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lunedì 22 febbraio 2016

Picasso e Braque visti da Ardengo Soffici


Ardengo Soffici
Opere
Volume I
Vallecchi editore
Firenze 1959
pp. 617-633

CUBISMO
PICASSO E BRAQUE

Per parlare con un po’ di profondità di due giovani pittori, l’uno spagnolo - Pablo Picasso - l’altro francese - Georges Braque - e della loro arte, arte complessa, difficile e sconvolgente se mai ce ne fu, è di un’assoluta necessità ricordare prima, non fosse che di passata, che cosa fu l’impressionismo, quale la sua essenza, e quali le ragioni che provocarono contro di esso quella reazione di cui questi due artisti sono, fino ad oggi, gli ultimi campioni

L’impressionismo, dunque, chi lo consideri nella sua purezza, e cioè quale fu iniziato dall’olandese Johnkind e inteso e messo in pratica dai francesi Pissarro, Sisley, e, più specialmente ancora, da Claude Monet che ne fu insomma il vero, il più grande e il più logico rappresentante e banditore, l’impressionismo fu anzitutto il resultato di una prevalenza presa dalla sensibilità e dallo spirito di analisi sulla immaginativa, la volontà di sintesi e le altre facoltà che nel passato erano ritenute concorrere alla grandezza e allo stile. Se poi ci mettiamo a esaminarne più a fondo la sostanza, vediamo che esso non fu soltanto questo, ma anche, e forse più, il prodotto di una vera e propria rivoluzione spirituale cominciata dalla filosofia e passata contemporaneamente nel campo delle scienze e delle arti. Voglio dire che l’impressionismo corrispose come fenomeno artistico a una messa in atto di quel pensiero, che, rigettando la concezione di una realtà esterna o superiore allo spirito umano, considera l’universo come una creazione dello spirito stesso e pertanto senza categorie estetiche a sé, ma con quelle sole immanenti nelle profondità intuitive dell’individuo - dell’artista, del genio. E difatti basta esaminare con una certa perspicacia l’opera di un pittore impressionista per accorgersi subito come il suo carattere precipuo sia non un gerarchizzamento di esseri e di cose, secondo dati principii idealistici, intellettualistici e magari etici, in vista di un più grande effetto da raggiungere, ma anzi la collocazione sullo stesso piano di ogni fenomeno naturale manifestantesi per via di forme e di colori; la legittimazione e il poetizzamento di ogni manifestazione vitale; un’equiparazione dei differenti valori dell’universo visivo. Così, mentre per l’innanzi la generalità degli artisti, ligia a vecchi pregiudizi accademici, o nel miglior caso (quando non si trattava di creatori geniali, che questi sono stati si può dire sempre impressionisti) incline a una valutazione oggettiva delle cose, era abituata a subordinarle le une alle altre seguendo un rigoroso criterio classico-scolastico, e a giudicare il mondo come un aggregato di figure e di spettacoli più o meno significativi, più o meno interessanti fra i quali era necessario scegliere o che bisognava modificare nell’ordinamento ed esecuzione dell’opera d’arte, il pittore impressionista, tralasciando ogni considerazione estrartistica e affidandosi solo alla sua potenza fantastica e lirica, veniva a provare come tutto potesse esser materia di bellezza e di poesia se contemplato da un occhio di creatore; e che qualunque essere, qualunque luogo, qualunque cosa, come qualunque parte di essa era capace di rispecchiare e di suggerire l’idea divina del bello e pertanto degna come qualunque altra di essere studiata, amata e ritratta. Fu per via di questa concezione più libera, più generosa, più profondamente poetica della realtà che la figura umana, l’animale, il più insignificante cantuccio della natura, la stessa cosa inanimata - l’utensile, un bicchiere vuoto, che so io? un cencio sgualcito - ebbero uno stesso valore in quanto puri elementi artistici, non differenziati da altro che dal loro colore e dalla loro forma, e poteron pigliar luogo tutti insieme, senza sacrifizio dell’uno o dell’altro, o essere ognuno per proprio conto soggetto e tema in un’opera d’arte.
Senonché, se l’impressionismo, spiritualmente parlando, rivendicò, come si vede, la panpoeticità - mi si passi la strana parola - del mondo, e all’artista a venire un’assoluta libertà d’ispirazione di cui ormai beneficia e beneficierà sempre, non andò immune, come scuola pittorica, dal flagello delle false teorie e da una tal quale unilateralità di visione che a lungo andare era fatale lo conducessero al dinervamento e alla morte.

Ho troppo spesso parlato di ciò che fu la teoria impressionista, perché debba ripetermi qui. Dirò solo, a mo’ di riassunto, che fondandosi sur un principio di preferenza data alla sensibilità sull’immaginazione, e allo spirito d’analisi su quello di sintesi, essa imponeva al pittore, non solo di rendere nella sua freschezza e spontaneità l’impressione ricevuta dalle cose apparenti, ma di farlo sul luogo stesso, al momento medesimo dell’emozione, nel minore tempo possibile e applicandosi a ritrarre con la massima fedeltà e precisione la particolare sfumatura, l’aspetto passeggero, momentaneo, unico della persona, del luogo o della cosa che avevano eccitato la sua fantasia. È facile arguire da ciò, che mentre l’immediatezza della rappresentazione conferiva all’opera pittorica un sapore e una vivacità sconosciute avanti, era causa nondimeno che la realtà ritratta non s’elevasse mai, nella figurazione, a quella larghezza e universalità d’espressione che sono il frutto di un felice accoppiamento di sensibilità e di volontà, che costituiscono insomma lo stile, e anzi s’immiserisse nel transitorio, nell’aneddotico e a volte anche nell’assolutamente illustrativo. Gli è che non basta liberarsi dal tradizionalismo e riabilitare una facoltà negletta, se dell’uno non ci s’è prima assimilato la parte sana, e della facoltà contraria dell’altra non s’è appreso a giovarsi in quella misura che è pur necessaria. Né il non aver capito questa verità - un po’ involuta forse, ma chiara per chi abbia riflettuto a fondo sui problemi dell’arte - fu il solo difetto della scuola impressionistica. Un altro e forse più grave, fu il suo modo di concepire l’universo fisico. Jules Laforgue, già da me altra volta citato e che fra gli esegeti di quella scuola fu e resta ancora il più penetrante, ha nei suoi Mélanges posthumes un passo che riflette esattamente una tale concezione. «L’impressionista - egli dice dunque - vede e rende la natura qual’è, vale a dire unicamente in vibrazioni colorate. Né disegno, né luce, né modellatura, né chiaroscuro... tutto ciò si risolve in realtà in vibrazioni colorate e deve essere ottenuto sulla tela unicamente per via di vibrazioni colorate». Certo, è naturale ed era anche legittimo che - persuasi in questo anche dalla scienza, - i pittori impressionisti, in rivolta contro la scuola ed il suo bitume, non vedessero nella natura se non uno spettacolo radiante e rutilante, costituito, se si può dire, d’un brulichio tremulo e inafferrabile, e che per tradurlo ricorressero a quella loro maniera di dipingere tutta a tocchi e a sfarfallii di colori puri e vividi. Ma non è men vero che sviluppati fino ai limiti estremi, come lo furono appunto da Claude Monet, una tale visione e un tal sistema non potevano fare a meno, a forza di trascurar via via ogni altra qualità delle cose raffigurate per non renderne che la vibrazione luminosa, di condurre a una pittura inconsistente, troppo tenue e vaporosa, dove le forme e i corpi si disgregano, sfumano, si squagliano e si dissolvono nella fluidità dell’aria, fino a che tutto vanisce e annega in un barbaglio di luce bianca. Ché tale, se non lo fu del tutto, tendeva a divenire la pittura impressionista. La quale, se a prima vista può titillare e accarezzare l’occhio del riguardante, non può in nessun modo appagare il desiderio di corposità, di varietà e di concretezza che richiedono gli altri sensi concorrenti con l’occhio nella percezione di un’opera d’arte.
Ora è appunto per queste ragioni che l’impressionismo, sebbene avesse slargato i confini dell’arte pittorica e prodotto opere di grande bellezza, non poteva durare e non durò. Alcuni pittori, più profondi e d’aspirazioni più vaste, dopo essersi assimilato ciò che v’era di buono nelle scoperte e riforme impressioniste non tardarono a rendersi conto del pericolo che correva la scuola e a distorsene; finché l’un d’essi e non il minore, Paul Cézanne, non le voltò addirittura le spalle, e riafferrandosi nuovamente alle cose, ricostruendole artisticamente nella loro sodezza, riaffermando il volume, il chiaroscuro, il disegno e tutto ciò che gli altri avevan negato, non iniziò quella reazione che dura da più anni e nella quale sono oggi impegnate tutte le forze della gioventù pittorica di Francia.
Per arrivare ad un eccesso contrario? Vedremo. Intanto veniamo ai nostri due artisti che son nella prima fila.

E prima a Picasso. Pablo Picasso non è stato sempre quell’artista inquietante, confonditor di critici, sconcertator di colleghi e spauracchio di filistei che è da qualche tempo a questa parte. Quando lo conobbi una diecina d’anni fa a Parigi, ventenne, fresco arrivato dall’Andalusia, da Malaga, egli dipingeva paesaggi, ritratti e scene della piccola vita parigina che in nulla differivano dagli esercizi diletti alla buona gioventù indipendente d’allora, se forse non era per una maggiore audacia di disegno e una più grande e quasi selvaggia esaltazion del colore. Vero è che fin da quel tempo, o per lo meno fin dal novecentodue o novecentotre, allorché cioè quei primi tentativi furono seguiti da ricerche più alacri e più virili, già qualche cosa s’intravedeva, nella sua pittura, che era come una preoccupazione d’ordinamento e di stile. Intendo dire che, o studiasse, dopo Toulouse-Lautrec, il mondo cocottesco, nottambulo e alcoolizzato, o ritentasse modernamente l’interpretazione grottesca o tragica del vizio, della miseria e del dolore ispirandosi al fare di Goya, del Greco o del Signorelli. (Giacché Picasso, dotato com’è di una tempra sensibilissima, ha capito, amato e s’è nutrito delle più diverse forme di bellezza, tirandole però sempre a servire la sua personalità), ognora e ognor più la sua arte si allontanava, sia come spirito, sia come tecnica, dall’estemporaneità e disgregatezza di quella impressionistica; e, investigando più addentro la natura, già la traduceva più complessa, più soda e più drammatica. Chi conosce e si ricorda la dolce gravità di alcune sue opere d’allora - una donna che bacia un corvo con atto d’amore, due giovinette pensose, assise nude per terra, un mendicante con la bisaccia piena di tristi fiori appassiti, un groviglio di corpi miserabili sul marciapiede - non può fare a meno di ritrovarvi i segni di una ribellione decisa alla scuola che finiva di trionfare. Il colore stesso, col nero che ritornava nella gamma bianca e turchina, significava protesta. E protesta significò pure tutto il ciclo di opere che venne subito dopo. Il ciclo, chiamiamolo così, picaresco. Ricordiamo. Esodi malinconici di saltimbanchi, compagnie nomadi affamate di comici da fiera, ricapitolanti le umiliazioni e i fiaschi di tutti i generi, durante una sosta sul ciglio della strada maestra, in un paese brullo, arrostito, povero e giallo al pari di loro, e senza un riparo per miglia e miglia; arlecchini e pagliacci macilenti, randagi per i sobborghi delle grandi città o seduti all’uscio delle baracche seguendo con gli occhi avidi Colombina che, in sandali, coperta appena di un gonnellino a scacchi e con un bambino in collo, va e viene dalla tenda alla marmitta, mentre un marmocchio più grandino si gingilla col tamburo e col cappello a bubboli del babbo, o ruzza tra le ciarpe e le trombe col cane ammaestrato; - atleti in maglia paonazza o azzurra, gloriantisi dei mostruosi bicipiti, accanto agli enormi manubri truccati, o vergognosi della loro magrezza; - vagabondi e accattoni rassegnati, abituati a tutto, trascinanti le loro ossa stanche per le dure vie della terra sotto un cielo bigio e solitario.
Fu alludendo a queste opere che Guillaume Apollinaire, il quale scrisse di Picasso verso quell’epoca, notava già la sobrietà verso cui tendeva la sua ricerca e quel ritorno a una più generale comprensione delle cose viste nella loro corposità e non più dissolte per le varie accidentalità delle illuminazioni e dei riflessi.... «La couleur a des matités de fresques, les lignes sont fermes.... Le goût de Picasso pour le trait qui fuit, change et pénètre et produit des exemples presqu’uniques de pointes sèches linéaires où les aspects généraux du monde ne sont point altérés par les lumières qui modifient les formes en changeant les couleurs».
Tuttavia il passo decisivo, quello che doveva condurre il nostro artista in un campo di esperienze molto più avanzate non fu fatto che un paio d’anni più tardi, e cioè quando egli, dopo essersi progressivamente allontanato dal modo di vedere degli impressionisti, trovò in un’arte opposta alla loro un fondamento più fermo alle sue ricerche ulteriori. Quest’arte fu la pittura e la scultura degli antichissimi egiziani, e quelle affini - e forse anche più nativamente sintetiche - dei popoli selvaggi dell’Affrica meridionale. Un altro artista, prima di lui, Gauguin, fuggendo il particolarismo e la fotolatria del puro impressionismo, s’era rifugiato nello studio di quei mondi artistici primordiali, ma col suo intellettualismo e - checché ne dicano i suoi fanatici - con la sua affezione per le false fastosità simboliche, non aveva saputo trarne che una certa compostezza e larghezza da altri credute sublimi o religiose, ma in effetto soltanto decorative e letterarie. Picasso invece - una volta arrivato alla comprensione e all’amore di quell’arte ingenua e grande, semplice ed espressiva, grossolana e raffinata ad un tempo, subito seppe appropriarsene le virtù essenziali, e poiché queste consistono insomma nell’interpretar realisticamente la natura deformandone gli aspetti secondo un’occulta necessità lirica, affine d’intensificarne la suggestività, egli s’applicò d’allora in poi a tradurre, nelle sue opere, il vero trasformandolo e deformandolo; non peraltro, al modo che facevano i suoi maestri, ma - com’essi gl’insegnavano ciascuno con un particolare esempio - seguendo i propri moti della sua anima moderna.

Qui bisognerebbe forse spiegare che cosa si debba intendere per deformazione artistica delle cose secondo una legge lirica, giacché su essa si fonda tutta una nuova comprensione del disegno e delle forme dell’opera d’arte; ma oltre ad averlo fino a un certo punto già spiegato in altra occasione, spero di farlo se non comprendere (scrivo nella patria di Ettore Tito, di Gemito, di Bistolfi, di Mancini, di Sartorio ed altri fenomeni di questo genere!) intraveder in seguito. Basti dire per ora, che, per certi artisti, i piani, le masse e i contorni delle cose possono avere proporzioni, rapporti e movimenti differentissimi da quelli che il comune degli uomini percepisce; indipendenti dalla loro concatenazione in quanto coefficienti di una realtà concepita scientificamente o praticamente; possono insomma esser considerati come semplici elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica sperimentale, e solo quale pretesto, quale geroglifico di cui l’artista si serve per operare una suggestione sul riguardante. Una testa troppo piccola, un braccio troppo grosso, una spalla stravolta, una gamba mal congiunta al resto del corpo, un tronco d’albero troppo piatto, una casa sbilenca ed altrettali cose che il volgare prende per tanti errori grossolani e risibili, non sono così che i modi necessari di una più profonda bellezza, in quella maniera che l’immagine sforzata o l’aggettivo discordante di un poeta sono i mezzi legittimi per ampliare la visione che si vuol suggerire per romperne i confini e farla continuare in vibrazioni infinite nella fantasia di chi legge. Ricordatevi del «giace dispettoso e torto» col quale Dante fa di Capaneo una figura granitica eschilea; del «Danton pallido, enorme» del Carducci o - come violentazione del colore - di «Le vie dorate e gli orti» del Leopardi. Per non parlare di stranieri, specialmente moderni. Ma rientriamo in carreggiata.

Partito dunque da qualche cosa che somigliava molto all’impressionismo, ecco che Pablo Picasso, procedendo di grado in grado aveva fatto capo agli antipodi di quella scuola; vale a dire che, dopo essersi come tanti altri contentato di cogliere e fissare nel suo splendore un momento fuggitivo della natura, era giunto, per via di meditazioni e di esperienze, a questa conclusione, che l’arte vera è sintetica e che non si dà sintesi senza sobrietà, generalità e concretezza, e se egli fosse - come non è - di facile contentatura, avrebbe potuto acquietarsi e imperniare i suoi studi successivi su questa verità. Ma così facendo avrebbe soltanto ripetuto la curva che eternamente traccia ogni intelligenza artistica, la quale movendo da un’affermazione novissima risale insensibilmente e si fissa a un’affermazione antichissima e contraria. Picasso invece, spirito alacre e irrequieto, quant’altri mai, non si appagò di un tal resultato dei suoi studi, e anzi fu appena arrivato a quel nuovo modo d’intender l’arte, che subito si dette ad affrontare, per tentar di risolverli i vari problemi che già gli si presentavano.
Il primo di questi problemi era quello dei volumi. Chi ha seguito il mio discorso avrà capito, anche perché vi ho insistito - e forse oltre misura - come uno tra i forti motivi di reazione all’impressionismo teorico fosse la incapacità di questo a rendere la corposità delle cose. Picasso, uno dei più coraggiosi partigiani della ribellione, risalendo alle arti primitive e barbare, le quali traggono tutta la loro potenza dell’osservazione di ciò che un estetico americano, il Berenson, chiamerebbe i valori tattili, non aveva dunque fatto che spingere all’estremo la sua protesta. Senonché gli bastò approfondire per un certo tempo lo studio di codeste arti per accorgersi di quanto un pittore affinato dalla cultura, modernamente sensibile, potesse andar più lontano nella ricerca e nell’espressione di quei valori.
Difatti non basta affermare, contro l’impressionismo, che nella percezione visiva del reale, il senso del tatto ha, per il ricordo di precedenti esperienze, altrettanta parte che quello della vista, e che perciò non si tratta meno di rendere il volume che il colore degli oggetti e degli esseri rappresentati; bisogna ancora domandarsi se la nostra conoscenza dei volumi non domandi per esser manifestata qualche modo pittorico del tutto sconosciuto all’antichità. È certo a mo’ d’esempio che allorché noi miriamo un oggetto non possiamo vederne se non i lati e i piani esposti prospetticamente all’obiettivo, diciamo così, del nostro occhio; ma non è men vero che, sia per un’esperienza anteriore, sia per un’induzione fondata sull’analogia, noi conosciamo, e potremmo dire sentiamo, anche i lati di quell’oggetto nascosti alla nostra vista. Immaginiamo d’avere davanti a noi un oggetto qualunque, poniamo - per scegliere un oggetto più volte dipinto dal nostro artista - un violino. È posto sur una tavola e non ne vediamo che il piano in isbieco, la fascia della cassa e il profilo del manico ricurvo. Chi volesse ritrarlo secondo i criteri di tutta la pittura precedente, bisognerebbe contentarsi di questi piani e di queste linee: purtuttavia non è un fatto che così facendo si sacrificherebbe una parte della realtà che noi conosciamo, giacché i nostri stessi occhi ci hanno rivelato altre volte che il violino non è tutto in quelle linee e in quei piani, ma che consiste anche del rovescio della cassa, dell’altra metà della fascia e del manico, e che le insenature laterali hanno una curva armoniosa che ora si perde? Se poi la cosa che ci sta davanti è di forma puramente geometrica, come sarebbe a dire una casa, un tronco d’albero, una catinella, un bicchiere, l’osservazione appare anche più evidente. Ora è appunto movendo da questa considerazione che Pablo Picasso ha escogitato una nuova maniera pittorica capace di tradurre gli esseri e gli spettacoli naturali nella loro totalità. Ma qual’è questa maniera? Ecco ciò che non è facile dire senza rischiare di destare un falso sospetto di teoricismo e magari di meccanicismo circa le sue ricerche, unicamente pittoriche e artistiche, al contrario. Tenterò tuttavia di farmi intendere.

È evidente anzitutto che questa proiezione integrale della realtà sur una superficie piana non può esser fatta con un sistema rigoroso; essa viene anzi operata indipendentemente da ogni regola prestabilita, secondo criteri strettamente poetici, e solo in quei casi che una necessità di bellezza lo richiede. Infatti allorché si tratta per Picasso di tradurre nella totalità dei suoi volumi una persona, una cosa o un paese, egli non lo farà al modo di un geometra scomponendone i lati in tante figure da porre le une accanto alle altre il che sarebbe assurdo e ridicolo; bensì mettendo d’accordo la conoscenza interna e la sensazione parziale, stenderà accanto all’immagine quale gli si presenta le superna occulte, che però sente come realmente apparenti, le facce nascoste e i profili fuggenti nella loro varietà e armonia di proporzioni, il tutto interpretato e ordinato in modo da raggiungere una viva e perfetta unità. Così, chi ripigli l’esempio del violino, le parti invisibili appariranno nella sua figurazione di quello strumento, spiegate e scomposte nei loro volumi, allato alle visibili - la fascia nascosta si allargherà sulla tavola, l’insenatura svolgerà la sua curva molle, l’opposto profilo del manico ricupererà la sua forma in uno sbattimento laterale di luci e d’ombre. O per meglio dire, egli scioglierà quelle cose nei loro elementi emotivi - linee, scorci, sfumature di toni -, darà come la somma delle emozioni che ne avrà ricevute, farà in una parola una ricostruzione di una realtà che del violino non è se non un riassunto strettamente pittorico, puramente lirico.
Similmente la figura umana sarà da lui notomizzata in tutte le sue facce per via di una sorta di misurazione, affine di metterne in evidenza la voluminosità cubica (e da ciò il nome di Cubismo dato a una tale pittura); squadernata, per così dire, davanti agli occhi come per mezzo di una refrazione circolare, ottenendo con ciò che lo spettatore abbia una visione intera definitiva e per così dire immutabile della realtà. E non, giova avvertire, a quel modo che altri han tentato di suggerirgliela stilizzando e schematizzando le masse e le linee, come fa per esempio l’orribile scuola di Beuron, ché l’arte di Picasso anziché condurre le forme a un tipo fisso, invariabile e impersonale, le scompone nella infinita varietà dei loro aspetti, le fruga, le scruta e ne mostra i molteplici caratteri e apparenze.
Senonché questi scomponimenti, questi spostamenti, prospettici, questo sforzo insomma di carpire tutte in una volta le diverse apparenze del vero ed esporle sur uno stesso piano sarebbero vani quanto mai se l’opera che ne risulta dovesse perdere sia pure una minima parte del suo potere suggestivo. E ciò avverrebbe immancabilmente se Picasso si preoccupasse sopratutto di questa analisi pittorica dei volumi. Il fatto è invece che tale analisi non è per lui che un tessuto melodioso di linee e di tinte, una musica di toni delicati, di chiari e di scuri, caldi o freddi il cui mistero accresce la gioia di chi guarda; gli è che Picasso al momento stesso di risolvere il problema dei volumi ha risolto anche quello del disegno e della luce. Già sappiamo che da più tempo il disegno non aveva più per lui il dovere di stringere e modulare i corpi in contorni precisi, innestando membro a membro con la logica inerente a ogni essere e a ogni cosa rappresentata. L’impressionismo sano prima, e i suoi maestri barbari poi, gli avevano insegnato a considerarlo come strumento di deformazione libera e audace. Ora esso ha per lui semplicemente il valore di un geroglifico con cui si scrive, per chi può leggerla, una verità liricamente intuita. Onde armato di questo strumento duttile capace di mille sfumature, dei più sottili e fuggevoli sottintesi, Picasso piuttosto, che stravolgere gli aspetti delle cose figurate all’unico scopo di farne una descrizione integrale, fa il giro delle cose stesse, le considera poeticamente sotto tutti gli angoli, ne subisce e ne rende le impressioni successive, le mostra insomma nella loro totalità e perpetuità emotiva e con la stessa intensità e libertà con la quale l’impressionismo non ne rendeva che un lato e un attimo.
In quanto alla luce, dal momento che il nostro artista non vuole nei suoi quadri raffigurare la natura nelle sue apparenze, bensì farne una trama di puri valori pittorici destinati a suggerire occultamente (matematicamente si potrebbe dire, pensando che la matematica potrebbe essere il fondo della pittura come l’è della musica) un senso di concretezza, in quanto alla luce, dico, e ai riflessi è naturale sian considerati come semplici macchie cromatiche fra quelle degli altri oggetti, e magari prendano forma e corpo definitivo diventando in un certo senso oggetti essi stessi. L’impressionismo aveva sciolto in vibrazioni luminose le più solide masse; che meraviglia se un’arte che dell’impressionismo è la precisa negazione piglia a considerare la luce come qualcosa di misurabile e contornabile, almeno quando si posa e s’acqueta sur un punto qualsiasi delle cose?
Comunque, è con tali mezzi che la pittura del nostro artista arriva a comunicare sensazioni grandiose e severe che domanderemmo invano alla più parte dei migliori pittori moderni e antichi. Con una sobrietà di tinte di giorno in giorno più grande, egli sa creare immagini di una bellezza potente a un tempo e delicata. Figure la cui intensità di vita risulta dalla fissità, dalla loro espressione ottenuta appunto con la rigorosa messa in valore del volume di ogni membro - nature morte che sono come ricchezze cristalline e metalliche avvolte di poesia occulta e inquietante, in cui la sodezza di ogni cosa risveglia idee d’eternità - paesaggi granitici, che fanno pensare - meno il colore - a quel

terrible paysage
Que jamais œil mortel ne vit

di cui parla Baudelaire; dove i tetti drizzano e raddoppiano i loro cacumi, dove la terra par soffocare i germi del suo seno gelato per dar tutti i suoi sughi a una palma rigogliosa, dove un’unica nota di colore canta come un passero solitario in una piaggia deserta. Opere delle quali l’oscurità e il mistero aumentano l’incanto e la terribilità poetica.
A volte, è vero, l’oscurità dell’arabesco arriva quasi alla tenebra, e forse il pericolo di quest’arte è di divenir tanto profonda da degenerare in una sorta di metafisica pittorica: certo il suo unico difetto è, specie nella rappresentazione dell’essere umano, una cert’aria antica cui arriva, un certo sapor d’arcaismo dal quale gli spiriti moderni d’elezione aborrono ormai.
E parlo di spiriti d’elezione perché se l’arte di Picasso è, come ho detto, di una importanza singolare, di una grandissima originalità e fatta per un grande avvenire, oggi come oggi non può esser compresa e amata che da pochi; e soltanto tardi, tardi, o non mai, piacerà alla moltitudine. - Ma alla moltitudine, diceva Bione filosofo, è impossibile di piacere se non diventando un pasticcio, o del vin dolce.

Ed eccoci a Georges Braque. L’aver parlato tanto distesamente di Picasso, mi dispensa dal ritracciare il corso e lo svolgimento dell’arte di questo pittore, giacché non dovrei fare che ripetermi, un tal corso e un tale svolgimento essendo, se non del tutto uguali, strettamente paralleli, ed avendo avuto gli uni e gli altri per resultato di condurre i due colleghi ad un quasi identico modo di vedere e di esprimersi. Infatti, partito come Picasso da una specie d’impressionismo, Georges Braque non tardò ad orientarsi come lui verso una forma d’arte che, meno unilaterale di quella allora in auge, potesse ricostituire la realtà nella sua sobria e stabile calma, interpretandola più largamente e non in ciò che ha di fuggevole, di rutilante, di lampeggiante, sibbene in ciò che l’intelligenza unita alla sensibilità percepiscono di permanente e immutabile, di concreto, sotto l’incessante fluenza delle attitudini e delle illuminazioni. Non saprei dire con precisione a quando risalga, nella sua carriera, il primo indizio di questo cambiamento di direzione; ma già in alcuni paesaggi dipinti verso il novecentosette o novecentotto nel mezzogiorno della Francia, la visione delle cose per volumi e la preoccupazione sintetica si affermano chiarissimamente. Sono semplici vedute di giganteschi acquedotti scavalcanti un burrone, le cui arcate sode e taglienti sopravanzano le cime delle piante e incidono il cielo; di strade chiare fiancheggiate da muri all’orlo di un precipizio pietroso; di villaggi appollaiati sur una roccia brulla emergente da un bosco folto. Ma Braque portando su queste povere e nude combinazioni di natura e di opere umane il suo occhio nuovo, ne penetra, ne svolge le linee e ne assottiglia le sfumature in modo che la sua opera attinge di colpo a una vastità e arditezza mirabili. Gli archi, le rocce i muri, gli alberi, le case, analizzati e sviscerati nella loro struttura si fissano come in uno stupore di cose imperiture in una omogeneità e unità di concezioni spirituali. Più tardi egli ritrarrà porti solitari appiè di alte scogliere, dove le barche si dondolano ormeggiate alle case miserabili dalle grandi porte nere, sbadiglianti davanti al mare; dipingerà persone e nature morte, e il suo stile si affermerà sempre più rigoroso, più logico, si potrebbe dire, nell’addurre le cose transitorie a una esistenza come estratemporale, assoluta. Certo a lui manca la versatilità che fa di Picasso un prodigioso compendio vivente di dieci anni di ricerche pittoriche; ma in compenso quanto amore, acuità e delicatezza nelle sue opere specie più recenti! Nature morte raffiguranti agglomerazioni d’oggetti casalinghi sur una tavola, istrumenti musicali, poma, stoffe e stoviglie, fruttiere colme di frutta, nelle quali le sfaccettature dei cristalli, i riflessi dei legni e degl’intarsi, lo spiegazzamento dei tessuti creano una magia prismatica che fa pensare a quella solitaria dei ghiacciai alpini. E sono quell’amore e quella delicatezza appunto che differenziano il francese dallo spagnolo. Picasso, pieno lo spirito di un fuoco quasi barbarico, racchiude nelle basse tonalità e nel disegno apparentemente algebrico dei suoi quadri la violenza sorda del dramma; Braque con la sua tecnica appena appena meno rigorosa ottiene una sorta di calma musicale piena di leggerezza ad un tempo e di severità. Ma tutt’e due insieme senza tradire la respettiva origine e anzi ricollegandosi colla più profonda tradizione delle loro razze, inaugurano una scuola d’arte, certo non facile per il momento ad esser compresa, ma degna e capace di un glorioso avvenire.


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mercoledì 7 gennaio 2015

La nascita del "cubismo" secondo Kahnweiler



Pierre ASSOULINE
Il mercante di Picasso. Vita di D. H. Kahnweiler (1884-1979)
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990
pp 66-73 e 82-83

I legami con Kahnweiler sono fatti di amicizia e di accordo, di mutuo rispetto e di fiducia. Nei suoi ricordi il 1907 è una data fondamentale perché segna l’apertura della galleria di rue Vignon e l’inizio di “una lotta bella e dura”, condotta di concerto dai due uomini. Da parte sua Kahnweiler parlerà sempre di Wilhelm Uhde con immenso rispetto e con infinita gratitudine. Perché una breve frase di Uhde, solo qualche parola, determineranno nel 1907 tutta la sua esistenza.
È l’inizio dell’estate. Un giorno uno sconosciuto entra nella galleria. È vestito in modo strano, si comporta in modo strano. I suoi capelli sono neri come il giaietto, un nero lucente come lignite fibrosa e dura. Ma il suo sguardo, ugualmente scuro, profondo e misterioso, illumina il viso. Silenzioso, attento, osserva i quadri a uno a uno e poi se ne va. Non ha aperto bocca. Kahnweiler è molto stupito nel vederlo tornare il giorno dopo, stavolta in compagnia. Ma quel grosso signore barbuto è anch’egli muto, si comporta come l’ometto tarchiato, guarda ogni tela e se ne va.
Kahnweiler ha già dimenticato l’episodio quando Uhde gli suggerisce di andare a fare un giro in uno studio di Montmartre e più precisamente in quello di Pablo Picasso: “c’è un quadro, una cosa molto strana, di tipo assiro...”
Due giorni dopo egli si inerpica per gli scalini che portano alla Butte, spinto dalla curiosità e dalla fiducia nel gusto di Uhde. Non sa niente o quasi di Picasso. Ha avuto un saggio del suo lavoro passando davanti alle vetrine di Sagot, Vollard o di Berthe Weill, e non l’aveva straordinariamente colpito. L’aveva considerato un poco sorpassato per l’influsso fauve, troppo trascurato nel trattare il colore.
Finalmente lo studio. L’arredamento è indefinibile, a metà strada fra la miseria e il pittoresco. Sulla porta sono stati infilati in fretta dei pezzi di carta. “Manolo è da Azon”, “È venuto Totote”, “Derain verrà nel pomeriggio”. È molto da artista, questa porta. Il pittore apre. È lui, Picasso? Questo giovane in camicia, col petto scoperto e le gambe nude? Ma è il giovane silenzioso dell’altro giorno, il visitatore misterioso! E l’amico che si era fatto accompagnare in carrozza era Vollard! Finalmente Kahnweiler capisce!
«Sa cosa mi ha detto Vollard uscendo dalla sua galleria? È un giovane a cui la famiglia ha regalato una galleria per la prima comunione... »
Il colpo è duro, perché viene da una persona che gode della sua completa ammirazione. Kahnweiler si guarda intorno. Che confusione, che guazzabuglio di oggetti disparati, di disegni ammucchiati, di tele posate qua e là. E quanta polvere... Manca il gas e l’elettricità in questa “casa del cacciatore di pellicce”, che passerà ai posteri con il nome di Bateau-Lavoir, una specie di vecchio battello ormeggiato sulla Butte, in cui ogni studio di artista sembrava la cabina di una nave ma senza averne il lusso. Per aver acqua bisogna riempire le brocche al primo piano. Per la luce, Picasso, che lavora molto di notte, si serve di una lampada a petrolio.
Il poeta Pierre Mac Orlan che dalla fine del secolo frequenta le strade di Montmartre descrive la “casa del cacciatore di pellicce” come un luogo orrido. Questi ateliers gli sembrano delle pretenziose scatole di fiammiferi, ma con le assi sconnesse. Alcuni usano come materasso copie dell’ “Intransigéant”, perché ha sei pagine più degli altri quotidiani. È la miseria più completa, ma la gente qui non parla mai di denaro.
E questo famoso quadro assiro? Va bene tutte le altre tele, ma “la” tela di cui parla Uhde... Eccola.
È un colpo. Kahnweiler prima è stupito, poi sconvolto. Ha l’impressione che stia accadendo qualcosa di meraviglioso, di straordinario, di inatteso. Questa visione è una vera e propria mazzata. Tanto più forte perché inaspettata, la mente ancora colma dei pregiudizi suscitati dalle tele rosa e blu. Assiro non è la parola giusta. Ammirevole, certo. Folle e mostruoso insieme, e così commovente, è in ogni caso un’opera importante e indubbiamente nuova. A corto di aggettivi e di superlativi, annientato egli si lascia sfuggire: “È indefinibile...”
Come analizzare e giudicare questa novità assoluta? Kahnweiler non può impedirsi di intellettualizzare e concettualizzare subito questa rivelazione. Questo quadro, che passerà alla storia come Les demoiselles d’Avignon, richiede una valutazione che non si basi solo sul gusto. Non basta vederlo. Bisogna approfondire e capire in che cosa il ritmo delle forme entri in contraddizione con la rappresentazione del mondo esterno.
In questo grande quadro di cm. 235 x 245, Kahnweiler distingue due parti. A sinistra due donne dipinte in chiaroscuro, di colore chiaro, che - da questo punto di vista - non sono diverse dalle opere del periodo rosa. Ma diversamente da quanto ha fatto finora, non è un disegno rialzato. Le forme sono molto modellate, quasi squadrate a colpi d’ascia. A destra due donne, una ritta e l’altra accovacciata. Il colore violento è steso a strisce parallele, qui soprattutto sta la rottura, iniziata e annunciata da questo strano quadro. E qui Kahnweiler intuisce lo sconvolgimento, sente che una tradizione è stata rovesciata. I frutti e i parati che circondano queste donne sono meno importanti; il quadro nel complesso gli sembra incompiuto perché non raggiunge un risultato coerente. A sinistra si è ancora nel 1906, le forme vengono create ancora dall’ombra del chiaroscuro, come prima. A destra si è già nel 1907: il disegno e il colore creano la forma con la direzione dei tratti che la compongono. E una forma squadrata in angoli duri. Questo primo abbozzo cambia tutto: il cubismo ha la sua origine nella parte destra delle Demoiselles d’Avignon.
Picasso gli appare follemente audace. Invece di affrontare i problemi della pittura ad uno ad uno, ha scelto di affrontarli nel loro complesso. Non ha fatto una composizione piacevole, ma ha articolato sulla superficie piana una vera e propria struttura. È un quadro duro e angoloso, come gli spigoli che delimitano le teste. Kahnweiler riassume in poche parole questo insuperabile problema che Picasso affronta con un soprassalto disperato e patetico: è la rappresentazione di cose colorate in tre dimensioni su una superficie piana incorporate nell’unità di questa superficie. Certo non tutto è rivoluzionario nelle Demoiselles d’Avignon. Picasso disorienta perché sboccia in un paesaggio agitato dai fauves e per lui la luce è solo un mezzo per valorizzare i corpi. Inoltre l’aver sottoposto le parti al ritmo dell’insieme del quadro crea una deformazione. Ma questo aspetto spettacolare a Kahnweiler non pare la cosa essenziale. Egli ricorda che è stata tentata anche da Cézanne e Seurat, Van Gogh e Gauguin.
Dove sta allora la novità? A destra, ma in che cosa? Nel fatto che il pittore non cerca di imitare il mondo esterno, ma di coglierne il significato. Per Kahnweiler non c’è alcun dubbio che questa nuova scrittura plastica non segna solo la fine del fauvisme. È un passo decisivo nella storia della pittura, una vera rottura. Si capisce come chi ha visto questo quadro l’abbia giudicato una pazzia.
Kahnweiler ne è colpito. Ma è il solo. Quando Picasso ha mostrato il suo quadro straordinario ai suoi amici, ha avuto solo giudizi ironici. Parole che talvolta volevano scoraggiarlo, ma che finivano per essere sarcastiche e offensive. Quando riceve per la prima volta Kahnweiler nel suo studio è completamente solo, abbandonato di fronte alle sue creature. Gli amici gli sono vicini, ma sono preoccupati come davanti a un trapezista che lavori senza rete. «È come se qualcuno bevesse petrolio per sputare fuoco», ha detto Braque.
Derain, che considera l’impresa disperata, dice a Kahnweiler: «Un giorno troveremo Picasso impiccato dietro il suo grande quadro. »
Lo scandalo resta nei limiti della Butte di Montmartre. Picasso è diventato matto. Il suo studio, che il poeta Max Jacob definisce “il laboratorio dell’arte moderna”, prepara mostruose alchimie. Lo stesso Uhde a cui Picasso ha mandato un biglietto disperato per presentargli le sue Demoiselles non ne è stato spaventato come gli altri, ma per lo meno sconcertato. Assiro... Stupito, ma prudente. Gli ci sono volute parecchie settimane di riflessione per capire e accettare.
Tutti costoro non sono però degli imbecilli. Pittori, critici, poeti collezionisti... Li conosce bene, non sono degli accademici, sono degli esperti, aperti e sono degli amici. Essi trovano sulla tela le deformazioni del reale, ecco un braccio, dei seni, ma in quali condizioni! Tutto ciò non può che ispirare un sentimento d’orrore. Più tardi Picasso confiderà a Kahnweiler: «... dicevano che mettevo il naso di traverso... ma bisognava pure che lo mettessi di traverso perché si accorgessero che era un naso!».
In questo momento straordinario il giovane mercante si sente come Vollard, che la prima volta che ha visto un Cézanne ha provato quasi un pugno allo stomaco, o come Durand-Ruel quando ha conosciuto Claude Monet a Londra nel 1870. Le vie della coscienza estetica sono impenetrabili.
Solidarietà. Ecco che cos’è. Ai piedi delle Demoiselles d’Avignon Kahnweiler e Picasso si osservano, si scrutano, si capiscono. Tutto è detto. Non occorrono altri commenti. Picasso sa che d’ora in poi non sarà più solo. Kahnweiler sa che ha fatto bene a non andare in Sudafrica a occuparsi di miniere di diamanti. Farà il mercante di quadri a Parigi. L’incontro con quest’uomo e con questo quadro da un senso alla sua vita. Probabilmente è quella che, nei libri, viene chiamata nascita di una vocazione. Al suo ingresso in questo studio era già un mercante e quando ne esce lo è ancora; ma non è più lo stesso uomo.
Essi si valutano con lo sguardo. Il mercante ha ventitré anni, il pittore ne ha ventisei. Nei giorni che seguono questo duplice choc essi si rivedono. Kahnweiler compera da Picasso qualche guazzo recente e tre piccoli quadri, già eseguiti nello spirito nuovo, nello spirito della parte destra delle Demoiselles che tanto turbano i visitatori. Fra i tanti studi ed abbozzi vi sono numerosi studi preparatori di questo quadro. E il quadro? Picasso non lo vende. «Non è finito», dice.
Kahnweiler non insiste e non perché non lo voglia, ma non osa. Non ha la forza di carattere per affrontare il pittore, che è chiaramente diffidente. Non lo è solo con Kahnweiler, ma con tutti. Ancora di più con i mercanti. Comunque Vollard e Berthe Weill erano già stati sconcertati da alcune sue tele del periodo blu. Non parliamo delle Demoiselles d’Avignon. Picasso è libero. Non conosce questo tedesco ma è colpito dalla sincerità del suo entusiasmo, perché è eccezionale. È uno dei pochi che crede totalmente in lui, in ciò che è più profondo, nel momento in cui Picasso tocca il fondo della sua miseria morale: la solitudine assoluta. Per avere la sua adesione, vincere le sue esitazioni e superare la sua antica diffidenza, Kahnweiler dovrà provare che nonostante la giovane età e l’inesperienza è capace di difendere le sue convinzioni.
D’ora in poi i loro destini sono legati.
Diventando suo amico Kahnweiler entra nella cerchia degli intimi, conosce il poeta Max Jacob e Guillaume Apollinaire, che vive con Marie Laurencin vicino a casa sua ad Auteuil. Spesso essi fanno delle passeggiate insieme, simpatizzano, chiacchierano, nasce una vera amicizia che sarà spesso turbata da grandi tempeste. Infatti fin dai loro primi incontri Kahnweiler è persuaso che Apollinaire è un grande poeta, e lo ammira sinceramente, ma che non è un buon critico d’arte. Ha con la pittura un rapporto sensuale e intellettuale. Si comporta come un amico con i pittori che gli piacciono, attratto soprattutto dalle novità. In breve, Guillaume non è un critico d’arte, checché ne dica, e il mercante non perde occasione per ricordarglielo, cosa che a volte guasta i loro rapporti.
Kahnweiler rivende subito i suoi primi Picasso a Hermann Rupf. Ha appena il tempo di esporli. Ma egli ne vuole altri, e così prende l’abitudine di andare al Bateau-Lavoir a far visita al pittore. Ha imparato a conoscerlo. Kahnweiler capisce che non bisogna svegliarlo presto al mattino perché gli piace lavorare di notte. Chi lo scuote all’ora in cui abitualmente aprono gli uffici avrà in cambio un pessimo umore. C’è un’altra cosa che offusca il suo sguardo: gli dispiace separarsi dalle sue tele, quando vende i suoi quadri è spesso teso perché li vede andar via. Così fin dall’inizio Kahnweiler impara a non essere troppo insistente. Sono due amici quasi coetanei, ma fra di loro c’è una certa distanza, dovuta forse all’ascendente del pittore, alla sua sicurezza, alla fiamma della sua fede. Sono qualità che ha anche Kahnweiler, ma apparentemente con minor forza.
Se si pensa alla sua prudenza... Forse è questo il motivo per cui si abbona all’Argus de la presse, per ricevere tutti i ritagli di giornale in cui sono citati il suo nome, quello della galleria e di alcuni pittori. Il 15 luglio 1907 inaugura un grande quaderno nero in cui incolla sulla prima pagina il suo primo articolo ricevuto: L’invasion espagnole: Picasso di Félicien Fagus, pubblicato su “La Gazette de l’art”.
Ma ora la galleria Kahnweiler è agli inizi, vista dall’esterno sembra così artigianale che molti pensano che il mercante stia improvvisando. Ma è un’impressione falsa, anche se egli impara sul campo, lo fa dopo aver stabilito principi e linee di condotta ben ancorate.
Egli comincia così con Uhde, con Rupf e soprattutto con Dutilleul a costituire un piccolo nucleo di amatori fedeli. Kahnweiler li avverte a ogni nuovo arrivo e quasi sempre essi fanno acquisti. Non potrebbe essere più semplice. E partecipare alle mostre? È inutile, a che serve? Kahnweiler è persuaso che molte persone ci vanno, spesso in gruppo, solo per arrabbiarsi o sghignazzare. Non è necessario andare a esporsi ai loro sarcasmi. Quanto al giudizio della critica, dell’accademia e anche del grande pubblico, gli è del tutto indifferente. La pittura è un’arte d’elite. Su questo non recede. Perché dunque cercare le masse?
Detto questo, quando alla fine di agosto Derain gli raccomanda di esporre le sue tele al Salon d’automne che si tiene nell’ottobre del 1907, si affretta ad accontentarlo. Anche Braque vi espone. Il giovane mercante non è ancora molto conosciuto in quest’ambiente prestigioso, perché i suoi quadri vengono indicati con il nome di Kahmweiler o Kohuweiler, quando non Rahnweiler o peggio. In questo Salon il grande avvenimento è una retrospettiva di Cézanne, a un anno dalla morte. Per arrivarci il visitatore deve passare davanti alle tele di Abel-Truchet, un pittore che con l’astuzia del trattino è riuscito ad avere finalmente il primo posto nel catalogo.
Questa retrospettiva che presenta ben cinquantasette tele è importante. Essa permette a uomini come Kahnweiler, Braque, Picasso di misurare il cammino fatto e quanto resti da fare. Grazie a questa esposizione possono prendere meglio le distanze. Essa si tiene al momento giusto, subito dopo lo choc delle Demoiselles d’Avignon. Parecchi pittori della giovane generazione ne escono impressionati, talvolta sconvolti. Fernand Léger, che allora ha ventisei anni, e che qualche anno prima è stato colpito dalle tele del maestro di Aix, esposte su quelle stesse pareti, non rimpiange di aver distrutto allora la maggior parte dei quadri di influenza fauve o impressionista.
[…]
L’altro critico lo interessa per ragioni del tutto diverse. Louis Vauxcelles è un uomo che conta nell’ambiente, un uomo influente, come si direbbe oggi. Repubblicano e difensore di Dreyfus, Louis Mayer ha assunto lo pseudonimo di Vauxcelles dopo gli studi alla scuola del Louvre e alla Sorbona, quando si è dato al giornalismo. Ha una penna affilata e presto si fa un nome. Il suo giudizio non è particolarmente penetrante, perspicace o rivoluzionario. Al contrario, l’arte moderna lo interessa poco. Ma è un uomo attivissimo, che tiene molte conferenze, scrive molte prefazioni a cataloghi e soprattutto molti articoli in riviste e in giornali. È il più fecondo critico d’arte di Parigi, un vero grafomane, una fortuna insperata per i caporedattori a corto di articoli.
Kahnweiler ha già avuto occasione di leggere le sue cronache, ma quel 14 novembre 1908 ha una ragione particolare per cercare la sua firma sulle colonne del “Gil Blas”, poiché vi è la critica dell’esposizione di Braque in rue Vignon. Infatti, girando una pagina legge: “[Egli] costruisce piccole figure metalliche, distorte e incredibilmente semplificate. Non si cura di modellare la forma e riduce tutto, paesaggi, luoghi, persone e case a diagrammi geometrici e a cubi. Non lo mettiamo in ridicolo perché è in buona fede. E aspettiamo”.
Dei cubi... È la prima volta che questa formula viene usata per indicare questo tipo di pittura. Anche se, a quanto si dice, un membro della giuria del Salon d’automne ha detto ‘‘Braque fa dei piccoli cubi”, è la prima volta che questo termine viene usato a questo scopo. Bene o male, adeguata o inopportuna, la parola è lanciata. Così il cubismo viene battezzato da uno che non lo apprezza. Il termine voleva essere cattivo e ironico, di uso limitato e, in ogni caso, puntuale, entrerà invece nella storia.
Vauxcelles sembra essere predestinato a queste situazioni paradossali, perché è stato lui che, proprio tre anni prima, in un articolo sul “Gil Blas” aveva voluto prendersi gioco dei quadri di Matisse, Vlaminck, Roualt e Derain esposti al Salon d’automne. Notando fra tutte quelle tele una scultura di stile molto “italiano”, aveva scritto: “il candore di questo busto stupisce in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello fra le bestie feroci”.
Così il cubismo, come il fauvisme, avrà per sempre un nome inventato da un detrattore. Cosa che tutto sommato rientra nell’ordine delle cose, perché anche il termine impressionismo è nato in circostanze analoghe. Monet, non sapendo quale titolo dare a una delle tele dipinte dalla sua finestra a Le Havre, aveva detto all’incaricato di preparare il catalogo di una mostra collettiva: «Scrivete: Impressioni». Il titolo fu poi Impression, soleil levant. Ma L. Leroy, cercando di essere aspro, ironico e di farsi beffe di lui (“siccome sono impressionato, qualche impressione dovrà pur esserci là dentro...”), suo malgrado, gli ha dato un’importanza storica, poiché il termine ha avuto la fortuna che ben conosciamo.
Kahnweiler trae una certa filosofia dalla coincidenza nel modo in cui l’impressionismo, il fauvisme e il cubismo sono stati battezzati. Senza saperne spiegare il motivo lo considera di buon auspicio, giungendo a fantasticare che forse potrebbe essere il segno distintivo di un movimento autentico. Per lo stesso motivo egli invita a diffidare “dei movimenti coscienti e organizzati”, che si autodefiniscono, mostrando così un carattere artificioso e il predominio dei capi sul gruppo. È pur vero che dai nabis ai surrealisti, passando attraverso i futuristi e i costruttivisti, i decenni seguenti non saranno avari di movimenti che si autoconsacrano.
Il 1908 sta per finire: non è il momento del bilancio, ma quello delle grandi decisioni. Le condizioni in cui si è svolta l’esposizione di Braque, il suo impatto e i commenti che ha suscitato, hanno dato ragione al mercante. In accordo con i suoi pittori egli decide di non fare più delle personali in rue Vignon e di non mandare più quadri alle mostre. Perché mostrare quadri a persone che non sono in grado di capirli? Li espone nella sua galleria a seconda degli arrivi, e questo può bastare, ma non li mostrerà all’esterno e non farà niente per farsi conoscere attraverso i mezzi deleteri della pubblicità. Questo non gli impedisce di continuare a diffondere le sue fotografie all’estero a richiesta dei collezionisti e delle riviste d’arte.
Così, nel momento in cui il cubismo nasce a Parigi, la capi­tale francese è uno dei luoghi in cui ci sono minori possibilità di vederlo, a parte pochi studi, che naturalmente non sono aperti al pubblico, e una piccola galleria che lo è solo un po’ di più... Per trovare il cubismo a Parigi bisogna proprio cercarlo.