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venerdì 13 maggio 2016

Hemingway e Picasso visti John Dos Passos (2 di 4)

1927 - Hemingway a Gstaad

John Dos Passos
La bella vita
Titolo originale: An informal memoir
The Best Time
The New American Library Inc., 1966
Traduzione di Lina Angioletti
Aldo Palazzi Editore, Milano 1969
pp. 212-223

[…] In ogni caso, gli americani negli anni Trenta erano alla moda, in Europa. Dollari, grattacieli, jazz, tutto ciò che veniva da Oltreatlantico, aveva un che di romantico. La pittura di Gerald, quando i suoi quadri furono esposti a Parigi, sembrò l’epitome dello chic di Oltreoceano.
Non passò molto che Gerald e Sara dovettero prendere una posizione di difesa contro l’assalto della società bene francese. Infatti essa preferiva i pittori agli uomini di lettere, tanto pignoli. Léger - che aveva il dono di fare di tutto ciò che vedeva o gustava o udiva, una sua personale composizione - era il loro preferito, come del resto era il mio; Sara divenne anche amica di Picasso.
Picasso era un uomo piccolo, chiuso e bruno. Non aveva nulla dell’estroversione spontanea che fa in genere, degli spagnoli, gente con cui ci s’incontra facilmente. Era sarcastico, cinico, stile contadino spagnolo: il cinismo di Sancho Panza. Mi sembrava impenetrabile perfino nei momenti di distensione e di allegria. Era il maestro costruttore, il muratore, l’artigiano. Era l’intelligenza incarnata. Gli mancava l’umanità. I greci lo avrebbero chiamato deinos[1] come avevano chiamato Ulisse. Non era possibile avvicinare né l’uomo né la sua opera - l’uomo e l’opera erano inseparabili - senza provare una profonda ammirazione per i suoi gesti eleganti, per la sagacità delle sue dita, la precisione del suo colpo d’occhio; se avesse avuto il dono della compassione, sarebbe stato grande come Michelangelo.
Hemingway si lasciò sedurre anche lui da un viaggio ad Antibes, ma non ricordo se ci incontrammo; forse io non ero là in quel momento. So però che non si sentì a suo agio, nonostante volesse bene a Sara Murphy. I pescatori sembra che non provino piacere a nuotare. Deve aver giudicato piuttosto idiota farsi arrostire al sole sulla spiaggia. Per stare bene a Villa America bisognava entrare a far parte del rituale che era stato inventato da Gerald. Hem era già troppo uomo-spettacolo per poter prendere parte alla sciarada di un altro.
Hem a quel tempo era una figura in vetta al Walhalla della Parigi letteraria. Ford Maddox Hueffer tentò di averlo con sé alla redazione del «Transatlantic Review». Era amico di Pound. Andava a cena con Joyce. Era stato adottato da Gertrude Stein. Pensava a un libro per l’editore Querschnitt, di tauromachia, che Picasso avrebbe illustrato.
Una delle cose che ci aveva uniti era il nostro entusiasmo per tutto quanto riguarda la Spagna. Molte delle mie permanenze a Parigi furono in transito da o per la Spagna. Hem e Hadley s’erano fermati a Vigo, quando avevano accompagnato per la prima volta Bumby in Europa, e giunsero a Parigi con stupendi ricordi di Compostella, delle Asturie e dei Paesi Baschi. La mania di Hem per la Spagna giunse al suo culmine quei giorni torridi di agosto, quando per la prima volta partecipò alla Fiesta di San Firmino a Pamplona.
Io non ero a Pamplona l’anno delle prime grandi festività che diedero a Hem l’idea di scrivere Il sole sorge ancora, ma v’ero l’agosto dopo. Eravamo tutti all’Hotel La Perla.
Tutti guardavamo Hem. V’era un’inglese titolata, incallita, che fra di noi chiamavamo Duff. Hadley era ancora sposata con Hem, ma io ebbi l’impressione che le piccole Pfeiffer, Pauline e Jinny facessero parte del gruppo. V’era un ufficiale dell’esercito inglese che chiamavamo Chink. V’era Don Stewart: e anche Bill Bird e sua moglie e un loro giovane amico che si chiamava George O’Neill. V’era anche Robert McAlmon.
I Bird erano simpatici, anche se erano degli espatriati, ma McAlmon non riusciva a piacermi. V’era su di lui un che d’ambiguo; e il fatto che io pensassi di lui che era un avventuriero mi faceva provare un po’ di vergogna. Può anche darsi che vi fosse Harold Loeb. E forse v’era altra gente.
Dopo aver letto il romanzo, non so più bene quali siano gli eventi realmente vissuti che Hem incluse e quali abbia inventato. Fu come un viaggio organizzato da Cook, con Hem maestro di cerimonia. Le feste di San Firmino sono qualcosa di terrificante. Bande, processioni, corride. L’arrivo dei tori, la loro cattura, le galoppate attraverso le strade. Ogni piazza piena zeppa di agili paesani che ballano in berretto blu. Da ogni vicolo i ritmi dei pifferi e dei tamburi baschi, il belato delle cornamuse galiziane o il clangore delle nacchere. Ogni gruppetto si portava il suo otre di vino. Per quanto ricordo, l’esuberanza però non superava mai certi limiti. Le buone maniere fra gente che crede nella dignità umana sono una questione di vita o di morte. Tutti dovevano essere muy hombres con i tori. Gli si correva incontro, quando venivano condotti all’arena: si tentava di entrare nel recinto, quando venivano esaminati dagli incaricati; al momento della capea i tori venivano lasciati al pubblico, che invadeva il recinto. Erano tori giovani, e non fra i più feroci. Ma quando venivano circondati da una folla di giovanotti navarrini che li provocavano con i giubbotti e con i fazzoletti reagivano talvolta con inaudita violenza. Parecchi giovani furono feriti, senza però che alcuno, quell’anno, fosse ucciso.
Fare mostra della mia insipienza intorno all’etica taurina, in una pista di tori piena di navarrini agilissimi ed esperti, non era esattamente ciò che consideravo un pomeriggio piacevole. Ma Hem voleva essere presente fra gli aficionados. I suoi compatrioti americani si facevano pure un punto di onore di mostrare il loro entusiasmo. L’ironia fu che, dopo aver apertamente respinto tutta la faccenda, mi trovai faccia a faccia con un toro. Aveva appena saltato la barriera e stava caricando lungo il corridoio sul lato opposto. Ci guardammo negli occhi. Ci lasciammo perdere. Mi arrampicai rapidamente sul marciapiede del muro di cinta ed entrai in prima fila fra gli spettatori. Raccontai che andavo cercando un punto elevato dal quale prendere i miei soliti schizzi.
Ci divertimmo, mangiammo bene, bevemmo bene, ma nel gruppo v’erano troppi esibizionisti perché la situazione fosse di mio gusto. La vista di una folla di giovanotti che tentano di dare prova tangibile di quanto siano hombres mi dava sui nervi. Potevo divertirmi, di tanto in tanto, a una corrida, prendendola come uno spettacolo, ma ogni giorno, per una settimana, era troppo.
Per Hem la cosa era diversa. Egli aveva una enorme possibilità di concentrazione su qualsiasi cosa lo interessasse nel momento. Fosse la Sei Giorni di bicicletta, o una corrida, lo sci o la pesca alla trota, si buttava a corpo morto.
Si attaccava come una sanguisuga fino a che l’esperienza gli fosse entrata tutta nel sangue. Entrava nella confidenza dei professionisti del luogo e si saturava delle loro sensazioni, fino al punto di accensione. Eccetto che nel caso di qualche scienziato, che ho visto perseguire fino all’esaurimento un esperimento difficile, non ho mai conosciuto alcuno che possedesse una tale facoltà di assorbimento. Talune delle migliori opere di Hemingway sono nate da questa qualità. Quando ha descritto il lavoro del matador in Morte nel pomeriggio sapeva bene ciò di cui parlava.
Gli spagnoli erano simpatici, io ero fedele a Hem e a Hadley, ma non avrei sopportato la parte americana di quella folla se non vi fosse stata una certa giovane donna. Stavo scoprendo la verità del detto di Ben Franklin: «Un uomo e una donna sono come un paio di forbici; nessuna delle due parti è utile, senza l’altra.» Avevamo costruito una specie di nicchia privata, dalla quale guardavamo quell’andirivieni, partecipando agli avvenimenti, senza però subirli. [...]

Durante l’autunno precedente, oppure durante il seguente, non ricordo bene, Hem mi lesse Torrenti di primavera. Cominciò un pomeriggio d’autunno, col sole rosso, alla Closerie de Lilas. Certe parti erano davvero buffe, soprattutto quando introduce nell’azione del libro l’indiano del Michigan - Hem aveva la mania degli indiani - ma per altri lati, mi metteva in imbarazzo. Io m’ero a suo tempo prodigato per convincere Horace Liveright a pubblicare in America In Our Time, e sembrava ora che Hem volesse ritenermi in parte responsabile di un contratto tutt’altro che conveniente, che egli firmò, concedendo a Liveright opzione su un certo numero di opere future.
Scott, che vantava pretese di talent scout, ed era disinteressatamente generoso con altri scrittori, stava dandosi da fare come un demonio per convincere Max Perkins a prendere Hemingway da Scribner.
Scott aveva per Hem una specie di capriccio letterario: per lui era lo stilista sportivo, il pugile narratore. Una sera, parlando di Hem, fummo d’accordo nel pronosticargli il destino di un Byron dei nostri giorni. Scott aveva ragione. L’editore che andava bene per Hem era Scribner, ma come disfarsi del contratto con Liveright?
Io non ho mai capito bene che cosa abbia inteso fare Hem col Torrenti di primavera. Aveva deliberatamente scritto delle cose che Liveright, nella sua veste di amico e editore di Sherwood Anderson, non avrebbe per nessun motivo al mondo voluto pubblicare, o questo libro era il risultato dello scherzo malvagio di un ragazzo senza cuore? Senza dubbio, quando me lo ha letto a voce alta, ho riso; ma ho fatto del mio meglio per convincerlo a non pubblicarlo, per lo meno subito. Gli dissi che per reggere come parodia non era uno scritto sufficientemente buono, e che, d’altra parte, In Our Time era stato un libro tanto maledettamente ben riuscito che era meglio, per una nuova pubblicazione, aspettare di avere qualcosa di veramente eccezionale da mettergli a confronto.
Quella sera convenne con me volentieri che Sherwood Anderson sarebbe stato l’ultimo uomo al mondo di cui avrebbe voluto urtare la suscettibilità. Sherwood era stato molto gentile con Hem, quando da ragazzo aveva lavorato a Chicago, e tutti e due sapevamo bene come egli fosse, perfino infantilmente, sensibile. Ero d’accordo con Hem nel ritenere Dark Laughter un libro sentimentale e sciocco, e che era pur necessario che qualcuno glielo facesse notare, ma ritenevo che quel qualcuno non dovesse essere Hem. Hem aveva un modo molto indisponente di mettersi d’improvviso, nel bel mezzo della conversazione, a canterellare. Quando, quella notte, ci separammo, ero convinto di averlo dissuaso dalla pubblicazione del Torrenti. Può darsi che questo non fosse affar mio, però in quei giorni gli amici erano amici. Ma la cosa non andò come io avevo creduto.[2]

Gli ultimi giorni belli che Hem, Hadley ed io passammo in Europa, furono quelli di Schruns, nel Vorarlberg austriaco. Avevano scoperto lo sport dello sci l’inverno precedente a Schruns. Gerald e Sara s’unirono a noi. Tutto costava incredibilmente poco. Eravamo in un grazioso hotel vecchio stile, con stufe in maiolica, che si chiamava Taube. Mangiavamo «forellen im blau» e bevevamo kirsch caldo. Il kirsch era tanto abbondante che ce ne davano per frizionarci, quando rientravamo dalle escursioni sulla neve.
Allora si sciava secondo la natura dei luoghi. Per le salite ci servivamo delle pelli di foca. La grande escursione conduceva, attraverso un vasto campo di neve al di sopra della città, fino alla Madlener Haus. Era una specie di club sciistico, un rifugio, con fuochi scoppiettanti e cibo caldo. La gente era cortesissima. Tutti ti dicevano: «Griiss Gott» quando t’incontravano. Sembrava di vivere in una cartolina di Natale dei vecchi tempi. Hem si era dato allo sci anima e corpo. Faceva esercizio senza posa. Doveva essere il più abile. Gerald era un tipo di perfezionista anche lui, ma diverso. Si stabilì fra loro una gara, chi dei due sarebbe diventato in quattro giorni uno sciatore completo. Erano ben buffi tutti e due.
Credo di essermi divertito molto più di tutti, perché, fin dal primo giorno, capii che non ne avrei cavato niente. Troppo terribilmente maldestro. Soffiando e sudando, con le mie pelli di foca, salivo in vetta per godermi di lassù il bel panorama. Non faceva troppo freddo.
Al sole faceva caldo. Le montagne coperte di neve proiettavano ombre azzurrine e purpuree. Bisognava essere prudenti perché, nel pomeriggio, si correva rischio di valanghe. Ne vidi una, sulla nostra pista, mentre scendevamo dalla Madlener Haus e m’impressionò molto. Salendo mi sentivo bene, ma scendendo dovevo ricorrere a tattiche personali perché non sono mai riuscito a curvare. Il meglio che potevo fare era cadere. Quando la discesa era troppo ripida, sedevo sui miei sci e li usavo come una specie di toboga. Quando, al rientro a Schruns, fu scoperto che il fondo dei miei pantaloni era consumato fino a essere liso, ne sentii di tutti i colori. Ai pasti non riuscivamo neppure a mangiare dal gran ridere che si faceva. In quella settimana passata a Schruns ci prendevamo in giro a vicenda, tutti. Mangiammo una gran quantità di trote, bevemmo vino e birra e dormimmo come ghiri sotto i grandi piumini. Eravamo fratelli e sorelle quando ci lasciammo. Fu un vero choc sapere, qualche mese più tardi, che Ernest e Hadley s’erano separati. Quando si vuol bene a una coppia si vorrebbe che non si dividesse mai.




[1] NOTA di GCM: Persona che incute timore.
[2] Per approfondimenti rinvio al mio post Hemingway a Parigi



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1926 - The Torrents of Spring

1927 - Fiesta

1930 - The Sun Also Rises

1930 - The Sun Also Rises

1932 - Death in the Afternoon

1932 - In Our Time

1944, gennaio - E il sole sorge ancora

1946 - Fiesta

1951 - Torrenti di primavera

1961 - Morte nel pomeriggio

I coniugi Hemingway e Dos Passos sugli sci

John Dos Passos, Joris Ivens, Sidney Franklin, Ernest Hemingway a Madrid





mercoledì 18 novembre 2015

27, rue de Fleurus raccontato da Dan Franck


Quale terzo e ultimo (?) capitolo della saga “27, rue de Fleurus” - e supponendo sia ben nota a tutti  l’Autobiografia di Alice Toklas, Einaudi editore, molte riedizioni -, qui propongo la lettura di altri due libri che in modo o nellaltro riportano  a quell’indirizzo.
Uno è Montmartre & Montparnasse. La favolosa Parigi d’inizio secolo di Dan Franck, traduzione dal francese di Antonia Tadini Perazzoli, Garzanti Libri 2012, da cui ho estratto (e qui sotto propongo alla vostra attenzione) le pagine da 127 a 132.
Il secondo ha per titolo Gertrude Stein. In Word and Pictures edited by Renate Stendhal, Algonquin Books of Chapel Hill, 1994, with 360 photographs - reperibile via Amazon e da cui ho ripreso le pagine con le immagini fotografiche dello studio che fu dei fratelli Stein, prima, di Gertrude e Alice B Toklas poi.


 Un pomeriggio in rue de Fleurus

Rue de Fleurus, numero 27. Una casa a due piani, un atelier attiguo. La casa è costituita da alcune camere, una stanza da bagno, una cucina dove si mangia. L’atelier è una grande stanza con mobili rinascimento italiano tirati a cera, una stufa, due o tre tavoli ingombri di fiori e di porcellane, un caminetto, una croce massiccia tra due finestre, pareti tirate a calce, completamente ricoperte di quadri: Gauguin, Delacroix, Greco, Manet, Braque, Vallotton, Cézanne, Renoir, Matisse, Picasso. E altri.
Non siamo in un museo. E poiché in quel momento la maggior parte di quei quadri non vale molto, la porta dell’atelier si apre con una sola chiave; una di quelle chiavi americane piatte che si infilano in tasca e che sono così diverse da quelle appendici enormi e tintinnanti che risuonano nei cappotti dei parigini.
Gli Stein abitano qui. Ricevono ogni sabato. Tavola imbandita, o quasi. Per avere il diritto di entrare, basta rispondere alla domanda rituale della padrona di casa, «Chi la manda?», con il nome di un artista le cui opere sono esposte in casa.
Si entra allora nel grande studio dove si accalca una folla disparata: pittori, scrittori, poeti, borghesi… Una volta alla settimana, dagli Stein, si mangia e si beve, cosa che, per quei tempi di vacche magre, viene molto apprezzata. Tanto più che per poco che ci si interessi all’arte contemporanea, la compagnia è delle più gradevoli.
L’uomo che parla là in fondo, le dita nelle tasche del gilé, circondato da una folla di ammiratori che gli fanno da spalla, è Guillaume Apollinaire. Inutile tentare di gareggiare con lui: sa tutto di tutto, e vince sempre. Miss Stein, sempre tanto sicura di sé, ammette di averla avuta vinta con lui una sola volta, e solo perché il poeta era ubriaco.
L’uomo robusto dall’aria indifferente che sta davanti al camino è Braque. È scontento perché una delle sue opere, appesa sopra il camino, si scurisce per via del fumo. E anche i due acquerelli di Cézanne appesi ai lati si stanno scurendo. Braque brontola pensando che la prossima volta che sarà chiamato ad appendere i quadri (siccome è il più alto, tiene il quadro mentre il portiere infila il chiodo) chiederà di essere spostato. E gli spiace di non aver detto niente in occasione dell’ultimo pranzo. Ma ha una scusa: a tavola, ogni pittore è seduto davanti alle proprie tele, di fianco ai colleghi: in queste condizioni è difficile criticare.
Quella sera, era seduto vicino a Picasso. Come sua attitudine, non diceva una parola. Detestava la mondanità e aveva difficoltà a parlare in francese. Aveva ironizzato sul professor Matisse, tanto abile a dissertare.
Picasso, oggi, è nelle stesse condizioni di spirito del suo compagno della rue d’Orsel: furibondo. Ha scoperto che due suoi quadri, appesi alla parete, hanno cambiato aspetto e luccicano come non dovrebbero: Gertrude li ha fatti verniciare. Quella donna, decisamente, ama tutto ciò che brilla.
Max Jacob cerca di fare ragionare l’amico. Ci riuscirà a fatica: Picasso non se ne andrà ma non rimetterà più piede in rue des Fleurus per diverse settimane.
Mentre sta cercando con gli occhi Fernande, uno sconosciuto gli si avvicina e indica il quadro che il pittore ha terminato dopo il soggiorno a Gósol: «È Gertrude Stein?»
«Sì».
«Non le assomiglia...».
Picasso si stringe nelle spalle: «Non importa: è lei finirà per assomigliargli».
Fernande parla con una donna piccola vestita di grigio e nero. È giovane, ostenta orecchini di vetro, ma la sua voce, molto bassa, e le maniere severe la fanno sembrare più vecchia. Spesso la si scambia per la cameriera, vedendola conversare con Fernande Olivier, si potrebbe credere che lo sia. È lì e nello stesso tempo altrove. Ascolta senza sentire. Molto dipendente da Miss Stein, di solito non dà molto valore alle chiacchiere di madame Picasso, che la padrona di casa è solita prendere in giro duramente: «Parla di tre cose, e solo di tre cose: di cappelli, di profumi e di pellicce».
Ma non questa volta. Stanno parlando delle lezioni di francese che Fernande potrebbe dare ad Alice Toklas. Mentre risponde alle domande che le pone la sua futura professoressa, l’americana tiene d’occhio la situazione: chi beve, chi non beve, chi mangia, dove sono i pasticcini, se ne mancano, perché Miss Stein non c’è ancora, la si ascolterà con sufficiente attenzione, non dovrà intervenire per allontanare gli importuni che potrebbero turbare le battute che la scrittrice mecenate scambierà obbligatoriamente con l’artista professore, Monsieur Matisse? E Brancusi, che si sta avvicinando, non turberà l’armonia della conversazione?
Alice Toklas venera la sua padrona e amica al punto di aiutarla a sviluppare le innumerevoli sfaccettature che compongono la rarità della sua persona. Gertrude pensa di essere un diamante letterario. Si crede il genio innovatore della letteratura mondiale. La Picasso della letteratura. Alice glielo fa credere. È il suo ruolo principale. Oltre a quello di dattilografare le sue opere.
Miss Stein è appena apparsa sulla porta dell’atelier, indossa un abito di velluto marrone che le strizza la vita e cinge le spalle con un collare da cui sfuggono indisciplinati cuscinetti di grasso. Per proteggersi dal freddo indossa spessi calzerotti di lana che ha infilato a forza nei sandali a laccetti che scricchiolano sul parquet incerato.
Con un’occhiata Miss Stein si assicura che tutti gli ospiti abbiano notato il suo arrivo. Soddisfatta, tende un fascio di fogli manoscritti a Miss Toklas e le chiede di batterli, interlinea 2, sulla Underwood. Poi sospira e dice che scrivere è un’attività terribilmente deprimente. Ma la fortuna le sorride: ha appena spedito un testo meraviglioso a una rivista di New York che ha avuto l’onore di pubblicarne tre dall’inizio dell’anno.
Si dirige verso il grande quadro dipinto da Picasso e si siede sotto il proprio ritratto. Subito Henri Matisse e signora, Robert Delaunay, Maurice de Vlaminck, le si fanno intorno.
Gertrude Stein è il direttore d’orchestra di queste riunioni d’artisti e si compiace di questo ruolo. Seduta sotto il suo ritratto come Luigi XI sotto il suo albero, dispensa commenti con autorevolezza, lanciando sguardi da contadina infuriata su chi la interrompe. Gertrude non sopporta gli scrittori che non ammirano le poche novelle che ha pubblicato su giornali americani, né i pittori quando non le sono devoti, lei che è la loro benefattrice materiale e morale. A coloro che rifiutano di frequentare i Salons ufficiali, Gertrude Stein offre un posto per esporre le proprie opere, e questo consente loro di essere conosciuti e riconosciuti. Così Picasso. E Matisse a chi lo deve se ora può mangiare a sazietà, se non a lei?
Gertrude Stein ama molto i Matisse. Quando va a casa loro, sul quai vicino a Saint-Michel, è sempre piacevolmente sorpresa dall’ordine che vi regna. Picasso è la bohème, Matisse la povertà elegante. Si mangia poco sia dall’uno sia dall’altro, ma sulla rive gauche almeno si salvano le apparenze. Madame Matisse sa cucinare il ragù di manzo con cipolle. È totalmente votata alla causa del marito. Un giorno Matisse l’ha fatta posare travestita da zingarella, con la chitarra in mano. Si è addormenta e lo strumento è caduto. Avevano giusto quel poco che bastava per mangiare ma lei aveva preferito saltare un pasto e fare aggiustare la chitarra. Così Matisse ha potuto terminare il quadro.
Un’altra volta Gertrude Stein aveva visto un magnifico cesto di frutta posato sulla tavola. Era proibito toccarla: doveva servire all’artista per il suo lavoro. Perché i frutti non marcissero, avevano spento il riscaldamento. Matisse dipingeva la sua natura morta infagottato in un cappotto, con i guanti di lana.
A Gertrude Stein piace molto invitare Matisse e Picasso insieme. I due si ammirano ma non si apprezzano molto, si misurano tutto il tempo. Uno spettacolo magnifico.
Matisse e Picasso, l’immagine è di uno di loro, sono come il polo sud e il polo nord. Il francese ha conservato una rigidità che calzava come un guanto alla sua mano di calligrafo quando redigeva gli atti del procuratore legale da cui lavorava. È serio. Non ride mai. La sua famiglia non sono gli amici ma sua moglie e sua figlia. Riceve poco. Quando parla, lo fa molto seriamente, per convincere: «Non sapeva ridere, questo bel pittore della gioia di vivere», diceva André Salmon.
Dorgelès, in un articolo piuttosto xenofobo, ha descritto la sua «barba curata» e i suoi «occhialetti austeri», simili a quelli di «un addetto militare tedesco» - ma è vero che Dorgelès si avvicinerà all’Action Française e finirà per scrivere su «Gringoire».
Apollinaire, più brillante, è stato lapidario: «Questo fauve è un raffinato». Lo ha descritto mentre dipinge con solennità, più di una tela alla volta, un quarto d’ora ciascuna, citando Claudel e Nietzsche.
Lo spagnolo è silenzioso. Si esprime con gli occhi, e i suoi occhi sono canzonatori. È selvaggio tanto quanto il francese è beneducato. Rifugge circoli e saloni. È appassionato e lo dimostra.
Eppure i due pittori hanno diversi punti in comune: l’interesse per il primitivismo, l’attrazione che ha per loro Gertrude Stein, e l’attenzione spasmodica che hanno l’uno per l’altro.
Sulle pareti sono appesi i loro quadri. Loro sanno già ciò che gli Stein hanno capito dopo averli scoperti: sono i due giganti dell’arte moderna.

Ciascuno ha i propri proseliti: per Matisse saranno Leo e suo fratello Michael; per Picasso sarà Gertrude. Per il momento i dissapori non hanno ancora spezzato la complicità che lega fratelli e sorella. Ma Matisse è geloso dell’interesse dell’americana per questo spagnolo più giovane di lui di dodici anni; è geloso anche di Braque e di Derain, che si allontanano dalla sua cerchia per avvicinarsi ai misteri che si tramano nelle stanze del Bateau-Lavoir.

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27, rue de Fleurus raccontato da Alice B. Toklas


Come di consueto, ogni anno passo almeno una settimana en flanand per le strade di Parigi, sulle tracce di pittori, scultori, scrittori, poeti e altra genìa sparsa, con un indirizzo d’obbligo: 27, rue de Fleurus.
Anche quest’anno la fortuna mi è stata amica: il mio arrivo a questo indirizzo è coinciso col sopraggiungere della stessa signora che un anno fa mi aveva autorizzato ad entrare nel giardino.
“Dopo l’uscita di Midnight in Paris di Woody Allen”, mi dice la mia ospite, “gli americani sono arrivati a frotte, ma di italiani interessati a questo indirizzo ricordo solo lei”. Sarà.
Ho scattato nuove immagini, ho letto altri libri e altri articoli, quasi sempre pubblicati oltre oceano.
Com’è noto, non amo rubare il lavoro altrui: se altri hanno scritto prima di me su di un argomento, trovo giusto cedere loro il passo piuttosto che scimmiottare con mie parole quanto letto altrove.
E qui userò lo stesso metodo, facendo precedere le mie immagini da un brano estratto da The Alice B. Toklas Cook Books, scritto a Parigi nel 1954.
In Italia, questo libro è reperibile in più edizioni, con titoli ed editori diversi:
- Alice B. TOKLAS. Il libro di cucina. Traduzione di Anna Maria Cappelletti. La Tartaruga edizioni 1979;
- Alice B. TOKLAS. I biscotti di Baudelaire. Traduzione di Marisa Caramella. Bollati Boringhieri editore 2013 (anche in edizione speciale per il Corriere della Sera, 2015).
Fatto curioso, le due traduttrici hanno consegnato alle stampe due testi praticamente identici, eccezion fatta per rari e poco significativi dettagli.
E adesso cedo il passo ad Alice Babette Toklas, la “mogliettina” factotum di Gertrude Stein.  

Piatti per artisti

Prima di arrivare a Parigi mi interessavo di cibo ma non di cucina. Quando, nel 1908, andai a vivere con Gertrude Stein in Rue de Fleurus, la mia amica disse subito che la domenica sera voleva una cena americana, ne aveva abbastanza della cucina italiana e francese; la domestica avrebbe avuto la serata libera e io la cucina tutta per me. E così cominciai a preparare i semplici piatti ai quali ero stata abituata nelle case della San Joaquin Valley, in California... pollo in fricassea, focaccia di granturco, torta di mele e torta di limone. Poi, quando la pasta di queste torte ripiene ricevette la difficile approvazione di una buongustaia come Gertrude Stein, decisi di preparare anche un pasticcio di carne tritata, e il giorno del Ringraziamento mettemmo in tavola un tacchino, arrostito da Hélène, la cuoca, ma farcito con un ripieno preparato da me. Visto che Gertrude Stein non riusciva a decidere se preferiva funghi, castagne oppure ostriche, nel ripieno, decisi di usare tutte tre gli ingredienti. L’esperimento ebbe successo e venne ripetuto spesso; a poco a poco quel piatto entrò a far parte del mio repertorio, che si andava allargando sempre più man mano che cresceva in me l’audacia e il desiderio di nuovi esperimenti.
Un giorno che Picasso doveva venire a colazione da noi preparai un pesce in un modo diverso dal solito, pensando che il pittore l’avrebbe trovato molto divertente. Scelsi un bel branzino striato e lo cucinai seguendo i dettami di mia nonna che non era certo una gran cuoca e metteva piede in cucina molto di rado, ma faceva un gran teorizzare, sulla cucina come su un sacco di altre cose. La nonna sosteneva che i pesci, dato che trascorrevano la vita nell’acqua, una volta pescati, non dovevano avere ulteriori contatti con l’elemento in cui erano nati e cresciuti. Raccomandava quindi di arrostirli, oppure di affogarli nel vino, nella panna o nel burro.

~ Branzino Picasso ~

Preparai un court-bouillon di vino bianco secco e grani di pepe, sale, una foglia di alloro, un rametto di timo, una cipolla con un chiodo di garofano, una carota, un porro e un mazzetto di fines herbes. Feci bollire il tutto per un’ora nella pentola, poi misi da parte a raffreddare. Sistemai il pesce sulla gratella della pentola, la coprii e portai a bollore a fuoco lento, cuocendo per 20 minuti. Tolsi la pentola dal fuoco e lasciai raffreddare il pesce nel court-bouillon. Poi lo scolai, lo asciugai e lo disposi sul piatto da pesce. Poco prima di servirlo coprii il pesce con una normale maionese, e lo decorai con una siringa da pasticciere piena di maionese rossa ottenuta non con l’aggiunta di ketchup (orrore degli orrori), ma di concentrato di pomodoro. Decorai il piatto con uova sode passate al setaccio, bianchi e tuorli separatamente, tartufi e fines herbes finemente tritate.

Mi sentii orgogliosissima del mio capolavoro, e quando lo servii Picasso diede in esclamazioni di meraviglia. Poi aggiunse: Non sarebbe stato meglio prepararlo in onore di Matisse invece che mio?

Picasso seguì per parecchi anni una dieta molto rigida; in effetti riuscì chissà come a non sgarrare neppure durante la guerra mondiale e l’occupazione. Si rilassò soltanto dopo la liberazione. Tipico no? La carne rossa gli era proibita, ma questo non era un problema perché in quei giorni i francesi servivano molto raramente carne di manzo, con l’eccezione dell’inevitabile filetto alla sauce Madère. Nemmeno il pollo era tenuto in grande considerazione, mentre il cosciotto di agnello arrosto era visto con maggior simpatia. Oppure gli servivamo del tenero lombo di vitello preceduto da un soufflé di spinaci, dato che il medico gli aveva raccomandato di mangiare molti spinaci e il soufflé era il modo meno insipido di presentarli. Si poteva rendere più appetitoso con l’aggiunta di una salsa. Il problema era quale salsa Picasso potesse mangiare nonostante la dieta. Gli davo una scelta. Cuocevo il soufflé in uno stampo ben imburrato immerso in un recipiente di acqua bollente. Quando era cotto al punto giusto lo sistemavo in un piatto da portata sul cui bordo disponevo eguali quantità di salsa hollandaise, salsa alla panna e salsa di pomodoro. La mia speranza era che i colori delle salse riuscissero a far sembrare meno antipatico il soufflé di spinaci. Un dilemma crudele, disse Picasso quando gli venne servito il soufflé.

[…] Parecchie volte ho avuto la tentazione di uccidere una cuoca stupida o ostinata, ma di solito mi limitavo a immaginarlo, la fantasia sostituiva l’omicidio effettivo. Poi venne da noi a lavorare un allegro, incantevole austriaco. Era un cuoco perfetto. Svelto e silenzioso, Frederich, lo chiamerò così, cucinava per noi i piatti più sofisticati e complessi, non si spaventava davanti a nulla. Ci preparava gelati in piccoli recipienti a forma di uovo che disponeva su nidi di zucchero filato colorato. Adorava preparare torte a forma di oggetti diversi per ciascuna persona, a seconda della sue caratteristiche: di libro per Gertrude Stein, di rosa per sir Francis Rose, di pavone per un’amica molto vanitosa e di cagnolino per me. Riceveva di continuo le visite di una ragazza molto graziosa, Duscha, che sembrava uscita direttamente da un’opera di Offenbach. Io e Gertrude Stein li adoravamo. A Natale chiedemmo loro di accettare, fra gli altri doni, una cena innaffiata di champagne in un ristorante di loro gusto per il tradizionale réveillon. A poco a poco Frederich cominciò a confidarsi con me. La sua vita non era più felice come una volta. All’inizio c’era solo la sua fidanzata Duscha, il suo angelo, ma adesso ce n’era un’altra, un demonio, che voleva sposarlo, e minacciava di ucciderlo se si fosse rifiutato. Ci raccontò che lui e Hitler erano nati nello stesso villaggio e che tutti in quel villaggio erano simili tra di loro e molto particolari. Eravamo nel 1936 e ormai sapevamo benissimo che Hitler era davvero un po’ strano. Frederich, d’altra parte, non era tanto strano quanto debole, amante del vino, delle donne e della musica. Ma continuava a essere un cuoco perfetto. Per parecchi anni aveva lavorato nel ristorante di Frau Sacher e spesso ci preparava la famosa Sacher Torte.

[…] Un pomeriggio, mentre io e Gertrude Stein stavamo tornando a casa, vedemmo una persona uscire dalla nostra porta nel cortile. Era una donna dagli occhi neri, piccoli e brillanti. Il demonio, disse Gertrude Stein. Probabilmente, risposi. L’occhiata che le avevo dato bastò a riempirmi di preoccupazione per Frederich. Volevamo che fosse felice e che restasse a cucinare per noi. Più tardi andai a trovarlo in cucina. Era seduto al tavolo, la testa nascosta tra le braccia. Quando mi vide sussultò. Che cosa c’è, gli chiesi. Il demonio, Madame, il demonio è venuto a trovarmi e mi ha portato in dono una bottiglia di preziosissimo Tocai. Voleva avvelenarmi, uccidermi. Ha versato un bicchiere di vino e me l’ha dato. Proprio mentre stavo per bere alla sua salute mi sono accorto che non aveva versato da bere per sé, il suo bicchiere era vuoto, e che non aveva tolto il tappo con il cavatappi. Voleva avvelenarmi. Le ho buttato addosso la bottiglia. L’ho strattonata. L’ho buttata fuori. Oh, Madame, quel demonio riuscirà a farlo, riuscirà a uccidermi. Lo mandai in camera sua.
La mattina dopo non trovai Frederich in cucina. Verso mezzogiorno chiesi alla concierge di salire nella sua stanza per vedere che cosa fosse successo. Tornò dicendo che la porta era aperta e la stanza vuota, c’era solo un baule legato con delle cinghie. Non aveva visto Frederich, quella mattina, ma la signora coi capelli scuri era andata a trovarlo un paio d’ore prima. Che cosa potevamo fare? Niente, se non aspettare che arrivasse Duscha. Arrivò nel tardo pomeriggio. Bella, raffinata ed elegante come sempre, ma con gli occhi rossi e gonfi. Frederich le aveva mandato un telegramma lungo come una lettera, il che era una prova, disse, di quanto dovesse star male. Se n’era andato con quel demonio, inutile cercarli, avrebbero lasciato Parigi. Lui avrebbe sempre amato il suo angelo ma la loro felicità era rovinata per sempre. Lei doveva andare ad avvertire le buone signore, le avrebbero pagato quello che gli dovevano, tre settimane e sei giorni di salario, e con quei soldi avrebbe dovuto comprarsi una frivolité come ultimo souvenir del suo innamoratissimo Frederich.
Mentre leggevo il telegramma, Duscha singhiozzava delicatamente in un delizioso fazzolettino bianco. L’accompagnai in salotto e la lasciai in compagnia di Gertrude Stein, mentre preparavo il tè. Quando mi vide arrivare con il vassoio, mi venne incontro di corsa. Ripose subito il fazzoletto, bevve tranquillamente parecchie tazze di tè e mangiò gli ultimi perfetti dolci viennesi preparati da Frederich, che non avremmo mai più gustato. E adesso che cosa farai, chiedemmo a Duscha. Continuerò a lavorare per la buona principessa, lei capirà. Quando non avrò più gli occhi rossi e avrò dimenticato il dolce debole Frederich ricomincerò a vivere. Le diedi i soldi del salario del suo amante infedele. Lei mi ringraziò e si mise a contarli. Con un sospiro e un singhiozzo piegò con cura le banconote e le ripose nella borsetta. Facci avere tue notizie, le dissi quando se ne andò.
Non ne avemmo per settimane, poi ricevemmo una partecipazione di nozze. In Francia le partecipazioni hanno il nome della famiglia della sposa a sinistra, e quello della famiglia dello sposo a destra. La famiglia di Duscha, da un lontano e impronunciabile villaggio in Austria, aveva l’onore eccetera eccetera e poi la famiglia dello sposo, due nonne e un nonno, i genitori, i fratelli, le sorelle, il tutto cosparso di medaglie al valore e Légions d’Honneur e titoli onorifici, annunciava il matrimonio del figlio con Duscha. Era entrata a far parte di una famiglia della buona borghesia e non avrebbe avuto più niente da temere.

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venerdì 10 luglio 2015

Picasso a Céret, 1913


1913. Al 242 di boulevard Raspail Picasso non resiste molto, tanto che nei primi mesi dell’anno è costretto a nuovo trasloco, questa volta in una casa moderna nella vicina rue Schoelcher, al numero 5 bis. L’appartamento è comodo, lo studio è luminoso.
Nel frattempo, il prezioso lavoro di Kahnweiler produce i suoi frutti: il 17 febbraio a New York s’inaugura una mostra destinata a far conoscere l’arte europea e Picasso è presente con sei tele, un disegno e un bronzo. In seguito questa mostra si trasferisce a Chicago e a Boston. In contemporanea Kahnweiler organizza altri due avvenimenti: una retrospettiva di Picasso da Thannhauser a Monaco, con 76 pitture, 38 acquarelli disegni e incisioni, mentre all’Armory Show di New York sono esposte 8 opere di Picasso. Il mondo gli si apre davanti, la firma Picasso è nota dovunque.

Eva è sempre più ammalata - tossisce in continuazione – ed è questa la ragione che spinge Picasso a lasciare precocemente Parigi, l’11 di marzo, per affrontare il suo terzo viaggio a Céret, villaggio che gode della brezza vivificante dei Pirenei. Inoltre, l’aver firmato il 18 dicembre 1912 un contratto formale con Kahnweiler per la vendita dei suoi quadri lo libera dagli impegni commerciali, permettendogli di allontanarsi da quel campo di battaglia che è diventato Parigi – e non solo in ambito artistico: i suoi vicini di casa, che hanno bambini, gli hanno fatto sapere di non gradire la presenza di Eva, chiaramente ammalata di tubercolosi. E poi a Céret quest’anno non vi è l’incubo Fernande – di cui Picasso non ha più avuto notizia - quindi i due innamorati possono vivere in pace. Il giorno 22 Eva scrive a Gertrude Stein che «c’è un tempo superbo e ci siamo sistemati».
L’11 aprile Picasso scrive a Kahnweiler: «Max deve venire a Céret. Puoi avere la cortesia di dargli dei soldi per il viaggio e per le sue spese personali? Metti tutto a mio carico.» Max Jacob è l’amico che tra il 1902 e il 1903, l’apice del momento di estrema povertà di Pablo, l’aveva accolto nella sua stanzetta all’87 di boulevard Voltaire ...e seppur crescendo in notorietà e ricchezza, Picasso mai dimentica gli amici che hanno condiviso la fame e il freddo con lui. Inoltre, da un po’ di tempo Max, ebreo per nascita, ha cominciato ad avere visioni mistiche - vede il Cristo ovunque -  e questo sconvolge il suo equilibrio psico-fisico: una buona ragione in più per averlo vicino, regalandogli una vacanza a Céret.
La presenza di Eva e dell’amico influiscono sullo sviluppo artistico di Picasso e il tono festivo e allegro del papier-collé che ha per tema Céret ne è la prova: «Un bambino non arriva mai a quell’ingenuità primordiale che qui raggiunge Picasso e che riesce a contagiarci. Queste Case di Céret danzano» scrive Palau I Fabre nel secondo volume della sua biografia artistica di Picasso.

Case di Céret, estate 1913

Il 5 maggio Picasso, che ha lasciato il villaggio per un breve viaggio a Barcellona, scrive a Kahnweiler: «Le comunico la morte di mio padre, mancato la mattina di sabato scorso. Può immaginare in che stato mi trovo.» Nove giorni dopo Eva scrive a Gertrude Stein: «Spero che Pablo riprenda il lavoro, poiché soltanto questo può fargli dimenticare un po’ la sua tristezza.»
Il 2 giugno Max Jacob informa Apollinaire che «Eva è molto malata; angine continue la costringono a letto da otto giorni.» La stessa lettera contiene anche questa bizzarra descrizione: «Céret è una piccola città ai piedi dei Carpazi o Karpazi. La popolazione va dai cinquecento ai diecimila mila abitanti approssimativamente. Il numero ridotto degli abitanti è senza dubbio dovuto all’abbondanza di pederasti e di erotomani che si limitano a riempire i caffè.»
In un’altra lettera diretta ad Apollinaire, Max scrive di aver fatto un’escursione di pochi giorni (dall’11 al 15 giugno) a Figueras e a Girona con Pablo ed Eva e di essere andato a vedere una corrida, aggiungendo: «la Spagna è un paese quadrato e fatto di angoli.» Come a dire: è un Paese per sua natura cubista.
Dopo questo viaggio di distrazione, Picasso riprende a lavorare, reinterpretando i suoi Arlecchini, vecchi compagni d’angoscia, ma subito s’interrompe, Il 19 giugno Eva informa Gertrude Stein che il giorno dopo sarebbero tornati a Parigi.

Arlecchino, 1915

Il blocco creativo che ha colpito Picasso a Céret continua a Parigi. Inoltre, la tosse non dà tregua ad Eva. Da qui la decisione di tornare alla brezza dei Pirenei. Arrivano a Céret tra il 6 o il 7 di agosto per sbrigativamente ripartire pochi giorni dopo. Non torneranno mai più.


Il periodo buio di Picasso continua: la Grande Guerra è iniziata, i suoi migliori amici sono al fronte, la salute di Eva peggiora giorno dopo giorno, fino a richiedere l'ospedalizzazione alla Maison de la Santé Goldman al 57 di boulevard de Montmorency. L’artista realizza una serie di quadri sul tema Donna seduta, il ritratto della donna amata costretta su di una sedia, serie concluda da alcuni tragici disegni: Eva agonizzanteEva sul letto di morte, La salma di Eva, morta il 14 dicembre 1915 all’età di trent’anni. L’8 gennaio 1916 Picasso scrive a Gertrude Stein: «La mia povera Eva è morta. […] È stato per me un grande dolore e so che lei ne sentirà la mancanza. È sempre stata così buona.»

Un ciclo è finito. Scrive Apollinaire: «Ora è il sud ad attirare gli artisti. Invece di trascorrere le vacanze in Bretagna o nei dintorni di Parigi come facevano gli artisti della generazione precedente, i pittori vanno verso la Provenza. Persino i Pirenei sono stati abbandonati. Céret non è più la mecca del cubismo.»

 Donna seduta che legge un libro, 1914-1915

Eva agonizzante, dicembre 1915

Eva sul letto di morte, dicembre 1915

Gli anni passano, non tutti dimenticano. Nel 1950 Pierre Brune e Frank Burty Haviland creano a Céret il Museo d’Arte moderna, una struttura che nel tempo ha acquisito una dimensione internazionale grazie anche alla donazione da parte di Picasso (nel 1953) di 29 ceramiche avente per soggetto la tauromachia.

Personalmente, di Céret ho ricordi bellissimi: le ore passate al Museo d’arte moderna, lo struscio per le strade seguendo i pannelli che riproducono le tele dei tanti pittori che qui hanno lavorato, il tempo passato a fotografare la fontana in place Picasso, opera dei ceramisti Jacques e Juliette Damville e la scoperta della cucina di madame Minerva, una donna approdata a Céret dalla vicina Spagna e titolare del minuscolo Restaurant Al Duende. Buonultima, la cappella di Saint-Martin de Fenollar dista solo una decina di chilometri.


ADDENDA. Nell’estate del 1954, Picasso riprende la strada di Perpignan in compagnia di due suoi amici, il pittore Édouard Pignon e sua moglie Hélèn Parmelin, giornalista e scrittrice. In agosto raggiungono Céret, dove Picasso mostra loro la Casa dei Cubisti, il museo, il torrente, il vecchio cafè Justafré, ricordando i tempi di Fernande e di Eva, di Manolo, di Pichot, di Braque, di Max Jacob e di Juan Gris, i giorni della pittura e della sardana.
Proseguendo oltre Céret, con l’auto risalgono la foresta di Fontfréde fino al suo culmine, il confine con la Spagna, luogo dove Picasso, davanti ad un’assemblea organizzata a Céret dal PCF, propone di erigere un laico Tempio della Pace. Non verrà mai costruito.
[fine della trilogia]


LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
11 maggio 2015