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martedì 1 marzo 2016

André SALMON. La jeune peinture française (1912)



Nel 1912 la Imprimerie Bussière di Saint-Amand (Cher) licenzia La jeune peinture française, il libro scritto da André Salmon che ha trovato nella Société des Trente | Aubert Messin | Paris | 19, quai Saint-Michel 19 | il suo editore.
Il volume in -8° (20,5 x 14 cm) consta di 124 pagine, così suddivise: Avant-propos (pp. 1-7); Les Fauves (pp 9-40); Histoire anecdotique du Cubisme (pp 41-61); L’Art vivant (pp 63-100); Una renaissance du paysage français (pp 101-110) e La peinture féminine au XXe siècle (pp 111-121.
Di questo libro sono state stampate 530 copie numerate, così suddivise: 10 esemplari su carta Chine, 20 esemplari su carta Japon e 500 esemplari su vergé d’Arches.
Questa bassa tiratura, riservata ai soci della Société des Trente, ha contribuito fin da subito a rendere introvabile questo volume, il primo testo stampato in cui si narra dell’esistenza di un dipinto di Pablo Picasso - fino ad allora sconosciuto - raffigurante tre prostitute di un bordello della carrer d’Avynió di Barcellona, postribolo a due passi dalla casa in cui si era trasferita la famiglia Picasso nel 1895 e luogo d’iniziazione sessuale (e di rifugio, per un certo periodo) per il quattordicenne Pablo. Partendo da queste conoscenze, i poeti Max Jacob e Guillaume Apollinare - quest’ultimo aveva avuto modo di vedere questa tela il 27 febbraio 1907 - avevano suggerito il nome di Le bourdel philosophique.
Deluso dai commenti dei suoi più intimi amici, Picasso aveva tenuto Le bourdel arrotolato e appoggiato sul pavimento e questo anche dopo il aver lasciato il Bateau-lavoir. Scrive Antonina Vallentin in Vita di Picasso, p. 154: “Raramente riprodotta (la prima volta nel 1925) Les demoiselles d’Avignon passò nella collezione di Jacques Doucet (1923) che la fissò sul muro del vano delle scale di casa sua. Il quadro fu esposto per la prima volta al Petit Palais di Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1937.”
Come tante affermazioni di questa autrice, anche questa non corrisponde al vero: in realtà è stato André Salmon - ed è questo che Kahnweiler gli invidiava di più - a presentare nel luglio 1916 al Salon d’Antin di Paul Poiret Le bourdel di Picasso, proposto col nome di Les demoiselles d’Avignon. Non erra invece la Vallentin quando scrive a p. 149 del suo libro: “Non sapete fino a che punto mi irrita questo titolo - ha confessato un giorno Picasso, - è stato Salmon ad inventarlo.”
Due anni dopo sarà la Galerie Paul Guillaime di Parigi ad esporre per la seconda volta Les demoiselles nell’ambito di una esibizione da Picasso a Matisse.
Anno 1922, mese di gennaio. Scrive Pierre Assouline ne Il mercante di Picasso, p. 226: “Kahnweiler ha sofferto molto, nel veder andar via, all’inizio dell’anno, Les demoiselles d’Avignon dallo studio di Picasso. Le ha acquistate per 25.000 franchi il sarto-collezionista-mecenate Jacques Doucet, ben consigliato dalla sua cavalleria leggera nel campo artistico, André Breton e Louis Aragon.”
La transazione non è stata del tutto semplice: Doucet offre 20.000 franchi, Picasso chiede di più. L’accordo si trova su 25.000, a questa condizione: Doucet pagherà a Picasso 2000 franchi al mese fino al raggiungimento della somma pattuita, quando Picasso consegnerà la tela. Alla fine - scrive Breton nel 1961 - nelle tasche di Picasso arriveranno 30.000 franchi.
Nei primi giorni di dicembre 1924 Les demoiselles entrano al 46, avenue du Bois di Nearly-sur-Seine, l’indirizzo della nuova lussuosa casa di Doucet, e lì resteranno fino al 1928, l’anno in cui Doucet trasferisce la sua Maison nel nuovo palazzo residenziale al 33, rue Saint-James di Neuilly.
In cuor suo Doucet desidera che dopo la sua morte, avvenuta il 30 ottobre 1929, Les demoiselles fossero destinate ad essere esposte al Louvre. Contattati in merito dagli eredi, i burocrati del Louvre rifiutano per questioni di Regolamento (al Louvre si espongono solo opere di artisti defunti) e quelli del Luxembourg (dove si espongono anche opere di artisti viventi) decidono di non esprimersi: Picasso è un uomo marchiato…
Al contrario, dall’altra parte dell’oceano vi sono uomini con meno scrupoli circa la vita privata degli artisti: A. Conger Goodyear, presidente del Museum of Modern Art (MoMA) di New York, coadiuvato da César M. de Hauke della Seligmann Gallery e con la mediazione del mercante d’arte René Gimpel, giocano le loro carte. Nel 1937 gli eredi del defunto Doucet (che, guarda caso, risiedono in una casa-museo ad Avignon, Francia) vendono Les demoiselles al MoMA in cambio di 24.000 dollari dell’epoca. E lì ci è rimasto.

Maison Paul Doucet
33, rue Saint-James, Neuilly-sur-Seine
photo Pierre Legrain (1933)







domenica 10 gennaio 2016

Picasso. Presentazione di Fernanda Wittgens



Picasso
Presentazione di Fernanda Wittgens
Silvana Editoriale d’Arte
Milano 1954
pp. 5-12


Terra dell’Umanesimo, l’Italia, con la forza della sua tradizione, assolve tuttora la missione di vaglio d’ogni cultura nuova: una missione di cui pochi intellettuali nostri sono coscienti mentre è chiara, almeno dal tempo di Goethe, allo sguardo del mondo internazionale. Era tempo che il rivoluzionario movimento della pittura moderna, rifluito da Parigi in ogni centro culturale dell’America del Nord e dell’Europa ma non in Italia ove erano apparse soltanto le sporadiche documentazioni delle Biennali Veneziane, fosse illustrato, sulla scena italiana, dal caposcuola del Novecento europeo: Pablo Picasso.
La recente mostra dell’opera pittorica, grafica e plastica del Maestro in Palazzo Reale di Milano ha assolto questo compito per una duplice ventura: per avere potuto raccogliere l’opera giovanile di Picasso documentata da dipinti del Museo d’Arte Moderna di New York, di collezioni private americane, svizzere, francesi, italiane, e soprattutto dai nove fondamentali esemplari provenienti dal Museo d’Arte Moderna di Mosca; e per aver ricevuto, sia pure per un mese solo, il suggello di Guernica, la creazione assoluta del Maestro ed il «documento principe» del Novecento artistico europeo.
All’inizio della sua vita d’artista, è il mondo del sentimento che attrae Picasso; parallelamente, la sua esperienza pittorica si svolge nella cerchia dell’Impressionismo e del post-Impressionismo, se pur una segreta ansia umana ed un rigore che è manifesto segno di integrità spagnola, impediscono all’artista di cadere nei facili effetti decorativi degli epigoni. È la lezione offerta da due rarissimi capolavori del «periodo blu» e del «periodo rosa» di Picasso, conservati nel Museo di Mosca: il Vecchio ebreo e il Saltimbanco.
Comprendiamo che l’azzurro del Vecchio ebreo forzato sino all’austerità del monocromato (sicché il prodigio espressivo è affidato essenzialmente al disegno) ha, per Picasso, il valore di un simbolo di quella vaga socialità che segnava il nascente secolo XX: simbolismo ben altrimenti puro di quello di Puvis de Chavannes e dei neopreraffaelliti, al cui influsso pur non era sfuggita la sensibilissima natura picassiana. Ma ecco il Saltimbanco: la fantasia del Maestro comincia a dominare il sentimento nell’illusoria figurazione della vita del circo; e la pennellata delicatissima accende, sulle forme umane e sul deserto scenario di colline sabbiose, lumi rosa quasi fuochi fatui. Siamo ai margini della trasposizione della realtà sul piano intellettuale, ai margini della creazione dell’arte moderna.
L’autentica attività creatrice di Picasso s’inizia solo nel momento in cui l’artista acquista la consapevolezza che tutte queste esperienze appartengono al passato - un grande passato iniziato nel Barocco e concluso con la pittura impressionista - e che una nuova civiltà deve nascere da un nuovo arcaismo. La lezione di Cézanne, la suggestione dell’arte negra importata all’inizio del Novecento in Parigi, il potente, genuino temperamento spagnolo dell’uomo e dell’artista si sommano felicemente nell’impeto rivoluzionario della pittura «cubista» di Picasso, la prima autentica parola del Novecento artistico.
Ancora i dipinti dei Musei di Mosca hanno offerto gli elementi fondamentali per comprendere il complesso processo di formazione della nuova pittura. Un quadro ha colpito il pubblico italiano per la violenza della sua stilizzazione: Le tre Donne. Quadro eroico, realizza in un clima di passionalità quello che era stato, per Cézanne, un imperativo categorico dell’intelletto: rendere la natura per cubi e cilindri. Ma è una via senza uscita, e, d’altra parte, se Picasso ha potuto risolvere un simile tema con potenza come in questo quadro, lo ha fatto mercé un ritorno al passato, ispirandosi alla scultura romanica della sua terra spagnola, e ne ha emulata la plasticità per quel potere che Leonardo riconosceva alla pittura, di simulare con i suoi mezzi gli effetti dell’arte sorella.
Un altro quadro nella stessa sala di un anno anteriore appariva, ai sensibili, miracolo più sottile e maggiore: la Danza con i veli, tanto più che esso era esposto accanto ai Due nudi della Collezione Silbermann di New York, veri feticci negri in un’atmosfera fauve, che documentavano il primo e non controllato incontro, circa il 1906, con l’esotismo primordiale. L’intellettuale natura di Picasso riprende il dominio nella Danza con i veli, e soggioga l’emozione. Fosforescente di gialli, di azzurri, di verdi, il dipinto mirabile è solo al primo sguardo una simbologia dell’estasi fantastica, una visione orientale; contemplandolo, si discerne la meditata astrazione della forma, il nascere di un nuovo linguaggio figurativo che aderisce alle più sottili ricerche della cerebralità e della ipercultura del nuovo secolo, di quel Novecento che, al suo inizio, si è posto in antitesi assoluta col romantico Ottocento.
Da quest’opera e dai vari studi per le Démoiselles d’Avignon esposti nelle sale milanesi e più genialmente rivoluzionari e convincenti dello stesso famoso grande quadro del Museo di Arte Moderna di New York, si giunge alle espressioni ardite del «cubismo analitico» che dobbiamo considerare nel loro valore polemico : indici della frattura di una civiltà, manifesti di una nuova visione estetica.
L’estetica classica e postclassica conciliavano le loro antitesi nella tradizione mediterranea «dell’uomo misura di tutte le cose» sia che, classicamente, queste fossero a lui subordinate, sia che, romanticamente, divenissero elementi della sua fantasia. Che cosa sono infatti i paesaggi impressionisti se non proiezioni del lirico rapimento dell’uomo ottocentesco, raffinato nella sensibilità dalla poesia e dalla musica romantica, di fronte allo spettacolo della Natura che è serena ed amica secondo l’ottimistica interpretazione della fine del secolo?
Il Novecento segna un brusco risveglio di intellettualità, e con un balzo gigantesco il pensiero umano trapassa dall’apparenza all’essenza, se non vogliamo dire al «metafisico», termine più popolarmente accessibile ma che difficilmente può essere usato, dopo secoli di teologia, in significato nuovo ed elementare. È un’avventura spirituale di cui non abbiamo ancora misurato la grandezza noi che ne siamo partecipi e vittime, perché l’abbiamo scontata con la distruzione degli ottimismi e delle «certezze» scientifiche, con le tragiche catarsi delle guerre, con l’immensa responsabilità di creare, sulle nuove basi cosmiche, una civiltà pur sempre riferita all’uomo. Veggente è invece l’artista, e Picasso cerca di esprimere, mercé il cubismo analitico, la nuova visione del mondo, la nuova estetica dello spazio.
Lo spazio tradizionalmente sentito come ambiente dell’uomo diviene, nell’intuizione del nostro secolo, un’entità, un elemento operante e creativo in quanto collega in unità l’uomo e gli oggetti mercé i suoi piani e le sue luci. Le forme umane e naturali si geometrizzano; nasce la nuova grafia che ripete esperimenti antichissimi di tutte le arti mistiche - dai vasi del Dipylon agli «entrelacs» irlandesi, ai mosaici bizantini - le quali proprio per simboleggiare l’unità cosmica del mondo, imponevano una figurazione in superficie ed uno stile geometrizzato.
È interessante notare la difficoltà di Picasso nella rinuncia all’espressione umana: il Ritratto di Vollard del Museo di Mosca e la Suonatrice di mandolino della Collezione Penrose di Londra non sono privi di echi romantici, sicché più assoluta appare l’esperienza cubista nella Donna in verde della Collezione De Haucke orgogliosamente vitale con le sue forme ampie ed il vibrare dei verdi, nella Donna in poltrona della Collezione Salles di Parigi, raccolta in tonalità di grigio e viola che ne fanno un’opera di meditazione sulle segrete relazioni tra l’atmosfera e la forma umana e nel Violino del Museo di Mosca, capolavoro della visione cubista, una lirica creata con la vibrazione del prisma. È questo senso di umanità di Picasso che sollecita l’artista a chiudere in breve giro di anni, circa dal 1909 al 1914, il cubismo analitico che fu, per Braque e Juan Gris, l’esperienza definitiva, ed a tentare un’altra e più difficile via: «il cubismo sintetico».
Il Giocatore di carte del 1914, generosamente concesso dal Museo d’Arte Moderna di New York e Fruttiera e chitarra, gemma del Kunsthaus di Zurigo segnavano, nella Mostra milanese, più potentemente d’ogni altra tela, l’inizio e lo sviluppo della nuova ricerca che, elaborata in qualche capolavoro dell’artista (ricordiamo Il Balcone della Collezione Rosenberg di New York) condurrà a Guernica. Se fosse consentito fare di un uomo un simbolo, dovremmo seguire questo solo e fondamentale linguaggio del cubismo sintetico di Picasso; ma troppo grave sarebbe la lesione dell’umanità dell’artista. E dobbiamo perciò accennare ad altre multiformi, complesse esperienze che, se si sa «leggere» l’opera del pittore, non nascono dall’io autentico di Picasso, ma sono il riflesso di un mondo iperculturale - quale fu quello europeo del primo Novecento - sulla sensibilissima personalità picassiana. Questo fenomeno ha il potere di provocare le più sorprendenti reazioni che possono essere il classicismo delle opere italiane, lo strano e sentimentale romanticismo dei ritratti di Pablo del 1925 (e tuttavia, in quel periodo, nasce anche il capolavoro cubista dei Tre musici del Museo d’Arte Moderna di New York), l’espressività infine che segna di un particolare timbro l’opera matura dell’artista, ed è certo l’esperienza da lui più sofferta. Come bene ha visto il più acuto biografo di Picasso, Christian Zervòs, quasi in tutti i momenti della sua vita il Maestro è vittima di un dualismo tra la carica affettiva suscitata dagli incontri con la vita ed un bisogno di libertà che lo spinge ad evadere, sino a reagire con violenza all’esperienza ricercata ed insieme temuta. È la natura spagnola che non sa raggiungere, secondo l’esperienza greca, la catarsi della contemplazione, anzi coltiva fanaticamente il dualismo di coscienza ed istinto, di passione sublimatrice e di sessualità, di intelletto e sentimento.
Momenti sereni non mancano tuttavia in questa maturità: l’eterno femminino così inquietante per Picasso, qualche volta assume aspetti di semplice, direi solare naturalezza, ad esempio nel vivente arabesco dell’Odalisca di proprietà dell’artista e in quella Donna col cappello, (anch’essa della collezione personale di Picasso), arditamente sezionata da una ricerca dinamica riflessa dal cinematografo nella cultura del nostro secolo, e che pure, in quest’opera, perde ogni aggressività polemica per la preziosità del colore. È un delicato gioco di azzurri, di gialli chiari, di rosati, raro in Picasso che «vede» generalmente più da freschista che da pittore da cavalletto, per zone di tinte semplici.
Antagonista nell’espressione è la Donna seduta che legge.
Essa appartiene al momento delle esperienze psicanalitiche e al pari della Donna che gioca al pallone sulla spiaggia e della lunare Donna sulla spiaggia dovrebbe esprimere le complicate simbologie dell’inconscio. Fortunatamente riemerge, dalle cerebralissime esperienze, intatta l’austerità del primitivo spagnolo, e lo splendore dei rossi e dei gialli tramuta il simbolo freudiano in un’immagine di Apocalisse catalana. Siamo nel 1937, l’anno di Guernica che sublima questa ancestrale ispirazione picassiana, Guernica frattura della civiltà, canto del dolore del mondo.
Eterno viandante, l’artista procede oltre quel termine, e nel 1938 e nel 1939 torna ad aderire alla vita quotidiana, alle sue possibilità di bellezza; ed ecco la pura gioia estetica del bel colore e delle forme espressive nella Pêche d’Antibes, vero peana della vita marina, inno dell’uomo mediterraneo e, con Guernica, capolavoro assoluto del maestro.
Poi di nuovo, nel ’40, la guerra: ed altri, più terribili mostri e deformazioni e simboli di ferocia come il famoso Gatto che azzanna l’uccello, e la morte stessa col suo gelido riso; e poi, nel dopoguerra, il mondo intimo dell’uomo, la vita di casa tra gli umili arredi domestici. Ecco ad esempio, nella famosa tela del Museo d’Arte Moderna di Parigi, La cazzeruola smaltata, un effetto magico di vita colta realisticamente e poi fissata in astrazione, tanto da dare agli oggetti elementari un segreto significato di umana civiltà.
La biografia potrebbe continuare sino al giorno di oggi, ritessere altre proteiformi esperienze; deve comunque includere la testimonianza dell’opera plastica. Sculture come l’Uomo con l’agnello, La Capra, la Testa di donna del 1937 confermano che qualsiasi materia tratti la mano di Picasso, essa si anima di espressione, palpita di vita: l’impresa prometeica è anzi forse più facile a Picasso nel bronzo che non nella tela campita dai colori. Ma questa biografia per sé interessantissima, nei riflessi di una vasta percezione della modernità ha interesse secondario. È la genuinità di Picasso, non le sue multiformi esperienze, che definisce l’essenza della modernità. E genuino è il cubismo sintetico, la cui realizzazione massima cogliamo in Guernica. Sette metri di tela ordita per la lotta col mare, tela di vela, accolgono la tempestosa figurazione della tragedia della Spagna che segnò la fine di un sogno secolare di civiltà e di progresso umano, ed annunciò l’apocalittico cataclisma della guerra mondiale. Guernica è, ripetiamo, il canto del dolore del mondo: risparmiata la facile eloquenza del colore, Picasso intona questo canto su note di bianco e nero (che variano in infinite gradazioni sino all’avorio rosato, carneo, e al grigio aurorale), lo purifica cioè in un misticismo cromatico che rivela l’estrema sincerità dell’ispirazione.
Dal punto di vista della forma, la lunga, sofferta esperienza del cubismo sintetico si conclude in una pagina che non ha più alcuna cesura né alcun ermetismo d’origine cerebrale; ampia, sonora, costruita, ritmica e commossa. La riempie lo spazio che non è un fondo morto, ma un tessuto animato ed elastico come il tessuto corporeo; e le forme si incidono come vene pulsanti. Una finestra affonda grigia nel bianco, e scopre l’infinita pace del ciclo sulla tragedia consumata; una porta, un muro bianco gridano l’orrore dei reclusi nelle macerie più dello stesso gesto disperato della donna nella casa crollata; un altare, in prospettiva nel fondo, eleva la colomba grigia con la ferita bianca come un’ostia, a simbolo di perdono. E simboli di redenzione nel futuro diven­gono le stesse semplici lampade domestiche, anche perché il loro quieto e fedele lume è più forte delle fiamme distruttrici, e fa discendere sulle vittime, nella gelida veglia al limite della notte, una promessa di pace.
La morte stessa si trasfigura; il martoriato braccio del guerriero stringe ancora il ferro, ma da questo già germoglia un fiore. E la madre che urla il suo strazio ai piedi dell’impassibile toro - il Fato della Spagna - presto chinerà il capo, e si accorgerà del miracolo d’amore: il figlio morto si ricompone nel suo grembo in un dolcissimo arabesco, non è più un morto ma un fantastico fiore reciso. Orrore e pietà ispirano all’artista il contrappunto ardito di spazi architettonici e di volumi plastici che culmina nel nodo centrale del cavallo ferito. Solo uno spagnolo uso alle corride poteva scegliere, come emblema del terrore, il cavallo, e dipingere i suoi occhi folli liquefatti e il suo nitrito primordiale. «Se tutto il dolore del mondo fosse raccolto in un grido, esso assorderebbe il mondo», ha detto un antico poeta. Ecco veramente, nel centro del quadro, un urlo cosmico.
Ed ecco il vertice del nuovo linguaggio. Se l’intero corpo del cavallo avesse dominato la scena, la pittura sarebbe stata pura figurazione senza mito segreto, senza la sottile «speculazione» leonardesca. Picasso delinea in tutta la possanza del volume il petto del cavallo, ed annulla in arabesco le sue altre forme reali, le consuma nello spazio che riassorbe in sé la plastica, ristabilendo un equilibrio fantastico, una suggestione mitica. È l’esperienza dei primitivi riscoperta dall’uomo moderno cosciente, ma al tempo stesso ispirato dal soffio di una passione così vasta che può esprimersi in una forma corale.
Se riapriamo oggi il Cahier d’Art che Christian Zervòs, con la sua intuizione di ogni arte vivente, dedicò nel 1937 a Guernica, sentiamo con stupore la perfetta rispondenza del nostro stato d’animo con quello dei primi scopritori: Zervòs nel suo saggio «Histoire d’un tableau» e Josè Bergamin nelle pagine di irripetibile poesia dedicate al mistero dell’opera, e che si intitolano «Picasso furioso». E sono passati diciassette anni, e una guerra - quale guerra! - ha diviso il secolo XX in due epoche! Eppure intatta, come prevedeva Zervòs, è rimasta la magia di Guernica. Con il critico stesso possiamo spiegarla intellettualmente interpretando come motivo dell’opera la rivelazione sublime della vittoria della vita sulla morte: «Pour ces raisons il est loisible d’affirmer que cette oeuvre trouvera durablement accès au coeur, apporterà des suggestions, suscitera des sentiments, fera naître la conviction qu’il y a des choses plus grandes que la réalité apparente et que parteciper de leur grandeur c’est un peu se relever en dignité».
Con il poeta Bergamin possiamo interpretare la suggestione di Guernica medianicamente, possiamo rinnovare la comunione con Picasso «furioro» di quella collera spagnola che il poeta mirabilmente definisce rivelandone l’essenza mistica: «Le mystère tremble en lui par la vérité colérique de la justice qu’il demande. Car la véritable justice est le couteau de la balance entre un oui et un non définitifs; elle n’est autre chose, en définitive - autre chose idéale, autre réalité - que l’affirmation humaine de la vie à quoi la négation de la mort fait contrepoids. La plénitude de l’être contre le néant».
L’una e l’altra interpretazione è valida, l’una dell’altra complementare, e ad entrambe aderiamo, riconoscendo che Picasso, educato dalla cerebralità parigina all’intellettualismo ed a tutti i suoi orgogli, ha ritrovato l’umanità nell’ora in cui le sue radici spagnole erano colpite dal sacrilegio, e con il potere del genio ha previsto, nell’episodio, il dramma del secolo in un’opera artistica che chiude il passato e prepara l’avvenire. Essa è anche la giustificazione di tutto il suo linguaggio rivoluzionario, e annulla gli esperimenti falliti, denuncia gli errori dell’intelligenza troppo compiaciuta di sé e dell’avventurosa ricerca, stabilisce, nell’opera picassiana troppe volte spinta al di là del limite, quella che è l’accettabile e morale «misura».
Se non avesse dato Guernica, Picasso apparirebbe quale l’Ulisse dantesco, eroe della conoscenza che per la sua sfida agli dei, è travolto nel vortice senza aver raggiunto la suprema verità. Ma Guernica risolve, sul piano dell’umanità e dell’espressione corale, il grande problema dell’arte di oggi, parimenti sollecitata dal mondo della coscienza umana e dalla percezione della vita universale: un’arte che è soprattutto ed essenzialmente espressione, ma che non ama le complicazioni estetizzanti del primo Novecento perché non ha più radici intellettuali, ed individuali, bensì mistiche e sociali. Guernica pittorica e plastica e architettonica, creata con sintesi assoluta di spazi e di volumi, e pur tutta trepida di vita per le vibrazioni sottilissime dei suoi grigi e per le misteriose linee nere che come frecce spinate saettano, nei punti nevralgici, le ampie costruzioni plastiche animandole medianicamente, Guernica è un messaggio di fede che Picasso offre all’artista d’oggi perché con un coraggio ed una libertà pari alla sua, tenti una forma nuova, e vi trasfonda la ricerca severa di un’umanità ricondotta, dal dolore, alla meditazione dell’assoluto, ed ansiosa di ricomporre il lacerato tessuto della civiltà con il potere dell’arte.

FERNANDA WITTGENS
























venerdì 10 luglio 2015

Picasso a Céret, 1913


1913. Al 242 di boulevard Raspail Picasso non resiste molto, tanto che nei primi mesi dell’anno è costretto a nuovo trasloco, questa volta in una casa moderna nella vicina rue Schoelcher, al numero 5 bis. L’appartamento è comodo, lo studio è luminoso.
Nel frattempo, il prezioso lavoro di Kahnweiler produce i suoi frutti: il 17 febbraio a New York s’inaugura una mostra destinata a far conoscere l’arte europea e Picasso è presente con sei tele, un disegno e un bronzo. In seguito questa mostra si trasferisce a Chicago e a Boston. In contemporanea Kahnweiler organizza altri due avvenimenti: una retrospettiva di Picasso da Thannhauser a Monaco, con 76 pitture, 38 acquarelli disegni e incisioni, mentre all’Armory Show di New York sono esposte 8 opere di Picasso. Il mondo gli si apre davanti, la firma Picasso è nota dovunque.

Eva è sempre più ammalata - tossisce in continuazione – ed è questa la ragione che spinge Picasso a lasciare precocemente Parigi, l’11 di marzo, per affrontare il suo terzo viaggio a Céret, villaggio che gode della brezza vivificante dei Pirenei. Inoltre, l’aver firmato il 18 dicembre 1912 un contratto formale con Kahnweiler per la vendita dei suoi quadri lo libera dagli impegni commerciali, permettendogli di allontanarsi da quel campo di battaglia che è diventato Parigi – e non solo in ambito artistico: i suoi vicini di casa, che hanno bambini, gli hanno fatto sapere di non gradire la presenza di Eva, chiaramente ammalata di tubercolosi. E poi a Céret quest’anno non vi è l’incubo Fernande – di cui Picasso non ha più avuto notizia - quindi i due innamorati possono vivere in pace. Il giorno 22 Eva scrive a Gertrude Stein che «c’è un tempo superbo e ci siamo sistemati».
L’11 aprile Picasso scrive a Kahnweiler: «Max deve venire a Céret. Puoi avere la cortesia di dargli dei soldi per il viaggio e per le sue spese personali? Metti tutto a mio carico.» Max Jacob è l’amico che tra il 1902 e il 1903, l’apice del momento di estrema povertà di Pablo, l’aveva accolto nella sua stanzetta all’87 di boulevard Voltaire ...e seppur crescendo in notorietà e ricchezza, Picasso mai dimentica gli amici che hanno condiviso la fame e il freddo con lui. Inoltre, da un po’ di tempo Max, ebreo per nascita, ha cominciato ad avere visioni mistiche - vede il Cristo ovunque -  e questo sconvolge il suo equilibrio psico-fisico: una buona ragione in più per averlo vicino, regalandogli una vacanza a Céret.
La presenza di Eva e dell’amico influiscono sullo sviluppo artistico di Picasso e il tono festivo e allegro del papier-collé che ha per tema Céret ne è la prova: «Un bambino non arriva mai a quell’ingenuità primordiale che qui raggiunge Picasso e che riesce a contagiarci. Queste Case di Céret danzano» scrive Palau I Fabre nel secondo volume della sua biografia artistica di Picasso.

Case di Céret, estate 1913

Il 5 maggio Picasso, che ha lasciato il villaggio per un breve viaggio a Barcellona, scrive a Kahnweiler: «Le comunico la morte di mio padre, mancato la mattina di sabato scorso. Può immaginare in che stato mi trovo.» Nove giorni dopo Eva scrive a Gertrude Stein: «Spero che Pablo riprenda il lavoro, poiché soltanto questo può fargli dimenticare un po’ la sua tristezza.»
Il 2 giugno Max Jacob informa Apollinaire che «Eva è molto malata; angine continue la costringono a letto da otto giorni.» La stessa lettera contiene anche questa bizzarra descrizione: «Céret è una piccola città ai piedi dei Carpazi o Karpazi. La popolazione va dai cinquecento ai diecimila mila abitanti approssimativamente. Il numero ridotto degli abitanti è senza dubbio dovuto all’abbondanza di pederasti e di erotomani che si limitano a riempire i caffè.»
In un’altra lettera diretta ad Apollinaire, Max scrive di aver fatto un’escursione di pochi giorni (dall’11 al 15 giugno) a Figueras e a Girona con Pablo ed Eva e di essere andato a vedere una corrida, aggiungendo: «la Spagna è un paese quadrato e fatto di angoli.» Come a dire: è un Paese per sua natura cubista.
Dopo questo viaggio di distrazione, Picasso riprende a lavorare, reinterpretando i suoi Arlecchini, vecchi compagni d’angoscia, ma subito s’interrompe, Il 19 giugno Eva informa Gertrude Stein che il giorno dopo sarebbero tornati a Parigi.

Arlecchino, 1915

Il blocco creativo che ha colpito Picasso a Céret continua a Parigi. Inoltre, la tosse non dà tregua ad Eva. Da qui la decisione di tornare alla brezza dei Pirenei. Arrivano a Céret tra il 6 o il 7 di agosto per sbrigativamente ripartire pochi giorni dopo. Non torneranno mai più.


Il periodo buio di Picasso continua: la Grande Guerra è iniziata, i suoi migliori amici sono al fronte, la salute di Eva peggiora giorno dopo giorno, fino a richiedere l'ospedalizzazione alla Maison de la Santé Goldman al 57 di boulevard de Montmorency. L’artista realizza una serie di quadri sul tema Donna seduta, il ritratto della donna amata costretta su di una sedia, serie concluda da alcuni tragici disegni: Eva agonizzanteEva sul letto di morte, La salma di Eva, morta il 14 dicembre 1915 all’età di trent’anni. L’8 gennaio 1916 Picasso scrive a Gertrude Stein: «La mia povera Eva è morta. […] È stato per me un grande dolore e so che lei ne sentirà la mancanza. È sempre stata così buona.»

Un ciclo è finito. Scrive Apollinaire: «Ora è il sud ad attirare gli artisti. Invece di trascorrere le vacanze in Bretagna o nei dintorni di Parigi come facevano gli artisti della generazione precedente, i pittori vanno verso la Provenza. Persino i Pirenei sono stati abbandonati. Céret non è più la mecca del cubismo.»

 Donna seduta che legge un libro, 1914-1915

Eva agonizzante, dicembre 1915

Eva sul letto di morte, dicembre 1915

Gli anni passano, non tutti dimenticano. Nel 1950 Pierre Brune e Frank Burty Haviland creano a Céret il Museo d’Arte moderna, una struttura che nel tempo ha acquisito una dimensione internazionale grazie anche alla donazione da parte di Picasso (nel 1953) di 29 ceramiche avente per soggetto la tauromachia.

Personalmente, di Céret ho ricordi bellissimi: le ore passate al Museo d’arte moderna, lo struscio per le strade seguendo i pannelli che riproducono le tele dei tanti pittori che qui hanno lavorato, il tempo passato a fotografare la fontana in place Picasso, opera dei ceramisti Jacques e Juliette Damville e la scoperta della cucina di madame Minerva, una donna approdata a Céret dalla vicina Spagna e titolare del minuscolo Restaurant Al Duende. Buonultima, la cappella di Saint-Martin de Fenollar dista solo una decina di chilometri.


ADDENDA. Nell’estate del 1954, Picasso riprende la strada di Perpignan in compagnia di due suoi amici, il pittore Édouard Pignon e sua moglie Hélèn Parmelin, giornalista e scrittrice. In agosto raggiungono Céret, dove Picasso mostra loro la Casa dei Cubisti, il museo, il torrente, il vecchio cafè Justafré, ricordando i tempi di Fernande e di Eva, di Manolo, di Pichot, di Braque, di Max Jacob e di Juan Gris, i giorni della pittura e della sardana.
Proseguendo oltre Céret, con l’auto risalgono la foresta di Fontfréde fino al suo culmine, il confine con la Spagna, luogo dove Picasso, davanti ad un’assemblea organizzata a Céret dal PCF, propone di erigere un laico Tempio della Pace. Non verrà mai costruito.
[fine della trilogia]


LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
11 maggio 2015