Come
di consueto, ogni anno passo almeno una settimana en flanand per le strade di Parigi, sulle tracce di pittori, scultori,
scrittori, poeti e altra genìa sparsa, con un indirizzo d’obbligo: 27, rue de
Fleurus.
Anche
quest’anno la fortuna mi è stata amica: il mio arrivo a questo indirizzo è
coinciso col sopraggiungere della stessa signora che un anno fa mi aveva autorizzato ad entrare nel giardino.
“Dopo l’uscita di Midnight in Paris di Woody Allen”, mi dice la mia ospite, “gli americani sono arrivati a frotte,
ma di italiani interessati a questo indirizzo ricordo solo lei”. Sarà.
Ho
scattato nuove immagini, ho letto altri libri e altri articoli, quasi sempre
pubblicati oltre oceano.
Com’è noto, non amo rubare il lavoro altrui: se altri hanno scritto prima di
me su di un argomento, trovo giusto cedere loro il passo piuttosto che scimmiottare
con mie parole quanto letto altrove.
E
qui userò lo stesso metodo, facendo precedere le mie immagini da un brano estratto da The Alice B. Toklas Cook Books, scritto
a Parigi nel 1954.
In
Italia, questo libro è reperibile in più edizioni, con titoli ed editori
diversi:
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
Fatto
curioso, le due traduttrici hanno consegnato alle stampe due testi praticamente
identici, eccezion fatta per rari e poco significativi dettagli.
E
adesso cedo il passo ad Alice Babette Toklas, la “mogliettina” factotum di Gertrude Stein.
Piatti
per artisti
Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di
cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus,
la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne
aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto
la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i
semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin
Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di
mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette
la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di
preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento
mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con
un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se
preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutte
tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a
poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava
allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di
nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore
l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai
seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva
piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come
su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che
trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere
ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava
quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.
~
Branzino Picasso ~
Preparai
un court-bouillon di vino bianco
secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una
cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes. Feci bollire il tutto per
un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla
gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo
per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon. Poi lo scolai, lo
asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il
pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere
piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli
orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate
al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.
Mi
sentii orgogliosissima del mio capolavoro, e quando lo servii Picasso diede in
esclamazioni di meraviglia. Poi aggiunse: Non sarebbe stato meglio prepararlo
in onore di Matisse invece che mio?
Picasso seguì per parecchi anni una dieta molto rigida; in effetti
riuscì chissà come a non sgarrare neppure durante la guerra mondiale e
l’occupazione. Si rilassò soltanto dopo la liberazione. Tipico no? La carne
rossa gli era proibita, ma questo non era un problema perché in quei giorni i
francesi servivano molto raramente carne di manzo, con l’eccezione
dell’inevitabile filetto alla sauce
Madère. Nemmeno il pollo era tenuto in grande considerazione, mentre il
cosciotto di agnello arrosto era visto con maggior simpatia. Oppure gli
servivamo del tenero lombo di vitello preceduto da un soufflé di spinaci, dato che il medico gli aveva raccomandato di
mangiare molti spinaci e il soufflé
era il modo meno insipido di presentarli. Si poteva rendere più appetitoso con
l’aggiunta di una salsa. Il problema era quale salsa Picasso potesse mangiare
nonostante la dieta. Gli davo una scelta. Cuocevo il soufflé in uno stampo ben imburrato immerso in un recipiente di
acqua bollente. Quando era cotto al punto giusto lo sistemavo in un piatto da
portata sul cui bordo disponevo eguali quantità di salsa hollandaise, salsa alla panna e salsa di pomodoro. La mia speranza
era che i colori delle salse riuscissero a far sembrare meno antipatico il soufflé di spinaci. Un dilemma crudele,
disse Picasso quando gli venne servito il soufflé.
[…]
Parecchie volte ho avuto la tentazione di uccidere una cuoca stupida o
ostinata, ma di solito mi limitavo a immaginarlo, la fantasia sostituiva
l’omicidio effettivo. Poi venne da noi a lavorare un allegro, incantevole
austriaco. Era un cuoco perfetto. Svelto e silenzioso, Frederich, lo chiamerò
così, cucinava per noi i piatti più sofisticati e complessi, non si spaventava
davanti a nulla. Ci preparava gelati in piccoli recipienti a forma di uovo che
disponeva su nidi di zucchero filato colorato. Adorava preparare torte a forma
di oggetti diversi per ciascuna persona, a seconda della sue caratteristiche:
di libro per Gertrude Stein, di rosa per sir Francis Rose, di pavone per
un’amica molto vanitosa e di cagnolino per me. Riceveva di continuo le visite
di una ragazza molto graziosa, Duscha, che sembrava uscita direttamente da
un’opera di Offenbach. Io e Gertrude Stein li adoravamo. A Natale chiedemmo
loro di accettare, fra gli altri doni, una cena innaffiata di champagne
in un ristorante di loro gusto per il tradizionale réveillon. A poco a poco Frederich cominciò a confidarsi con me. La
sua vita non era più felice come una volta. All’inizio c’era solo la sua
fidanzata Duscha, il suo angelo, ma adesso ce n’era un’altra, un demonio, che
voleva sposarlo, e minacciava di ucciderlo se si fosse rifiutato. Ci raccontò
che lui e Hitler erano nati nello stesso villaggio e che tutti in quel
villaggio erano simili tra di loro e molto particolari. Eravamo nel 1936 e
ormai sapevamo benissimo che Hitler era davvero un po’ strano. Frederich,
d’altra parte, non era tanto strano quanto debole, amante del vino, delle donne
e della musica. Ma continuava a essere un cuoco perfetto. Per parecchi anni
aveva lavorato nel ristorante di Frau Sacher e spesso ci preparava la famosa Sacher
Torte.
[…] Un pomeriggio, mentre io e Gertrude Stein stavamo tornando a
casa, vedemmo una persona uscire dalla nostra porta nel cortile. Era una donna
dagli occhi neri, piccoli e brillanti. Il demonio, disse Gertrude Stein.
Probabilmente, risposi. L’occhiata che le avevo dato bastò a riempirmi di
preoccupazione per Frederich. Volevamo che fosse felice e che restasse a
cucinare per noi. Più tardi andai a trovarlo in cucina. Era seduto al tavolo,
la testa nascosta tra le braccia. Quando mi vide sussultò. Che cosa c’è, gli
chiesi. Il demonio, Madame, il demonio è venuto a trovarmi e mi ha portato in
dono una bottiglia di preziosissimo Tocai. Voleva avvelenarmi, uccidermi. Ha
versato un bicchiere di vino e me l’ha dato. Proprio mentre stavo per bere alla
sua salute mi sono accorto che non aveva versato da bere per sé, il suo
bicchiere era vuoto, e che non aveva tolto il tappo con il cavatappi. Voleva
avvelenarmi. Le ho buttato addosso la bottiglia. L’ho strattonata. L’ho buttata
fuori. Oh, Madame, quel demonio riuscirà a farlo, riuscirà a uccidermi. Lo
mandai in camera sua.
La mattina dopo non trovai Frederich in cucina. Verso mezzogiorno
chiesi alla concierge di salire nella
sua stanza per vedere che cosa fosse successo. Tornò dicendo che la porta era
aperta e la stanza vuota, c’era solo un baule legato con delle cinghie. Non
aveva visto Frederich, quella mattina, ma la signora coi capelli scuri era
andata a trovarlo un paio d’ore prima. Che cosa potevamo fare? Niente, se non
aspettare che arrivasse Duscha. Arrivò nel tardo pomeriggio. Bella, raffinata
ed elegante come sempre, ma con gli occhi rossi e gonfi. Frederich le aveva
mandato un telegramma lungo come una lettera, il che era una prova, disse, di
quanto dovesse star male. Se n’era andato con quel demonio, inutile
cercarli, avrebbero lasciato Parigi. Lui avrebbe sempre amato il suo angelo ma
la loro felicità era rovinata per sempre. Lei doveva andare ad avvertire le
buone signore, le avrebbero pagato quello che gli dovevano, tre settimane e sei
giorni di salario, e con quei soldi avrebbe dovuto comprarsi una frivolité come ultimo souvenir del suo
innamoratissimo Frederich.
Mentre leggevo il telegramma, Duscha singhiozzava delicatamente in
un delizioso fazzolettino bianco. L’accompagnai in salotto e la lasciai in
compagnia di Gertrude Stein, mentre preparavo il tè. Quando mi vide arrivare
con il vassoio, mi venne incontro di corsa. Ripose subito il fazzoletto, bevve
tranquillamente parecchie tazze di tè e mangiò gli ultimi perfetti dolci
viennesi preparati da Frederich, che non avremmo mai più gustato. E adesso che
cosa farai, chiedemmo a Duscha. Continuerò a lavorare per la buona principessa,
lei capirà. Quando non avrò più gli occhi rossi e avrò dimenticato il dolce
debole Frederich ricomincerò a vivere. Le diedi i soldi del salario del suo
amante infedele. Lei mi ringraziò e si mise a contarli. Con un sospiro e un
singhiozzo piegò con cura le banconote e le ripose nella borsetta. Facci avere
tue notizie, le dissi quando se ne andò.
Non ne avemmo per settimane, poi ricevemmo una partecipazione di
nozze. In Francia le partecipazioni hanno il nome della famiglia della sposa a
sinistra, e quello della famiglia dello sposo a destra. La famiglia di Duscha,
da un lontano e impronunciabile villaggio in Austria, aveva l’onore eccetera
eccetera e poi la famiglia dello sposo, due nonne e un nonno, i genitori, i
fratelli, le sorelle, il tutto cosparso di medaglie al valore e Légions d’Honneur e titoli onorifici,
annunciava il matrimonio del figlio con Duscha. Era entrata a far parte di una
famiglia della buona borghesia e non avrebbe avuto più niente da temere.
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