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lunedì 22 febbraio 2016

Picasso e Braque visti da Ardengo Soffici


Ardengo Soffici
Opere
Volume I
Vallecchi editore
Firenze 1959
pp. 617-633

CUBISMO
PICASSO E BRAQUE

Per parlare con un po’ di profondità di due giovani pittori, l’uno spagnolo - Pablo Picasso - l’altro francese - Georges Braque - e della loro arte, arte complessa, difficile e sconvolgente se mai ce ne fu, è di un’assoluta necessità ricordare prima, non fosse che di passata, che cosa fu l’impressionismo, quale la sua essenza, e quali le ragioni che provocarono contro di esso quella reazione di cui questi due artisti sono, fino ad oggi, gli ultimi campioni

L’impressionismo, dunque, chi lo consideri nella sua purezza, e cioè quale fu iniziato dall’olandese Johnkind e inteso e messo in pratica dai francesi Pissarro, Sisley, e, più specialmente ancora, da Claude Monet che ne fu insomma il vero, il più grande e il più logico rappresentante e banditore, l’impressionismo fu anzitutto il resultato di una prevalenza presa dalla sensibilità e dallo spirito di analisi sulla immaginativa, la volontà di sintesi e le altre facoltà che nel passato erano ritenute concorrere alla grandezza e allo stile. Se poi ci mettiamo a esaminarne più a fondo la sostanza, vediamo che esso non fu soltanto questo, ma anche, e forse più, il prodotto di una vera e propria rivoluzione spirituale cominciata dalla filosofia e passata contemporaneamente nel campo delle scienze e delle arti. Voglio dire che l’impressionismo corrispose come fenomeno artistico a una messa in atto di quel pensiero, che, rigettando la concezione di una realtà esterna o superiore allo spirito umano, considera l’universo come una creazione dello spirito stesso e pertanto senza categorie estetiche a sé, ma con quelle sole immanenti nelle profondità intuitive dell’individuo - dell’artista, del genio. E difatti basta esaminare con una certa perspicacia l’opera di un pittore impressionista per accorgersi subito come il suo carattere precipuo sia non un gerarchizzamento di esseri e di cose, secondo dati principii idealistici, intellettualistici e magari etici, in vista di un più grande effetto da raggiungere, ma anzi la collocazione sullo stesso piano di ogni fenomeno naturale manifestantesi per via di forme e di colori; la legittimazione e il poetizzamento di ogni manifestazione vitale; un’equiparazione dei differenti valori dell’universo visivo. Così, mentre per l’innanzi la generalità degli artisti, ligia a vecchi pregiudizi accademici, o nel miglior caso (quando non si trattava di creatori geniali, che questi sono stati si può dire sempre impressionisti) incline a una valutazione oggettiva delle cose, era abituata a subordinarle le une alle altre seguendo un rigoroso criterio classico-scolastico, e a giudicare il mondo come un aggregato di figure e di spettacoli più o meno significativi, più o meno interessanti fra i quali era necessario scegliere o che bisognava modificare nell’ordinamento ed esecuzione dell’opera d’arte, il pittore impressionista, tralasciando ogni considerazione estrartistica e affidandosi solo alla sua potenza fantastica e lirica, veniva a provare come tutto potesse esser materia di bellezza e di poesia se contemplato da un occhio di creatore; e che qualunque essere, qualunque luogo, qualunque cosa, come qualunque parte di essa era capace di rispecchiare e di suggerire l’idea divina del bello e pertanto degna come qualunque altra di essere studiata, amata e ritratta. Fu per via di questa concezione più libera, più generosa, più profondamente poetica della realtà che la figura umana, l’animale, il più insignificante cantuccio della natura, la stessa cosa inanimata - l’utensile, un bicchiere vuoto, che so io? un cencio sgualcito - ebbero uno stesso valore in quanto puri elementi artistici, non differenziati da altro che dal loro colore e dalla loro forma, e poteron pigliar luogo tutti insieme, senza sacrifizio dell’uno o dell’altro, o essere ognuno per proprio conto soggetto e tema in un’opera d’arte.
Senonché, se l’impressionismo, spiritualmente parlando, rivendicò, come si vede, la panpoeticità - mi si passi la strana parola - del mondo, e all’artista a venire un’assoluta libertà d’ispirazione di cui ormai beneficia e beneficierà sempre, non andò immune, come scuola pittorica, dal flagello delle false teorie e da una tal quale unilateralità di visione che a lungo andare era fatale lo conducessero al dinervamento e alla morte.

Ho troppo spesso parlato di ciò che fu la teoria impressionista, perché debba ripetermi qui. Dirò solo, a mo’ di riassunto, che fondandosi sur un principio di preferenza data alla sensibilità sull’immaginazione, e allo spirito d’analisi su quello di sintesi, essa imponeva al pittore, non solo di rendere nella sua freschezza e spontaneità l’impressione ricevuta dalle cose apparenti, ma di farlo sul luogo stesso, al momento medesimo dell’emozione, nel minore tempo possibile e applicandosi a ritrarre con la massima fedeltà e precisione la particolare sfumatura, l’aspetto passeggero, momentaneo, unico della persona, del luogo o della cosa che avevano eccitato la sua fantasia. È facile arguire da ciò, che mentre l’immediatezza della rappresentazione conferiva all’opera pittorica un sapore e una vivacità sconosciute avanti, era causa nondimeno che la realtà ritratta non s’elevasse mai, nella figurazione, a quella larghezza e universalità d’espressione che sono il frutto di un felice accoppiamento di sensibilità e di volontà, che costituiscono insomma lo stile, e anzi s’immiserisse nel transitorio, nell’aneddotico e a volte anche nell’assolutamente illustrativo. Gli è che non basta liberarsi dal tradizionalismo e riabilitare una facoltà negletta, se dell’uno non ci s’è prima assimilato la parte sana, e della facoltà contraria dell’altra non s’è appreso a giovarsi in quella misura che è pur necessaria. Né il non aver capito questa verità - un po’ involuta forse, ma chiara per chi abbia riflettuto a fondo sui problemi dell’arte - fu il solo difetto della scuola impressionistica. Un altro e forse più grave, fu il suo modo di concepire l’universo fisico. Jules Laforgue, già da me altra volta citato e che fra gli esegeti di quella scuola fu e resta ancora il più penetrante, ha nei suoi Mélanges posthumes un passo che riflette esattamente una tale concezione. «L’impressionista - egli dice dunque - vede e rende la natura qual’è, vale a dire unicamente in vibrazioni colorate. Né disegno, né luce, né modellatura, né chiaroscuro... tutto ciò si risolve in realtà in vibrazioni colorate e deve essere ottenuto sulla tela unicamente per via di vibrazioni colorate». Certo, è naturale ed era anche legittimo che - persuasi in questo anche dalla scienza, - i pittori impressionisti, in rivolta contro la scuola ed il suo bitume, non vedessero nella natura se non uno spettacolo radiante e rutilante, costituito, se si può dire, d’un brulichio tremulo e inafferrabile, e che per tradurlo ricorressero a quella loro maniera di dipingere tutta a tocchi e a sfarfallii di colori puri e vividi. Ma non è men vero che sviluppati fino ai limiti estremi, come lo furono appunto da Claude Monet, una tale visione e un tal sistema non potevano fare a meno, a forza di trascurar via via ogni altra qualità delle cose raffigurate per non renderne che la vibrazione luminosa, di condurre a una pittura inconsistente, troppo tenue e vaporosa, dove le forme e i corpi si disgregano, sfumano, si squagliano e si dissolvono nella fluidità dell’aria, fino a che tutto vanisce e annega in un barbaglio di luce bianca. Ché tale, se non lo fu del tutto, tendeva a divenire la pittura impressionista. La quale, se a prima vista può titillare e accarezzare l’occhio del riguardante, non può in nessun modo appagare il desiderio di corposità, di varietà e di concretezza che richiedono gli altri sensi concorrenti con l’occhio nella percezione di un’opera d’arte.
Ora è appunto per queste ragioni che l’impressionismo, sebbene avesse slargato i confini dell’arte pittorica e prodotto opere di grande bellezza, non poteva durare e non durò. Alcuni pittori, più profondi e d’aspirazioni più vaste, dopo essersi assimilato ciò che v’era di buono nelle scoperte e riforme impressioniste non tardarono a rendersi conto del pericolo che correva la scuola e a distorsene; finché l’un d’essi e non il minore, Paul Cézanne, non le voltò addirittura le spalle, e riafferrandosi nuovamente alle cose, ricostruendole artisticamente nella loro sodezza, riaffermando il volume, il chiaroscuro, il disegno e tutto ciò che gli altri avevan negato, non iniziò quella reazione che dura da più anni e nella quale sono oggi impegnate tutte le forze della gioventù pittorica di Francia.
Per arrivare ad un eccesso contrario? Vedremo. Intanto veniamo ai nostri due artisti che son nella prima fila.

E prima a Picasso. Pablo Picasso non è stato sempre quell’artista inquietante, confonditor di critici, sconcertator di colleghi e spauracchio di filistei che è da qualche tempo a questa parte. Quando lo conobbi una diecina d’anni fa a Parigi, ventenne, fresco arrivato dall’Andalusia, da Malaga, egli dipingeva paesaggi, ritratti e scene della piccola vita parigina che in nulla differivano dagli esercizi diletti alla buona gioventù indipendente d’allora, se forse non era per una maggiore audacia di disegno e una più grande e quasi selvaggia esaltazion del colore. Vero è che fin da quel tempo, o per lo meno fin dal novecentodue o novecentotre, allorché cioè quei primi tentativi furono seguiti da ricerche più alacri e più virili, già qualche cosa s’intravedeva, nella sua pittura, che era come una preoccupazione d’ordinamento e di stile. Intendo dire che, o studiasse, dopo Toulouse-Lautrec, il mondo cocottesco, nottambulo e alcoolizzato, o ritentasse modernamente l’interpretazione grottesca o tragica del vizio, della miseria e del dolore ispirandosi al fare di Goya, del Greco o del Signorelli. (Giacché Picasso, dotato com’è di una tempra sensibilissima, ha capito, amato e s’è nutrito delle più diverse forme di bellezza, tirandole però sempre a servire la sua personalità), ognora e ognor più la sua arte si allontanava, sia come spirito, sia come tecnica, dall’estemporaneità e disgregatezza di quella impressionistica; e, investigando più addentro la natura, già la traduceva più complessa, più soda e più drammatica. Chi conosce e si ricorda la dolce gravità di alcune sue opere d’allora - una donna che bacia un corvo con atto d’amore, due giovinette pensose, assise nude per terra, un mendicante con la bisaccia piena di tristi fiori appassiti, un groviglio di corpi miserabili sul marciapiede - non può fare a meno di ritrovarvi i segni di una ribellione decisa alla scuola che finiva di trionfare. Il colore stesso, col nero che ritornava nella gamma bianca e turchina, significava protesta. E protesta significò pure tutto il ciclo di opere che venne subito dopo. Il ciclo, chiamiamolo così, picaresco. Ricordiamo. Esodi malinconici di saltimbanchi, compagnie nomadi affamate di comici da fiera, ricapitolanti le umiliazioni e i fiaschi di tutti i generi, durante una sosta sul ciglio della strada maestra, in un paese brullo, arrostito, povero e giallo al pari di loro, e senza un riparo per miglia e miglia; arlecchini e pagliacci macilenti, randagi per i sobborghi delle grandi città o seduti all’uscio delle baracche seguendo con gli occhi avidi Colombina che, in sandali, coperta appena di un gonnellino a scacchi e con un bambino in collo, va e viene dalla tenda alla marmitta, mentre un marmocchio più grandino si gingilla col tamburo e col cappello a bubboli del babbo, o ruzza tra le ciarpe e le trombe col cane ammaestrato; - atleti in maglia paonazza o azzurra, gloriantisi dei mostruosi bicipiti, accanto agli enormi manubri truccati, o vergognosi della loro magrezza; - vagabondi e accattoni rassegnati, abituati a tutto, trascinanti le loro ossa stanche per le dure vie della terra sotto un cielo bigio e solitario.
Fu alludendo a queste opere che Guillaume Apollinaire, il quale scrisse di Picasso verso quell’epoca, notava già la sobrietà verso cui tendeva la sua ricerca e quel ritorno a una più generale comprensione delle cose viste nella loro corposità e non più dissolte per le varie accidentalità delle illuminazioni e dei riflessi.... «La couleur a des matités de fresques, les lignes sont fermes.... Le goût de Picasso pour le trait qui fuit, change et pénètre et produit des exemples presqu’uniques de pointes sèches linéaires où les aspects généraux du monde ne sont point altérés par les lumières qui modifient les formes en changeant les couleurs».
Tuttavia il passo decisivo, quello che doveva condurre il nostro artista in un campo di esperienze molto più avanzate non fu fatto che un paio d’anni più tardi, e cioè quando egli, dopo essersi progressivamente allontanato dal modo di vedere degli impressionisti, trovò in un’arte opposta alla loro un fondamento più fermo alle sue ricerche ulteriori. Quest’arte fu la pittura e la scultura degli antichissimi egiziani, e quelle affini - e forse anche più nativamente sintetiche - dei popoli selvaggi dell’Affrica meridionale. Un altro artista, prima di lui, Gauguin, fuggendo il particolarismo e la fotolatria del puro impressionismo, s’era rifugiato nello studio di quei mondi artistici primordiali, ma col suo intellettualismo e - checché ne dicano i suoi fanatici - con la sua affezione per le false fastosità simboliche, non aveva saputo trarne che una certa compostezza e larghezza da altri credute sublimi o religiose, ma in effetto soltanto decorative e letterarie. Picasso invece - una volta arrivato alla comprensione e all’amore di quell’arte ingenua e grande, semplice ed espressiva, grossolana e raffinata ad un tempo, subito seppe appropriarsene le virtù essenziali, e poiché queste consistono insomma nell’interpretar realisticamente la natura deformandone gli aspetti secondo un’occulta necessità lirica, affine d’intensificarne la suggestività, egli s’applicò d’allora in poi a tradurre, nelle sue opere, il vero trasformandolo e deformandolo; non peraltro, al modo che facevano i suoi maestri, ma - com’essi gl’insegnavano ciascuno con un particolare esempio - seguendo i propri moti della sua anima moderna.

Qui bisognerebbe forse spiegare che cosa si debba intendere per deformazione artistica delle cose secondo una legge lirica, giacché su essa si fonda tutta una nuova comprensione del disegno e delle forme dell’opera d’arte; ma oltre ad averlo fino a un certo punto già spiegato in altra occasione, spero di farlo se non comprendere (scrivo nella patria di Ettore Tito, di Gemito, di Bistolfi, di Mancini, di Sartorio ed altri fenomeni di questo genere!) intraveder in seguito. Basti dire per ora, che, per certi artisti, i piani, le masse e i contorni delle cose possono avere proporzioni, rapporti e movimenti differentissimi da quelli che il comune degli uomini percepisce; indipendenti dalla loro concatenazione in quanto coefficienti di una realtà concepita scientificamente o praticamente; possono insomma esser considerati come semplici elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica sperimentale, e solo quale pretesto, quale geroglifico di cui l’artista si serve per operare una suggestione sul riguardante. Una testa troppo piccola, un braccio troppo grosso, una spalla stravolta, una gamba mal congiunta al resto del corpo, un tronco d’albero troppo piatto, una casa sbilenca ed altrettali cose che il volgare prende per tanti errori grossolani e risibili, non sono così che i modi necessari di una più profonda bellezza, in quella maniera che l’immagine sforzata o l’aggettivo discordante di un poeta sono i mezzi legittimi per ampliare la visione che si vuol suggerire per romperne i confini e farla continuare in vibrazioni infinite nella fantasia di chi legge. Ricordatevi del «giace dispettoso e torto» col quale Dante fa di Capaneo una figura granitica eschilea; del «Danton pallido, enorme» del Carducci o - come violentazione del colore - di «Le vie dorate e gli orti» del Leopardi. Per non parlare di stranieri, specialmente moderni. Ma rientriamo in carreggiata.

Partito dunque da qualche cosa che somigliava molto all’impressionismo, ecco che Pablo Picasso, procedendo di grado in grado aveva fatto capo agli antipodi di quella scuola; vale a dire che, dopo essersi come tanti altri contentato di cogliere e fissare nel suo splendore un momento fuggitivo della natura, era giunto, per via di meditazioni e di esperienze, a questa conclusione, che l’arte vera è sintetica e che non si dà sintesi senza sobrietà, generalità e concretezza, e se egli fosse - come non è - di facile contentatura, avrebbe potuto acquietarsi e imperniare i suoi studi successivi su questa verità. Ma così facendo avrebbe soltanto ripetuto la curva che eternamente traccia ogni intelligenza artistica, la quale movendo da un’affermazione novissima risale insensibilmente e si fissa a un’affermazione antichissima e contraria. Picasso invece, spirito alacre e irrequieto, quant’altri mai, non si appagò di un tal resultato dei suoi studi, e anzi fu appena arrivato a quel nuovo modo d’intender l’arte, che subito si dette ad affrontare, per tentar di risolverli i vari problemi che già gli si presentavano.
Il primo di questi problemi era quello dei volumi. Chi ha seguito il mio discorso avrà capito, anche perché vi ho insistito - e forse oltre misura - come uno tra i forti motivi di reazione all’impressionismo teorico fosse la incapacità di questo a rendere la corposità delle cose. Picasso, uno dei più coraggiosi partigiani della ribellione, risalendo alle arti primitive e barbare, le quali traggono tutta la loro potenza dell’osservazione di ciò che un estetico americano, il Berenson, chiamerebbe i valori tattili, non aveva dunque fatto che spingere all’estremo la sua protesta. Senonché gli bastò approfondire per un certo tempo lo studio di codeste arti per accorgersi di quanto un pittore affinato dalla cultura, modernamente sensibile, potesse andar più lontano nella ricerca e nell’espressione di quei valori.
Difatti non basta affermare, contro l’impressionismo, che nella percezione visiva del reale, il senso del tatto ha, per il ricordo di precedenti esperienze, altrettanta parte che quello della vista, e che perciò non si tratta meno di rendere il volume che il colore degli oggetti e degli esseri rappresentati; bisogna ancora domandarsi se la nostra conoscenza dei volumi non domandi per esser manifestata qualche modo pittorico del tutto sconosciuto all’antichità. È certo a mo’ d’esempio che allorché noi miriamo un oggetto non possiamo vederne se non i lati e i piani esposti prospetticamente all’obiettivo, diciamo così, del nostro occhio; ma non è men vero che, sia per un’esperienza anteriore, sia per un’induzione fondata sull’analogia, noi conosciamo, e potremmo dire sentiamo, anche i lati di quell’oggetto nascosti alla nostra vista. Immaginiamo d’avere davanti a noi un oggetto qualunque, poniamo - per scegliere un oggetto più volte dipinto dal nostro artista - un violino. È posto sur una tavola e non ne vediamo che il piano in isbieco, la fascia della cassa e il profilo del manico ricurvo. Chi volesse ritrarlo secondo i criteri di tutta la pittura precedente, bisognerebbe contentarsi di questi piani e di queste linee: purtuttavia non è un fatto che così facendo si sacrificherebbe una parte della realtà che noi conosciamo, giacché i nostri stessi occhi ci hanno rivelato altre volte che il violino non è tutto in quelle linee e in quei piani, ma che consiste anche del rovescio della cassa, dell’altra metà della fascia e del manico, e che le insenature laterali hanno una curva armoniosa che ora si perde? Se poi la cosa che ci sta davanti è di forma puramente geometrica, come sarebbe a dire una casa, un tronco d’albero, una catinella, un bicchiere, l’osservazione appare anche più evidente. Ora è appunto movendo da questa considerazione che Pablo Picasso ha escogitato una nuova maniera pittorica capace di tradurre gli esseri e gli spettacoli naturali nella loro totalità. Ma qual’è questa maniera? Ecco ciò che non è facile dire senza rischiare di destare un falso sospetto di teoricismo e magari di meccanicismo circa le sue ricerche, unicamente pittoriche e artistiche, al contrario. Tenterò tuttavia di farmi intendere.

È evidente anzitutto che questa proiezione integrale della realtà sur una superficie piana non può esser fatta con un sistema rigoroso; essa viene anzi operata indipendentemente da ogni regola prestabilita, secondo criteri strettamente poetici, e solo in quei casi che una necessità di bellezza lo richiede. Infatti allorché si tratta per Picasso di tradurre nella totalità dei suoi volumi una persona, una cosa o un paese, egli non lo farà al modo di un geometra scomponendone i lati in tante figure da porre le une accanto alle altre il che sarebbe assurdo e ridicolo; bensì mettendo d’accordo la conoscenza interna e la sensazione parziale, stenderà accanto all’immagine quale gli si presenta le superna occulte, che però sente come realmente apparenti, le facce nascoste e i profili fuggenti nella loro varietà e armonia di proporzioni, il tutto interpretato e ordinato in modo da raggiungere una viva e perfetta unità. Così, chi ripigli l’esempio del violino, le parti invisibili appariranno nella sua figurazione di quello strumento, spiegate e scomposte nei loro volumi, allato alle visibili - la fascia nascosta si allargherà sulla tavola, l’insenatura svolgerà la sua curva molle, l’opposto profilo del manico ricupererà la sua forma in uno sbattimento laterale di luci e d’ombre. O per meglio dire, egli scioglierà quelle cose nei loro elementi emotivi - linee, scorci, sfumature di toni -, darà come la somma delle emozioni che ne avrà ricevute, farà in una parola una ricostruzione di una realtà che del violino non è se non un riassunto strettamente pittorico, puramente lirico.
Similmente la figura umana sarà da lui notomizzata in tutte le sue facce per via di una sorta di misurazione, affine di metterne in evidenza la voluminosità cubica (e da ciò il nome di Cubismo dato a una tale pittura); squadernata, per così dire, davanti agli occhi come per mezzo di una refrazione circolare, ottenendo con ciò che lo spettatore abbia una visione intera definitiva e per così dire immutabile della realtà. E non, giova avvertire, a quel modo che altri han tentato di suggerirgliela stilizzando e schematizzando le masse e le linee, come fa per esempio l’orribile scuola di Beuron, ché l’arte di Picasso anziché condurre le forme a un tipo fisso, invariabile e impersonale, le scompone nella infinita varietà dei loro aspetti, le fruga, le scruta e ne mostra i molteplici caratteri e apparenze.
Senonché questi scomponimenti, questi spostamenti, prospettici, questo sforzo insomma di carpire tutte in una volta le diverse apparenze del vero ed esporle sur uno stesso piano sarebbero vani quanto mai se l’opera che ne risulta dovesse perdere sia pure una minima parte del suo potere suggestivo. E ciò avverrebbe immancabilmente se Picasso si preoccupasse sopratutto di questa analisi pittorica dei volumi. Il fatto è invece che tale analisi non è per lui che un tessuto melodioso di linee e di tinte, una musica di toni delicati, di chiari e di scuri, caldi o freddi il cui mistero accresce la gioia di chi guarda; gli è che Picasso al momento stesso di risolvere il problema dei volumi ha risolto anche quello del disegno e della luce. Già sappiamo che da più tempo il disegno non aveva più per lui il dovere di stringere e modulare i corpi in contorni precisi, innestando membro a membro con la logica inerente a ogni essere e a ogni cosa rappresentata. L’impressionismo sano prima, e i suoi maestri barbari poi, gli avevano insegnato a considerarlo come strumento di deformazione libera e audace. Ora esso ha per lui semplicemente il valore di un geroglifico con cui si scrive, per chi può leggerla, una verità liricamente intuita. Onde armato di questo strumento duttile capace di mille sfumature, dei più sottili e fuggevoli sottintesi, Picasso piuttosto, che stravolgere gli aspetti delle cose figurate all’unico scopo di farne una descrizione integrale, fa il giro delle cose stesse, le considera poeticamente sotto tutti gli angoli, ne subisce e ne rende le impressioni successive, le mostra insomma nella loro totalità e perpetuità emotiva e con la stessa intensità e libertà con la quale l’impressionismo non ne rendeva che un lato e un attimo.
In quanto alla luce, dal momento che il nostro artista non vuole nei suoi quadri raffigurare la natura nelle sue apparenze, bensì farne una trama di puri valori pittorici destinati a suggerire occultamente (matematicamente si potrebbe dire, pensando che la matematica potrebbe essere il fondo della pittura come l’è della musica) un senso di concretezza, in quanto alla luce, dico, e ai riflessi è naturale sian considerati come semplici macchie cromatiche fra quelle degli altri oggetti, e magari prendano forma e corpo definitivo diventando in un certo senso oggetti essi stessi. L’impressionismo aveva sciolto in vibrazioni luminose le più solide masse; che meraviglia se un’arte che dell’impressionismo è la precisa negazione piglia a considerare la luce come qualcosa di misurabile e contornabile, almeno quando si posa e s’acqueta sur un punto qualsiasi delle cose?
Comunque, è con tali mezzi che la pittura del nostro artista arriva a comunicare sensazioni grandiose e severe che domanderemmo invano alla più parte dei migliori pittori moderni e antichi. Con una sobrietà di tinte di giorno in giorno più grande, egli sa creare immagini di una bellezza potente a un tempo e delicata. Figure la cui intensità di vita risulta dalla fissità, dalla loro espressione ottenuta appunto con la rigorosa messa in valore del volume di ogni membro - nature morte che sono come ricchezze cristalline e metalliche avvolte di poesia occulta e inquietante, in cui la sodezza di ogni cosa risveglia idee d’eternità - paesaggi granitici, che fanno pensare - meno il colore - a quel

terrible paysage
Que jamais œil mortel ne vit

di cui parla Baudelaire; dove i tetti drizzano e raddoppiano i loro cacumi, dove la terra par soffocare i germi del suo seno gelato per dar tutti i suoi sughi a una palma rigogliosa, dove un’unica nota di colore canta come un passero solitario in una piaggia deserta. Opere delle quali l’oscurità e il mistero aumentano l’incanto e la terribilità poetica.
A volte, è vero, l’oscurità dell’arabesco arriva quasi alla tenebra, e forse il pericolo di quest’arte è di divenir tanto profonda da degenerare in una sorta di metafisica pittorica: certo il suo unico difetto è, specie nella rappresentazione dell’essere umano, una cert’aria antica cui arriva, un certo sapor d’arcaismo dal quale gli spiriti moderni d’elezione aborrono ormai.
E parlo di spiriti d’elezione perché se l’arte di Picasso è, come ho detto, di una importanza singolare, di una grandissima originalità e fatta per un grande avvenire, oggi come oggi non può esser compresa e amata che da pochi; e soltanto tardi, tardi, o non mai, piacerà alla moltitudine. - Ma alla moltitudine, diceva Bione filosofo, è impossibile di piacere se non diventando un pasticcio, o del vin dolce.

Ed eccoci a Georges Braque. L’aver parlato tanto distesamente di Picasso, mi dispensa dal ritracciare il corso e lo svolgimento dell’arte di questo pittore, giacché non dovrei fare che ripetermi, un tal corso e un tale svolgimento essendo, se non del tutto uguali, strettamente paralleli, ed avendo avuto gli uni e gli altri per resultato di condurre i due colleghi ad un quasi identico modo di vedere e di esprimersi. Infatti, partito come Picasso da una specie d’impressionismo, Georges Braque non tardò ad orientarsi come lui verso una forma d’arte che, meno unilaterale di quella allora in auge, potesse ricostituire la realtà nella sua sobria e stabile calma, interpretandola più largamente e non in ciò che ha di fuggevole, di rutilante, di lampeggiante, sibbene in ciò che l’intelligenza unita alla sensibilità percepiscono di permanente e immutabile, di concreto, sotto l’incessante fluenza delle attitudini e delle illuminazioni. Non saprei dire con precisione a quando risalga, nella sua carriera, il primo indizio di questo cambiamento di direzione; ma già in alcuni paesaggi dipinti verso il novecentosette o novecentotto nel mezzogiorno della Francia, la visione delle cose per volumi e la preoccupazione sintetica si affermano chiarissimamente. Sono semplici vedute di giganteschi acquedotti scavalcanti un burrone, le cui arcate sode e taglienti sopravanzano le cime delle piante e incidono il cielo; di strade chiare fiancheggiate da muri all’orlo di un precipizio pietroso; di villaggi appollaiati sur una roccia brulla emergente da un bosco folto. Ma Braque portando su queste povere e nude combinazioni di natura e di opere umane il suo occhio nuovo, ne penetra, ne svolge le linee e ne assottiglia le sfumature in modo che la sua opera attinge di colpo a una vastità e arditezza mirabili. Gli archi, le rocce i muri, gli alberi, le case, analizzati e sviscerati nella loro struttura si fissano come in uno stupore di cose imperiture in una omogeneità e unità di concezioni spirituali. Più tardi egli ritrarrà porti solitari appiè di alte scogliere, dove le barche si dondolano ormeggiate alle case miserabili dalle grandi porte nere, sbadiglianti davanti al mare; dipingerà persone e nature morte, e il suo stile si affermerà sempre più rigoroso, più logico, si potrebbe dire, nell’addurre le cose transitorie a una esistenza come estratemporale, assoluta. Certo a lui manca la versatilità che fa di Picasso un prodigioso compendio vivente di dieci anni di ricerche pittoriche; ma in compenso quanto amore, acuità e delicatezza nelle sue opere specie più recenti! Nature morte raffiguranti agglomerazioni d’oggetti casalinghi sur una tavola, istrumenti musicali, poma, stoffe e stoviglie, fruttiere colme di frutta, nelle quali le sfaccettature dei cristalli, i riflessi dei legni e degl’intarsi, lo spiegazzamento dei tessuti creano una magia prismatica che fa pensare a quella solitaria dei ghiacciai alpini. E sono quell’amore e quella delicatezza appunto che differenziano il francese dallo spagnolo. Picasso, pieno lo spirito di un fuoco quasi barbarico, racchiude nelle basse tonalità e nel disegno apparentemente algebrico dei suoi quadri la violenza sorda del dramma; Braque con la sua tecnica appena appena meno rigorosa ottiene una sorta di calma musicale piena di leggerezza ad un tempo e di severità. Ma tutt’e due insieme senza tradire la respettiva origine e anzi ricollegandosi colla più profonda tradizione delle loro razze, inaugurano una scuola d’arte, certo non facile per il momento ad esser compresa, ma degna e capace di un glorioso avvenire.


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venerdì 19 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (2)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano
nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955
pp. 171-188

CAPITOLO XIII

Ricordi in libertà. Ancora ospite a Parigi degli amici russi. Serghei, la “Baronne”. Opere di Rousseau. Conosco Degas vecchio e cieco. Jehan Rictus. Visita a Félix Fénéon. Ibels. Un amico di Rosso: Louis Rouart. Diveniamo amici. Lectura Danctis. Eugène Montfort e i suoi “Marges”. Mi ritrovo con Picasso, Apollinaire. Jacob, eccetera. Natura immutata di Picasso. Suo latente arcaismo. Al “Lapin agile”. Vagabondaggi sulla “Butte”. La campagna in Parigi. Prezzolini e moglie in rue de Tournon. Visita a Romain Rolland. Sua figura.

Se volessi narrare con esattezza e per ordine ciò che feci a Parigi, dove anche nella primavera del 1911 fui per qualche mese, occorrerebbe rovistare tra carte e documenti che, un po’ per pigrizia un po’ per noncuranza, lascio dormire raccolti alla rinfusa in pacchi e casse che non apro da anni e anni. Senonché questa non è una cronaca rigorosa dei fatti della mia vita esposti con precisione strettamente cronologica, ma una specie di largo affresco di un genere particolare, illustrante un dato periodo ed ambiente in cui io ho agito e mi son mosso; e nel quale le cose, ossia le figure ond’esso è composto, non debbono essere necessariamente allineate e disposte come in cerimonia, ma con una certa varietà capricciosa di luci, ombre, volumi, colori e sfondi, atti ad animarne l’insieme; ed a questo effetto basta che tali cose e figure, comunque collocate, ci siano e vi appaiano nella loro verità sostanziale. Che se poi l’opera dovesse un giorno assumere un interesse duraturo, ci sarà sempre tempo e modo di compulsar quelle carte e quei documenti, e rimetter tutto a posto.
Dirò intanto che appena giunto a Parigi una bella sorpresa mi attendeva in casa della Baronessa Elena e di Serghei, dei quali anche questa volta ero ospite. Dopo il mio dono dei nove disegni di Henri Rousseau, l’amico russo, che solo negli ultimi tempi s’era allontanato dai suoi primi gusti per l’opera dei pittori ottocenteschi del suo paese - quali Vasnizoff, Vrubel, eccetera - e del francese Paul Laurens, per orientarsi verso un’arte più viva e attuale, aveva preso egli pure contatto col Doganiere, il quale era poi divenuto un assiduo frequentatore dell’hôtel del boulevard Berthier, e tale era rimasto sino alla sua morte, avvenuta poco avanti il tempo di cui parlo.
Ho detto altrove dei comportamenti dell’ingenuo pittore nella casa dei miei amici; di quando in cucina si estasiava davanti all’oleografia di un calendario raffigurante una rosea fanciulla con una ciliegia in mano; di quando, nel posare per un ritratto che volevano fargli, si addormentava come un bambino dopo la poppa; di quando raccontava loro i suoi amori con una vecchia megera che lo pelava; e ne leggeva le lettere ricattatorie e oltraggiose versando lacrime di tenerezza. Essi gli avevan comprato via via più di un dipinto, ed io, che già lo sapevo, li vedevo ora appesi nel salotto, insieme a quel paesaggio con le vacche da lui dipinto per me, e che io avevo regalato alla Baronessa. Ma ecco che insieme ad essi io vedevo anche tutte le opere che avevo sempre visto nel suo studio e che erano tra le sue maggiori. La grande Noce paysanne, il, grande autoritratto dell’artista in riva alla Senna, il poeta Apollinaire e la sua Musa, la Carrettella, e diversi altri quadri di figure, vasi di fiori, paesaggi, assai belli nel loro candore, che non è popolare né primitivo, come comunemente si crede, ma di un genere al tutto particolare.
Anzi a tal proposito debbo dire qualche cosa che non è punto privo d’importanza, e che contrasta con molte notizie date (anche da me in altri momenti) intorno alla natura artistica di codesto pittore. Esistono dunque abbozzi, annotazioni, schizzi presi sul vero dal peintre du dimanche Rousseau, i quali, sia per l’audacia e rapidità dell’esecuzione, sia per la giustezza, finezza, e freschezza naturalistica del colore avevano, per certi lati dell’Utrillo, e per altri magari del Manet. Come poi avvenisse che, partendo da questa sapienza, e scaltrita sensibilità pittorica, il Rousseau arrivasse ai resultati che sappiamo è davvero un arcano.
Poiché Medardo Rosso era già da tempo tornato dall’Italia a Parigi, una delle mie prime visite, dopo aver ripreso contatto con i miei amici russi, fu naturalmente per lui. Andai a trovarlo una mattina nel suo studio, e vi restammo alquanto parlando delle cose di Firenze, dei nostri ultimi casi; ma come la giornata era bella ed egli non aveva nulla da fare, ci parve meglio di uscire e continuar la nostra conversazione passeggiando. Se-nonché, eravamo appena fuori e stavamo per imboccare il boulevard des Batignolles, quando ci trovammo davanti un vecchio signore, che Rosso salutò affabilmente ed al quale mi presentò. Era Degas. Fermo sul marciapiede, tutto vestito di scuro, alto magro, quasi affatto cieco, il grande pittore, ch’io vedevo per la prima volta, volgeva la faccia qua e là, trepidante, inquieto, come in attesa di qualcuno o di qualche cosa. E allorché gli strinsi, commosso la mano secca e tremula:
- Ah, mon dieu, comme vous serrez fort! - esclamò con un lieve gemito - Pourquoi serrez-vous si fort?
Mi scusai mortificato; ma egli già non ci pensava più, continuando, anche mentre s’intratteneva con noi, a guardare a destra e a sinistra. Quando, dopo un breve colloquio, ci fummo congedati da lui per riprender la nostra passeggiata, domandai a Rosso perché mai Degas fosse in tanta agitazione. Mi disse che certamente era lì ad aspettare un omnibus che lo portasse in qualche punto lontano della città; dove, una volta arrivato, sarebbe salito sul­l’imperiale d’un altro per un uguale viaggio, e così via; come faceva ogni giorno.
Era infatti una disperata mania che gli era presa dacché per la sua cecità non aveva potuto più la­vorare; e che gli durò fino alla morte.
Durante quella ripresa del mio fraterno commercio con Rosso ebbi occasione di conoscer per mezzo suo altri suoi valenti amici, e non alla sfuggita come era avvenuto per il povero grande artista Degas. L’uno di essi fu il poeta Jehan Rictus, autore di stupendi poemi popolareschi scritti in un francese misto di molto argot, e vero intenditore di pittura moderna. Le nostre relazioni si fecero in breve amichevoli: fui spesso da lui, in un curioso studio la cui finestra si apriva sul vasto biancore a un tempo malinconico e solenne del cimitero di Montmartre, per udirlo leggermi versi di sua nuova fattura, e ragionar con lui di lettere e d’arte. Rictus era intimo di Félix Fénéon, allora direttore della galleria Bernheim-Jeune, e poiché Rosso gli aveva parlato vantaggiosamente dell’opera mia, un giorno ebbi da lui la promessa che avrebbe parlato al suo amico il quale era anche un eccellente critico, affinchè facesse entrar qualche mio dipinto nella bottega di quel tanto reputato mercante di pittura. Non andò molto che Fénéon venne infatti nello studio del boulevard Gouvion-Saint-Cyr, che Serghei divideva anche quell’anno con me; vide alcuni miei grandi disegni acquerellati, che avevo portato dal Poggio; gli piacquero e me ne prese più d’uno. Come io non son mai stato molto curante dei miei interessi pratici, né entrante, né sollecitante, mi contentai per allora di consegnare i lavori, senza occuparmi della loro sorte. Seppi solo l’anno dopo che non erano stati venduti, e me li riportai in Italia.
Sempre pel tramite di Rosso entrai diretta o indirettamente in rapporto anche con altre persone, la conoscenza delle quali mi riuscì altrettanto gradita, e anche utile, che quella dell’eccellente poeta Jehan Rictus. Intendo Ibels, critico d’arte e autore di un romanzo, L’Arantelle, uno dei cui personaggi,- e anzi mi pare il protagonista, - scultore, era ricalcato sulla figura dello stesso Rosso, e che tra l’altro, conteneva la scena di una fusione in bronzo, cui Ibels aveva probabilmente assistito nello studio-officina del suo amico, scena di una verità impressionante. Era uomo di liberissimo spirito, di carattere ribelle - quindi tenuto in margine della vita letteraria - e d’una lealtà a tutta prova; tanto che, sebbene le nostre relazioni non durassero se non qualche mese, ho serbato di lui il più vivo e grato ricordo.
Un’altra di tali conoscenze, ugualmente profittevole, fu quella che feci del più giovane figlio del pittore e grande collezionista d’arte Henri Rouart, quel medesimo che in gioventù era stato amico e generoso sostenitore dei maggiori maestri impressionisti, dei quali, e specie di Degas, vidi poi in casa sua numerose e sceltissime opere.
Di lui, vecchio inchiodato infermo, sopra una poltrona e della sua ricchissima collezione, che visitai quell’anno assieme a Rosso, scrissi a suo tempo nel mio libro su questo scultore. Louis Rouart, il detto figlio, trentenne estremamente nervoso, rosso di pelo, parlante così in fretta da mangiar mezze le parole, devotissimo di Rosso, che l’aveva visto ragazzo, andando in casa di suo padre per ritrarne magistralmente la figura, e lo trattava come tale, cattolico sfegatato, ma - come diceva ridacchiando - «all’uso rinascimentale», era un buonissimo scrittore, e soprattutto di cose d’arte. Poiché, oltre a questo, egli conosceva ed amava l’Italia, fummo presto amici. Avendo visto nello studio di Rosso un disegno che avevo fatto al Poggio, rappresentante un accattone alla porta di casa mia, lo acquistò senz’altro; e, anche pagandolo - lui molto stretto di borsa - la bella somma di quattrocento franchi.
Egli mi dava con ciò una prima prova non solo di amicizia ma anche di stima: un’altra fu, subito dopo, quella d’introdurmi nella sua famiglia; privilegio eccezionalissimo da parte di un francese della sua classe - molto vicina in questo al costume mussulmano -, specialmente se concesso ad uno straniero. Fu così che frequentando la sua casa dell’aristocratica rue de Chenaleilles, bella distinta casa spirante armoniosa pace e raccoglimento spirituale, io potei vedere e gustare, splendidi dipinti e disegni di Manet, Degas, Cézanne Seurat, e segnatamente - quantunque con qualche interiore riserva - apprezzare la grande tela tahitiana di Gauguin, intitolata, a dir vero con troppa affettazione letteraria, Nave nave mahana; dipinti ond’erano coperte le pareti del salotto dove per l’ordinario sedevamo conversando.
In codesto stesso salotto, illustrato da tanto lume d’arte, fui più tardi invitato dal nuovo amico a leggere, dichiarare e commentare più canti di Dante, poeta ch’egli decifrava alla meglio e che ora lo percoteva di stupore, parendogli, diceva, come non mai per l’innanzi, di una grandezza davvero formidabile e divina.
Eravamo in questa intimità, quando Louis Rouart, che in quel tempo dava di frequente alla rivista Les Marges, diretta dal romanziere Montfort, certe sue acute, sagaci critiche d’arte, volle un giorno che anch’io conoscessi questo suo buon amico. Salimmo assieme a trovarlo su per l’erta di Montmartre fino a rue Chaptal, in un suo quartierino da scapolo, dov’egli viveva solo attendendo alla preparazione dei suoi libri e della sua rivista.
Eugène Montfort era un bell’uomo dall’aspetto di schermidore, simpatico visitatore dell’Italia, di cui conosceva alcun poco la lingua, appassionato soprattutto di Napoli e di quella vita amorosa da lui trattata nel suo romanzo La Chanson de Naples. Ci ricevé in una stanza ch’era piena di ricordi di quella città, tra i quali notevolissima una collezione di Pulcinelli, Covielli ed altre maschere e marionette da teatro dei pupi, nei loro sgargianti costumi guarniti d’oro e d’argento, o con le loro armi e corrusche corazze di latta. Anche con Montfort strinsi ben presto un’amichevole consuetudine. Non molto tempo dopo quel primo incontro egli stampò qualche mio scritto nella sua rivista; della quale anche il mio vecchio amico Apollinaire, era collaboratore, di guisa che inopinatamente veniva così a saldarsi una catena di colleganze poetiche nel cui giro sempre più ampio si svolgeva in quegli anni la mia attività artistica e letteraria.
Mentre tali nuove relazioni procuratemi da Rosso si estendevano e si consolidavano, continuavo a frequentare come gli anni passati, la compagnia dei miei vecchi amici pittori e scrittori. Vedevo sempre Picasso nel suo solito studio, dove lo trovavo ogni volta più impegnato nei vari successivi sviluppi del suo cubismo; lo vedevo al consueto caffè dell’Ermitage assieme alla sua amica Fernanda e a Jacob, del quale andava ornando di belle acqueforti il Saint Matorel, edito splendidamente da Kahnweiler; c’incontravamo nella bottega di quest’ultimo (fattosi, come si vede, anche editore), divenuta ormai il principale luogo d’incontro dei migliori rappresentanti della nuova pittura, nello stesso tempo che la più fortunata esposizione permanente delle loro opere, diciamo così, della giornata.
Il solito bettolino detto il Lapin agile (o, come altri vorrebbero, il Lapin a Gilles), quella baracca affumicata sul pendio della solitaria rue des Saules, posta oltre un breve spazio ombreggiato da alcuni vecchi platani e tenuta da un Frédéric, detto Frédé, barbuto chitarrista, cantastorie, imbonitore, personaggio alquanto losco nonostante la sua rumorosa affettazione di cordialità, era ancora un altro dei nostri ritrovi. Seduti alle rozze tavole sparse fuor della porta, o, secondo il tempo bello o piovoso, a quelle ingombranti l’interno di uno stanzone quasi buio, tappezzato di tele buone e cattive di giovani artisti frequentatori del locale, le nostre conversazioni, talvolta animate da contrasti di gusti e d’idee, talvolta clamorosamente allegrate dall’umor faceto, ironico, paradossale di Max Jacob, dai frizzi e barzellette dell’uno o dell’altro di noi, ed alle quali partecipavano a volte anche amici spagnoli di Picasso, erano, insieme, delle più istruttive e dilettevoli.
Picasso, che pure era, tra tutti noi, quegli che già fin da qualche anno godeva di maggior successo e di una speciosa aura particolarmente atta a stimolare certi naturali impulsi di vanità, non era, invece punto cambiato da quello che avevo sempre conosciuto per l’innanzi. Vestiva ancora alla stessa guisa ordinaria senza alcuna cura né di ricercatezza né di singolarità; i suoi modi e detti restavano semplici, quasi popolareschi; solo improntati alla consueta arguzie polemica e latente furbizia. Aveva bensì piena coscienza del suo grande talento, ma nessuna vanteria né affettazione di superiorità o boria era in lui; parlava come un giovane artista dotato deve parlare tra compagni ed amici; e non nascondeva nemmeno certe tristezze, preoccupazioni e momentanei scoramenti che lo prendevano, come avviene a tutti quanti ci cimentiamo nel lungo e terribile cammino dell’arte. Nulla perciò del filisteo risalito, che trasforma la sua casuale fortuna quasi in un obbligo di fastosità e di spocchia volgare. E nulla neanche del peintre maudit, dell’ubriacone, del finto pazzoide.
A un certo momento, preso anche lui nell’andazzo allora comune di molti letterati ed artisti illusi di fortificare il loro ingegno nei baudelairiani paradisi artificiali delle droghe stupefacenti, aveva avuto la curiosità, dietro l’esempio di taluni suoi amici egualmente disposti -- tra i quali Apollinaire -, di farne una notte la prova. Rinchiusosi con essi e con qualche loro amica in non so quale atelier della Butte, egli aveva ingerito come gli altri la rituale dose di haschisch; ma gli era bastato quell’unica esperienza per non farne più altro.
Raccontandomi un giorno quali fossero stati gli effetti della droga e le sensazioni da lui provate, me li descrisse scherzando, come cose di nessun rilievo. Non si trattava che di sensazioni comuni esageratamente ingrandite da quella specie particolare di ubriachezza. Il suono, per esempio, di una corda di chitarra, produceva la sensazione di, un esercizio musicale; una risata isterica di ragazza quella di un’allegria da baccanale; scendendo uno scalino pareva di calar volando in un abisso. Mi disse che anche Apollinaire era uscito dalla seduta con lo stesso suo sentimento e parimente deciso a non ripeter mai più l’esperienza.
E rideva come di una ridicolezza del comune disinganno.
Picasso era insomma rimasto quale l’avevo conosciuto poco più che adolescente e lo conobbi poi fino a quando, nel 1927, mi trovai con lui l’ultima volta. C’incontrammo per caso in rue La Boétie, dov’egli allora abitava un appartamento, proprio sopra alla Galleria del mercante Rosenberg. Eran più di dieci anni che non ci si vedeva; mi accolse festosamente e m’invitò a salire in casa sua, dove conobbi l’ex-ballerina russa, allora sua moglie ed il loro piccolo figlio Paulo. Parlo di ciò perché fu anche quella per me un’occasione di rivederlo sotto la luce che ho detto.
Il suo appartamento, comecché, in fondo, borghese, presentava per più lati il disordine dei suoi vecchi studi. La tinozza di una elegante stanza da bagno era piena di suoi dipinti, altri stavano ammucchiati sulle altre suppellettili e per terra. Erano tutte opere della sua ultima maniera, e Picasso, tiratene fuori alcune, le poneva a mano a mano sopra un cavalletto per averne il mio parere. Di una specialmente, una natura morta con vasi ed altri oggetti posati sopra un piano, tutto quasi selvaggiamente violentato nelle forme, chiuso in una cupa armonia di rossi, gialli d’ocra, neri, egli sembrava attendere bramoso il mio giudizio. Lodai il dipinto per la sua austera bellezza, aggiungendo ch’esso mi faceva pensare a certe pitture dai toni egualmente gravi, quali se ne vedono in qualche tomba etrusca di Tarquinia e di Orvieto.
- È vero - disse Picasso, soddisfatto e preoccupato ad un tempo. - E non so capire perché, quello che faccio abbia sempre infatti qualche cosa d’antico.
Parlando così candidamente egli non sapeva di riconoscere, senza volerlo, la validità delle riserve che la sua arte suggerisce. Quel «qualche cosa d’antico» non è altro in sostanza che la tendenza a uno stilismo artistico che prima fu dei preraffaelliti, seguita poi dai pittori del liberty e del floreale, poi, in modi diversi, e riferimenti più lontani, da lui, Picasso, e infine, a tutt’oggi, da quanti rifuggono dall’amoroso e profondo studio del reale, di ciò che si dice natura, unico fondamento, ed eterno, dell’arte.
A Montmartre, quando non era la brigata del Lapin agile, erano i ricordi dei miei vent’anni, la nostalgia del luogo, che ora mi ci attiravano. Solo o in compagnia dell’amico Serghei, vi salivo ogni tanto, vagabondando poi a lungo per le vie, viuzze, tortuosi andirivieni e terreni in abbandono dell’antica Butte, che era ancora a quei tempi uno dei siti più bizzarri e attraenti ch’io abbia mai visto. Casipole verminose da una parte della stradetta, tinte d’un color vinaccia, di celeste, di bianco crudo, con persiane sgangherate, o impannate di vetro sporco; un lampione a gas in bilico sul canto della casa crollante di qualche poeta o musicista dell’altro secolo; dall’altro lato vecchie palizzate di legno, di dietro le quali sorgevano da scarpate e smotte precipiti diritti tronchi e chiome di piante gigantesche ; alti muri a retta neri di stillicidi e muffe, sul vecchio intonaco dei quali si leggevano incise col coltello accanto a cuori trafitti da frecce, scritte di amanti notturni e d’apaches. - Gugus aime Lélé; e sotto: Néné est une grue. Mimile. A bas les moeurs! Mort aux vaches, eccetera.
In qualche punto, per una breccia aperta nella muraglia, donde partivano rampe a scalini tagliati nella terra indurita, si poteva raggiungere il sommo della famosa altura. E la meraviglia da cui si era presi una volta arrivati lassù era nuova e grandissima. Era come se, aggirandoci fra le più bieche e inquietanti latebre di popolosa metropoli, fossimo sboccati all’improvviso in aperta campagna. Erano zone di terreno tenuto a orto, chiuse da muretti a secco o da siepi di rovi e sambuchi, con capannucce fatte di assicelle e coperte di bombole da petrolio sventrate, fra manegge di cavoli e zucche, popolate di polli e conigli; altre, brulle come grillaie, oppure allo stato quasi selvaggio, coperto d’erbacce, vilucchi e ciuffi di canne e d’ortica, dove avveniva persino di trovare un asinello intento alla sua magra pastura. Alcuni tratti, più spaziosi ed aperti, avevano invece l’aspetto di luoghi d’osterie suburbane o di ritrovi campestri da innamorati clandestini. In un ampio sterrato cinto di palizzate, nascoste qua e là da folti di rosai salvatici e da gruppi di girasoli fioriti, sorgevano in disparte costruzioncelle rustiche, a guisa di châlets variopinti, fiancheggiate di spalliere a graticola verdi sulle quali serpeggiava la vite americana, con dinanzi archi e pergole di convolvoli, e qualche pianta di robinia e d’acacia all’intorno.
Da quell’altezza ariosa il nostro sguardo signoreggiava da ogni lato Parigi. Dagli edifici più prossimi che coronavan più in basso l’altura, con da una parte la mole biancheggiante del Sacré Coeur, birillo gigantesco di pietrame fatto al tornio, degradando giù giù verso il piano, si spiegava tutt’all’ingiro la sterminata distesa dei tetti grigiastri, azzurrastri, variamente punteggiata dalle masse più scure dei giardini, dei parchi, delle antiche chiese, delle torri, da quelle più chiare dei quartieri nuovi, fino a perdersi sotto il pallido cielo, nel pulviscolo vaporoso dell’orizzonte. Un ronzio cupo incessante, eco dell’immane traffico della gran villa, saliva a noi da quel mostruoso complesso di costruzioni umane e di vita; il quale stimola così potentemente la fantasia degli ambiziosi e degli arrivisti, e suscita invece tanta malinconia e sgomento in colui che sa riflettere sulla precarietà e vanità di tutte le cose.
Sotto una di quelle pergole che faceva da volta a tavole e panche di legno verniciate di verde, ci sedevamo a riposare. Una vispa e graziosa ragazza, o una ridanciana donna d’età, o il suo corpulento marito sbracato in maniche di camicia, sbucava dalla trabacca, come il ragno di fondo alla sua tela, ci serviva una birra, un panino gravido; e noi vi passavamo un’ora conversando tranquilli.
Durante il periodo di cui sto parlando, Prezzolini arrivò a Parigi con la sua Dolores per trattenervisi qualche tempo. Avevano preso alloggio in una cameretta di rue de Tournon, e io andavo quasi ogni giorno ad intrattenermi con loro. Visitammo insieme più luoghi della città ch’essi non conoscevano, spesso parlando l’amico ed io delle cose della Voce, dei miei libri in preparazione, della Libreria che la rivista stava allora per aprire o aveva già aperto; non mi ricordo esattamente. Ciò di cui mi sovvengo invece molto bene è la visita che Prezzolini ed io facemmo in quei giorni a Romain Rolland.
Rolland abitava un quartiere ad un piano assai alto di uno di quei casoni borghesi del boulevard Montparnasse che ne occupano il lato che corre tra l’avenue de l’Observatoire e le rue Campagne-Première, fronteggiando per un tratto la Closerie des Lilas, ed hanno a tergo il bellissimo, silenzioso parco di un convento di monache. La finestra dello studio dove lo scrittore ci ricevé dava però sul boulevard; sì che di lassù egli poteva vedere il celebre caffè con i suoi frequentatori, di tutt’altra specie dalla sua, e, mentre lavorava, udire quello stesso ininterrotto brusio di voci e di traffico cittadino che ora saliva fino a noi.
Né Prezzolini né io avevamo mai visto l’autore del Jean Christophe; ma poiché egli ci aveva dato da lontano più d’una prova di benevolenza e di stima, potevamo già considerarci amici: difatti fu come tali ch’egli ci accolse e ci trattò in quel nostro primo incontro; che almeno per me, fu anche l’ultimo. Tanta umana cordialità e semplicità di tratto, assai rara nei suoi colleghi francesi, ci fece la migliore impressione; ma ciò che ci colpì soprattutto furono la sua figura e la sua tonalità, diciamo così, spirituale.
Romain Rolland era alto, snello di persona, le mani lunghe e fini, da pianista qual’era, gli occhi d’un chiaro azzurro in una faccia emaciata, i capelli tra castagni e biondi, così come i baffi, che portava lunghi e pendenti agli angoli della bocca, molto simili a quelli che si vedono nelle immagini degli antichi guerrieri galli e germanici. E qualcosa di celtico e di nordico c’era difatti in lui; senonché, sia dall’espressione del suo volto, sia dai suoi modi molli, sia dal suo linguaggio misurato, e come abbandonato, traspariva alcunché di evanescente e malinconico, che contrastava al tutto con codesta idea.
Si diceva che non molto tempo innanzi, una disgrazia coniugale, aveva colpito Rolland nei suoi affetti privandolo di una moglie che aveva amato, e senza la quale egli viveva ora solitario in quella casa, con i suoi amari ricordi e le sue pene; e questa era forse la ragione di tutto ciò che scoprivamo in lui di rilasciato e di mesto. Combattente valoroso, e si potrebbe dire anche eroico, egli restava invece nel campo intellettuale, civile e politico, dove dimostrava un coraggio ed una pertinacia degni davvero d’un uomo quale appariva per il suo fisico.
La nostra conversazione si aggirò più che altro intorno alle cose appunto dell’intelligenza e dell’arte, intorno ai lavori suoi e del nostro gruppo vociano, ch’egli conosceva e seguiva simpaticamente; tanto che nel suo celebre romanzo aveva persino inserito una pagina dove ne faceva un elogio singolarmente lusinghiero. Per il resto, per le idee di sapore prettamente tolstoiano che gli avvenne d’esprimere intorno alla vita, ai doveri, ai comportamenti morali e civili degli uomini, debbo dire, quanto a me, ch’io m’ero sempre sentito e mi sentivo in perfetto disaccordo con lui. Il che non toglie che l’impressione da me riportata e conservata di quella visita fosse, e sia poi rimasta molto elevata e gradevole.

ARTICOLI COLLEGATI





















giovedì 18 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (1)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955, pp. 131-146

CAPITOLO X

Idea di una mostra d’impressionisti a Firenze. Accetto di occuparmene e vado a Parigi. Ritrovo i vecchi amici artisti e scrittori. Ripresa del nostro commercio ideale. Sviluppo del cubismo, orfismo, eccetera. Al caffè dell’Ermitage. Al circo Medrano. Il clown italiano. Forain. Lavoro nello studio di Serghei. La modella svizzera. Boldini è “trop cochon”. “La grande Jatte”. Duran-Ruel, generoso, presta quadri. Limito per miseria la scelta. Conosco Rosso di persona. Il suo studio-officina. Stringiamo amicizia: esporrà anche lui e verrà a Firenze. Vado a conoscere il “Doganiere”. Dipingerà per me. Gli compro sedici disegni.


Allorché io avevo cominciato a pubblicar nella Voce quei miei articoli sull’Impressionismo, che erano stati la prima ragione, come si ricorderà, dell’invito fattomi da Prezzolini a entrare nella sua rivista, pochissimi in Italia avevano una conoscenza diretta di quella scuola per averne viste le opere, ma il più, anche di quei pochi, solo per averne appreso qualcosa in qualche scritto dimenticato di Diego Martelli e segnatamente, i più informati di essi, in un libro di Vittorio Pica, l’unico fino allora pubblicato da noi intorno a tale argomento, e il più serio e aggiornato. Avendo codesti scritti suscitato tra gli amici della nostra impresa una grande curiosità per quel genere d’arte, curiosità che si era poi propagata in zone sempre più larghe, fino a svegliare nel pubblico un interessamento a mano a mano crescente, venne il momento in cui tanto io che Prezzolini si concluse dal fatto che un’esposizione di quella pittura a Firenze sarebbe stata quanto mai utile e profittevole per il fine culturale della rivista.
Si trattava di ottenere il prestito di un certo numero di opere di quella scuola da parte dei mercanti d’arte parigini. Io che ne conoscevo, come s’è visto, alcuni fra i più indicati all’uopo, potevo tentar l’impresa, e vi ero disposto: mi sarebbe bisognato andare a Parigi, ed anche questo ero pronto a farlo volentieri; molto più che avrei avuto insieme l’occasione, di conoscervi di persona lo scultore Rosso, la cui opera m’era già così favorevolmente nota e a pro del quale avevamo mosso quella nostra battaglia. La più grande difficoltà consisteva nei mezzi occorrenti all’attuazione del bel disegno: Prezzolini, o per meglio dire, la Voce non poteva disporre se non di poche centinaia di lire, offerte, credo, da qualche amico meno povero di noi, «sostenitore», come si chiamano i benemeriti di tali pubblicazioni. Dopo qualche esitazione determinammo di gettare ugualmente il dado; ed io intrapresi il viaggio.
Trovai Parigi come l’avevo lasciata due anni prima; con questo di nuovo, che i miei amici e colleghi pittori e scrittori erano ora impegnatissimi nel dar corpo e sviluppo alle premesse estetiche e alle forme artistiche poste e iniziate tra noi prima della mia partenza da quella città. Ospite di Sergio, che dimorava con la sua parente e del pari amica mia baronessa Elena d’Œttingen, in un piccolo hôtel privato del boulevard Berthier, tornai a vedere Picasso, Braque, Apollinaire, Jacob, e gli altri della vecchia brigata, accresciuta nel frattempo di nuovi aderenti; ad incontrarmi con essi nello studio del primo, nei caffè di Montmartre; a frequentare insieme il «Lapin agile», il circo Médrano, la Closerie des lilas, eccetera.




Picasso, colpito dal fascino esotico di certi feticci negri, genere di scultura barbarica entrata allora in circolazione fra i colleghi parigini, dipingeva adesso nature morte, figure, copriva tele di ardite composizioni, dove già i modi e la tecnica, i toni del cubismo si andavano affermando con sempre maggior rigore. Apollinaire e Jacob stavano disarticolando, sveltendo, dando aria, dirò così, al loro linguaggio poetico, dirompendo sapientemente la sintassi, introducendo nelle loro immagini la magia di rapporti, similitudini, simultaneità di sensi generate da analogie segrete e lontane. Un fervore di ragionamenti, discussioni, polemiche, animava quelle adunanze di creatori di una poetica moderna, alle quali prendevo parte anch’io, con pieno consentimento o con le riserve del caso.
Uno dei caffè più frequentati dal nostro gruppo era l’Ermitage; e poiché Picasso era andato ad abitare nel boulevard de Clichy, proprio di faccia ad esso, ogni volta che io e qualche altro andavamo a trovarlo, quando poi si scendeva dal suo studio assieme a lui, era lì che andavamo a sederci. Vi arrivava poi la sua Fernanda con l’inseparabile sua amica Ève, moglie del caricaturista Marcous; vi capitavano Braque, Jacob, il giovane pittore italiano Ubaldo Oppi; e certe sere anche un altro giovane artista di vero talento, De La Fresnaye, allora nella sua divisa da coscritto; il quale, da soldato, appunto, doveva pochi anni dopo, fallire alle sue grandi promesse morendo in guerra.
Ugualmente vicino allo studio di Picasso era anche il circo Médrano, vecchia baracca ottocentesca, dove spesso finivamo di passare le ultime ore della notte tra un pubblico di popolani ed altra piccola gente, estasiata ed esilarata dalle prodezze dei ginnasti, degli equilibristi, dei cavallerizzi, giocolieri; dalle farse dei clowns americani, inglesi, e dei pagliacci di ogni paese. Uno di questi ultimi, capace di buffoneggiare in un monte di lingue, era un Alexis, più bravo di tutti. Poiché ormai eravamo divenuti come di casa, andavamo talvolta a salutarlo in un certo oscuro e malodorante ambulacro corrente sotto le gradinate del circo, tra gli spogliatoi, i camerini, i depositi d’attrezzi, le stalle, e dove si ritiravano a travestirsi a ritruccarsi dopo ogni «numero», a riposarsi o a passeggiare gli uomini e le donne della compagnia. Durante tali visite seppi da lui ch’egli era italiano ma vissuto quasi sempre all’estero; che quel nome di Alessio non era il suo vero ma un nome di battaglia; che era stato a più riprese ed aveva lavorato nell’America del Nord e in quella del Sud, in Inghilterra, in Ispagna, in Germania, in Russia; paesi di ognuno dei quali aveva appreso la lingua, ciò che gli era poi sempre servito nei circhi di ogni parte del mondo per dare sapore originale alla sua comicità. Anche nell’intrattenersi con noi egli si esprimeva, perciò, mescolando curiosamente le parole di tanti idiomi diversi, cui ora s’aggiungeva il francese. Era minuto di corpo, di misero aspetto, molto timido e tristissimo.
Quanto a noi, non frequentavamo il circo solo per trepidare allo spettacolo dell’equilibrista giapponese che faceva la «bandiera» in cima a un’altissima asta inclinata retta dalle piante dei piedi di un compagno raggomitolato con le spalle in terra; o dell’acrobata muscoloso sospeso coi denti a una corda agganciata a una cèntina metallica del soffitto, mentre un collega vola da un aereo trapezio all’altro; né per divertirci del giucco della cavallerizza in costume di ballerina, in bilico sopra una gamba sulla groppa di un cavallo corrente in giro nella pista, pronta a passare attraverso un cerchio contornato di fiamme; né per ridere dei pagliacci impegnati nell’assurdo e nel grottesco delle loro gesta e avventure. Lo facevamo soprattutto per osservare gli aspetti di quella bizzarra vita artificiale; studiare le forme, i movimenti dei corpi, i colori inattesi, ricchi, fantasiosi delle casacche, delle maglie, brache, cravattoni, parrucche di quegli «artisti» geniali ; nonché le figure, le posizioni, i vari raggruppamenti, la massa dello stesso pubblico sul fondo di luci e d’ombre del singolare teatro. Motivo, dunque più che di svago, di studio. E questo doveva certo essere lo stesso che attirava nello stesso circo anche l’ormai vecchio Forain; il quale vedevamo, spesso seduto tra il comune pubblico, non lontano da noi, tutto vestito di nero, il colletto inamidato, chiuso, i capelli bianchi, e la pallida faccia da attore e da pastore protestante, mesta a un tempo e sarcastica, di continuo protesa e intenta al medesimo gioco di membra, di colori e di chiaroscuri che animava l’arena e la folla delle gradinate.


Rientrato così nel giro, passavo poi gran parte delle mie giornate nell’atelier che Sergio aveva, a parte, nel boulevard Gouvion-Saint-Cyr, verso la porta Maillot. Mi vi servivo degli stessi suoi modelli; tra gli altri di una ragazzona svizzera, bionda e florida che dipinsi nuda, un ginocchio appoggiato a un divano mentre si ravviava i capelli davanti allo specchio, e dalla quale, distesa sul medesimo divano, seduta, o circolante, sempre nuda, qua e là nello studio, trassi molti schizzi e disegni a matita, o avvivati da qualche tocco d’acquerello. Nei momenti di riposo ella ci raccontava, tra l’altro, come un tempo avesse posato anche per Boldini, dimorante, solo e intrattabile, in uno dei tanti hôtels privati del vicino boulevard Berthier; ma che ora non ci voleva più andare. Le chiedemmo il perché. - Parce qu’il est trop cochon - disse -. Quand une femme est seule avec lui, il prétend toujours de faire ça. C’est un vieux satyre.
Per altri disegni servirono a me e all’amico anche due sorelle che vennero un giorno a bussare allo studio; ma eran quasi due bambine, sbiadite, stente, che ritenemmo quasi per compassione; né potemmo far altro che ritrarle nei gonnellini, corpettini e scarpettini da ballerinette, ch’esse avevan portato in una valigetta con loro.
Davanti a codesto studio, dall’altra parte del boulevard, oltre un terrain vague risultato dalla demolizione delle vecchie fortificazioni, si stendeva la pianura, ancora quasi senza case, fino alla Senna non lontana. Nelle ore di svago, e specie la domenica, io e Sergio inforcavamo la bicicletta e ci buttavamo a correre per quella mezza campagna. Conservo ancora l’appunto di una di codeste girate.
«Uscito con Serghei in bicicletta fuori di Parigi» dice l’appunto. «La giornata è superba: sole limpido e ancora caldo. La strada che abbiamo percorsa è spaventosa, ma in pochi minuti arriviamo a un’isoletta che Serghei ha voluto farmi vedere: è l’isola della Grande Jatte, quella stessa che dette il titolo al grande e bel quadro di Seurat, da me tanto ammirato anni fa agli Indipendenti.
Vi si arriva per un ponte gettato sur uno dei rami della Senna che la circonda; e ciò che mi colpisce prima di tutto è il suo aspetto miserando e desolato. Il terreno scosceso dell’alta riva, è calcinoso, roso dall’acqua del fiume grosso che ne scalza gli alberi, alcuni dei quali giacciono arrovesciati, mezzi inghiottiti dalle onde e solo ritenuti dalle radiche fortemente piantate fra i sassi della scarpata. Un po’ più in dentro, da questa parte dell’isola, parecchie stamberghe pericolanti formate di vecchie assi mal conficcate, di pezzi di latta, coperte di lastre o di bandone, imbrattate di colori vivi, voglion parere trattorie ed alberghi. Davanti alle porte, fornelli spenti. Sergio mi dice che le domeniche d’estate vi si friggono le patate e i migliaccini per gli operai che vengono qui in folla a far baldoria. Tavole e sgabelli sgangherati sotto pergole povere, sfrondate. Appiccate al muro, o sul davanzale della finestra di quasi tutte queste casipole, alcune gabbie sudicie racchiudono canarini, fringuelli, calenzoli arruffati, affamati e muti. Una soprattutto di codeste baracche mi ha fatto senso. È bassa, grigia, sganasciata, sporca, circondata da grandi alberi mezzi spogli, e sulla facciata, porta scritto a grosse lettere color vinaccia: À la solitude. Due vecchie spettinate sono davanti all’uscio e aiutano un giovanotto biondo a scaricare da un camioncino una cassa piena di bottiglie di sidro. I soliti uccelli, i soliti tavolini; qualche fiore stento e languente trema sul davanzale. Sotto la pergola un bambino dimenticato si balocca con tre o quattro palline colorate, chiuso in una sediola come in una morsa. In cima alle colonne del cancello d’un giardinetto di fianco alla trabacca, due piccoli mulini a vento, tinti di rosso agitano nell’aria le loro ali bianche.
Intorno alle case, pratelli lebbrosi di un verde infetto che fa pensare al veleno, e per i quali errano cani irsuti, impillaccherati, magri, resi allo stato selvaggio, e che ti guardano sinistramente senza aver però il coraggio di saltarti addosso e addentarti la gola. Dappertutto terreni sommossi circondati da stecconati neri e crollanti.
Nel ritornarcene verso il ponte vediamo un uomo, probabilmente un rivendugliolo d’abiti smessi, vestito d’un paio di calzoni bianchi tutti rincincignati, di una marsina nera consunta e loiosa e con in capo una tuba rossastra posata a sghimbescio. Fuma beatamente, ritto fuor della porta di una capanna guardando di là dal braccio della Senna le estreme propaggini di Parigi. Un po’ più avanti, in un prato dove pochi fiori gialli sopravvivono tra i cocci e i calcinacci, un ciuco dalla testa enorme e il dorso spelacchiato, verdastro, bruca, immoto e in silenzio, un cespo di radicchio selvatico. Una donna quasi elegante va verso una casetta rosea sulla cui facciata sono dipinti d’azzurro un pescatore e un cuoco, scavalcando i fossi, gli steccati, con la sottana tirata sopra il ginocchio.
E tra tanta bruttura, che né il sole né il sereno del cielo valgono ad allegrare, che anzi, per lo stesso contrasto, paion render più desolante, io mi domando dove mai Seurat ha trovato quella luce ed aura di festiva felicità che abbellisce il suo quadro. Vero è che noi non abbiamo percorso che una parte dell’isola e da un solo lato. La parte amena, dolcemente riposata dev’esser dall’altro».
Dopo aver visitato le botteghe dei maggiori mercanti di pittura e argomentato, così al fiuto, dove ci fosse più probabilità di ottener, dunque, il prestito di dipinti per Firenze, mi persuasi che il meglio era di rivolgersi ai Duran-Ruel, dato anche la straordinaria liberalità e cortesia da loro usata altra volta verso di me. Né la faccenda poteva andar meglio. Parlai col gentile vecchietto e parlai col suo altrettanto affabile ministro: dissi loro della nostra rivista, spiegai che cos’era, quali erano i nostri fini, i quali potevano coincidere, in senso lato, con i loro interessi. Palesai, naturalmente, anche le nostre disponibilità finanziarie - piteuses, come vedevano, -; e questo mi pareva dover’essere il massimo ostacolo da superare. Mi ascoltarono con la massima simpatia, dicendo che erano ben lieti di essermi agréables, e che dicessi pure quali fossero, e quante, le opere che avrebbero dovuto mettere, per un tempo, a nostra disposizione.
Intanto il signor Duran-Ruel pregava il suo ministro, o direttore della Galleria, di mostrarmi quel che desideravo vedere, e di prender nota della mia scelta. Saliti dunque nelle sale superiori, zeppe di quadri allineati per terra lungo le pareti, opere dei maggiori pittori impressionisti, ne cominciammo insieme il giro. Io avrei voluto, e potuto, indicar gran parte di quelle che il cortese ministro andava via via rivoltando e mostrandomi; ma c’era di mezzo quella maledetta ristrettezza di mezzi: occorreva tener conto, più che della loro bellezza e importanza, della misura delle tele, e limitarne il numero in considerazione del volume e del peso della cassa da spedire, e quindi della spesa occorrente. Finii col trasceglierne una quindicina fra di Renoir, Pizzarro, Monet, Degas, cui furono aggiunte alcune eccellenti litografie a colori di Renoir.
Duran-Ruel approvò tutto, pronto a consegnarmi le opere all’istante; ma come io esitavo, pensando a chi potessi farle invece ritirare, incassare, eccetera, fu lui, certo intuendo la cagione della mia perplessità, a indicarmi un lor proprio imballatore dimorante in rue Sainte Anne, il quale si sarebbe occupato di tutto a buonissimi patti. Andò più oltre, che non mi chiese né ricevuta né garanzia di sorta, pregandomi solo di ben curare l’imballaggio di ritorno e di fargli avere i ritagli dei giornali o delle riviste dove si parlasse di quella nostra esposizione.
E anche questo è un segno dei tempi, e del costume dei tempi.
Negli stessi giorni andai per conoscere Medardo Rosso. Il suo studio era al pianterreno di un grosso stabile purchessia del boulevard des Batignolles. Vidi in fondo al cortile un largo portone come di officina o rimessa; la portinaia mi aveva detto, alquanto sgarbatamente, di bussare a quello, e lo feci. Per alcuni minuti, sebbene sentissi che dentro qualcuno si moveva, nessuno aprì. E io stavo per ribussare, allorché un battente del portone si schiuse alquanto e per lo spiraglio si sporse cautamente la testa forte e ricciuta d’un uomo d’età avanzata. Avevamo ricevuto, e pubblicato nel mio libro su lui, una fotografia dove Rosso figurava quale un bell’uomo con barba e capelli ben curati, ben vestito e d’aspetto signorile: la testa che ora vedevo era certamente la sua, ma assai differente da quella del ritratto. Quando il battente fu aperto del tutto, mi trovai davanti un uomo grosso, in magliotto grigio, dall’aria negletta di lottatore smesso, o di capo d’officina, il quale dopo avermi squadrato un momento con occhio diffidente, solo quando ebbe udito il mio nome, si rasserenò in volto, e, borbottando qualcosa concernente la portinaia, mi strinse forte la mano. Nel farlo, mi squadrò di nuovo, ma questa volta d’uno sguardo allegro, dicendo:
- Somigli a Baudelaire -. E mi fece avanzar nello studio.
L’idea del capo d’officina m’era balenata solo perché me l’aveva suggerita il largo portone di legno tinto di un giallo sporco simile a quelli, appunto, di tali stabilimenti; ma il curioso si è che, almeno a prima vista, lo studio di Rosso sembrava davvero un’officina. Dopo certi rozzi tendaggi di iuta grezza, mi trovai infatti in un immenso stanzone coperto da una tettoia a vetri sostenuta da vecchie capriate di legno da cui pendevano lunghe scaglie di colla da falegname, le pareti color fango, nude e affumicate, ad una delle quali si vedevano appesi attrezzi da fabbro ferraio, enormi tanaglie, lime, magli, sbarre, secchi, tòzzi, morse ed arnesi del genere. Altri strumenti della stessa specie, quali un lungo banco coperto di lime più piccole, pinzette, bulini, raschiatoi, martelli, un’incudine sul suo ceppo di quercia, ingombravano un angolo; l’angolo opposto era occupato da un enorme mucchio di creta; in un altro grandeggiava, piantato accanto a una buca scavata in terra, un alto forno da fonderia. L’unica cosa delicata in tutto quell’arsenale di ordigni era un mazzolino di fiori in un bicchier d’acqua posato tra gli utensili del massiccio bancone.
Passata la mia sorpresa, Rosso mi fece sedere accanto a sé su un semplice sgabello di legno, e dopo ch’io gli ebbi parlato del mio vecchio articolo dell’Europe artiste, ch’egli aveva letto, del volume di Edmond Claris datomi da Prezzolini, di quello mio su di lui, il resto di quella nostra prima conversazione fu decisivo. C’intendemmo in modo, che, in breve, pareva si fosse amici chi sa da quanto tempo. La sua faccia piena, dai baffi e barbetta di biondo cinquantenne incanutito, specialmente i suoi occhi maliziosi, ora ridenti, avevano qualcosa di ancora estremamente giovanile. Ed egualmente giovanili erano i gesti delle sue mani grassette, e i movimenti della sua persona, ancorché panciuta, sulle sue gambe esili, quando si alzò e andò dietro quegli strani tendaggi per poi uscirne, recando sulle braccia una, poi un’altra, poi un’altra, pesante opera di bronzo, o, tra le palme, una assai lieve di cera. Al vederle posate sulle seggiole, sopra un trespolo, per terra, alcune ne riconobbi che già conoscevo, altre le vedevo per la prima volta; e tutte mi parvero bellissime, o più belle che mai.
Gli parlai allora anche dell’esposizione che Prezzolini ed io intendevamo di fare a Firenze delle pitture degli impressionisti; e magari delle sue sculture - proposi - s’egli avesse voluto mandarcele. Con Prezzolini non se n’era parlato, ma ero sicuro che ne sarebbe stato contentissimo.
Rosso, alle mie parole, fece un poco, come si dice, mente locale; poi mi disse che anche lui era ugualmente contento di farlo. Altre volte aveva fatto di tutto per metter le sue cose accanto a quelle di costoro, a mo’ di confronto e quasi di sfida, e c’era riuscito. Inoltre eran venticinque anni che, per malintesi familiari, mancava dall’Italia; ora che aveva potuto -un poco anche in virtù del mio libro - riabbracciare il suo figliolo, venuto apposta da Milano con la sposa, avrebbe mandato quelle ed altre opere, non solo, ma sarebbe venuto anche lui a Firenze.
Anche da questo lato, la mia missione non poteva, come si vede, finir meglio.
Continuando in quei giorni, prima di ripartir da Parigi, a incontrarmi con i miei amici del caffè dell’Ermitage, del «Lapin Agile» e dello studio di Picasso, dove si parlava spesso, tra il serio e il faceto, del Doganiere Rousseau, la cui ingenua pittura ero stato anch’io fra i primi ad apprezzare per quel tanto che aveva di primitiva spontaneità e poeticità, ebbi l’idea d’andare a trovarlo e conoscerlo di persona. Ho a più riprese e così a lungo parlato di lui, specie nel mio libro Trenta artisti moderni italiani e stranieri, che non ne dirò qui se non qualche cosa in succinto.
Nel suo umile studio di rue Perrel, dietro il Cimitero di Montparnasse, trovai dunque un ometto d’una sessantina d’anni dall’aspetto d’artigiano, nel suo camiciotto bianco da lavoro, non alto di statura, piuttosto magro, un po’ curvo, dai baffi bianchi sul labbro pendente, l’occhio spento; alquanto somigliante, in complesso, al nostro generalissimo Cadorna. Udendo che ero italiano, mi mostrò con orgoglio un articolo della Tribuna, ch’egli considerava molto lusinghiero per lui: era invece tutto un basso dileggio da gazzettiere volgare del candido artista, scritto e mandato a quel giornale da un certo Sarti, allora suo corrispondente da Parigi.
Sebbene indignato della cosa, non disillusi il povero vecchio. Gli domandai piuttosto se volesse dipinger per me una natura morta a suo piacimento, prima del mio prossimo ritorno in Italia; intanto gli avrei subito comprato i sedici disegni di piccole e piccolissime dimensioni, ch’egli mi aveva fatto vedere. Rousseau accolse bonariamente e con gioia l’una e l’altra proposta. Mi dette senz’altro per la somma di venti franchi i disegni e mi promise di consegnarmi il quadretto di lì a pochi giorni. La replica di un altro da me visto anni prima, rappresentante un paesaggio con vacche pascolanti, e che gli ordinai ugualmente in quell’occasione, me l’avrebbe spedita, disse, un poco più tardi.
Al tempo fissato ebbi la mia natura morta - che fu quella oggi ben nota agli intendenti, con un lume, un bricco, pere e limoni posati sul piano di una tavola coperta di un tappeto rosso, sopra un fondo verde bottiglia.
Dei sedici disegni ne regalai la metà al mio amico Serghei; della replica feci dono più tardi all’amica baronessa.

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GIANCARLO MAURI
Montmartre, 5 novembre 2015