Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” -
e supponendo sia ben nota a tutti l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi
editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nell’altro riportano a
quell’indirizzo.
Uno è Montmartre &
Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione
dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho
estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude
Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of
Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le
immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di
Gertrude e Alice B Toklas poi.
Rue de Fleurus, numero 27. Una
casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere,
una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza
con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli
ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due
finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin,
Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso.
E altri.
Non siamo in un museo. E poiché
in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier
si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si
infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e
tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono
ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta
rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il
nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio
dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una
volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei
tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si
interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le
dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno
da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa
tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette
di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era
ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria
indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue
opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due
acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola
pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome
è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di
essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo
pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie
tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a
Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e
aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse,
tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse
condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto
che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano
come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna,
decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare
l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede
in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi
Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato
dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle:
«Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna
piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso
la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si
potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza
sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere
di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente:
«Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno
parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre
risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana
tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i
pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà
con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni
che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà
obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che
si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua
padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature
che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un
diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale.
La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale.
Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla
porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e
cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di
grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha
infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si
assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende
un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli,
interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività
terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo
meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre
dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro
dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e
signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra
di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo
ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con
autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe.
Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha
pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei
che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di
frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le
proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così
Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i
Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente
sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà
elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le
apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È
totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare
travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento
è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva
preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto
terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein
aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla:
doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero,
avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta
infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto
invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto,
si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di
uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato
una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando
redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride
mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve
poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere,
questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo
piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti
austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès
si avvicinerà all’Action Française
e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è
stato lapidario: «Questo fauve è un
raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla
volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si
esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto
quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo
dimostra.
Eppure i due pittori hanno
diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha
per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro
quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i
due giganti dell’arte moderna.
Ciascuno ha i propri proseliti:
per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per
il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega
fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per
questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e
di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che
si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.
POTREBBE INTERESSARVI ANCHE