasso è sinceramente innamorato e questo sentimento lo esprime inserendo nei suoi quadri frasi significative quali J’aime Eve (settembre 1912).
Marzo 1913: Pablo ed Eva tornano a Céret. La stagione è piovosa, Eva, già sofferente, s’aggrava. Continua a tossire. Anche Picasso s’ammala, colpito da una leggera forma di febbre tifoidea. Il 20 giugno i due rientrano a Parigi. Qui, il 22 luglio ricevono la storica visita di Matisse. Il 20 settembre Apollinaire cena per l’ultima volta in Boulevard Raspail. Subito dopo Picasso ed Eva traslocano in una casa vicina, di recentissima costruzione, in Rue Victor-Schœlcher. Ed è lì che mi sposto anch’io.

Per sancire il raggiunto status symbol, nel 1912 Paul Follot - uno dei più noti artisti decoratori del suo tempo (ceramiche per Wedgwood, tessuti per Corneille et Cie, oggetti in argento per Christofle) - si è fatto costruire un hôtel particulier al numero 5 di Rue Victor-Schœlcher. Ancor oggi questa casa si fa notare per la sua forma a pigna e per le ceramiche che ne decorano l’atrio e il piano terra.
Accanto, numero 5bis, vi è l’accesso a quello che fu l’appartamento e l’atelier affittato da Pablo Picasso nel 1913. Boulevard Raspail è dietro l’angolo, di fronte, ma visibile dai piani superiori, vi è il cimitero di Montparnasse. Vista macabra per i superstiziosi, non certo per Picasso: le ampie finestre del suo studio sono rivolte a nord e la presenza dell’ampio cimitero lascia spazio alla visuale, regalando tanta luminosità. In questo studio l’artista si dedica alle sperimentali sculture-assemblaggio, quali la Guitare in cartone e latta; con un giornale datato 23 dicembre, una scatola di cartone, della carta, guazzo, cartone e gesso crea il Violon - e queste sculture “a forma aperta” scuotono il mondo artistico parigino. Anche la sua pittura si evolve. Trasporta le sue sculture su tela (Guitare sur une table) e dipinge una stupefacente Femme en chemise dans un fauteuil, un quadro che esercita un enorme fascino su Breton e su Eluard: il cubismo getta i semi del surrealismo. Attirati dall’evolversi dell’arte di Picasso - vera festa di colori - al 5bis di Rue Victor Schœlcher bussano i futuristi Boccioni e Severini, ma anche De Chirico, Jacques Villon, Albert Gleizes, Fernand Léger e Modigliani. Derain, Max Jacob e André Salmon lasciano Montmartre per raggiungere Picasso a Montparnasse, il nuovo centro dell’arte.
Picasso realizza anche una serie di piccole nature morte che chiama Ma jolie, un amoroso omaggio ad Eva, la cui salute peggiora di giorno in giorno. Pablo si rattrista e con lei prende a frequentare studi medici, inutilmente.
Nel 1914 arriva la guerra. I suoi amici francesi sono chiamati alle armi. Il suo gallerista, Kahnweiler - tedesco ed ebreo - ripara in Svizzera. I colori sulle tele cambiano, le composizioni adesso sono più fredde. Nella primavera del 1915 gli zeppelin bombardano Parigi. Braque è gravemente ferito alla testa e subisce un trapanamento - e lo stesso sarà per Apollinaire.
In autunno Eva si aggrava. A novembre Picasso la fa ricoverare alla Maison de Santé Golman, 57 bd de Montmorency (terzo piano, camera K). Lei è cosciente della sua situazione e stando a quel che scrive Pierre Daix (Picasso, Hachette 2009, p. 228) un giorno avrebbe detto: «Je désespère de guérir. Pablo me gronde quand je lui dis que me crois pas voir l’année 1916».
Ha ragione: non vedrà il 1916. Muore per tubercolosi (di cancro alla gola, scrive Olivier Widmaier Picasso, figlio di Maya) il 14 dicembre 1915, all’età di 30 anni.
Scrive O’Brian, p. 249: A quel tempo la tubercolosi mieteva ancora molte vittime, in particolare quando mancavano combustibile e cibo: durante l’inverno Eva morì. Qualche amico accompagnò Picasso fino al cimitero, un numero tristemente esiguo se si pensa alla grande quantità delle sue conoscenze; fra questi c’erano Jacob e Gris. Gris scrisse a Maurice Raynal, che combatteva in trincea, per raccontargli del fatto: «C’erano solo sette o otto amici al funerale, il che ha reso la cerimonia molto più triste, a parte, naturalmente, le battute di Max, che ne hanno se mai sottolineato l’orrore… Picasso è molto abbattuto».
Picasso fa seppellire il corpo di Eva nel cimitero di Montparnasse, visibile dalle finestre del suo studio. Poi, senza avvisare Pablo, un bel giorno arrivano i parenti di lei e la bara viene trasferita altrove. Dal nulla è apparsa nel nulla è scomparsa.

Su Picasso piomba una cappa di tristezza ...finché un giorno d’aprile del 1916 un giovane poeta e scrittore viene a bussare alla sua porta. È Jean Cocteau, che vestito da Arlecchino - un omaggio ai quadri di Picasso - gli propone di realizzare i costumi di scena per Parade, un’opera scritta dallo stesso Cocteau e musicata da Satie. Dopo qualche titubanza Picasso accetta. Nel 1917 il gruppo si trasferisce a Roma per unirsi alla compagnia di Diaghilev, l’inventore dei Balletti russi. Nell’atelier di via Margutta Picasso crea gli abiti di scena e dipinge il grande sipario. La sera passeggia con gli amici, accompagnati da alcune delle ballerine di Diaghilev. Una di queste, Olga Khokhlova, attira l’attenzione di Pablo. Rammenta P. Daix in Picasso créateur, Seuil, 1987, p. 163: «Attention, lui aurait dit Diaghilev, une Russe, on l’épouse» (fai attenzione, gli avrebbe detto Diaghilev, una Russa, la sposi).
Così è. Il 12 luglio 1918 viene registrato all’ufficio di stato civile del VI arrondissement, place Saint-Sulpice, il matrimonio civile di Pablo Picasso con Olga Khokhlova - testimoni Jean Cocteau, Guillaume Apollinaire e Max Jacob - poi seguito da una celebrazione nella cattedrale ortodossa di Saint-Alexandre-Nevsky, 12 rue Daru, con tanto di corone di fiori sopra il capo degli sposi e nuvole d’incenso, come rito ortodosso prevede.

Nuova donna, nuova casa. In verità già da metà ottobre 1916 Picasso ha lasciato rue Schœlcher per trasferirsi a Montrouge - 22 rue Victor Hugo - in una villa tetra, una sorta di cubo amorfo con piccolo giardino. Ed è in questa casa che un giorno entrano i ladri: rubano tutta la biancheria ma lasciano al loro posto tutte le tele. A loro un Picasso non interessa. Meglio le sue mutande.

GIANCARLO MAURI



















giovedì 18 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (1)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955, pp. 131-146

CAPITOLO X

Idea di una mostra d’impressionisti a Firenze. Accetto di occuparmene e vado a Parigi. Ritrovo i vecchi amici artisti e scrittori. Ripresa del nostro commercio ideale. Sviluppo del cubismo, orfismo, eccetera. Al caffè dell’Ermitage. Al circo Medrano. Il clown italiano. Forain. Lavoro nello studio di Serghei. La modella svizzera. Boldini è “trop cochon”. “La grande Jatte”. Duran-Ruel, generoso, presta quadri. Limito per miseria la scelta. Conosco Rosso di persona. Il suo studio-officina. Stringiamo amicizia: esporrà anche lui e verrà a Firenze. Vado a conoscere il “Doganiere”. Dipingerà per me. Gli compro sedici disegni.


Allorché io avevo cominciato a pubblicar nella Voce quei miei articoli sull’Impressionismo, che erano stati la prima ragione, come si ricorderà, dell’invito fattomi da Prezzolini a entrare nella sua rivista, pochissimi in Italia avevano una conoscenza diretta di quella scuola per averne viste le opere, ma il più, anche di quei pochi, solo per averne appreso qualcosa in qualche scritto dimenticato di Diego Martelli e segnatamente, i più informati di essi, in un libro di Vittorio Pica, l’unico fino allora pubblicato da noi intorno a tale argomento, e il più serio e aggiornato. Avendo codesti scritti suscitato tra gli amici della nostra impresa una grande curiosità per quel genere d’arte, curiosità che si era poi propagata in zone sempre più larghe, fino a svegliare nel pubblico un interessamento a mano a mano crescente, venne il momento in cui tanto io che Prezzolini si concluse dal fatto che un’esposizione di quella pittura a Firenze sarebbe stata quanto mai utile e profittevole per il fine culturale della rivista.
Si trattava di ottenere il prestito di un certo numero di opere di quella scuola da parte dei mercanti d’arte parigini. Io che ne conoscevo, come s’è visto, alcuni fra i più indicati all’uopo, potevo tentar l’impresa, e vi ero disposto: mi sarebbe bisognato andare a Parigi, ed anche questo ero pronto a farlo volentieri; molto più che avrei avuto insieme l’occasione, di conoscervi di persona lo scultore Rosso, la cui opera m’era già così favorevolmente nota e a pro del quale avevamo mosso quella nostra battaglia. La più grande difficoltà consisteva nei mezzi occorrenti all’attuazione del bel disegno: Prezzolini, o per meglio dire, la Voce non poteva disporre se non di poche centinaia di lire, offerte, credo, da qualche amico meno povero di noi, «sostenitore», come si chiamano i benemeriti di tali pubblicazioni. Dopo qualche esitazione determinammo di gettare ugualmente il dado; ed io intrapresi il viaggio.
Trovai Parigi come l’avevo lasciata due anni prima; con questo di nuovo, che i miei amici e colleghi pittori e scrittori erano ora impegnatissimi nel dar corpo e sviluppo alle premesse estetiche e alle forme artistiche poste e iniziate tra noi prima della mia partenza da quella città. Ospite di Sergio, che dimorava con la sua parente e del pari amica mia baronessa Elena d’Œttingen, in un piccolo hôtel privato del boulevard Berthier, tornai a vedere Picasso, Braque, Apollinaire, Jacob, e gli altri della vecchia brigata, accresciuta nel frattempo di nuovi aderenti; ad incontrarmi con essi nello studio del primo, nei caffè di Montmartre; a frequentare insieme il «Lapin agile», il circo Médrano, la Closerie des lilas, eccetera.




Picasso, colpito dal fascino esotico di certi feticci negri, genere di scultura barbarica entrata allora in circolazione fra i colleghi parigini, dipingeva adesso nature morte, figure, copriva tele di ardite composizioni, dove già i modi e la tecnica, i toni del cubismo si andavano affermando con sempre maggior rigore. Apollinaire e Jacob stavano disarticolando, sveltendo, dando aria, dirò così, al loro linguaggio poetico, dirompendo sapientemente la sintassi, introducendo nelle loro immagini la magia di rapporti, similitudini, simultaneità di sensi generate da analogie segrete e lontane. Un fervore di ragionamenti, discussioni, polemiche, animava quelle adunanze di creatori di una poetica moderna, alle quali prendevo parte anch’io, con pieno consentimento o con le riserve del caso.
Uno dei caffè più frequentati dal nostro gruppo era l’Ermitage; e poiché Picasso era andato ad abitare nel boulevard de Clichy, proprio di faccia ad esso, ogni volta che io e qualche altro andavamo a trovarlo, quando poi si scendeva dal suo studio assieme a lui, era lì che andavamo a sederci. Vi arrivava poi la sua Fernanda con l’inseparabile sua amica Ève, moglie del caricaturista Marcous; vi capitavano Braque, Jacob, il giovane pittore italiano Ubaldo Oppi; e certe sere anche un altro giovane artista di vero talento, De La Fresnaye, allora nella sua divisa da coscritto; il quale, da soldato, appunto, doveva pochi anni dopo, fallire alle sue grandi promesse morendo in guerra.
Ugualmente vicino allo studio di Picasso era anche il circo Médrano, vecchia baracca ottocentesca, dove spesso finivamo di passare le ultime ore della notte tra un pubblico di popolani ed altra piccola gente, estasiata ed esilarata dalle prodezze dei ginnasti, degli equilibristi, dei cavallerizzi, giocolieri; dalle farse dei clowns americani, inglesi, e dei pagliacci di ogni paese. Uno di questi ultimi, capace di buffoneggiare in un monte di lingue, era un Alexis, più bravo di tutti. Poiché ormai eravamo divenuti come di casa, andavamo talvolta a salutarlo in un certo oscuro e malodorante ambulacro corrente sotto le gradinate del circo, tra gli spogliatoi, i camerini, i depositi d’attrezzi, le stalle, e dove si ritiravano a travestirsi a ritruccarsi dopo ogni «numero», a riposarsi o a passeggiare gli uomini e le donne della compagnia. Durante tali visite seppi da lui ch’egli era italiano ma vissuto quasi sempre all’estero; che quel nome di Alessio non era il suo vero ma un nome di battaglia; che era stato a più riprese ed aveva lavorato nell’America del Nord e in quella del Sud, in Inghilterra, in Ispagna, in Germania, in Russia; paesi di ognuno dei quali aveva appreso la lingua, ciò che gli era poi sempre servito nei circhi di ogni parte del mondo per dare sapore originale alla sua comicità. Anche nell’intrattenersi con noi egli si esprimeva, perciò, mescolando curiosamente le parole di tanti idiomi diversi, cui ora s’aggiungeva il francese. Era minuto di corpo, di misero aspetto, molto timido e tristissimo.
Quanto a noi, non frequentavamo il circo solo per trepidare allo spettacolo dell’equilibrista giapponese che faceva la «bandiera» in cima a un’altissima asta inclinata retta dalle piante dei piedi di un compagno raggomitolato con le spalle in terra; o dell’acrobata muscoloso sospeso coi denti a una corda agganciata a una cèntina metallica del soffitto, mentre un collega vola da un aereo trapezio all’altro; né per divertirci del giucco della cavallerizza in costume di ballerina, in bilico sopra una gamba sulla groppa di un cavallo corrente in giro nella pista, pronta a passare attraverso un cerchio contornato di fiamme; né per ridere dei pagliacci impegnati nell’assurdo e nel grottesco delle loro gesta e avventure. Lo facevamo soprattutto per osservare gli aspetti di quella bizzarra vita artificiale; studiare le forme, i movimenti dei corpi, i colori inattesi, ricchi, fantasiosi delle casacche, delle maglie, brache, cravattoni, parrucche di quegli «artisti» geniali ; nonché le figure, le posizioni, i vari raggruppamenti, la massa dello stesso pubblico sul fondo di luci e d’ombre del singolare teatro. Motivo, dunque più che di svago, di studio. E questo doveva certo essere lo stesso che attirava nello stesso circo anche l’ormai vecchio Forain; il quale vedevamo, spesso seduto tra il comune pubblico, non lontano da noi, tutto vestito di nero, il colletto inamidato, chiuso, i capelli bianchi, e la pallida faccia da attore e da pastore protestante, mesta a un tempo e sarcastica, di continuo protesa e intenta al medesimo gioco di membra, di colori e di chiaroscuri che animava l’arena e la folla delle gradinate.


Rientrato così nel giro, passavo poi gran parte delle mie giornate nell’atelier che Sergio aveva, a parte, nel boulevard Gouvion-Saint-Cyr, verso la porta Maillot. Mi vi servivo degli stessi suoi modelli; tra gli altri di una ragazzona svizzera, bionda e florida che dipinsi nuda, un ginocchio appoggiato a un divano mentre si ravviava i capelli davanti allo specchio, e dalla quale, distesa sul medesimo divano, seduta, o circolante, sempre nuda, qua e là nello studio, trassi molti schizzi e disegni a matita, o avvivati da qualche tocco d’acquerello. Nei momenti di riposo ella ci raccontava, tra l’altro, come un tempo avesse posato anche per Boldini, dimorante, solo e intrattabile, in uno dei tanti hôtels privati del vicino boulevard Berthier; ma che ora non ci voleva più andare. Le chiedemmo il perché. - Parce qu’il est trop cochon - disse -. Quand une femme est seule avec lui, il prétend toujours de faire ça. C’est un vieux satyre.
Per altri disegni servirono a me e all’amico anche due sorelle che vennero un giorno a bussare allo studio; ma eran quasi due bambine, sbiadite, stente, che ritenemmo quasi per compassione; né potemmo far altro che ritrarle nei gonnellini, corpettini e scarpettini da ballerinette, ch’esse avevan portato in una valigetta con loro.
Davanti a codesto studio, dall’altra parte del boulevard, oltre un terrain vague risultato dalla demolizione delle vecchie fortificazioni, si stendeva la pianura, ancora quasi senza case, fino alla Senna non lontana. Nelle ore di svago, e specie la domenica, io e Sergio inforcavamo la bicicletta e ci buttavamo a correre per quella mezza campagna. Conservo ancora l’appunto di una di codeste girate.
«Uscito con Serghei in bicicletta fuori di Parigi» dice l’appunto. «La giornata è superba: sole limpido e ancora caldo. La strada che abbiamo percorsa è spaventosa, ma in pochi minuti arriviamo a un’isoletta che Serghei ha voluto farmi vedere: è l’isola della Grande Jatte, quella stessa che dette il titolo al grande e bel quadro di Seurat, da me tanto ammirato anni fa agli Indipendenti.
Vi si arriva per un ponte gettato sur uno dei rami della Senna che la circonda; e ciò che mi colpisce prima di tutto è il suo aspetto miserando e desolato. Il terreno scosceso dell’alta riva, è calcinoso, roso dall’acqua del fiume grosso che ne scalza gli alberi, alcuni dei quali giacciono arrovesciati, mezzi inghiottiti dalle onde e solo ritenuti dalle radiche fortemente piantate fra i sassi della scarpata. Un po’ più in dentro, da questa parte dell’isola, parecchie stamberghe pericolanti formate di vecchie assi mal conficcate, di pezzi di latta, coperte di lastre o di bandone, imbrattate di colori vivi, voglion parere trattorie ed alberghi. Davanti alle porte, fornelli spenti. Sergio mi dice che le domeniche d’estate vi si friggono le patate e i migliaccini per gli operai che vengono qui in folla a far baldoria. Tavole e sgabelli sgangherati sotto pergole povere, sfrondate. Appiccate al muro, o sul davanzale della finestra di quasi tutte queste casipole, alcune gabbie sudicie racchiudono canarini, fringuelli, calenzoli arruffati, affamati e muti. Una soprattutto di codeste baracche mi ha fatto senso. È bassa, grigia, sganasciata, sporca, circondata da grandi alberi mezzi spogli, e sulla facciata, porta scritto a grosse lettere color vinaccia: À la solitude. Due vecchie spettinate sono davanti all’uscio e aiutano un giovanotto biondo a scaricare da un camioncino una cassa piena di bottiglie di sidro. I soliti uccelli, i soliti tavolini; qualche fiore stento e languente trema sul davanzale. Sotto la pergola un bambino dimenticato si balocca con tre o quattro palline colorate, chiuso in una sediola come in una morsa. In cima alle colonne del cancello d’un giardinetto di fianco alla trabacca, due piccoli mulini a vento, tinti di rosso agitano nell’aria le loro ali bianche.
Intorno alle case, pratelli lebbrosi di un verde infetto che fa pensare al veleno, e per i quali errano cani irsuti, impillaccherati, magri, resi allo stato selvaggio, e che ti guardano sinistramente senza aver però il coraggio di saltarti addosso e addentarti la gola. Dappertutto terreni sommossi circondati da stecconati neri e crollanti.
Nel ritornarcene verso il ponte vediamo un uomo, probabilmente un rivendugliolo d’abiti smessi, vestito d’un paio di calzoni bianchi tutti rincincignati, di una marsina nera consunta e loiosa e con in capo una tuba rossastra posata a sghimbescio. Fuma beatamente, ritto fuor della porta di una capanna guardando di là dal braccio della Senna le estreme propaggini di Parigi. Un po’ più avanti, in un prato dove pochi fiori gialli sopravvivono tra i cocci e i calcinacci, un ciuco dalla testa enorme e il dorso spelacchiato, verdastro, bruca, immoto e in silenzio, un cespo di radicchio selvatico. Una donna quasi elegante va verso una casetta rosea sulla cui facciata sono dipinti d’azzurro un pescatore e un cuoco, scavalcando i fossi, gli steccati, con la sottana tirata sopra il ginocchio.
E tra tanta bruttura, che né il sole né il sereno del cielo valgono ad allegrare, che anzi, per lo stesso contrasto, paion render più desolante, io mi domando dove mai Seurat ha trovato quella luce ed aura di festiva felicità che abbellisce il suo quadro. Vero è che noi non abbiamo percorso che una parte dell’isola e da un solo lato. La parte amena, dolcemente riposata dev’esser dall’altro».
Dopo aver visitato le botteghe dei maggiori mercanti di pittura e argomentato, così al fiuto, dove ci fosse più probabilità di ottener, dunque, il prestito di dipinti per Firenze, mi persuasi che il meglio era di rivolgersi ai Duran-Ruel, dato anche la straordinaria liberalità e cortesia da loro usata altra volta verso di me. Né la faccenda poteva andar meglio. Parlai col gentile vecchietto e parlai col suo altrettanto affabile ministro: dissi loro della nostra rivista, spiegai che cos’era, quali erano i nostri fini, i quali potevano coincidere, in senso lato, con i loro interessi. Palesai, naturalmente, anche le nostre disponibilità finanziarie - piteuses, come vedevano, -; e questo mi pareva dover’essere il massimo ostacolo da superare. Mi ascoltarono con la massima simpatia, dicendo che erano ben lieti di essermi agréables, e che dicessi pure quali fossero, e quante, le opere che avrebbero dovuto mettere, per un tempo, a nostra disposizione.
Intanto il signor Duran-Ruel pregava il suo ministro, o direttore della Galleria, di mostrarmi quel che desideravo vedere, e di prender nota della mia scelta. Saliti dunque nelle sale superiori, zeppe di quadri allineati per terra lungo le pareti, opere dei maggiori pittori impressionisti, ne cominciammo insieme il giro. Io avrei voluto, e potuto, indicar gran parte di quelle che il cortese ministro andava via via rivoltando e mostrandomi; ma c’era di mezzo quella maledetta ristrettezza di mezzi: occorreva tener conto, più che della loro bellezza e importanza, della misura delle tele, e limitarne il numero in considerazione del volume e del peso della cassa da spedire, e quindi della spesa occorrente. Finii col trasceglierne una quindicina fra di Renoir, Pizzarro, Monet, Degas, cui furono aggiunte alcune eccellenti litografie a colori di Renoir.
Duran-Ruel approvò tutto, pronto a consegnarmi le opere all’istante; ma come io esitavo, pensando a chi potessi farle invece ritirare, incassare, eccetera, fu lui, certo intuendo la cagione della mia perplessità, a indicarmi un lor proprio imballatore dimorante in rue Sainte Anne, il quale si sarebbe occupato di tutto a buonissimi patti. Andò più oltre, che non mi chiese né ricevuta né garanzia di sorta, pregandomi solo di ben curare l’imballaggio di ritorno e di fargli avere i ritagli dei giornali o delle riviste dove si parlasse di quella nostra esposizione.
E anche questo è un segno dei tempi, e del costume dei tempi.
Negli stessi giorni andai per conoscere Medardo Rosso. Il suo studio era al pianterreno di un grosso stabile purchessia del boulevard des Batignolles. Vidi in fondo al cortile un largo portone come di officina o rimessa; la portinaia mi aveva detto, alquanto sgarbatamente, di bussare a quello, e lo feci. Per alcuni minuti, sebbene sentissi che dentro qualcuno si moveva, nessuno aprì. E io stavo per ribussare, allorché un battente del portone si schiuse alquanto e per lo spiraglio si sporse cautamente la testa forte e ricciuta d’un uomo d’età avanzata. Avevamo ricevuto, e pubblicato nel mio libro su lui, una fotografia dove Rosso figurava quale un bell’uomo con barba e capelli ben curati, ben vestito e d’aspetto signorile: la testa che ora vedevo era certamente la sua, ma assai differente da quella del ritratto. Quando il battente fu aperto del tutto, mi trovai davanti un uomo grosso, in magliotto grigio, dall’aria negletta di lottatore smesso, o di capo d’officina, il quale dopo avermi squadrato un momento con occhio diffidente, solo quando ebbe udito il mio nome, si rasserenò in volto, e, borbottando qualcosa concernente la portinaia, mi strinse forte la mano. Nel farlo, mi squadrò di nuovo, ma questa volta d’uno sguardo allegro, dicendo:
- Somigli a Baudelaire -. E mi fece avanzar nello studio.
L’idea del capo d’officina m’era balenata solo perché me l’aveva suggerita il largo portone di legno tinto di un giallo sporco simile a quelli, appunto, di tali stabilimenti; ma il curioso si è che, almeno a prima vista, lo studio di Rosso sembrava davvero un’officina. Dopo certi rozzi tendaggi di iuta grezza, mi trovai infatti in un immenso stanzone coperto da una tettoia a vetri sostenuta da vecchie capriate di legno da cui pendevano lunghe scaglie di colla da falegname, le pareti color fango, nude e affumicate, ad una delle quali si vedevano appesi attrezzi da fabbro ferraio, enormi tanaglie, lime, magli, sbarre, secchi, tòzzi, morse ed arnesi del genere. Altri strumenti della stessa specie, quali un lungo banco coperto di lime più piccole, pinzette, bulini, raschiatoi, martelli, un’incudine sul suo ceppo di quercia, ingombravano un angolo; l’angolo opposto era occupato da un enorme mucchio di creta; in un altro grandeggiava, piantato accanto a una buca scavata in terra, un alto forno da fonderia. L’unica cosa delicata in tutto quell’arsenale di ordigni era un mazzolino di fiori in un bicchier d’acqua posato tra gli utensili del massiccio bancone.
Passata la mia sorpresa, Rosso mi fece sedere accanto a sé su un semplice sgabello di legno, e dopo ch’io gli ebbi parlato del mio vecchio articolo dell’Europe artiste, ch’egli aveva letto, del volume di Edmond Claris datomi da Prezzolini, di quello mio su di lui, il resto di quella nostra prima conversazione fu decisivo. C’intendemmo in modo, che, in breve, pareva si fosse amici chi sa da quanto tempo. La sua faccia piena, dai baffi e barbetta di biondo cinquantenne incanutito, specialmente i suoi occhi maliziosi, ora ridenti, avevano qualcosa di ancora estremamente giovanile. Ed egualmente giovanili erano i gesti delle sue mani grassette, e i movimenti della sua persona, ancorché panciuta, sulle sue gambe esili, quando si alzò e andò dietro quegli strani tendaggi per poi uscirne, recando sulle braccia una, poi un’altra, poi un’altra, pesante opera di bronzo, o, tra le palme, una assai lieve di cera. Al vederle posate sulle seggiole, sopra un trespolo, per terra, alcune ne riconobbi che già conoscevo, altre le vedevo per la prima volta; e tutte mi parvero bellissime, o più belle che mai.
Gli parlai allora anche dell’esposizione che Prezzolini ed io intendevamo di fare a Firenze delle pitture degli impressionisti; e magari delle sue sculture - proposi - s’egli avesse voluto mandarcele. Con Prezzolini non se n’era parlato, ma ero sicuro che ne sarebbe stato contentissimo.
Rosso, alle mie parole, fece un poco, come si dice, mente locale; poi mi disse che anche lui era ugualmente contento di farlo. Altre volte aveva fatto di tutto per metter le sue cose accanto a quelle di costoro, a mo’ di confronto e quasi di sfida, e c’era riuscito. Inoltre eran venticinque anni che, per malintesi familiari, mancava dall’Italia; ora che aveva potuto -un poco anche in virtù del mio libro - riabbracciare il suo figliolo, venuto apposta da Milano con la sposa, avrebbe mandato quelle ed altre opere, non solo, ma sarebbe venuto anche lui a Firenze.
Anche da questo lato, la mia missione non poteva, come si vede, finir meglio.
Continuando in quei giorni, prima di ripartir da Parigi, a incontrarmi con i miei amici del caffè dell’Ermitage, del «Lapin Agile» e dello studio di Picasso, dove si parlava spesso, tra il serio e il faceto, del Doganiere Rousseau, la cui ingenua pittura ero stato anch’io fra i primi ad apprezzare per quel tanto che aveva di primitiva spontaneità e poeticità, ebbi l’idea d’andare a trovarlo e conoscerlo di persona. Ho a più riprese e così a lungo parlato di lui, specie nel mio libro Trenta artisti moderni italiani e stranieri, che non ne dirò qui se non qualche cosa in succinto.
Nel suo umile studio di rue Perrel, dietro il Cimitero di Montparnasse, trovai dunque un ometto d’una sessantina d’anni dall’aspetto d’artigiano, nel suo camiciotto bianco da lavoro, non alto di statura, piuttosto magro, un po’ curvo, dai baffi bianchi sul labbro pendente, l’occhio spento; alquanto somigliante, in complesso, al nostro generalissimo Cadorna. Udendo che ero italiano, mi mostrò con orgoglio un articolo della Tribuna, ch’egli considerava molto lusinghiero per lui: era invece tutto un basso dileggio da gazzettiere volgare del candido artista, scritto e mandato a quel giornale da un certo Sarti, allora suo corrispondente da Parigi.
Sebbene indignato della cosa, non disillusi il povero vecchio. Gli domandai piuttosto se volesse dipinger per me una natura morta a suo piacimento, prima del mio prossimo ritorno in Italia; intanto gli avrei subito comprato i sedici disegni di piccole e piccolissime dimensioni, ch’egli mi aveva fatto vedere. Rousseau accolse bonariamente e con gioia l’una e l’altra proposta. Mi dette senz’altro per la somma di venti franchi i disegni e mi promise di consegnarmi il quadretto di lì a pochi giorni. La replica di un altro da me visto anni prima, rappresentante un paesaggio con vacche pascolanti, e che gli ordinai ugualmente in quell’occasione, me l’avrebbe spedita, disse, un poco più tardi.
Al tempo fissato ebbi la mia natura morta - che fu quella oggi ben nota agli intendenti, con un lume, un bricco, pere e limoni posati sul piano di una tavola coperta di un tappeto rosso, sopra un fondo verde bottiglia.
Dei sedici disegni ne regalai la metà al mio amico Serghei; della replica feci dono più tardi all’amica baronessa.

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GIANCARLO MAURI
Montmartre, 5 novembre 2015

















venerdì 10 luglio 2015

Picasso a Céret, 1913


1913. Al 242 di boulevard Raspail Picasso non resiste molto, tanto che nei primi mesi dell’anno è costretto a nuovo trasloco, questa volta in una casa moderna nella vicina rue Schoelcher, al numero 5 bis. L’appartamento è comodo, lo studio è luminoso.
Nel frattempo, il prezioso lavoro di Kahnweiler produce i suoi frutti: il 17 febbraio a New York s’inaugura una mostra destinata a far conoscere l’arte europea e Picasso è presente con sei tele, un disegno e un bronzo. In seguito questa mostra si trasferisce a Chicago e a Boston. In contemporanea Kahnweiler organizza altri due avvenimenti: una retrospettiva di Picasso da Thannhauser a Monaco, con 76 pitture, 38 acquarelli disegni e incisioni, mentre all’Armory Show di New York sono esposte 8 opere di Picasso. Il mondo gli si apre davanti, la firma Picasso è nota dovunque.

Eva è sempre più ammalata - tossisce in continuazione – ed è questa la ragione che spinge Picasso a lasciare precocemente Parigi, l’11 di marzo, per affrontare il suo terzo viaggio a Céret, villaggio che gode della brezza vivificante dei Pirenei. Inoltre, l’aver firmato il 18 dicembre 1912 un contratto formale con Kahnweiler per la vendita dei suoi quadri lo libera dagli impegni commerciali, permettendogli di allontanarsi da quel campo di battaglia che è diventato Parigi – e non solo in ambito artistico: i suoi vicini di casa, che hanno bambini, gli hanno fatto sapere di non gradire la presenza di Eva, chiaramente ammalata di tubercolosi. E poi a Céret quest’anno non vi è l’incubo Fernande – di cui Picasso non ha più avuto notizia - quindi i due innamorati possono vivere in pace. Il giorno 22 Eva scrive a Gertrude Stein che «c’è un tempo superbo e ci siamo sistemati».
L’11 aprile Picasso scrive a Kahnweiler: «Max deve venire a Céret. Puoi avere la cortesia di dargli dei soldi per il viaggio e per le sue spese personali? Metti tutto a mio carico.» Max Jacob è l’amico che tra il 1902 e il 1903, l’apice del momento di estrema povertà di Pablo, l’aveva accolto nella sua stanzetta all’87 di boulevard Voltaire ...e seppur crescendo in notorietà e ricchezza, Picasso mai dimentica gli amici che hanno condiviso la fame e il freddo con lui. Inoltre, da un po’ di tempo Max, ebreo per nascita, ha cominciato ad avere visioni mistiche - vede il Cristo ovunque -  e questo sconvolge il suo equilibrio psico-fisico: una buona ragione in più per averlo vicino, regalandogli una vacanza a Céret.
La presenza di Eva e dell’amico influiscono sullo sviluppo artistico di Picasso e il tono festivo e allegro del papier-collé che ha per tema Céret ne è la prova: «Un bambino non arriva mai a quell’ingenuità primordiale che qui raggiunge Picasso e che riesce a contagiarci. Queste Case di Céret danzano» scrive Palau I Fabre nel secondo volume della sua biografia artistica di Picasso.

Case di Céret, estate 1913

Il 5 maggio Picasso, che ha lasciato il villaggio per un breve viaggio a Barcellona, scrive a Kahnweiler: «Le comunico la morte di mio padre, mancato la mattina di sabato scorso. Può immaginare in che stato mi trovo.» Nove giorni dopo Eva scrive a Gertrude Stein: «Spero che Pablo riprenda il lavoro, poiché soltanto questo può fargli dimenticare un po’ la sua tristezza.»
Il 2 giugno Max Jacob informa Apollinaire che «Eva è molto malata; angine continue la costringono a letto da otto giorni.» La stessa lettera contiene anche questa bizzarra descrizione: «Céret è una piccola città ai piedi dei Carpazi o Karpazi. La popolazione va dai cinquecento ai diecimila mila abitanti approssimativamente. Il numero ridotto degli abitanti è senza dubbio dovuto all’abbondanza di pederasti e di erotomani che si limitano a riempire i caffè.»
In un’altra lettera diretta ad Apollinaire, Max scrive di aver fatto un’escursione di pochi giorni (dall’11 al 15 giugno) a Figueras e a Girona con Pablo ed Eva e di essere andato a vedere una corrida, aggiungendo: «la Spagna è un paese quadrato e fatto di angoli.» Come a dire: è un Paese per sua natura cubista.
Dopo questo viaggio di distrazione, Picasso riprende a lavorare, reinterpretando i suoi Arlecchini, vecchi compagni d’angoscia, ma subito s’interrompe, Il 19 giugno Eva informa Gertrude Stein che il giorno dopo sarebbero tornati a Parigi.

Arlecchino, 1915

Il blocco creativo che ha colpito Picasso a Céret continua a Parigi. Inoltre, la tosse non dà tregua ad Eva. Da qui la decisione di tornare alla brezza dei Pirenei. Arrivano a Céret tra il 6 o il 7 di agosto per sbrigativamente ripartire pochi giorni dopo. Non torneranno mai più.


Il periodo buio di Picasso continua: la Grande Guerra è iniziata, i suoi migliori amici sono al fronte, la salute di Eva peggiora giorno dopo giorno, fino a richiedere l'ospedalizzazione alla Maison de la Santé Goldman al 57 di boulevard de Montmorency. L’artista realizza una serie di quadri sul tema Donna seduta, il ritratto della donna amata costretta su di una sedia, serie concluda da alcuni tragici disegni: Eva agonizzanteEva sul letto di morte, La salma di Eva, morta il 14 dicembre 1915 all’età di trent’anni. L’8 gennaio 1916 Picasso scrive a Gertrude Stein: «La mia povera Eva è morta. […] È stato per me un grande dolore e so che lei ne sentirà la mancanza. È sempre stata così buona.»

Un ciclo è finito. Scrive Apollinaire: «Ora è il sud ad attirare gli artisti. Invece di trascorrere le vacanze in Bretagna o nei dintorni di Parigi come facevano gli artisti della generazione precedente, i pittori vanno verso la Provenza. Persino i Pirenei sono stati abbandonati. Céret non è più la mecca del cubismo.»

 Donna seduta che legge un libro, 1914-1915

Eva agonizzante, dicembre 1915

Eva sul letto di morte, dicembre 1915

Gli anni passano, non tutti dimenticano. Nel 1950 Pierre Brune e Frank Burty Haviland creano a Céret il Museo d’Arte moderna, una struttura che nel tempo ha acquisito una dimensione internazionale grazie anche alla donazione da parte di Picasso (nel 1953) di 29 ceramiche avente per soggetto la tauromachia.

Personalmente, di Céret ho ricordi bellissimi: le ore passate al Museo d’arte moderna, lo struscio per le strade seguendo i pannelli che riproducono le tele dei tanti pittori che qui hanno lavorato, il tempo passato a fotografare la fontana in place Picasso, opera dei ceramisti Jacques e Juliette Damville e la scoperta della cucina di madame Minerva, una donna approdata a Céret dalla vicina Spagna e titolare del minuscolo Restaurant Al Duende. Buonultima, la cappella di Saint-Martin de Fenollar dista solo una decina di chilometri.


ADDENDA. Nell’estate del 1954, Picasso riprende la strada di Perpignan in compagnia di due suoi amici, il pittore Édouard Pignon e sua moglie Hélèn Parmelin, giornalista e scrittrice. In agosto raggiungono Céret, dove Picasso mostra loro la Casa dei Cubisti, il museo, il torrente, il vecchio cafè Justafré, ricordando i tempi di Fernande e di Eva, di Manolo, di Pichot, di Braque, di Max Jacob e di Juan Gris, i giorni della pittura e della sardana.
Proseguendo oltre Céret, con l’auto risalgono la foresta di Fontfréde fino al suo culmine, il confine con la Spagna, luogo dove Picasso, davanti ad un’assemblea organizzata a Céret dal PCF, propone di erigere un laico Tempio della Pace. Non verrà mai costruito.
[fine della trilogia]


LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
11 maggio 2015