Ardengo Soffici
Opere
Volume I
Vallecchi
editore
Firenze 1959
pp. 617-633
CUBISMO
PICASSO
E BRAQUE
Per parlare con un po’ di profondità di due giovani pittori, l’uno
spagnolo - Pablo Picasso - l’altro francese - Georges Braque - e della loro
arte, arte complessa, difficile e sconvolgente se mai ce ne fu, è di un’assoluta
necessità ricordare prima, non fosse che di passata, che cosa fu l’impressionismo,
quale la sua essenza, e quali le ragioni che provocarono contro di esso quella
reazione di cui questi due artisti sono, fino ad oggi, gli ultimi campioni
L’impressionismo, dunque, chi lo consideri nella sua purezza, e
cioè quale fu iniziato dall’olandese Johnkind e inteso e messo in pratica dai
francesi Pissarro, Sisley, e, più specialmente ancora, da Claude Monet che ne
fu insomma il vero, il più grande e il più logico rappresentante e banditore, l’impressionismo
fu anzitutto il resultato di una prevalenza presa dalla sensibilità e dallo
spirito di analisi sulla immaginativa, la volontà di sintesi e le altre facoltà
che nel passato erano ritenute concorrere alla grandezza e allo stile. Se poi
ci mettiamo a esaminarne più a fondo la sostanza, vediamo che esso non fu
soltanto questo, ma anche, e forse più, il prodotto di una vera e propria
rivoluzione spirituale cominciata dalla filosofia e passata contemporaneamente
nel campo delle scienze e delle arti. Voglio dire che l’impressionismo
corrispose come fenomeno artistico a una messa in atto di quel pensiero, che,
rigettando la concezione di una realtà esterna o superiore allo spirito umano,
considera l’universo come una creazione dello spirito stesso e pertanto senza
categorie estetiche a sé, ma con quelle sole immanenti nelle profondità
intuitive dell’individuo - dell’artista, del genio. E difatti basta esaminare
con una certa perspicacia l’opera di un pittore impressionista per accorgersi
subito come il suo carattere precipuo sia non un gerarchizzamento di esseri e
di cose, secondo dati principii idealistici, intellettualistici e magari etici,
in vista di un più grande effetto da raggiungere, ma anzi la collocazione sullo
stesso piano di ogni fenomeno naturale manifestantesi per via di forme e di
colori; la legittimazione e il poetizzamento di ogni manifestazione vitale; un’equiparazione
dei differenti valori dell’universo visivo. Così, mentre per l’innanzi la
generalità degli artisti, ligia a vecchi pregiudizi accademici, o nel miglior
caso (quando non si trattava di creatori geniali, che questi sono stati si può
dire sempre impressionisti) incline a una valutazione oggettiva delle cose, era
abituata a subordinarle le une alle altre seguendo un rigoroso criterio
classico-scolastico, e a giudicare il mondo come un aggregato di figure e di
spettacoli più o meno significativi, più o meno interessanti fra i quali era
necessario scegliere o che bisognava modificare nell’ordinamento ed esecuzione
dell’opera d’arte, il pittore impressionista, tralasciando ogni considerazione
estrartistica e affidandosi solo alla sua potenza fantastica e lirica, veniva a
provare come tutto potesse esser materia di bellezza e di poesia se contemplato
da un occhio di creatore; e che qualunque essere, qualunque luogo, qualunque
cosa, come qualunque parte di essa era capace di rispecchiare e di suggerire l’idea
divina del bello e pertanto degna come qualunque altra di essere studiata,
amata e ritratta. Fu per via di questa concezione più libera, più generosa, più
profondamente poetica della realtà che la figura umana, l’animale, il più
insignificante cantuccio della natura, la stessa cosa inanimata - l’utensile,
un bicchiere vuoto, che so io? un cencio sgualcito - ebbero uno stesso valore
in quanto puri elementi artistici,
non differenziati da altro che dal loro colore e dalla loro forma, e poteron
pigliar luogo tutti insieme, senza sacrifizio dell’uno o dell’altro, o essere
ognuno per proprio conto soggetto e tema in un’opera d’arte.
Senonché, se l’impressionismo, spiritualmente parlando, rivendicò,
come si vede, la panpoeticità - mi si passi la strana parola - del mondo, e all’artista
a venire un’assoluta libertà d’ispirazione di cui ormai beneficia e beneficierà
sempre, non andò immune, come scuola pittorica, dal flagello delle false teorie
e da una tal quale unilateralità di visione che a lungo andare era fatale lo
conducessero al dinervamento e alla morte.
Ho troppo spesso parlato di ciò che fu la teoria impressionista,
perché debba ripetermi qui. Dirò solo, a mo’ di riassunto, che fondandosi sur
un principio di preferenza data alla sensibilità sull’immaginazione, e allo
spirito d’analisi su quello di sintesi, essa imponeva al pittore, non solo di
rendere nella sua freschezza e spontaneità l’impressione ricevuta dalle cose
apparenti, ma di farlo sul luogo stesso, al momento medesimo dell’emozione, nel
minore tempo possibile e applicandosi a ritrarre con la massima fedeltà e
precisione la particolare sfumatura, l’aspetto passeggero, momentaneo, unico
della persona, del luogo o della cosa che avevano eccitato la sua fantasia. È
facile arguire da ciò, che mentre l’immediatezza della rappresentazione
conferiva all’opera pittorica un sapore e una vivacità sconosciute avanti, era
causa nondimeno che la realtà ritratta non s’elevasse mai, nella figurazione, a
quella larghezza e universalità d’espressione che sono il frutto di un felice
accoppiamento di sensibilità e di volontà, che costituiscono insomma lo stile,
e anzi s’immiserisse nel transitorio, nell’aneddotico e a volte anche nell’assolutamente
illustrativo. Gli è che non basta liberarsi dal tradizionalismo e riabilitare
una facoltà negletta, se dell’uno non ci s’è prima assimilato la parte sana, e
della facoltà contraria dell’altra non s’è appreso a giovarsi in quella misura
che è pur necessaria. Né il non aver capito questa verità - un po’ involuta
forse, ma chiara per chi abbia riflettuto a fondo sui problemi dell’arte - fu
il solo difetto della scuola impressionistica. Un altro e forse più grave, fu
il suo modo di concepire l’universo fisico. Jules Laforgue, già da me altra
volta citato e che fra gli esegeti di quella scuola fu e resta ancora il più
penetrante, ha nei suoi Mélanges
posthumes un passo che riflette esattamente una tale concezione. «L’impressionista
- egli dice dunque - vede e rende la natura qual’è, vale a dire unicamente in
vibrazioni colorate. Né disegno, né luce, né modellatura, né chiaroscuro...
tutto ciò si risolve in realtà in vibrazioni colorate e deve essere ottenuto
sulla tela unicamente per via di vibrazioni colorate». Certo, è naturale ed era
anche legittimo che - persuasi in questo anche dalla scienza, - i pittori
impressionisti, in rivolta contro la scuola ed il suo bitume, non vedessero
nella natura se non uno spettacolo radiante e rutilante, costituito, se si può
dire, d’un brulichio tremulo e inafferrabile, e che per tradurlo ricorressero a
quella loro maniera di dipingere tutta a tocchi e a sfarfallii di colori puri e
vividi. Ma non è men vero che sviluppati fino ai limiti estremi, come lo furono
appunto da Claude Monet, una tale visione e un tal sistema non potevano fare a
meno, a forza di trascurar via via ogni altra qualità delle cose raffigurate
per non renderne che la vibrazione luminosa, di condurre a una pittura
inconsistente, troppo tenue e vaporosa, dove le forme e i corpi si disgregano,
sfumano, si squagliano e si dissolvono nella fluidità dell’aria, fino a che
tutto vanisce e annega in un barbaglio di luce bianca. Ché tale, se non lo fu
del tutto, tendeva a divenire la pittura impressionista. La quale, se a prima
vista può titillare e accarezzare l’occhio del riguardante, non può in nessun
modo appagare il desiderio di corposità, di varietà e di concretezza che
richiedono gli altri sensi concorrenti con l’occhio nella percezione di un’opera
d’arte.
Ora è appunto per queste ragioni che l’impressionismo, sebbene
avesse slargato i confini dell’arte pittorica e prodotto opere di grande
bellezza, non poteva durare e non durò. Alcuni pittori, più profondi e d’aspirazioni
più vaste, dopo essersi assimilato ciò che v’era di buono nelle scoperte e
riforme impressioniste non tardarono a rendersi conto del pericolo che correva
la scuola e a distorsene; finché l’un d’essi e non il minore, Paul Cézanne, non
le voltò addirittura le spalle, e riafferrandosi nuovamente alle cose,
ricostruendole artisticamente nella loro sodezza, riaffermando il volume, il
chiaroscuro, il disegno e tutto ciò che gli altri avevan negato, non iniziò
quella reazione che dura da più anni e nella quale sono oggi impegnate tutte le
forze della gioventù pittorica di Francia.
Per arrivare ad un eccesso contrario? Vedremo. Intanto veniamo ai
nostri due artisti che son nella prima fila.
E prima a Picasso. Pablo Picasso non è stato sempre quell’artista
inquietante, confonditor di critici, sconcertator di colleghi e spauracchio di
filistei che è da qualche tempo a questa parte. Quando lo conobbi una diecina d’anni
fa a Parigi, ventenne, fresco arrivato dall’Andalusia, da Malaga, egli
dipingeva paesaggi, ritratti e scene della piccola vita parigina che in nulla
differivano dagli esercizi diletti alla buona gioventù indipendente d’allora,
se forse non era per una maggiore audacia di disegno e una più grande e quasi
selvaggia esaltazion del colore. Vero è che fin da quel tempo, o per lo meno
fin dal novecentodue o novecentotre, allorché cioè quei primi tentativi furono
seguiti da ricerche più alacri e più virili, già qualche cosa s’intravedeva,
nella sua pittura, che era come una preoccupazione d’ordinamento e di stile.
Intendo dire che, o studiasse, dopo Toulouse-Lautrec, il mondo cocottesco,
nottambulo e alcoolizzato, o ritentasse modernamente l’interpretazione
grottesca o tragica del vizio, della miseria e del dolore ispirandosi al fare
di Goya, del Greco o del Signorelli. (Giacché Picasso, dotato com’è di una
tempra sensibilissima, ha capito, amato e s’è nutrito delle più diverse forme
di bellezza, tirandole però sempre a servire la sua personalità), ognora e
ognor più la sua arte si allontanava, sia come spirito, sia come tecnica, dall’estemporaneità
e disgregatezza di quella impressionistica; e, investigando più addentro la natura,
già la traduceva più complessa, più soda e più drammatica. Chi conosce e si
ricorda la dolce gravità di alcune sue opere d’allora - una donna che bacia un
corvo con atto d’amore, due giovinette pensose, assise nude per terra, un
mendicante con la bisaccia piena di tristi fiori appassiti, un groviglio di
corpi miserabili sul marciapiede - non può fare a meno di ritrovarvi i segni di
una ribellione decisa alla scuola che finiva di trionfare. Il colore stesso,
col nero che ritornava nella gamma bianca e turchina, significava protesta. E
protesta significò pure tutto il ciclo di opere che venne subito dopo. Il
ciclo, chiamiamolo così, picaresco. Ricordiamo. Esodi malinconici di
saltimbanchi, compagnie nomadi affamate di comici da fiera, ricapitolanti le umiliazioni
e i fiaschi di tutti i generi, durante una sosta sul ciglio della strada
maestra, in un paese brullo, arrostito, povero e giallo al pari di loro, e
senza un riparo per miglia e miglia; arlecchini e pagliacci macilenti, randagi
per i sobborghi delle grandi città o seduti all’uscio delle baracche seguendo
con gli occhi avidi Colombina che, in sandali, coperta appena di un gonnellino
a scacchi e con un bambino in collo, va e viene dalla tenda alla marmitta,
mentre un marmocchio più grandino si gingilla col tamburo e col cappello a
bubboli del babbo, o ruzza tra le ciarpe e le trombe col cane ammaestrato; -
atleti in maglia paonazza o azzurra, gloriantisi dei mostruosi bicipiti,
accanto agli enormi manubri truccati, o vergognosi della loro magrezza; - vagabondi
e accattoni rassegnati, abituati a tutto, trascinanti le loro ossa stanche per
le dure vie della terra sotto un cielo bigio e solitario.
Fu alludendo a queste opere che Guillaume Apollinaire, il quale
scrisse di Picasso verso quell’epoca, notava già la sobrietà verso cui tendeva
la sua ricerca e quel ritorno a una più generale comprensione delle cose viste
nella loro corposità e non più dissolte per le varie accidentalità delle
illuminazioni e dei riflessi.... «La
couleur a des matités de fresques, les lignes sont fermes.... Le goût de Picasso pour le trait qui fuit, change
et pénètre et produit des exemples presqu’uniques de pointes sèches linéaires
où les aspects généraux du monde ne sont point altérés par les lumières qui
modifient les formes en changeant les couleurs».
Tuttavia il passo decisivo, quello che doveva condurre il nostro
artista in un campo di esperienze molto più avanzate non fu fatto che un paio d’anni
più tardi, e cioè quando egli, dopo essersi progressivamente allontanato dal
modo di vedere degli impressionisti, trovò in un’arte opposta alla loro un
fondamento più fermo alle sue ricerche ulteriori. Quest’arte fu la pittura e la
scultura degli antichissimi egiziani, e quelle affini - e forse anche più
nativamente sintetiche - dei popoli selvaggi dell’Affrica meridionale. Un altro
artista, prima di lui, Gauguin, fuggendo il particolarismo e la fotolatria del
puro impressionismo, s’era rifugiato nello studio di quei mondi artistici
primordiali, ma col suo intellettualismo e - checché ne dicano i suoi fanatici -
con la sua affezione per le false fastosità simboliche, non aveva saputo trarne
che una certa compostezza e larghezza da altri credute sublimi o religiose, ma
in effetto soltanto decorative e letterarie. Picasso invece - una volta
arrivato alla comprensione e all’amore di quell’arte ingenua e grande, semplice
ed espressiva, grossolana e raffinata ad un tempo, subito seppe appropriarsene
le virtù essenziali, e poiché queste consistono insomma nell’interpretar
realisticamente la natura deformandone gli aspetti secondo un’occulta necessità
lirica, affine d’intensificarne la suggestività, egli s’applicò d’allora in poi
a tradurre, nelle sue opere, il vero trasformandolo e deformandolo; non
peraltro, al modo che facevano i suoi maestri, ma - com’essi gl’insegnavano
ciascuno con un particolare esempio - seguendo i propri moti della sua anima
moderna.
Qui bisognerebbe forse spiegare che cosa si debba intendere per
deformazione artistica delle cose secondo una legge lirica, giacché su essa si
fonda tutta una nuova comprensione del disegno e delle forme dell’opera d’arte;
ma oltre ad averlo fino a un certo punto già spiegato in altra occasione, spero
di farlo se non comprendere (scrivo nella patria di Ettore Tito, di Gemito, di
Bistolfi, di Mancini, di Sartorio ed altri fenomeni di questo genere!)
intraveder in seguito. Basti dire per ora, che, per certi artisti, i piani, le
masse e i contorni delle cose possono avere proporzioni, rapporti e movimenti
differentissimi da quelli che il comune degli uomini percepisce; indipendenti
dalla loro concatenazione in quanto coefficienti di una realtà concepita
scientificamente o praticamente; possono insomma esser considerati come
semplici elementi pittorici, trasformabili, spostabili, deformabili, in vista
di un’armonia puramente artistica, dove il vero riviva liberato da ogni logica
sperimentale, e solo quale pretesto, quale geroglifico di cui l’artista si
serve per operare una suggestione sul riguardante. Una testa troppo piccola, un
braccio troppo grosso, una spalla stravolta, una gamba mal congiunta al resto
del corpo, un tronco d’albero troppo piatto, una casa sbilenca ed altrettali
cose che il volgare prende per tanti errori grossolani e risibili, non sono
così che i modi necessari di una più profonda bellezza, in quella maniera che l’immagine
sforzata o l’aggettivo discordante di un poeta sono i mezzi legittimi per
ampliare la visione che si vuol suggerire per romperne i confini e farla
continuare in vibrazioni infinite nella fantasia di chi legge. Ricordatevi del
«giace dispettoso e torto» col quale
Dante fa di Capaneo una figura granitica eschilea; del «Danton pallido, enorme» del Carducci o - come
violentazione del colore - di «Le vie dorate e gli orti» del Leopardi. Per non
parlare di stranieri, specialmente moderni. Ma rientriamo in carreggiata.
Partito dunque da qualche cosa che somigliava molto all’impressionismo,
ecco che Pablo Picasso, procedendo di grado in grado aveva fatto capo agli
antipodi di quella scuola; vale a dire che, dopo essersi come tanti altri
contentato di cogliere e fissare nel suo splendore un momento fuggitivo della
natura, era giunto, per via di meditazioni e di esperienze, a questa
conclusione, che l’arte vera è sintetica e che non si dà sintesi senza
sobrietà, generalità e concretezza, e se egli fosse - come non è - di facile
contentatura, avrebbe potuto acquietarsi e imperniare i suoi studi successivi
su questa verità. Ma così facendo avrebbe soltanto ripetuto la curva che
eternamente traccia ogni intelligenza artistica, la quale movendo da un’affermazione
novissima risale insensibilmente e si fissa a un’affermazione antichissima e
contraria. Picasso invece, spirito alacre e irrequieto, quant’altri mai, non si
appagò di un tal resultato dei suoi studi, e anzi fu appena arrivato a quel
nuovo modo d’intender l’arte, che subito si dette ad affrontare, per tentar di
risolverli i vari problemi che già gli si presentavano.
Il primo di questi problemi era quello dei volumi. Chi ha seguito
il mio discorso avrà capito, anche perché vi ho insistito - e forse oltre
misura - come uno tra i forti motivi di reazione all’impressionismo teorico
fosse la incapacità di questo a rendere la corposità delle cose. Picasso, uno
dei più coraggiosi partigiani della ribellione, risalendo alle arti primitive e
barbare, le quali traggono tutta la loro potenza dell’osservazione di ciò che
un estetico americano, il Berenson, chiamerebbe i valori tattili, non aveva
dunque fatto che spingere all’estremo la sua protesta. Senonché gli bastò
approfondire per un certo tempo lo studio di codeste arti per accorgersi di
quanto un pittore affinato dalla cultura, modernamente sensibile, potesse andar
più lontano nella ricerca e nell’espressione di quei valori.
Difatti non basta affermare, contro l’impressionismo, che nella
percezione visiva del reale, il senso del tatto ha, per il ricordo di
precedenti esperienze, altrettanta parte che quello della vista, e che perciò
non si tratta meno di rendere il volume che il colore degli oggetti e degli
esseri rappresentati; bisogna ancora domandarsi se la nostra conoscenza dei
volumi non domandi per esser manifestata qualche modo pittorico del tutto
sconosciuto all’antichità. È certo a mo’ d’esempio che allorché noi miriamo un
oggetto non possiamo vederne se non i lati e i piani esposti prospetticamente
all’obiettivo, diciamo così, del nostro occhio; ma non è men vero che, sia per
un’esperienza anteriore, sia per un’induzione fondata sull’analogia, noi
conosciamo, e potremmo dire sentiamo, anche i lati di quell’oggetto nascosti
alla nostra vista. Immaginiamo d’avere davanti a noi un oggetto qualunque,
poniamo - per scegliere un oggetto più volte dipinto dal nostro artista - un
violino. È posto sur una tavola e non ne vediamo che il piano in isbieco, la
fascia della cassa e il profilo del manico ricurvo. Chi volesse ritrarlo
secondo i criteri di tutta la pittura precedente, bisognerebbe contentarsi di
questi piani e di queste linee: purtuttavia non è un fatto che così facendo si
sacrificherebbe una parte della realtà che noi conosciamo, giacché i nostri
stessi occhi ci hanno rivelato altre volte che il violino non è tutto in quelle
linee e in quei piani, ma che consiste anche del rovescio della cassa, dell’altra
metà della fascia e del manico, e che le insenature laterali hanno una curva
armoniosa che ora si perde? Se poi la cosa che ci sta davanti è di forma
puramente geometrica, come sarebbe a dire una casa, un tronco d’albero, una
catinella, un bicchiere, l’osservazione appare anche più evidente. Ora è
appunto movendo da questa considerazione che Pablo Picasso ha escogitato una
nuova maniera pittorica capace di tradurre gli esseri e gli spettacoli naturali
nella loro totalità. Ma qual’è questa maniera? Ecco ciò che non è facile dire
senza rischiare di destare un falso sospetto di teoricismo e magari di
meccanicismo circa le sue ricerche, unicamente pittoriche e artistiche, al
contrario. Tenterò tuttavia di farmi intendere.
È evidente anzitutto che questa proiezione integrale della realtà
sur una superficie piana non può esser fatta con un sistema rigoroso; essa
viene anzi operata indipendentemente da ogni regola prestabilita, secondo
criteri strettamente poetici, e solo in quei casi che una necessità di bellezza
lo richiede. Infatti allorché si tratta per Picasso di tradurre nella totalità
dei suoi volumi una persona, una cosa o un paese, egli non lo farà al modo di
un geometra scomponendone i lati in tante figure da porre le une accanto alle
altre il che sarebbe assurdo e ridicolo; bensì mettendo d’accordo la conoscenza
interna e la sensazione parziale, stenderà accanto all’immagine quale gli si
presenta le superna occulte, che però sente come realmente apparenti, le facce
nascoste e i profili fuggenti nella loro varietà e armonia di proporzioni, il
tutto interpretato e ordinato in modo da raggiungere una viva e perfetta unità.
Così, chi ripigli l’esempio del violino, le parti invisibili appariranno nella
sua figurazione di quello strumento, spiegate e scomposte nei loro volumi,
allato alle visibili - la fascia nascosta si allargherà sulla tavola,
l’insenatura svolgerà la sua curva molle, l’opposto profilo del manico
ricupererà la sua forma in uno sbattimento laterale di luci e d’ombre. O per
meglio dire, egli scioglierà quelle cose nei loro elementi emotivi - linee,
scorci, sfumature di toni -, darà come la somma delle emozioni che ne avrà
ricevute, farà in una parola una ricostruzione di una realtà che del violino non
è se non un riassunto strettamente pittorico, puramente lirico.
Similmente
la figura umana sarà da lui notomizzata in tutte le sue facce per via di una
sorta di misurazione, affine di metterne in evidenza la voluminosità cubica (e
da ciò il nome di Cubismo dato a una tale pittura); squadernata, per così dire,
davanti agli occhi come per mezzo di una refrazione circolare, ottenendo con
ciò che lo spettatore abbia una visione intera definitiva e per così dire
immutabile della realtà. E non, giova avvertire, a quel modo che altri han
tentato di suggerirgliela stilizzando e schematizzando le masse e le linee,
come fa per esempio l’orribile scuola di Beuron, ché l’arte di Picasso anziché
condurre le forme a un tipo fisso, invariabile e impersonale, le scompone nella
infinita varietà dei loro aspetti, le fruga, le scruta e ne mostra i molteplici
caratteri e apparenze.
Senonché
questi scomponimenti, questi spostamenti, prospettici, questo sforzo insomma di
carpire tutte in una volta le diverse apparenze del vero ed esporle sur uno
stesso piano sarebbero vani quanto mai se l’opera che
ne risulta dovesse perdere sia pure una minima parte del suo potere suggestivo.
E ciò avverrebbe immancabilmente se Picasso si preoccupasse sopratutto di
questa analisi pittorica dei volumi. Il fatto è invece che tale analisi non è
per lui che un tessuto melodioso di linee e di tinte, una musica di toni
delicati, di chiari e di scuri, caldi o freddi il cui mistero accresce la gioia
di chi guarda; gli è che Picasso al momento stesso di risolvere il problema dei
volumi ha risolto anche quello del disegno e della luce. Già sappiamo che da
più tempo il disegno non aveva più per lui il dovere di stringere e modulare i
corpi in contorni precisi, innestando membro a membro con la logica inerente a
ogni essere e a ogni cosa rappresentata. L’impressionismo sano prima, e i suoi
maestri barbari poi, gli avevano insegnato a considerarlo come strumento di
deformazione libera e audace. Ora esso ha per lui semplicemente il valore di un
geroglifico con cui si scrive, per chi può leggerla, una verità liricamente
intuita. Onde armato di questo strumento duttile capace di mille sfumature, dei
più sottili e fuggevoli sottintesi, Picasso piuttosto, che stravolgere gli
aspetti delle cose figurate all’unico scopo di farne una descrizione integrale,
fa il giro delle cose stesse, le considera poeticamente sotto tutti gli angoli,
ne subisce e ne rende le impressioni successive, le mostra insomma nella loro
totalità e perpetuità emotiva e con la stessa intensità e libertà con la quale
l’impressionismo non ne rendeva che un lato e un attimo.
In quanto alla luce, dal momento che il nostro artista non vuole
nei suoi quadri raffigurare la natura nelle sue apparenze, bensì farne una
trama di puri valori pittorici destinati a suggerire occultamente
(matematicamente si potrebbe dire, pensando che la matematica potrebbe essere
il fondo della pittura come l’è della musica) un senso di concretezza, in
quanto alla luce, dico, e ai riflessi è naturale sian considerati come semplici
macchie cromatiche fra quelle degli altri oggetti, e magari prendano forma e
corpo definitivo diventando in un certo senso oggetti essi stessi.
L’impressionismo aveva sciolto in vibrazioni luminose le più solide masse; che
meraviglia se un’arte che dell’impressionismo è la precisa negazione piglia a
considerare la luce come qualcosa di misurabile e contornabile, almeno quando
si posa e s’acqueta sur un punto qualsiasi delle cose?
Comunque, è con tali mezzi che la pittura del nostro artista
arriva a comunicare sensazioni grandiose e severe che domanderemmo invano alla
più parte dei migliori pittori moderni e antichi. Con una sobrietà di tinte di
giorno in giorno più grande, egli sa creare immagini di una bellezza potente a
un tempo e delicata. Figure la cui intensità di vita risulta dalla fissità,
dalla loro espressione ottenuta appunto con la rigorosa messa in valore del
volume di ogni membro - nature morte che sono come ricchezze cristalline e
metalliche avvolte di poesia occulta e inquietante, in cui la sodezza di ogni
cosa risveglia idee d’eternità - paesaggi granitici, che fanno pensare - meno
il colore - a quel
terrible
paysage
Que
jamais œil mortel ne vit
di
cui parla Baudelaire; dove i tetti drizzano e raddoppiano i loro cacumi, dove
la terra par soffocare i germi del suo seno gelato per dar tutti i suoi sughi a
una palma rigogliosa, dove un’unica nota di colore canta come un passero
solitario in una piaggia deserta. Opere delle quali l’oscurità e il mistero
aumentano l’incanto e la terribilità poetica.
A volte, è vero, l’oscurità dell’arabesco arriva quasi alla
tenebra, e forse il pericolo di quest’arte è di divenir tanto profonda da
degenerare in una sorta di metafisica pittorica: certo il suo unico difetto è,
specie nella rappresentazione dell’essere umano, una cert’aria antica cui
arriva, un certo sapor d’arcaismo dal quale gli spiriti moderni d’elezione
aborrono ormai.
E parlo di spiriti d’elezione perché se l’arte di Picasso è, come
ho detto, di una importanza singolare, di una grandissima originalità e fatta
per un grande avvenire, oggi come oggi non può esser compresa e amata che da
pochi; e soltanto tardi, tardi, o non mai, piacerà alla moltitudine. - Ma alla
moltitudine, diceva Bione filosofo, è impossibile di piacere se non diventando
un pasticcio, o del vin dolce.
Ed eccoci a Georges Braque. L’aver parlato tanto distesamente di
Picasso, mi dispensa dal ritracciare il corso e lo svolgimento dell’arte di
questo pittore, giacché non dovrei fare che ripetermi, un tal corso e un tale
svolgimento essendo, se non del tutto uguali, strettamente paralleli, ed avendo
avuto gli uni e gli altri per resultato di condurre i due colleghi ad un quasi
identico modo di vedere e di esprimersi. Infatti, partito come Picasso da una
specie d’impressionismo, Georges Braque non tardò ad orientarsi come lui verso
una forma d’arte che, meno unilaterale di quella allora in auge, potesse
ricostituire la realtà nella sua sobria e stabile calma, interpretandola più
largamente e non in ciò che ha di fuggevole, di rutilante, di lampeggiante,
sibbene in ciò che l’intelligenza unita alla sensibilità percepiscono di
permanente e immutabile, di concreto, sotto l’incessante fluenza delle attitudini
e delle illuminazioni. Non saprei dire con precisione a quando risalga, nella
sua carriera, il primo indizio di questo cambiamento di direzione; ma già in
alcuni paesaggi dipinti verso il novecentosette o novecentotto nel mezzogiorno
della Francia, la visione delle cose per volumi e la preoccupazione sintetica
si affermano chiarissimamente. Sono semplici vedute di giganteschi acquedotti
scavalcanti un burrone, le cui arcate sode e taglienti sopravanzano le cime
delle piante e incidono il cielo; di strade chiare fiancheggiate da muri
all’orlo di un precipizio pietroso; di villaggi appollaiati sur una roccia
brulla emergente da un bosco folto. Ma Braque portando su queste povere e nude
combinazioni di natura e di opere umane il suo occhio nuovo, ne penetra, ne
svolge le linee e ne assottiglia le sfumature in modo che la sua opera attinge
di colpo a una vastità e arditezza mirabili. Gli archi, le rocce i muri, gli
alberi, le case, analizzati e sviscerati nella loro struttura si fissano come
in uno stupore di cose imperiture in una omogeneità e unità di concezioni
spirituali. Più tardi egli ritrarrà porti solitari appiè di alte scogliere,
dove le barche si dondolano ormeggiate alle case miserabili dalle grandi porte
nere, sbadiglianti davanti al mare; dipingerà persone e nature morte, e il suo
stile si affermerà sempre più rigoroso, più logico, si potrebbe dire,
nell’addurre le cose transitorie a una esistenza come estratemporale, assoluta.
Certo a lui manca la versatilità che fa di Picasso un prodigioso compendio
vivente di dieci anni di ricerche pittoriche; ma in compenso quanto amore,
acuità e delicatezza nelle sue opere specie più recenti! Nature morte
raffiguranti agglomerazioni d’oggetti casalinghi sur una tavola, istrumenti
musicali, poma, stoffe e stoviglie, fruttiere colme di frutta, nelle quali le
sfaccettature dei cristalli, i riflessi dei legni e degl’intarsi, lo
spiegazzamento dei tessuti creano una magia prismatica che fa pensare a quella
solitaria dei ghiacciai alpini. E sono quell’amore e quella delicatezza appunto
che differenziano il francese dallo spagnolo. Picasso, pieno lo spirito di un
fuoco quasi barbarico, racchiude nelle basse tonalità e nel disegno
apparentemente algebrico dei suoi quadri la violenza sorda del dramma; Braque
con la sua tecnica appena appena meno rigorosa ottiene una sorta di calma
musicale piena di leggerezza ad un tempo e di severità. Ma tutt’e due insieme senza
tradire la respettiva origine e anzi ricollegandosi colla più profonda
tradizione delle loro razze, inaugurano una scuola d’arte, certo non facile per
il momento ad esser compresa, ma degna e capace di un glorioso avvenire.
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