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lunedì 15 luglio 2019

Picasso. Segreti d'alcova di uno studio


Segreti d’alcova di uno studio
Editori Riuniti, Roma 1966.

Titolo originale: Le peintre et son modèle
Editions Cercle d’Art, Paris 1965

Il giorno in cui Picasso chiamò Segreti d’alcova di uno studio quel vivo miscuglio di opere d’ogni tempo, di oggetti, di materiale, di arnesi disposti tutt’intorno a un pittore che dipinge e che fanno l’atmosfera nella quale l’opera si sviluppa, non sapeva quanta ragione avesse.
Qualcuno si è detto sorpreso, persino indignato per una definizione siffatta. Come se la virtù della pittura fosse messa in discussione.
Ma non è affatto vero che tutti i segreti siano scandalosi. Né è vero, d’altra parte, che le alcove siano ghiotte dei peggiori bocconi dell’amore.
Anzi.
E se io scrivo che Picasso non sapeva quanta ragione avesse, è perché, quando andiamo ad alzare un poco le tende dell’alcova della pittura, ahimé, cerchiamo vanamente i segreti che non ci sono più. Qualche cosa è accaduto, ma noi non c’eravamo. Però ecco lì tutte le prove: il colore ancora fresco, la tela ancora sgualcita, e il disordine del processo… Il solo corpo del reato che abbiamo, la pittura, non prova né dimostra niente. All’infuori del suo tumultuoso svolgersi…


Quando a Vallauris ha dipinto la bambina che salta con la corda, prima ha fatto una tela. Il terreno vi è accennato con un breve tratto. L’ombra, per dir meglio.
Tempo fa ha ricevuta fusa nel bronzo la scultura tratta dallo stesso dipinto che è a Notre Dame de Vie.
Al tempo in cui ne metteva insieme gli elementi, la scultura diventava la maggior ricerca del reale. Quel problema della bambina sospesa per aria non esasperava la pittura.
Ma la scultura doveva trovare il modo di uscirne. Come?
Un giorno Picasso compare tutto felice. Ha lavorato intorno al problema della bambina che salta con la corda sospesa nello spazio.
«Ho trovato - dice - su che riposa la bambina quando è per aria. Sulla corda, naturalmente! Ma come ho fatto a non pensarci prima?»


Nell’alcova dello studio a Notre Dame de Vie, mescolate insieme con tutte le altre, ci sono tre tele con dei colombi. Sono i colombi dipinti alla California. (Non so dove siano le altre tele, ne ha fatte molte.) Alla California, Picasso dipingeva Les Ménines in una camera al terzo piano. Sul balcone aveva costruito da sé la piccionaia. I colombi volavano, tubavano, facevano le uova, le covavano, si ammazzavano fra loro, lì accanto intorno in mezzo a Picasso che dipingeva Les Ménines. Ma anche Les Ménines erano la realtà. E nient’affatto perché le finestre erano le sue o perché il bassotto Lump era al posto del grande cane di Velazquez, così come il dalmata Perro entrava nelle tele dei buffè di Vauvenargues e l’afgano Kaboul nelle tele di Notre Dame de Vie.
Picasso costringeva Velazquez a esprimere una realtà che il suo secolo non poteva concepire. Con la realtà delle Ménines, egli dipingeva la sua realtà del XX secolo.
La pittura è realtà, ma anche una qualunque parte della realtà. Propone al pittore che guarda un quadro lo stesso problema che gli propone il mondo intero. Con l’aggiunta di qualche cosa di più difficile, che è l’anima dell’altro pittore raffigurata in quella realtà.




La realtà, la realtà, la realtà…
Se ne parla tanto che si direbbe non esista. O che la sua esistenza non abbia poi tanta importanza, giacché bisogna battere e ribattere sempre il medesimo chiodo per porvi rimedio.
Tuttavia tante pitture si richiamano alla realtà… Tutte, direi. Si dice che la realtà interiore può astrarre dalla realtà generale ed essere ugualmente una. Quando si parla dell’opera di Picasso, si parla irresistibilmente della realtà, del suo Toson d’oro, del suo Graal.
Una volta egli ha detto: la realtà è una parola che porta dappertutto. La si cucina in tutte le salse.



Il 5 aprile 1960 ha dipinto un piccolo picador tutto nero e un piccolo toro tutto nero che fa impennare il cavallo tutto nero davanti a un piccolo torero tutto nero che agita la cappa. Sono soli nell’arena che si avvolge su se stessa come una chiocciola. Sopra e intorno, un gran cielo e tutti quei puntini sulle gradinate (senza gradinate) che sono la folla. È la corrida. La piccola scena del picador, del matador e del toro tiene col fiato sospeso. L’arena tiene lo spazio.
«Mi piacerebbe - dice Picasso - dipingere una corrida proprio com’è.»
Qualcuno gli risponde: ogni volta che dipingi un toro, un banderillero, una folla, un cavallo, forse non è la corrida proprio com’è? Anche sul fondo di una piccola coppa di terra o di un grande piatto.
«Vorrei farla come la vedo», dice Picasso.
Ma non è così che lui la vede quando la dipinge? Goya, non è così che ha fatto, che ha visto le sue tauromachie?
«Sì. Ma non tutta la corrida, - dice Picasso: - io vorrei farla mettendoci tutto; tutta l’arena, tutta la folla, tutto il cielo e anche il toro com’è e anche il torero e tutta la quadrilla, il banderillero e la musica e poi anche il venditore di cappelli di carta…»
Una vera corrida.
Certo, bisognerebbe fare il toro a grandezza naturale (e lo ha fatto). E l’arena, tutta l’arena intorno?
«Ci vorrebbe una tela grande come l’arena… Spaventoso non poterlo fare… Sarebbe magnifico…»


Tutti i tratti di un volto o di un corpo possono apparire agli occhi dello spettatore anche se sulla tela nessun segno delinea un naso, una bocca, un seno.
Il segno, la macchia, la sua forma, il suo colore, e i rapporti fra loro, hanno «una carica» di realtà. Picasso, in questo inverno 1964, sembra in cerca di una presenza del volto senza desrizione senza enumerazione senza trasposizione senza deformazione, senza niente di ciò che fa il volto, ma che porti tuttavia la carica di un volto.
È ciò che gli fa dire:
«In questo momento, su quelle tele là, dipingo sempre meno».


Quale verità? Dice Picasso. La verità non può esistere.
Se io cerco la verità nella mia tela, posso fare cento tele con questa verità. Allora qual è quella vera? Qual è la verità, quella che mi fa da modella o quello che dipingo? No, è come per tutto il resto. La verità non esiste.
«Ricordo - dice Paulo Picasso - che quand’ero piccolo ti sentivo continuamente dire: “La verità è una menzogna”…»



Si conversa sulla libertà di ricerca, che dà all’artista una tecnica splendida.
«Sì - dice Picasso - ma a una condizione: averne tanta e poi tanta da farla cessare completamente d’esistere. Farla scomparire. A questo punto, ecco, è importante averla. Perché mentre lei fa il suo lavoro, tu ti puoi occupare di ciò che cerchi.»






La libertà, dice Picasso: bisogna stare attenti! In pittura e in tutto il resto. Fate come volete, ma alla fine vi trovate con le catene addosso. La libertà di non fare una cosa, ecco: ciò esige che se ne faccia un’altra, in maniera imperativa. Allora, ecco le catene. Mi viene a mente la storia di Jarry; sapete, quando i soldati anarchici fanno le esercitazioni. Dice: fianco destro! e quelli, perché sono anarchici, fanno tutti fianco sinistro. La pittura è così. Prendi la libertà e ti rinchiudi con la tua idea, proprio la tua e non un’altra. E rieccoti con le catene addosso.



Ancora sulla libertà e sulle catene. Picasso se n’esce fuori:
Vi spiegano che bisogna lasciare ai bambini la loro libertà. In effetti s’impone loro di fare i disegni da bambini. Direi che s’insegna loro a farne. Si è insegnato loro a fare persino disegni astratti da bambini.
Insomma, come di consueto, con il pretesto di lasciare ai bambini la loro libertà, di non ostacolarli, si finisce per imprigionarli nel loro genere, con le loro catene.
Curioso, dice Picasso, io non ho mai fatto disegni da bambini. Mai. Neppure quando ero bambino.
Ricordo uno dei miei primi disegni. Forse avevo sei anni, forse meno. In casa di mio padre, nel corridoio, c’era un Ercole con la clava. Bene. Mi sono messo lì nel corridoio e ho disegnato quell’Ercole. Ma non era un disegno da bambini. Era un vero e proprio disegno che raffigurava Ercole con la clava.




A Mougins nevica. È domenica. Jacqueline si mette al volante e porta via Picasso, a caso, tra quelle montagnole subito là fuori, appena voltate le spalle alla costa. Sono belle, con quei ripidi declivi, quelle gole, quei colli, quelle radure, quelle macchie.
A Picasso e a Jacqueline capita un’avventura. C’è un velo di ghiaccio sotto le ruote; c’è un cielo intensamente azzurro sopra le loro teste. Si divertono a sentirsi soli nel mondo, a non sapere dove vanno. Si perdono. Sono contenti, pazzi, innamorati, avventurosi. Forse stanno per rompersi il collo, e non ci vuole molto, in quella natura magica e nevosa che pare oro ciò che di più bello v’è al mondo. E di più solitario.
(La penna, come si dice, cerca di seguire il filo del loro racconto.)
Perché di questa passeggiata essi parleranno a lungo, come di un viaggio nel paese delle meraviglie, come di un’avventura della quale conserveranno nella mente il piacere dell’imprevisto, della libertà, e il rimpianto. (Per fare più bello il racconto, fu tirato in ballo persino un castello sorto improvvisamente dalla strada, e dalla mente di Picasso. Essi guardano il cortile attraverso il buco della serratura; ed ecco che c’è una festa; ed entrano tutti coperti di neve, con i loro scarponi, nella festa del Grand Meaulnes.)
Tornano felici a Mougins.
Perché raccontare questa passeggiata? I Guerrieri dormivano in sospeso come il loro signore. I pittori e le modelle non erano ancora nati. Ma il 26 dicembre 1962 venne al mondo quella tela blu. Una tela unica, con quelle montagne, quei fianchi di ghiaccio, quei blu di neve, quegli occhi di lago.
Orgoglioso, Picasso annunzia: «Ho fatto un paesaggio».
Cinque giorni dopo è l’ultimo dell’anno. Pomeriggio del 31 dicembre. Picasso dipinge un enorme sonatore di zufolo seduto a gambe larghe, con i gomiti alzati, su una tela per metà blu (il cielo) e per metà verde (l’erba). L’uomo spande la sua musica sull’universo. È una tela carica di felicità, singolarmente ispirata. Un profeta suonava il flauto. Era grande come il mondo. Annunziava tempi nuovi.



A gennaio si possono vedere nello studio tutti i Guerrieri, tutti i loro cavalli e tutte le loro teste, tutte le donne e tutti i bambini, il gatto, il cane crudele e l’aragosta; e, dietro, dei blu che non si sa di dove scappino fuori. E Picasso dice che è proprio curioso, che ha fatto cose piuttosto strane quell’inverno… Dice a Pignon:
«…tu che sei pittore, tu lo sai come succede. Si può durare una fatica da morire, strapparsi la pelle per fare tele che nessuno ti costringe a fare. Anzi, tutti se ne infischiano, non importa niente a nessuno che tu lavori intorno a questa o a quella cosa. Il fatto è che si sceglie sempre il peggio, anche se si sa che a quelli là piacerebbe molto di più un bel mazzo di fiori. Ad ogni modo non gli piacerà. E anche se gli piace, sta sicuro che non sarà affatto per merito della pittura. Però tu, tu pittore, hai lavorato, ed è già molto, ti senti contento. Così te ne vai a passeggio e fai un paesaggio o un brav’uomo che suona lo zufolo. Perché? Perché questo e non Notre Dame? O il ritratto del pappagallo? Te lo dico io perché. Mentre lo fai, ti dà piacere, ti conforta. E l’essenziale è questo.»
Sulle pagine bianche di una «serie nera», quella sera stessa, nella mia camera, ho annotato tutte queste cose perché non volevo dimenticare una frasetta sulla libertà che serviva di conclusione. «Bisogna stare molto attenti a quello che si fa. Perché proprio quando si crede di essere meno liberi, accade che lo si sia di più. E non lo si è affatto quando ci si sentono ali grandissime: quelle ali ci impediscono di camminare.»





lunedì 22 febbraio 2016

Picasso e Braque visti da Ardengo Soffici


Ardengo Soffici
Opere
Volume I
Vallecchi editore
Firenze 1959
pp. 617-633

CUBISMO
PICASSO E BRAQUE

Per parlare con un po’ di profondità di due giovani pittori, l’uno spagnolo - Pablo Picasso - l’altro francese - Georges Braque - e della loro arte, arte complessa, difficile e sconvolgente se mai ce ne fu, è di un’assoluta necessità ricordare prima, non fosse che di passata, che cosa fu l’impressionismo, quale la sua essenza, e quali le ragioni che provocarono contro di esso quella reazione di cui questi due artisti sono, fino ad oggi, gli ultimi campioni

L’impressionismo, dunque, chi lo consideri nella sua purezza, e cioè quale fu iniziato dall’olandese Johnkind e inteso e messo in pratica dai francesi Pissarro, Sisley, e, più specialmente ancora, da Claude Monet che ne fu insomma il vero, il più grande e il più logico rappresentante e banditore, l’impressionismo fu anzitutto il resultato di una prevalenza presa dalla sensibilità e dallo spirito di analisi sulla immaginativa, la volontà di sintesi e le altre facoltà che nel passato erano ritenute concorrere alla grandezza e allo stile. Se poi ci mettiamo a esaminarne più a fondo la sostanza, vediamo che esso non fu soltanto questo, ma anche, e forse più, il prodotto di una vera e propria rivoluzione spirituale cominciata dalla filosofia e passata contemporaneamente nel campo delle scienze e delle arti. Voglio dire che l’impressionismo corrispose come fenomeno artistico a una messa in atto di quel pensiero, che, rigettando la concezione di una realtà esterna o superiore allo spirito umano, considera l’universo come una creazione dello spirito stesso e pertanto senza categorie estetiche a sé, ma con quelle sole immanenti nelle profondità intuitive dell’individuo - dell’artista, del genio. E difatti basta esaminare con una certa perspicacia l’opera di un pittore impressionista per accorgersi subito come il suo carattere precipuo sia non un gerarchizzamento di esseri e di cose, secondo dati principii idealistici, intellettualistici e magari etici, in vista di un più grande effetto da raggiungere, ma anzi la collocazione sullo stesso piano di ogni fenomeno naturale manifestantesi per via di forme e di colori; la legittimazione e il poetizzamento di ogni manifestazione vitale; un’equiparazione dei differenti valori dell’universo visivo. Così, mentre per l’innanzi la generalità degli artisti, ligia a vecchi pregiudizi accademici, o nel miglior caso (quando non si trattava di creatori geniali, che questi sono stati si può dire sempre impressionisti) incline a una valutazione oggettiva delle cose, era abituata a subordinarle le une alle altre seguendo un rigoroso criterio classico-scolastico, e a giudicare il mondo come un aggregato di figure e di spettacoli più o meno significativi, più o meno interessanti fra i quali era necessario scegliere o che bisognava modificare nell’ordinamento ed esecuzione dell’opera d’arte, il pittore impressionista, tralasciando ogni considerazione estrartistica e affidandosi solo alla sua potenza fantastica e lirica, veniva a provare come tutto potesse esser materia di bellezza e di poesia se contemplato da un occhio di creatore; e che qualunque essere, qualunque luogo, qualunque cosa, come qualunque parte di essa era capace di rispecchiare e di suggerire l’idea divina del bello e pertanto degna come qualunque altra di essere studiata, amata e ritratta. Fu per via di questa concezione più libera, più generosa, più profondamente poetica della realtà che la figura umana, l’animale, il più insignificante cantuccio della natura, la stessa cosa inanimata - l’utensile, un bicchiere vuoto, che so io? un cencio sgualcito - ebbero uno stesso valore in quanto puri elementi artistici, non differenziati da altro che dal loro colore e dalla loro forma, e poteron pigliar luogo tutti insieme, senza sacrifizio dell’uno o dell’altro, o essere ognuno per proprio conto soggetto e tema in un’opera d’arte.
Senonché, se l’impressionismo, spiritualmente parlando, rivendicò, come si vede, la panpoeticità - mi si passi la strana parola - del mondo, e all’artista a venire un’assoluta libertà d’ispirazione di cui ormai beneficia e beneficierà sempre, non andò immune, come scuola pittorica, dal flagello delle false teorie e da una tal quale unilateralità di visione che a lungo andare era fatale lo conducessero al dinervamento e alla morte.

Ho troppo spesso parlato di ciò che fu la teoria impressionista, perché debba ripetermi qui. Dirò solo, a mo’ di riassunto, che fondandosi sur un principio di preferenza data alla sensibilità sull’immaginazione, e allo spirito d’analisi su quello di sintesi, essa imponeva al pittore, non solo di rendere nella sua freschezza e spontaneità l’impressione ricevuta dalle cose apparenti, ma di farlo sul luogo stesso, al momento medesimo dell’emozione, nel minore tempo possibile e applicandosi a ritrarre con la massima fedeltà e precisione la particolare sfumatura, l’aspetto passeggero, momentaneo, unico della persona, del luogo o della cosa che avevano eccitato la sua fantasia. È facile arguire da ciò, che mentre l’immediatezza della rappresentazione conferiva all’opera pittorica un sapore e una vivacità sconosciute avanti, era causa nondimeno che la realtà ritratta non s’elevasse mai, nella figurazione, a quella larghezza e universalità d’espressione che sono il frutto di un felice accoppiamento di sensibilità e di volontà, che costituiscono insomma lo stile, e anzi s’immiserisse nel transitorio, nell’aneddotico e a volte anche nell’assolutamente illustrativo. Gli è che non basta liberarsi dal tradizionalismo e riabilitare una facoltà negletta, se dell’uno non ci s’è prima assimilato la parte sana, e della facoltà contraria dell’altra non s’è appreso a giovarsi in quella misura che è pur necessaria. Né il non aver capito questa verità - un po’ involuta forse, ma chiara per chi abbia riflettuto a fondo sui problemi dell’arte - fu il solo difetto della scuola impressionistica. Un altro e forse più grave, fu il suo modo di concepire l’universo fisico. Jules Laforgue, già da me altra volta citato e che fra gli esegeti di quella scuola fu e resta ancora il più penetrante, ha nei suoi Mélanges posthumes un passo che riflette esattamente una tale concezione. «L’impressionista - egli dice dunque - vede e rende la natura qual’è, vale a dire unicamente in vibrazioni colorate. Né disegno, né luce, né modellatura, né chiaroscuro... tutto ciò si risolve in realtà in vibrazioni colorate e deve essere ottenuto sulla tela unicamente per via di vibrazioni colorate». Certo, è naturale ed era anche legittimo che - persuasi in questo anche dalla scienza, - i pittori impressionisti, in rivolta contro la scuola ed il suo bitume, non vedessero nella natura se non uno spettacolo radiante e rutilante, costituito, se si può dire, d’un brulichio tremulo e inafferrabile, e che per tradurlo ricorressero a quella loro maniera di dipingere tutta a tocchi e a sfarfallii di colori puri e vividi. Ma non è men vero che sviluppati fino ai limiti estremi, come lo furono appunto da Claude Monet, una tale visione e un tal sistema non potevano fare a meno, a forza di trascurar via via ogni altra qualità delle cose raffigurate per non renderne che la vibrazione luminosa, di condurre a una pittura inconsistente, troppo tenue e vaporosa, dove le forme e i corpi si disgregano, sfumano, si squagliano e si dissolvono nella fluidità dell’aria, fino a che tutto vanisce e annega in un barbaglio di luce bianca. Ché tale, se non lo fu del tutto, tendeva a divenire la pittura impressionista. La quale, se a prima vista può titillare e accarezzare l’occhio del riguardante, non può in nessun modo appagare il desiderio di corposità, di varietà e di concretezza che richiedono gli altri sensi concorrenti con l’occhio nella percezione di un’opera d’arte.
Ora è appunto per queste ragioni che l’impressionismo, sebbene avesse slargato i confini dell’arte pittorica e prodotto opere di grande bellezza, non poteva durare e non durò. Alcuni pittori, più profondi e d’aspirazioni più vaste, dopo essersi assimilato ciò che v’era di buono nelle scoperte e riforme impressioniste non tardarono a rendersi conto del pericolo che correva la scuola e a distorsene; finché l’un d’essi e non il minore, Paul Cézanne, non le voltò addirittura le spalle, e riafferrandosi nuovamente alle cose, ricostruendole artisticamente nella loro sodezza, riaffermando il volume, il chiaroscuro, il disegno e tutto ciò che gli altri avevan negato, non iniziò quella reazione che dura da più anni e nella quale sono oggi impegnate tutte le forze della gioventù pittorica di Francia.
Per arrivare ad un eccesso contrario? Vedremo. Intanto veniamo ai nostri due artisti che son nella prima fila.

E prima a Picasso. Pablo Picasso non è stato sempre quell’artista inquietante, confonditor di critici, sconcertator di colleghi e spauracchio di filistei che è da qualche tempo a questa parte. Quando lo conobbi una diecina d’anni fa a Parigi, ventenne, fresco arrivato dall’Andalusia, da Malaga, egli dipingeva paesaggi, ritratti e scene della piccola vita parigina che in nulla differivano dagli esercizi diletti alla buona gioventù indipendente d’allora, se forse non era per una maggiore audacia di disegno e una più grande e quasi selvaggia esaltazion del colore. Vero è che fin da quel tempo, o per lo meno fin dal novecentodue o novecentotre, allorché cioè quei primi tentativi furono seguiti da ricerche più alacri e più virili, già qualche cosa s’intravedeva, nella sua pittura, che era come una preoccupazione d’ordinamento e di stile. Intendo dire che, o studiasse, dopo Toulouse-Lautrec, il mondo cocottesco, nottambulo e alcoolizzato, o ritentasse modernamente l’interpretazione grottesca o tragica del vizio, della miseria e del dolore ispirandosi al fare di Goya, del Greco o del Signorelli. (Giacché Picasso, dotato com’è di una tempra sensibilissima, ha capito, amato e s’è nutrito delle più diverse forme di bellezza, tirandole però sempre a servire la sua personalità), ognora e ognor più la sua arte si allontanava, sia come spirito, sia come tecnica, dall’estemporaneità e disgregatezza di quella impressionistica; e, investigando più addentro la natura, già la traduceva più complessa, più soda e più drammatica. Chi conosce e si ricorda la dolce gravità di alcune sue opere d’allora - una donna che bacia un corvo con atto d’amore, due giovinette pensose, assise nude per terra, un mendicante con la bisaccia piena di tristi fiori appassiti, un groviglio di corpi miserabili sul marciapiede - non può fare a meno di ritrovarvi i segni di una ribellione decisa alla scuola che finiva di trionfare. Il colore stesso, col nero che ritornava nella gamma bianca e turchina, significava protesta. E protesta significò pure tutto il ciclo di opere che venne subito dopo. Il ciclo, chiamiamolo così, picaresco. Ricordiamo. Esodi malinconici di saltimbanchi, compagnie nomadi affamate di comici da fiera, ricapitolanti le umiliazioni e i fiaschi di tutti i generi, durante una sosta sul ciglio della strada maestra, in un paese brullo, arrostito, povero e giallo al pari di loro, e senza un riparo per miglia e miglia; arlecchini e pagliacci macilenti, randagi per i sobborghi delle grandi città o seduti all’uscio delle baracche seguendo con gli occhi avidi Colombina che, in sandali, coperta appena di un gonnellino a scacchi e con un bambino in collo, va e viene dalla tenda alla marmitta, mentre un marmocchio più grandino si gingilla col tamburo e col cappello a bubboli del babbo, o ruzza tra le ciarpe e le trombe col cane ammaestrato; - atleti in maglia paonazza o azzurra, gloriantisi dei mostruosi bicipiti, accanto agli enormi manubri truccati, o vergognosi della loro magrezza; - vagabondi e accattoni rassegnati, abituati a tutto, trascinanti le loro ossa stanche per le dure vie della terra sotto un cielo bigio e solitario.
Fu alludendo a queste opere che Guillaume Apollinaire, il quale scrisse di Picasso verso quell’epoca, notava già la sobrietà verso cui tendeva la sua ricerca e quel ritorno a una più generale comprensione delle cose viste nella loro corposità e non più dissolte per le varie accidentalità delle illuminazioni e dei riflessi.... «La couleur a des matités de fresques, les lignes sont fermes.... Le goût de Picasso pour le trait qui fuit, change et pénètre et produit des exemples presqu’uniques de pointes sèches linéaires où les aspects généraux du monde ne sont point altérés par les lumières qui modifient les formes en changeant les couleurs».
Tuttavia il passo decisivo, quello che doveva condurre il nostro artista in un campo di esperienze molto più avanzate non fu fatto che un paio d’anni più tardi, e cioè quando egli, dopo essersi progressivamente allontanato dal modo di vedere degli impressionisti, trovò in un’arte opposta alla loro un fondamento più fermo alle sue ricerche ulteriori. Quest’arte fu la pittura e la scultura degli antichissimi egiziani, e quelle affini - e forse anche più nativamente sintetiche - dei popoli selvaggi dell’Affrica meridionale. Un altro artista, prima di lui, Gauguin, fuggendo il particolarismo e la fotolatria del puro impressionismo, s’era rifugiato nello studio di quei mondi artistici primordiali, ma col suo intellettualismo e - checché ne dicano i suoi fanatici - con la sua affezione per le false fastosità simboliche, non aveva saputo trarne che una certa compostezza e larghezza da altri credute sublimi o religiose, ma in effetto soltanto decorative e letterarie. Picasso invece - una volta arrivato alla comprensione e all’amore di quell’arte ingenua e grande, semplice ed espressiva, grossolana e raffinata ad un tempo, subito seppe appropriarsene le virtù essenziali, e poiché queste consistono insomma nell’interpretar realisticamente la natura deformandone gli aspetti secondo un’occulta necessità lirica, affine d’intensificarne la suggestività, egli s’applicò d’allora in poi a tradurre, nelle sue opere, il vero trasformandolo e deformandolo; non peraltro, al modo che facevano i suoi maestri, ma - com’essi gl’insegnavano ciascuno con un particolare esempio - seguendo i propri moti della sua anima moderna.

Qui bisognerebbe forse spiegare che cosa si debba intendere per deformazione artistica delle cose secondo una legge lirica, giacché su essa si fonda tutta una nuova comprensione del disegno e delle forme dell’opera d’arte; ma oltre ad averlo fino a un certo punto già spiegato in altra occasione, spero di farlo se non comprendere (scrivo nella patria di Ettore Tito, di Gemito, di Bistolfi, di Mancini, di Sartorio ed altri fenomeni di questo genere!) intraveder in seguito. Basti dire per ora, che, per certi artisti, i piani, le masse e i contorni delle cose possono avere proporzioni, rapporti e movimenti differentissimi da quelli che il comune degli uomini percepisce; indipendenti dalla loro concatenazione in quanto coefficienti di una realtà concepita scientificamente o praticamente; possono insomma esser considerati come semplici elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica sperimentale, e solo quale pretesto, quale geroglifico di cui l’artista si serve per operare una suggestione sul riguardante. Una testa troppo piccola, un braccio troppo grosso, una spalla stravolta, una gamba mal congiunta al resto del corpo, un tronco d’albero troppo piatto, una casa sbilenca ed altrettali cose che il volgare prende per tanti errori grossolani e risibili, non sono così che i modi necessari di una più profonda bellezza, in quella maniera che l’immagine sforzata o l’aggettivo discordante di un poeta sono i mezzi legittimi per ampliare la visione che si vuol suggerire per romperne i confini e farla continuare in vibrazioni infinite nella fantasia di chi legge. Ricordatevi del «giace dispettoso e torto» col quale Dante fa di Capaneo una figura granitica eschilea; del «Danton pallido, enorme» del Carducci o - come violentazione del colore - di «Le vie dorate e gli orti» del Leopardi. Per non parlare di stranieri, specialmente moderni. Ma rientriamo in carreggiata.

Partito dunque da qualche cosa che somigliava molto all’impressionismo, ecco che Pablo Picasso, procedendo di grado in grado aveva fatto capo agli antipodi di quella scuola; vale a dire che, dopo essersi come tanti altri contentato di cogliere e fissare nel suo splendore un momento fuggitivo della natura, era giunto, per via di meditazioni e di esperienze, a questa conclusione, che l’arte vera è sintetica e che non si dà sintesi senza sobrietà, generalità e concretezza, e se egli fosse - come non è - di facile contentatura, avrebbe potuto acquietarsi e imperniare i suoi studi successivi su questa verità. Ma così facendo avrebbe soltanto ripetuto la curva che eternamente traccia ogni intelligenza artistica, la quale movendo da un’affermazione novissima risale insensibilmente e si fissa a un’affermazione antichissima e contraria. Picasso invece, spirito alacre e irrequieto, quant’altri mai, non si appagò di un tal resultato dei suoi studi, e anzi fu appena arrivato a quel nuovo modo d’intender l’arte, che subito si dette ad affrontare, per tentar di risolverli i vari problemi che già gli si presentavano.
Il primo di questi problemi era quello dei volumi. Chi ha seguito il mio discorso avrà capito, anche perché vi ho insistito - e forse oltre misura - come uno tra i forti motivi di reazione all’impressionismo teorico fosse la incapacità di questo a rendere la corposità delle cose. Picasso, uno dei più coraggiosi partigiani della ribellione, risalendo alle arti primitive e barbare, le quali traggono tutta la loro potenza dell’osservazione di ciò che un estetico americano, il Berenson, chiamerebbe i valori tattili, non aveva dunque fatto che spingere all’estremo la sua protesta. Senonché gli bastò approfondire per un certo tempo lo studio di codeste arti per accorgersi di quanto un pittore affinato dalla cultura, modernamente sensibile, potesse andar più lontano nella ricerca e nell’espressione di quei valori.
Difatti non basta affermare, contro l’impressionismo, che nella percezione visiva del reale, il senso del tatto ha, per il ricordo di precedenti esperienze, altrettanta parte che quello della vista, e che perciò non si tratta meno di rendere il volume che il colore degli oggetti e degli esseri rappresentati; bisogna ancora domandarsi se la nostra conoscenza dei volumi non domandi per esser manifestata qualche modo pittorico del tutto sconosciuto all’antichità. È certo a mo’ d’esempio che allorché noi miriamo un oggetto non possiamo vederne se non i lati e i piani esposti prospetticamente all’obiettivo, diciamo così, del nostro occhio; ma non è men vero che, sia per un’esperienza anteriore, sia per un’induzione fondata sull’analogia, noi conosciamo, e potremmo dire sentiamo, anche i lati di quell’oggetto nascosti alla nostra vista. Immaginiamo d’avere davanti a noi un oggetto qualunque, poniamo - per scegliere un oggetto più volte dipinto dal nostro artista - un violino. È posto sur una tavola e non ne vediamo che il piano in isbieco, la fascia della cassa e il profilo del manico ricurvo. Chi volesse ritrarlo secondo i criteri di tutta la pittura precedente, bisognerebbe contentarsi di questi piani e di queste linee: purtuttavia non è un fatto che così facendo si sacrificherebbe una parte della realtà che noi conosciamo, giacché i nostri stessi occhi ci hanno rivelato altre volte che il violino non è tutto in quelle linee e in quei piani, ma che consiste anche del rovescio della cassa, dell’altra metà della fascia e del manico, e che le insenature laterali hanno una curva armoniosa che ora si perde? Se poi la cosa che ci sta davanti è di forma puramente geometrica, come sarebbe a dire una casa, un tronco d’albero, una catinella, un bicchiere, l’osservazione appare anche più evidente. Ora è appunto movendo da questa considerazione che Pablo Picasso ha escogitato una nuova maniera pittorica capace di tradurre gli esseri e gli spettacoli naturali nella loro totalità. Ma qual’è questa maniera? Ecco ciò che non è facile dire senza rischiare di destare un falso sospetto di teoricismo e magari di meccanicismo circa le sue ricerche, unicamente pittoriche e artistiche, al contrario. Tenterò tuttavia di farmi intendere.

È evidente anzitutto che questa proiezione integrale della realtà sur una superficie piana non può esser fatta con un sistema rigoroso; essa viene anzi operata indipendentemente da ogni regola prestabilita, secondo criteri strettamente poetici, e solo in quei casi che una necessità di bellezza lo richiede. Infatti allorché si tratta per Picasso di tradurre nella totalità dei suoi volumi una persona, una cosa o un paese, egli non lo farà al modo di un geometra scomponendone i lati in tante figure da porre le une accanto alle altre il che sarebbe assurdo e ridicolo; bensì mettendo d’accordo la conoscenza interna e la sensazione parziale, stenderà accanto all’immagine quale gli si presenta le superna occulte, che però sente come realmente apparenti, le facce nascoste e i profili fuggenti nella loro varietà e armonia di proporzioni, il tutto interpretato e ordinato in modo da raggiungere una viva e perfetta unità. Così, chi ripigli l’esempio del violino, le parti invisibili appariranno nella sua figurazione di quello strumento, spiegate e scomposte nei loro volumi, allato alle visibili - la fascia nascosta si allargherà sulla tavola, l’insenatura svolgerà la sua curva molle, l’opposto profilo del manico ricupererà la sua forma in uno sbattimento laterale di luci e d’ombre. O per meglio dire, egli scioglierà quelle cose nei loro elementi emotivi - linee, scorci, sfumature di toni -, darà come la somma delle emozioni che ne avrà ricevute, farà in una parola una ricostruzione di una realtà che del violino non è se non un riassunto strettamente pittorico, puramente lirico.
Similmente la figura umana sarà da lui notomizzata in tutte le sue facce per via di una sorta di misurazione, affine di metterne in evidenza la voluminosità cubica (e da ciò il nome di Cubismo dato a una tale pittura); squadernata, per così dire, davanti agli occhi come per mezzo di una refrazione circolare, ottenendo con ciò che lo spettatore abbia una visione intera definitiva e per così dire immutabile della realtà. E non, giova avvertire, a quel modo che altri han tentato di suggerirgliela stilizzando e schematizzando le masse e le linee, come fa per esempio l’orribile scuola di Beuron, ché l’arte di Picasso anziché condurre le forme a un tipo fisso, invariabile e impersonale, le scompone nella infinita varietà dei loro aspetti, le fruga, le scruta e ne mostra i molteplici caratteri e apparenze.
Senonché questi scomponimenti, questi spostamenti, prospettici, questo sforzo insomma di carpire tutte in una volta le diverse apparenze del vero ed esporle sur uno stesso piano sarebbero vani quanto mai se l’opera che ne risulta dovesse perdere sia pure una minima parte del suo potere suggestivo. E ciò avverrebbe immancabilmente se Picasso si preoccupasse sopratutto di questa analisi pittorica dei volumi. Il fatto è invece che tale analisi non è per lui che un tessuto melodioso di linee e di tinte, una musica di toni delicati, di chiari e di scuri, caldi o freddi il cui mistero accresce la gioia di chi guarda; gli è che Picasso al momento stesso di risolvere il problema dei volumi ha risolto anche quello del disegno e della luce. Già sappiamo che da più tempo il disegno non aveva più per lui il dovere di stringere e modulare i corpi in contorni precisi, innestando membro a membro con la logica inerente a ogni essere e a ogni cosa rappresentata. L’impressionismo sano prima, e i suoi maestri barbari poi, gli avevano insegnato a considerarlo come strumento di deformazione libera e audace. Ora esso ha per lui semplicemente il valore di un geroglifico con cui si scrive, per chi può leggerla, una verità liricamente intuita. Onde armato di questo strumento duttile capace di mille sfumature, dei più sottili e fuggevoli sottintesi, Picasso piuttosto, che stravolgere gli aspetti delle cose figurate all’unico scopo di farne una descrizione integrale, fa il giro delle cose stesse, le considera poeticamente sotto tutti gli angoli, ne subisce e ne rende le impressioni successive, le mostra insomma nella loro totalità e perpetuità emotiva e con la stessa intensità e libertà con la quale l’impressionismo non ne rendeva che un lato e un attimo.
In quanto alla luce, dal momento che il nostro artista non vuole nei suoi quadri raffigurare la natura nelle sue apparenze, bensì farne una trama di puri valori pittorici destinati a suggerire occultamente (matematicamente si potrebbe dire, pensando che la matematica potrebbe essere il fondo della pittura come l’è della musica) un senso di concretezza, in quanto alla luce, dico, e ai riflessi è naturale sian considerati come semplici macchie cromatiche fra quelle degli altri oggetti, e magari prendano forma e corpo definitivo diventando in un certo senso oggetti essi stessi. L’impressionismo aveva sciolto in vibrazioni luminose le più solide masse; che meraviglia se un’arte che dell’impressionismo è la precisa negazione piglia a considerare la luce come qualcosa di misurabile e contornabile, almeno quando si posa e s’acqueta sur un punto qualsiasi delle cose?
Comunque, è con tali mezzi che la pittura del nostro artista arriva a comunicare sensazioni grandiose e severe che domanderemmo invano alla più parte dei migliori pittori moderni e antichi. Con una sobrietà di tinte di giorno in giorno più grande, egli sa creare immagini di una bellezza potente a un tempo e delicata. Figure la cui intensità di vita risulta dalla fissità, dalla loro espressione ottenuta appunto con la rigorosa messa in valore del volume di ogni membro - nature morte che sono come ricchezze cristalline e metalliche avvolte di poesia occulta e inquietante, in cui la sodezza di ogni cosa risveglia idee d’eternità - paesaggi granitici, che fanno pensare - meno il colore - a quel

terrible paysage
Que jamais œil mortel ne vit

di cui parla Baudelaire; dove i tetti drizzano e raddoppiano i loro cacumi, dove la terra par soffocare i germi del suo seno gelato per dar tutti i suoi sughi a una palma rigogliosa, dove un’unica nota di colore canta come un passero solitario in una piaggia deserta. Opere delle quali l’oscurità e il mistero aumentano l’incanto e la terribilità poetica.
A volte, è vero, l’oscurità dell’arabesco arriva quasi alla tenebra, e forse il pericolo di quest’arte è di divenir tanto profonda da degenerare in una sorta di metafisica pittorica: certo il suo unico difetto è, specie nella rappresentazione dell’essere umano, una cert’aria antica cui arriva, un certo sapor d’arcaismo dal quale gli spiriti moderni d’elezione aborrono ormai.
E parlo di spiriti d’elezione perché se l’arte di Picasso è, come ho detto, di una importanza singolare, di una grandissima originalità e fatta per un grande avvenire, oggi come oggi non può esser compresa e amata che da pochi; e soltanto tardi, tardi, o non mai, piacerà alla moltitudine. - Ma alla moltitudine, diceva Bione filosofo, è impossibile di piacere se non diventando un pasticcio, o del vin dolce.

Ed eccoci a Georges Braque. L’aver parlato tanto distesamente di Picasso, mi dispensa dal ritracciare il corso e lo svolgimento dell’arte di questo pittore, giacché non dovrei fare che ripetermi, un tal corso e un tale svolgimento essendo, se non del tutto uguali, strettamente paralleli, ed avendo avuto gli uni e gli altri per resultato di condurre i due colleghi ad un quasi identico modo di vedere e di esprimersi. Infatti, partito come Picasso da una specie d’impressionismo, Georges Braque non tardò ad orientarsi come lui verso una forma d’arte che, meno unilaterale di quella allora in auge, potesse ricostituire la realtà nella sua sobria e stabile calma, interpretandola più largamente e non in ciò che ha di fuggevole, di rutilante, di lampeggiante, sibbene in ciò che l’intelligenza unita alla sensibilità percepiscono di permanente e immutabile, di concreto, sotto l’incessante fluenza delle attitudini e delle illuminazioni. Non saprei dire con precisione a quando risalga, nella sua carriera, il primo indizio di questo cambiamento di direzione; ma già in alcuni paesaggi dipinti verso il novecentosette o novecentotto nel mezzogiorno della Francia, la visione delle cose per volumi e la preoccupazione sintetica si affermano chiarissimamente. Sono semplici vedute di giganteschi acquedotti scavalcanti un burrone, le cui arcate sode e taglienti sopravanzano le cime delle piante e incidono il cielo; di strade chiare fiancheggiate da muri all’orlo di un precipizio pietroso; di villaggi appollaiati sur una roccia brulla emergente da un bosco folto. Ma Braque portando su queste povere e nude combinazioni di natura e di opere umane il suo occhio nuovo, ne penetra, ne svolge le linee e ne assottiglia le sfumature in modo che la sua opera attinge di colpo a una vastità e arditezza mirabili. Gli archi, le rocce i muri, gli alberi, le case, analizzati e sviscerati nella loro struttura si fissano come in uno stupore di cose imperiture in una omogeneità e unità di concezioni spirituali. Più tardi egli ritrarrà porti solitari appiè di alte scogliere, dove le barche si dondolano ormeggiate alle case miserabili dalle grandi porte nere, sbadiglianti davanti al mare; dipingerà persone e nature morte, e il suo stile si affermerà sempre più rigoroso, più logico, si potrebbe dire, nell’addurre le cose transitorie a una esistenza come estratemporale, assoluta. Certo a lui manca la versatilità che fa di Picasso un prodigioso compendio vivente di dieci anni di ricerche pittoriche; ma in compenso quanto amore, acuità e delicatezza nelle sue opere specie più recenti! Nature morte raffiguranti agglomerazioni d’oggetti casalinghi sur una tavola, istrumenti musicali, poma, stoffe e stoviglie, fruttiere colme di frutta, nelle quali le sfaccettature dei cristalli, i riflessi dei legni e degl’intarsi, lo spiegazzamento dei tessuti creano una magia prismatica che fa pensare a quella solitaria dei ghiacciai alpini. E sono quell’amore e quella delicatezza appunto che differenziano il francese dallo spagnolo. Picasso, pieno lo spirito di un fuoco quasi barbarico, racchiude nelle basse tonalità e nel disegno apparentemente algebrico dei suoi quadri la violenza sorda del dramma; Braque con la sua tecnica appena appena meno rigorosa ottiene una sorta di calma musicale piena di leggerezza ad un tempo e di severità. Ma tutt’e due insieme senza tradire la respettiva origine e anzi ricollegandosi colla più profonda tradizione delle loro razze, inaugurano una scuola d’arte, certo non facile per il momento ad esser compresa, ma degna e capace di un glorioso avvenire.


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