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mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Alice B. Toklas


Come di consueto, ogni anno passo almeno una settimana en flanand per le strade di Parigi, sulle tracce di pittori, scultori, scrittori, poeti e altra genìa sparsa, con un indirizzo d’obbligo: 27, rue de Fleurus.
Anche quest’anno la fortuna mi è stata amica: il mio arrivo a questo indirizzo è coinciso col sopraggiungere della stessa signora che un anno fa mi aveva autorizzato ad entrare nel giardino.
“Dopo l’uscita di Midnight in Paris di Woody Allen”, mi dice la mia ospite, “gli americani sono arrivati a frotte, ma di italiani interessati a questo indirizzo ricordo solo lei”. Sarà.
Ho scattato nuove immagini, ho letto altri libri e altri articoli, quasi sempre pubblicati oltre oceano.
Com’è noto, non amo rubare il lavoro altrui: se altri hanno scritto prima di me su di un argomento, trovo giusto cedere loro il passo piuttosto che scimmiottare con mie parole quanto letto altrove.
E qui userò lo stesso metodo, facendo precedere le mie immagini da un brano estratto da The Alice B. Toklas Cook Books, scritto a Parigi nel 1954.
In Italia, questo libro è reperibile in più edizioni, con titoli ed editori diversi:
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
Fatto curioso, le due traduttrici hanno consegnato alle stampe due testi praticamente identici, eccezion fatta per rari e poco significativi dettagli.
E adesso cedo il passo ad Alice Babette Toklas, la “mogliettina” factotum di Gertrude Stein.  

Piatti per artisti

Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus, la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutte tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.

~ Branzino Picasso ~

Preparai un court-bouillon di vino bianco secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes. Feci bollire il tutto per un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon. Poi lo scolai, lo asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.

Mi sentii orgogliosissima del mio capolavoro, e quando lo servii Picasso diede in esclamazioni di meraviglia. Poi aggiunse: Non sarebbe stato meglio prepararlo in onore di Matisse invece che mio?

Picasso seguì per parecchi anni una dieta molto rigida; in effetti riuscì chissà come a non sgarrare neppure durante la guerra mondiale e l’occupazione. Si rilassò soltanto dopo la liberazione. Tipico no? La carne rossa gli era proibita, ma questo non era un problema perché in quei giorni i francesi servivano molto raramente carne di manzo, con l’eccezione dell’inevitabile filetto alla sauce Madère. Nemmeno il pollo era tenuto in grande considerazione, mentre il cosciotto di agnello arrosto era visto con maggior simpatia. Oppure gli servivamo del tenero lombo di vitello preceduto da un soufflé di spinaci, dato che il medico gli aveva raccomandato di mangiare molti spinaci e il soufflé era il modo meno insipido di presentarli. Si poteva rendere più appetitoso con l’aggiunta di una salsa. Il problema era quale salsa Picasso potesse mangiare nonostante la dieta. Gli davo una scelta. Cuocevo il soufflé in uno stampo ben imburrato immerso in un recipiente di acqua bollente. Quando era cotto al punto giusto lo sistemavo in un piatto da portata sul cui bordo disponevo eguali quantità di salsa hollandaise, salsa alla panna e salsa di pomodoro. La mia speranza era che i colori delle salse riuscissero a far sembrare meno antipatico il soufflé di spinaci. Un dilemma crudele, disse Picasso quando gli venne servito il soufflé.

[…] Parecchie volte ho avuto la tentazione di uccidere una cuoca stupida o ostinata, ma di solito mi limitavo a immaginarlo, la fantasia sostituiva l’omicidio effettivo. Poi venne da noi a lavorare un allegro, incantevole austriaco. Era un cuoco perfetto. Svelto e silenzioso, Frederich, lo chiamerò così, cucinava per noi i piatti più sofisticati e complessi, non si spaventava davanti a nulla. Ci preparava gelati in piccoli recipienti a forma di uovo che disponeva su nidi di zucchero filato colorato. Adorava preparare torte a forma di oggetti diversi per ciascuna persona, a seconda della sue caratteristiche: di libro per Gertrude Stein, di rosa per sir Francis Rose, di pavone per un’amica molto vanitosa e di cagnolino per me. Riceveva di continuo le visite di una ragazza molto graziosa, Duscha, che sembrava uscita direttamente da un’opera di Offenbach. Io e Gertrude Stein li adoravamo. A Natale chiedemmo loro di accettare, fra gli altri doni, una cena innaffiata di champagne in un ristorante di loro gusto per il tradizionale réveillon. A poco a poco Frederich cominciò a confidarsi con me. La sua vita non era più felice come una volta. All’inizio c’era solo la sua fidanzata Duscha, il suo angelo, ma adesso ce n’era un’altra, un demonio, che voleva sposarlo, e minacciava di ucciderlo se si fosse rifiutato. Ci raccontò che lui e Hitler erano nati nello stesso villaggio e che tutti in quel villaggio erano simili tra di loro e molto particolari. Eravamo nel 1936 e ormai sapevamo benissimo che Hitler era davvero un po’ strano. Frederich, d’altra parte, non era tanto strano quanto debole, amante del vino, delle donne e della musica. Ma continuava a essere un cuoco perfetto. Per parecchi anni aveva lavorato nel ristorante di Frau Sacher e spesso ci preparava la famosa Sacher Torte.

[…] Un pomeriggio, mentre io e Gertrude Stein stavamo tornando a casa, vedemmo una persona uscire dalla nostra porta nel cortile. Era una donna dagli occhi neri, piccoli e brillanti. Il demonio, disse Gertrude Stein. Probabilmente, risposi. L’occhiata che le avevo dato bastò a riempirmi di preoccupazione per Frederich. Volevamo che fosse felice e che restasse a cucinare per noi. Più tardi andai a trovarlo in cucina. Era seduto al tavolo, la testa nascosta tra le braccia. Quando mi vide sussultò. Che cosa c’è, gli chiesi. Il demonio, Madame, il demonio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono una bottiglia di preziosissimo Tocai. Voleva avvelenarmi, uccidermi. Ha versato un bicchiere di vino e me l’ha dato. Proprio mentre stavo per bere alla sua salute mi sono accorto che non aveva versato da bere per sé, il suo bicchiere era vuoto, e che non aveva tolto il tappo con il cavatappi. Voleva avvelenarmi. Le ho buttato addosso la bottiglia. L’ho strattonata. L’ho buttata fuori. Oh, Madame, quel demonio riuscirà a farlo, riuscirà a uccidermi. Lo mandai in camera sua.
La mattina dopo non trovai Frederich in cucina. Verso mezzogiorno chiesi alla concierge di salire nella sua stanza per vedere che cosa fosse successo. Tornò dicendo che la porta era aperta e la stanza vuota, c’era solo un baule legato con delle cinghie. Non aveva visto Frederich, quella mattina, ma la signora coi capelli scuri era andata a trovarlo un paio d’ore prima. Che cosa potevamo fare? Niente, se non aspettare che arrivasse Duscha. Arrivò nel tardo pomeriggio. Bella, raffinata ed elegante come sempre, ma con gli occhi rossi e gonfi. Frederich le aveva mandato un telegramma lungo come una lettera, il che era una prova, disse, di quanto dovesse star male. Se n’era andato con quel demonio, inutile cercarli, avrebbero lasciato Parigi. Lui avrebbe sempre amato il suo angelo ma la loro felicità era rovinata per sempre. Lei doveva andare ad avvertire le buone signore, le avrebbero pagato quello che gli dovevano, tre settimane e sei giorni di salario, e con quei soldi avrebbe dovuto comprarsi una frivolité come ultimo souvenir del suo innamoratissimo Frederich.
Mentre leggevo il telegramma, Duscha singhiozzava delicatamente in un delizioso fazzolettino bianco. L’accompagnai in salotto e la lasciai in compagnia di Gertrude Stein, mentre preparavo il tè. Quando mi vide arrivare con il vassoio, mi venne incontro di corsa. Ripose subito il fazzoletto, bevve tranquillamente parecchie tazze di tè e mangiò gli ultimi perfetti dolci viennesi preparati da Frederich, che non avremmo mai più gustato. E adesso che cosa farai, chiedemmo a Duscha. Continuerò a lavorare per la buona principessa, lei capirà. Quando non avrò più gli occhi rossi e avrò dimenticato il dolce debole Frederich ricomincerò a vivere. Le diedi i soldi del salario del suo amante infedele. Lei mi ringraziò e si mise a contarli. Con un sospiro e un singhiozzo piegò con cura le banconote e le ripose nella borsetta. Facci avere tue notizie, le dissi quando se ne andò.
Non ne avemmo per settimane, poi ricevemmo una partecipazione di nozze. In Francia le partecipazioni hanno il nome della famiglia della sposa a sinistra, e quello della famiglia dello sposo a destra. La famiglia di Duscha, da un lontano e impronunciabile villaggio in Austria, aveva l’onore eccetera eccetera e poi la famiglia dello sposo, due nonne e un nonno, i genitori, i fratelli, le sorelle, il tutto cosparso di medaglie al valore e Légions d’Honneur e titoli onorifici, annunciava il matrimonio del figlio con Duscha. Era entrata a far parte di una famiglia della buona borghesia e non avrebbe avuto più niente da temere.

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sabato 15 novembre 2014

27, rue de Fleurus




L’annuale blitz a Parigi è ormai alle spalle.
Sono rientrato con tante fotografie e un nuovo piacevole ricordo: lo scorso 6 novembre, attraversato il giardino del Lussemburgo, ho preso in direzione di rue de Fleurus, dove al civico 27 vi era la residenza dei fratelli Leo e Gertrude Stein, poi diventava la casa matrimoniale (Leo se n’era andato nel 1913) di Gertrude e di sua “moglie” Alice Babette Toklas.
Un’attrazione fatale, la mia, verso questo portone, con la lapide che ricorda il tempo che fu. Un portone varcato da tutta l’intellighenzia dei primi decenni del secolo scorso e dove, in una dependance isolata, separata dalle stanze da letto, i fratelli Stein prima, Gertrude e la Toklas dopo, tenevano appesi al muro i loro Cézanne, Matisse, Renoir, Picasso e altre future ricchezze economiche portate a casa per pochi soldi e …che mai nessuno pensò di rubare, tanto erano incompresi.
E poi le serate con Hemingway e tutti gli scrittori della sua generazione, che non era di certo “perduta”, frase della Stein sempre raccontata in maniera equivoca dai troppi che scrivono senza saper leggere e dai taglia-incolla di mestiere.
Ma ogni volta, arrivato davanti al portone non potevo far altro che scattare l’immancabile “nuova” fotografia e andarmene in cerca di altri ricordi.

La mattina del 6 tutto cambia: mentre sono pronto all’ennesimo scatto ecco arrivare un’auto che si ferma in mezzo alla strada e davanti al portone. Ne scendono due donne in tenuta da imbianchino e rapide prendono a scaricare i pesanti recipienti del colore, appoggiandoli al muro.
Mentre una delle due continua a scaricare il veicolo, l’altra pigia un tasto del citofono, si presenta, le aprono.
Rapido m’infilo nell’apertura del cancello, ritrovandomi nell’androne d’ingresso e davanti ad un armadio muscoloso con tanto di distintivo “da sceriffo” sul petto.
Profilo basso e subito provo a chiedergli il permesso di poter guardare dalla vetrata di fondo il giardino agognato, ma proprio in quel preciso istante il muscoloso guardiano ha cose più importanti da fare: si porta all’orecchio il cellulare e inizia a parlare.
Nello stesso istante vedo uscire da una porta laterale una giovane donna: punto su di lei, le dico che sono uno scrittore (ehm ehm) e che intendo scrivere della Stein e dei suoi amici artisti.
La ragazza sorride e mi risponde: lei parla inglese?
Ripeto la richiesta nella lingua voluta, chiedendo la cortesia di poter accedere al mitico giardino.
“Perché no?” risponde lei, aprendomi la porta del desiderio.
Ed eccomi li, tutto solo, davanti alla casa e al salone a suo tempo preso in affitto dagli Stein - però i quadri adesso sono ben custoditi in un museo di New York.
Scatto un po’ di foto, poi mi decido a lasciare quel luogo a lungo sognato.
Un breve momento di gioia che è valso tutto il viaggio.

Ripresomi, ho deciso che quello doveva continuare ad essere un giorno speciale, in cui potevo strafare, ed ho subito ripreso a camminare sulle orme di Camille Claudel, di Picasso, di Joyce e (irrinunciabile) di Hemingway, regalandomi un meritato riposo al tavolino de L’Époque, una piccola ed economica trattoria dirimpettaia al 74 di rue du Cardinal Lemoine, la prima casa parigina di Ernest.

E poi via, verso la stanza dove morì Paul Verlaine, locale in seguito affittato da Hemingway per farne il suo studio di lavoro.
Di certo non poteva mancare il consueto giro tra i librai di strada, dove ho trovato alcune biografie su Picasso, prime edizioni da me inutilmente cercate su internet, portate a casa per pochi euro ciascuna.
Una giornata piena, vissuta con gioia, come dovrebbero essere tutte. Sempre.

PS: qui sotto ho inserito alcune fotografie depoca, riprese da internet o da libri di mia proprietà, utili a ricostruire l'avvicendarsi (o il diminuire, dopo la partenza di Léo) delle tele appese alle pareti.


© Testo e fotografie di Giancarlo Mauri

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Jardin du Luxembourg



27, rue de Fleurus





Lo stesso angolo in tre scatti: 1905 (con Leo Stein),
dopo il 1920 e 2014








Alice B Toklas e Gertrude Stein, by Man Ray, 1922

Alice B Toklas e Gertrude Stein, by Man Ray, 1922
Place de la Contrescarpe

74, rue du cardinal Lemoine
La prima casa di Hemingway a Parigi vista
dal numero 81 di rue du cardinal Lemoine

 Paul Verlaine ed Ernest Hemingway hanno coabitato,
in tempi diversi, la stessa stanza