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domenica 24 novembre 2019

Un giorno a Parigi - Le nozze di Apollinaire


Parigi, 4 novembre 2015. Dopo tanta pioggia caduta nella notte al mattino non c’è da aspettarsi un granché e uno sguardo dalle finestre certifica che il cielo è grigio elefante con nuances grigio topo. Meglio dedicarsi a una ricca colazione a base di baguettes e croissants calde di forno, marmellata e tanto café-au-lait, poi si vedrà.


Nel racchiuso spazio denominato Square Laurent-Prache - all’interno dell’area di competenza della chiesa dell’abbazia di Saint-Germaine-des-Prés - sopra una stele marmorea su cui è inciso A GUILLAUME APOLLINAIRE vi è la mozzata testa di Dora Maar, un bronzo di Pablo Picasso - e per la storia della realizzazione di questo tributo mi affido alle annotazioni estratte dai miei archivi.

1927. Picasso esegue una serie di disegni che propone al comitato per il monumento a Guillaume Apollinaire, non approvati.
1928. In autunno Picasso si trasferisce nel laboratorio dello scultore Juli Gonzáles, rue de Médéah, dove si dedica al monumento in onore di Apollinaire.
Nel 1942 Picasso modella la grande testa di Dora Maar, poi utilizzata per il monumento in onore ad Apollinaire in square Laurent-Prache, a lato della chiesa di Saint-Germain-des-Prés.
1958. A Parigi s’inaugura il Monument à Apollinaire.

Una brutta storia questa del monumento, come si evince dalle date, sinonimo di continui ripensamenti (di convenienza politica) da parte delle autorità che governano Parigi, poco interessati a rendere omaggio a colui che più di altri ha saputo rinnovare la sopita poesia francese del suo tempo. Tiremm innanz.





Sul lato opposto della place il Prometheus di Ossip Zadkine è un punto fermo, sempre lì, implacabilmente eretto sul suo piedistallo.





Poco oltre, le fauci de Les Deux Magots e del Café de Flore sono pronte a inghiottire il viandante in cerca di un ristoro.
Parlando di Picasso, così scrive Brassaï:

[1935] La vita di bohème riprendeva il sopravvento. Provato e ferito dai contrasti coniugali, addirittura disgustato della pittura, rimasto solo nei suoi due appartamenti, aveva fatto appello al grande amico d’infanzia Jaime Sabartés che, dopo essere stato a Montevideo, si era trasferito da molto tempo negli Stati Uniti con sua moglie. Picasso gli chiese di ritornare in Europa e di venire ad abitare a casa sua, con lui… Era una specie di grido di disperazione… Era la crisi più grave della sua vita. Sabartés arrivò a novembre e andò ad abitare dal suo amico in rue La Boétie; incominciò a riordinargli le carte, i libri, a decifrarne le poesie e a batterle a macchina… Da allora, come il viaggiatore e la sua ombra, quello con gli occhi più acuti accompagnato da quello più miope, li si incontrava quasi sempre assieme da Lipp, ai Deux-Magots, al Café de Flore, i tre centri d’attrazione di Saint-Germain-des-Prés, che incominciava allora a soppiantare Montparnasse.



1936. Ai Deux Magots una sera Picasso, gli Éluard e altri amici restano affascinati da un insolito spettacolo: una giovane donna gioca a conficcare velocemente la lama di un coltello tra le dita, ferendosi. È questo il primo incontro con Henriette Theodora Marković, in arte Dora Maar, in seguito compagna di Pablo Picasso nonché la modella della testa poi finita sul monumento ad Apollinaire.
Dopo l’edicola vi è l’Ecume des Pages, la libreria che ha preso il posto lasciato vacante da La Hune, un luogo dove a suo tempo - anni Ottanta, quando avevo un ufficio a Parigi - amavo trascorrere le ore tra il dopocena e l’ora chiusura della libreria consultando (e acquistando) tanti libri introvabili in Italia. Vecchi ricordi mai sopiti.


La pioggia cade a livello accettabile. Al numero 202 del boulevard Saint-Germain, angolo rue Saint-Guillaume - strana coincidenza - una lapide ricorda che dal gennaio 1913 al 9 novembre 1918 qui è vissuto e morto l’autore di Alcools e di Le Poète assassiné. Purtroppo, i punti geografici raramente corrispondono alla realtà storica. Il palazzo di oggi poco o nulla a che vedere con quello abitato da Apollinaire, che aveva preso in affitto un piccolo appartamento all’ultimo piano con accesso dalla corte interna.






Scrive Cecily Mackworth in Vita cubista, pagine varie da me raggruppate:

Due giorni dopo, il 17 marzo [1916], in una trincea del Bois des Buttes vicino a Berry au Bac, Apollinaire fu ferito da una scheggia di granata che gli passò l’elmetto e penetrò nel cranio, sopra la tempia destra. Dopo una sommaria operazione nell’ambulanza fu inviato a Château-Thierry, infine all’ospedale militare di Val-de-Grâce a Parigi. Il referto medico informava che avrebbe dovuto essere trapanato immediatamente, ma non si sa per quale ragione, l’operazione fu rimandata e Apollinaire fu trasferito all’ospedale italiano, in cui l’amico Férat era medico ordinario. Qui fu curato da parecchie belle ragazze della nobiltà italiana, che riuscirono ad infondergli coraggio. In quel periodo corresse le bozze di un volume di racconti che prese il titolo da Le poète assassiné. Aveva inoltre una buona ragione per essere soddisfatto. Due anni prima, seguendo le istruzioni di Toussaint Luca, si era dato da fare per essere naturalizzato; gli era stato assicurato che dopo essere stato accettato come volontario nell’esercito francese, gli avrebbero concesso la cittadinanza. Sfortunatamente c’era l’affare delle statuette e una ricca (e spesso tendenziosa) documentazione negli archivi della polizia. Anche il suo legame con il cubismo non lo aveva aiutato affatto e la sua domanda, per un’obbiezione o l’altra, era sempre stata archiviata. Finalmente venne portata a termine una lunga inchiesta la quale concludeva che “dal punto di vista nazionale non si può obbiettare niente che possa farlo apparire sospetto”. La naturalizzazione gli fu concessa proprio nel momento in cui il suo reggimento tornava al fronte, pochi giorni prima cioè che venisse ferito. Così, solo molto tempo dopo, Apollinaire seppe che si era realizzato uno dei più ardenti desideri della sua vita.
La ferita, però, che si pensava dovesse guarire perfettamente, aveva invece intaccato qualche punto vitale del centro nervoso, tanto che una paralisi progressiva gli colpì il braccio sinistro, accompagnata da una forte depressione nervosa.
Alla fine risultò chiaro che il paziente poteva essere salvato solo mediante la trapanazione. L’operazione a quei tempi era una delle più terribili, ma Apollinaire la sopportò con coraggio e buon umore tanto da stupire medici e infermiere.
La paralisi fu arrestata e subito scomparve: ora era convalescente. Non appena gli tornarono le forze, cominciò di nuovo a lavorare furiosamente, inspiegabilmente, come se la parola destino, che aveva sempre avuto per lui un significato profondo e misterioso, contenesse una nuova e più precisa minaccia.
Dopo l’operazione Apollinaire non fu mai più l’uomo di prima. All’ospedale era diventato più grosso che mai, sotto la testa bendata gli occhi avevano un’espressione di selvaggia ansietà che non lo avrebbe mai più abbandonato. Soggiaceva a crisi d’irritabilità, si accrebbe la vanità infantile che era stata sempre particolare del suo carattere e con l’accrescersi di questa divenne sempre più suscettibile.
Quando Apollinaire uscì dall’ospedale con la testa fasciata e la divisa quasi nuova da ufficiale, divenuta un po’ troppo stretta per lui, si trovò in una città completamente diversa. Era l’agosto del 1916, la terribile ed estenuante battaglia di Verdun continuava ancora e l’esito era incerto. La carneficina, lungo tutto il fronte occidentale, non sembrava voler diminuire e la maggior parte dei suoi amici ufficiali erano stati feriti o uccisi. Ma egli talvolta rimpiangeva di aver abbandonato l’esercito. Dopo il forte spirito cameratesco del reggimento, a lui, convalescente, sembrava che i civili, a casa, non sapessero nulla della guerra, se ne interessassero poco e vivessero avviluppati nel loro egoismo. Ovunque era diffuso lo spirito di speculazione e si speculava su ogni tipo di merce, anche la più inimmaginabile.
La posizione di Apollinaire era incerta. La Francia era disperatamente a corto di uomini e specialmente di ufficiali esperti. I feriti venivano ricoverati, curati e rinviati quanto prima possibile in trincea. Dalize, Mac Orlan, Vildrac erano stati tutti feriti nei primi giorni della guerra e adesso erano di nuovo in servizio attivo, così Georges Braque, che aveva avuto una ferita gravissima alla testa ed era stato trapanato come Apollinaire. Questi non era stato ancora congedato e la licenza di due mesi per convalescenza stava per finire. Finalmente André Billy, che aveva amici influenti in molti settori, ottenne per lui un posto nella sezione stampa della censura. Là Apollinaire cominciò un nuovo servizio come funzionario civile, per quanto dipendesse ancora dall’esercito e fosse sempre in uniforme; era obbligato a presentarsi tutt’i giorni, e puntualmente, in ufficio. Il suo compito era quello di eliminare dalle pagine dei quotidiani e delle riviste tutto ciò che poteva essere considerato utile al nemico, o di spirito disfattista. Così egli stesso contribuiva a molti degli articoli che passarono nelle sue mani e spesso ebbe il piacere di pubblicare qualche suo scritto “approvato dal censore” apponendovi le proprie iniziali.
Durante i primi anni della guerra qualsiasi attività artistica che non avesse un carattere decisamente patriottico era sembrata un po’ sospetta. Ora la guerra era divenuta una cosa quasi normale e Parigi stava riprendendo, anche se in modo piuttosto timido e sporadico, la sua vita intellettuale. L’appartamento di Louise Faure-Favier in quai Bourbon era uno dei luoghi più in vista, dove potevano incontrarsi scrittori e artisti in licenza, quasi stupiti di ritrovarsi ancora vivi, e in quelle poche e brevi ore cercavano di rivivere lo spirito pieno di allegria del 1914. In quel mondo alieno in cui ora viveva, Apollinaire trovava qui uno dei pochi luoghi che ancora lo facessero sentire a casa.
Apollinaire, a trentasette anni, era molto diverso dall’uomo di dieci anni prima o forse aveva visto, sentito, indovinato troppe cose.
La Jolie Rousse era stato un addio alla vecchia vita e aveva rivelato un insolito arretramento, un’esitazione di fronte al futuro. Aveva segnato la scelta per l’ordine, ma una scelta che sembra fatta con riserva, con la coscienza inquieta. Anche il titolo ha un significato, sebbene non appaia a prima vista. Apollinaire aveva avuto molte delusioni, per tutta la vita era stato privato di quella tenerezza che aveva sempre desiderato. Ora, infine, aveva conosciuto una giovane con i capelli di un rosso fiammeggiante, dai riflessi dorati, che rappresentava per lui esattamente quell’ardente “ragione” che era giunto a identificare con la verità. Jacqueline Kolb seppe calmare la sua ansia, sorvegliare la sua salute, togliergli i timori e le apprensioni che tanto spesso l’assalivano. Ella era il sostegno; riuscì talvolta a fargli ritrovare la vecchia capacità di tanta allegria, che riconosceva come il dono più prezioso e che temeva tanto di perdere.
Apollinaire e Jacqueline Kolb si sposarono nella chiesa di Saint-Thomas d’Aquin il 2 maggio del 1918, Picasso, Ambroise Vollard, Lucien Descaves e Gabrielle Picabia furono i testimoni. Misero su casa in un appartamento del boulevard Saint- Germain e la vita continuò con lo stesso ritmo eccitante. Apollinaire si alzava presto, faceva il caffè, mentre canterellava le cinque o sei note al ritmo delle quali, invariabilmente, componeva le poesie. Poi cominciava la giornata di lavoro al ministero, intervallato dalla tormentosa attività giornalistica, da cui proveniva la maggior parte delle sue entrate. Si stava sforzando a scrivere un romanzo, dietro urgente richiesta dei suoi editori, e a comporre il libretto per un’opera che aveva immaginata durante una conversazione con Diaghilev. La pubblicazione di Calligrammes aveva accresciuto la sua celebrità, gli aveva portato nuovi obblighi e lo spingeva a fronteggiare nuovi attacchi.
L’eccessivo lavoro gli aveva sottratto molte forze, poco prima del matrimonio era stato ricoverato all’ospedale italiano con una polmonite. Jacqueline, trasformata in infermiera, era rimasta al suo fianco; con l’aiuto dei medici, il conforto di Jacqueline e la robusta costituzione, era riuscito a trionfare sulla malattia. Ora in quell’autunno del 1918, mentre il mondo era in un’aspettativa piena di tensione per la fine della guerra, proruppe l’epidemia mortale di spagnola che ben presto infuriò in tutta la Francia. Apollinaire ne fu colpito, lottò per alcuni giorni, poi, quando tutti lo credevano fuori pericolo, ebbe una ricaduta. In guerra non aveva mai temuto la morte, e ora combatté per la vita con disperata energia, ma il 9 novembre era già chiaro che non c’era più niente da fare. Proprio in quel giorno era stato stipulato l’armistizio e se ne attendeva l’annuncio di minuto in minuto. Durante tutto il giorno Apollinaire aveva sentito la folla per la strada sotto la finestra, che cantava “Abbasso Guglielmo! Abbasso Guglielmo!” e nel delirio gli era sembrato che tutta Parigi si fosse levata in una dimostrazione di ostilità contro di lui... Mais riez riez de moi... Ayez pitie de moi... Morì alle sei del pomeriggio, stringendo la mano del dottore e implorandolo: “Mi salvi, dottore, ho ancora tanto da dire!” Aveva appena trentott’anni.

Continuo a seguire le tracce lasciate da Guil Apollinare. Più avanti, a destra, prendo per rue du Bac e subito mi si para di fronte la facciata della chiesa di Saint Thomas d’Acquin, la stessa dove si è sposato Apollinaire e dove, non molto tempo dopo, si sono celebrati i suoi funerali.

Estraggo da Picasso/Apollinaire. Correspondance, pp. 164-165:

Monsieur Pablo Picasso 20 24 ou 28 rue Victor Hugo Montrouge Seine
[30 avril 1918]
Cher Pablo
Je me marie jeudi - tu es mon témoin - sois à la mairie du 7e arr. rue de Grenelle - C’est près de la rue Bellechasse - à 10 ½ précises - salle des mariages - mais réponds si c’est entendu - nous t’attendons avec ta fiancée - nous déjeunerons tous ensemble après la cérémonie religieuse qui aura lieu à St Thomas d’Acquin
Ton ami
Guil Apollinaire

Questa carte-lettre non segnala il posto scelto per il pranzo. Rimedio: Chez Poccardi, Boulevard des Italiens.







Entro. La chiesa è vuota ma i miei occhi “vedono” sia gli sposi - Guillaume Apollinaire ed Amélie Kolby detta Jacqueline - che i testimoni - Pablo Picasso in prima linea - raggruppati di fronte all’altare e intenti ad eseguire quanto il rito prevede: in piedi, in ginocchio, di nuovo in piedi, seduti…
Dietro all’altare vi sono delle sedie. Passando per un’apertura laterale le raggiungo. Da qui, dalla posizione del sacerdote, quanto sopra mi appare più chiaro e non riesco a trattenere un sorriso: quanto avrei voluto esserci quel giorno!
La porta della sacrestia si apre e un giovane sacerdote mi raggiunge. Ci sorridiamo e alla maniera francese ci diamo la mano augurandoci un reciproco bonjour monsieur. Dico: in questa chiesa si è sposato Guillaume Apollinaire con Picasso testimone… Lui annuisce ma non risponde. Ho capito che non sa. Mi saluta e così come è arrivato così sparisce dietro la porta.
Mi siedo e mi prendo il mio tempo.
Quando esco la pioggia è ormai del tutto cessata.





domenica 10 gennaio 2016

Picasso. Presentazione di Fernanda Wittgens



Picasso
Presentazione di Fernanda Wittgens
Silvana Editoriale d’Arte
Milano 1954
pp. 5-12


Terra dell’Umanesimo, l’Italia, con la forza della sua tradizione, assolve tuttora la missione di vaglio d’ogni cultura nuova: una missione di cui pochi intellettuali nostri sono coscienti mentre è chiara, almeno dal tempo di Goethe, allo sguardo del mondo internazionale. Era tempo che il rivoluzionario movimento della pittura moderna, rifluito da Parigi in ogni centro culturale dell’America del Nord e dell’Europa ma non in Italia ove erano apparse soltanto le sporadiche documentazioni delle Biennali Veneziane, fosse illustrato, sulla scena italiana, dal caposcuola del Novecento europeo: Pablo Picasso.
La recente mostra dell’opera pittorica, grafica e plastica del Maestro in Palazzo Reale di Milano ha assolto questo compito per una duplice ventura: per avere potuto raccogliere l’opera giovanile di Picasso documentata da dipinti del Museo d’Arte Moderna di New York, di collezioni private americane, svizzere, francesi, italiane, e soprattutto dai nove fondamentali esemplari provenienti dal Museo d’Arte Moderna di Mosca; e per aver ricevuto, sia pure per un mese solo, il suggello di Guernica, la creazione assoluta del Maestro ed il «documento principe» del Novecento artistico europeo.
All’inizio della sua vita d’artista, è il mondo del sentimento che attrae Picasso; parallelamente, la sua esperienza pittorica si svolge nella cerchia dell’Impressionismo e del post-Impressionismo, se pur una segreta ansia umana ed un rigore che è manifesto segno di integrità spagnola, impediscono all’artista di cadere nei facili effetti decorativi degli epigoni. È la lezione offerta da due rarissimi capolavori del «periodo blu» e del «periodo rosa» di Picasso, conservati nel Museo di Mosca: il Vecchio ebreo e il Saltimbanco.
Comprendiamo che l’azzurro del Vecchio ebreo forzato sino all’austerità del monocromato (sicché il prodigio espressivo è affidato essenzialmente al disegno) ha, per Picasso, il valore di un simbolo di quella vaga socialità che segnava il nascente secolo XX: simbolismo ben altrimenti puro di quello di Puvis de Chavannes e dei neopreraffaelliti, al cui influsso pur non era sfuggita la sensibilissima natura picassiana. Ma ecco il Saltimbanco: la fantasia del Maestro comincia a dominare il sentimento nell’illusoria figurazione della vita del circo; e la pennellata delicatissima accende, sulle forme umane e sul deserto scenario di colline sabbiose, lumi rosa quasi fuochi fatui. Siamo ai margini della trasposizione della realtà sul piano intellettuale, ai margini della creazione dell’arte moderna.
L’autentica attività creatrice di Picasso s’inizia solo nel momento in cui l’artista acquista la consapevolezza che tutte queste esperienze appartengono al passato - un grande passato iniziato nel Barocco e concluso con la pittura impressionista - e che una nuova civiltà deve nascere da un nuovo arcaismo. La lezione di Cézanne, la suggestione dell’arte negra importata all’inizio del Novecento in Parigi, il potente, genuino temperamento spagnolo dell’uomo e dell’artista si sommano felicemente nell’impeto rivoluzionario della pittura «cubista» di Picasso, la prima autentica parola del Novecento artistico.
Ancora i dipinti dei Musei di Mosca hanno offerto gli elementi fondamentali per comprendere il complesso processo di formazione della nuova pittura. Un quadro ha colpito il pubblico italiano per la violenza della sua stilizzazione: Le tre Donne. Quadro eroico, realizza in un clima di passionalità quello che era stato, per Cézanne, un imperativo categorico dell’intelletto: rendere la natura per cubi e cilindri. Ma è una via senza uscita, e, d’altra parte, se Picasso ha potuto risolvere un simile tema con potenza come in questo quadro, lo ha fatto mercé un ritorno al passato, ispirandosi alla scultura romanica della sua terra spagnola, e ne ha emulata la plasticità per quel potere che Leonardo riconosceva alla pittura, di simulare con i suoi mezzi gli effetti dell’arte sorella.
Un altro quadro nella stessa sala di un anno anteriore appariva, ai sensibili, miracolo più sottile e maggiore: la Danza con i veli, tanto più che esso era esposto accanto ai Due nudi della Collezione Silbermann di New York, veri feticci negri in un’atmosfera fauve, che documentavano il primo e non controllato incontro, circa il 1906, con l’esotismo primordiale. L’intellettuale natura di Picasso riprende il dominio nella Danza con i veli, e soggioga l’emozione. Fosforescente di gialli, di azzurri, di verdi, il dipinto mirabile è solo al primo sguardo una simbologia dell’estasi fantastica, una visione orientale; contemplandolo, si discerne la meditata astrazione della forma, il nascere di un nuovo linguaggio figurativo che aderisce alle più sottili ricerche della cerebralità e della ipercultura del nuovo secolo, di quel Novecento che, al suo inizio, si è posto in antitesi assoluta col romantico Ottocento.
Da quest’opera e dai vari studi per le Démoiselles d’Avignon esposti nelle sale milanesi e più genialmente rivoluzionari e convincenti dello stesso famoso grande quadro del Museo di Arte Moderna di New York, si giunge alle espressioni ardite del «cubismo analitico» che dobbiamo considerare nel loro valore polemico : indici della frattura di una civiltà, manifesti di una nuova visione estetica.
L’estetica classica e postclassica conciliavano le loro antitesi nella tradizione mediterranea «dell’uomo misura di tutte le cose» sia che, classicamente, queste fossero a lui subordinate, sia che, romanticamente, divenissero elementi della sua fantasia. Che cosa sono infatti i paesaggi impressionisti se non proiezioni del lirico rapimento dell’uomo ottocentesco, raffinato nella sensibilità dalla poesia e dalla musica romantica, di fronte allo spettacolo della Natura che è serena ed amica secondo l’ottimistica interpretazione della fine del secolo?
Il Novecento segna un brusco risveglio di intellettualità, e con un balzo gigantesco il pensiero umano trapassa dall’apparenza all’essenza, se non vogliamo dire al «metafisico», termine più popolarmente accessibile ma che difficilmente può essere usato, dopo secoli di teologia, in significato nuovo ed elementare. È un’avventura spirituale di cui non abbiamo ancora misurato la grandezza noi che ne siamo partecipi e vittime, perché l’abbiamo scontata con la distruzione degli ottimismi e delle «certezze» scientifiche, con le tragiche catarsi delle guerre, con l’immensa responsabilità di creare, sulle nuove basi cosmiche, una civiltà pur sempre riferita all’uomo. Veggente è invece l’artista, e Picasso cerca di esprimere, mercé il cubismo analitico, la nuova visione del mondo, la nuova estetica dello spazio.
Lo spazio tradizionalmente sentito come ambiente dell’uomo diviene, nell’intuizione del nostro secolo, un’entità, un elemento operante e creativo in quanto collega in unità l’uomo e gli oggetti mercé i suoi piani e le sue luci. Le forme umane e naturali si geometrizzano; nasce la nuova grafia che ripete esperimenti antichissimi di tutte le arti mistiche - dai vasi del Dipylon agli «entrelacs» irlandesi, ai mosaici bizantini - le quali proprio per simboleggiare l’unità cosmica del mondo, imponevano una figurazione in superficie ed uno stile geometrizzato.
È interessante notare la difficoltà di Picasso nella rinuncia all’espressione umana: il Ritratto di Vollard del Museo di Mosca e la Suonatrice di mandolino della Collezione Penrose di Londra non sono privi di echi romantici, sicché più assoluta appare l’esperienza cubista nella Donna in verde della Collezione De Haucke orgogliosamente vitale con le sue forme ampie ed il vibrare dei verdi, nella Donna in poltrona della Collezione Salles di Parigi, raccolta in tonalità di grigio e viola che ne fanno un’opera di meditazione sulle segrete relazioni tra l’atmosfera e la forma umana e nel Violino del Museo di Mosca, capolavoro della visione cubista, una lirica creata con la vibrazione del prisma. È questo senso di umanità di Picasso che sollecita l’artista a chiudere in breve giro di anni, circa dal 1909 al 1914, il cubismo analitico che fu, per Braque e Juan Gris, l’esperienza definitiva, ed a tentare un’altra e più difficile via: «il cubismo sintetico».
Il Giocatore di carte del 1914, generosamente concesso dal Museo d’Arte Moderna di New York e Fruttiera e chitarra, gemma del Kunsthaus di Zurigo segnavano, nella Mostra milanese, più potentemente d’ogni altra tela, l’inizio e lo sviluppo della nuova ricerca che, elaborata in qualche capolavoro dell’artista (ricordiamo Il Balcone della Collezione Rosenberg di New York) condurrà a Guernica. Se fosse consentito fare di un uomo un simbolo, dovremmo seguire questo solo e fondamentale linguaggio del cubismo sintetico di Picasso; ma troppo grave sarebbe la lesione dell’umanità dell’artista. E dobbiamo perciò accennare ad altre multiformi, complesse esperienze che, se si sa «leggere» l’opera del pittore, non nascono dall’io autentico di Picasso, ma sono il riflesso di un mondo iperculturale - quale fu quello europeo del primo Novecento - sulla sensibilissima personalità picassiana. Questo fenomeno ha il potere di provocare le più sorprendenti reazioni che possono essere il classicismo delle opere italiane, lo strano e sentimentale romanticismo dei ritratti di Pablo del 1925 (e tuttavia, in quel periodo, nasce anche il capolavoro cubista dei Tre musici del Museo d’Arte Moderna di New York), l’espressività infine che segna di un particolare timbro l’opera matura dell’artista, ed è certo l’esperienza da lui più sofferta. Come bene ha visto il più acuto biografo di Picasso, Christian Zervòs, quasi in tutti i momenti della sua vita il Maestro è vittima di un dualismo tra la carica affettiva suscitata dagli incontri con la vita ed un bisogno di libertà che lo spinge ad evadere, sino a reagire con violenza all’esperienza ricercata ed insieme temuta. È la natura spagnola che non sa raggiungere, secondo l’esperienza greca, la catarsi della contemplazione, anzi coltiva fanaticamente il dualismo di coscienza ed istinto, di passione sublimatrice e di sessualità, di intelletto e sentimento.
Momenti sereni non mancano tuttavia in questa maturità: l’eterno femminino così inquietante per Picasso, qualche volta assume aspetti di semplice, direi solare naturalezza, ad esempio nel vivente arabesco dell’Odalisca di proprietà dell’artista e in quella Donna col cappello, (anch’essa della collezione personale di Picasso), arditamente sezionata da una ricerca dinamica riflessa dal cinematografo nella cultura del nostro secolo, e che pure, in quest’opera, perde ogni aggressività polemica per la preziosità del colore. È un delicato gioco di azzurri, di gialli chiari, di rosati, raro in Picasso che «vede» generalmente più da freschista che da pittore da cavalletto, per zone di tinte semplici.
Antagonista nell’espressione è la Donna seduta che legge.
Essa appartiene al momento delle esperienze psicanalitiche e al pari della Donna che gioca al pallone sulla spiaggia e della lunare Donna sulla spiaggia dovrebbe esprimere le complicate simbologie dell’inconscio. Fortunatamente riemerge, dalle cerebralissime esperienze, intatta l’austerità del primitivo spagnolo, e lo splendore dei rossi e dei gialli tramuta il simbolo freudiano in un’immagine di Apocalisse catalana. Siamo nel 1937, l’anno di Guernica che sublima questa ancestrale ispirazione picassiana, Guernica frattura della civiltà, canto del dolore del mondo.
Eterno viandante, l’artista procede oltre quel termine, e nel 1938 e nel 1939 torna ad aderire alla vita quotidiana, alle sue possibilità di bellezza; ed ecco la pura gioia estetica del bel colore e delle forme espressive nella Pêche d’Antibes, vero peana della vita marina, inno dell’uomo mediterraneo e, con Guernica, capolavoro assoluto del maestro.
Poi di nuovo, nel ’40, la guerra: ed altri, più terribili mostri e deformazioni e simboli di ferocia come il famoso Gatto che azzanna l’uccello, e la morte stessa col suo gelido riso; e poi, nel dopoguerra, il mondo intimo dell’uomo, la vita di casa tra gli umili arredi domestici. Ecco ad esempio, nella famosa tela del Museo d’Arte Moderna di Parigi, La cazzeruola smaltata, un effetto magico di vita colta realisticamente e poi fissata in astrazione, tanto da dare agli oggetti elementari un segreto significato di umana civiltà.
La biografia potrebbe continuare sino al giorno di oggi, ritessere altre proteiformi esperienze; deve comunque includere la testimonianza dell’opera plastica. Sculture come l’Uomo con l’agnello, La Capra, la Testa di donna del 1937 confermano che qualsiasi materia tratti la mano di Picasso, essa si anima di espressione, palpita di vita: l’impresa prometeica è anzi forse più facile a Picasso nel bronzo che non nella tela campita dai colori. Ma questa biografia per sé interessantissima, nei riflessi di una vasta percezione della modernità ha interesse secondario. È la genuinità di Picasso, non le sue multiformi esperienze, che definisce l’essenza della modernità. E genuino è il cubismo sintetico, la cui realizzazione massima cogliamo in Guernica. Sette metri di tela ordita per la lotta col mare, tela di vela, accolgono la tempestosa figurazione della tragedia della Spagna che segnò la fine di un sogno secolare di civiltà e di progresso umano, ed annunciò l’apocalittico cataclisma della guerra mondiale. Guernica è, ripetiamo, il canto del dolore del mondo: risparmiata la facile eloquenza del colore, Picasso intona questo canto su note di bianco e nero (che variano in infinite gradazioni sino all’avorio rosato, carneo, e al grigio aurorale), lo purifica cioè in un misticismo cromatico che rivela l’estrema sincerità dell’ispirazione.
Dal punto di vista della forma, la lunga, sofferta esperienza del cubismo sintetico si conclude in una pagina che non ha più alcuna cesura né alcun ermetismo d’origine cerebrale; ampia, sonora, costruita, ritmica e commossa. La riempie lo spazio che non è un fondo morto, ma un tessuto animato ed elastico come il tessuto corporeo; e le forme si incidono come vene pulsanti. Una finestra affonda grigia nel bianco, e scopre l’infinita pace del ciclo sulla tragedia consumata; una porta, un muro bianco gridano l’orrore dei reclusi nelle macerie più dello stesso gesto disperato della donna nella casa crollata; un altare, in prospettiva nel fondo, eleva la colomba grigia con la ferita bianca come un’ostia, a simbolo di perdono. E simboli di redenzione nel futuro diven­gono le stesse semplici lampade domestiche, anche perché il loro quieto e fedele lume è più forte delle fiamme distruttrici, e fa discendere sulle vittime, nella gelida veglia al limite della notte, una promessa di pace.
La morte stessa si trasfigura; il martoriato braccio del guerriero stringe ancora il ferro, ma da questo già germoglia un fiore. E la madre che urla il suo strazio ai piedi dell’impassibile toro - il Fato della Spagna - presto chinerà il capo, e si accorgerà del miracolo d’amore: il figlio morto si ricompone nel suo grembo in un dolcissimo arabesco, non è più un morto ma un fantastico fiore reciso. Orrore e pietà ispirano all’artista il contrappunto ardito di spazi architettonici e di volumi plastici che culmina nel nodo centrale del cavallo ferito. Solo uno spagnolo uso alle corride poteva scegliere, come emblema del terrore, il cavallo, e dipingere i suoi occhi folli liquefatti e il suo nitrito primordiale. «Se tutto il dolore del mondo fosse raccolto in un grido, esso assorderebbe il mondo», ha detto un antico poeta. Ecco veramente, nel centro del quadro, un urlo cosmico.
Ed ecco il vertice del nuovo linguaggio. Se l’intero corpo del cavallo avesse dominato la scena, la pittura sarebbe stata pura figurazione senza mito segreto, senza la sottile «speculazione» leonardesca. Picasso delinea in tutta la possanza del volume il petto del cavallo, ed annulla in arabesco le sue altre forme reali, le consuma nello spazio che riassorbe in sé la plastica, ristabilendo un equilibrio fantastico, una suggestione mitica. È l’esperienza dei primitivi riscoperta dall’uomo moderno cosciente, ma al tempo stesso ispirato dal soffio di una passione così vasta che può esprimersi in una forma corale.
Se riapriamo oggi il Cahier d’Art che Christian Zervòs, con la sua intuizione di ogni arte vivente, dedicò nel 1937 a Guernica, sentiamo con stupore la perfetta rispondenza del nostro stato d’animo con quello dei primi scopritori: Zervòs nel suo saggio «Histoire d’un tableau» e Josè Bergamin nelle pagine di irripetibile poesia dedicate al mistero dell’opera, e che si intitolano «Picasso furioso». E sono passati diciassette anni, e una guerra - quale guerra! - ha diviso il secolo XX in due epoche! Eppure intatta, come prevedeva Zervòs, è rimasta la magia di Guernica. Con il critico stesso possiamo spiegarla intellettualmente interpretando come motivo dell’opera la rivelazione sublime della vittoria della vita sulla morte: «Pour ces raisons il est loisible d’affirmer que cette oeuvre trouvera durablement accès au coeur, apporterà des suggestions, suscitera des sentiments, fera naître la conviction qu’il y a des choses plus grandes que la réalité apparente et que parteciper de leur grandeur c’est un peu se relever en dignité».
Con il poeta Bergamin possiamo interpretare la suggestione di Guernica medianicamente, possiamo rinnovare la comunione con Picasso «furioro» di quella collera spagnola che il poeta mirabilmente definisce rivelandone l’essenza mistica: «Le mystère tremble en lui par la vérité colérique de la justice qu’il demande. Car la véritable justice est le couteau de la balance entre un oui et un non définitifs; elle n’est autre chose, en définitive - autre chose idéale, autre réalité - que l’affirmation humaine de la vie à quoi la négation de la mort fait contrepoids. La plénitude de l’être contre le néant».
L’una e l’altra interpretazione è valida, l’una dell’altra complementare, e ad entrambe aderiamo, riconoscendo che Picasso, educato dalla cerebralità parigina all’intellettualismo ed a tutti i suoi orgogli, ha ritrovato l’umanità nell’ora in cui le sue radici spagnole erano colpite dal sacrilegio, e con il potere del genio ha previsto, nell’episodio, il dramma del secolo in un’opera artistica che chiude il passato e prepara l’avvenire. Essa è anche la giustificazione di tutto il suo linguaggio rivoluzionario, e annulla gli esperimenti falliti, denuncia gli errori dell’intelligenza troppo compiaciuta di sé e dell’avventurosa ricerca, stabilisce, nell’opera picassiana troppe volte spinta al di là del limite, quella che è l’accettabile e morale «misura».
Se non avesse dato Guernica, Picasso apparirebbe quale l’Ulisse dantesco, eroe della conoscenza che per la sua sfida agli dei, è travolto nel vortice senza aver raggiunto la suprema verità. Ma Guernica risolve, sul piano dell’umanità e dell’espressione corale, il grande problema dell’arte di oggi, parimenti sollecitata dal mondo della coscienza umana e dalla percezione della vita universale: un’arte che è soprattutto ed essenzialmente espressione, ma che non ama le complicazioni estetizzanti del primo Novecento perché non ha più radici intellettuali, ed individuali, bensì mistiche e sociali. Guernica pittorica e plastica e architettonica, creata con sintesi assoluta di spazi e di volumi, e pur tutta trepida di vita per le vibrazioni sottilissime dei suoi grigi e per le misteriose linee nere che come frecce spinate saettano, nei punti nevralgici, le ampie costruzioni plastiche animandole medianicamente, Guernica è un messaggio di fede che Picasso offre all’artista d’oggi perché con un coraggio ed una libertà pari alla sua, tenti una forma nuova, e vi trasfonda la ricerca severa di un’umanità ricondotta, dal dolore, alla meditazione dell’assoluto, ed ansiosa di ricomporre il lacerato tessuto della civiltà con il potere dell’arte.

FERNANDA WITTGENS
























giovedì 18 giugno 2015

Balzac e Picasso in Rue des Grands-Augustins



«C’è crisi. Nonostante il suo ottimismo di fondo, Kahnweiler era preparato. Ormai la si deve affrontare. Il 25 ottobre 1929, la borsa di New York crolla secondo uno schema tutto sommato banale, poiché lo riscontriamo nella crisi che ha colpito la Francia nel 1882 e in quella degli Stati Uniti del 1907. Ma questa sarà più lunga e più ampia.
Si prospettano anni di vacche magre. Il cosiddetto commercio del lusso, qual è il mercato dell’arte, come potrà non soffrirne? ... Kahnweiler ha la sgradevole impressione che niente valga più niente. Nessuno compera. ... Tutti sono nella stessa barca. Ogni tanto il morale risale. Si parla di una leggera ripresa. ... Kahnweiler esprime queste opinioni nelle lettere al cognato Michel Leiris che sta percorrendo l’Africa come segretario-archivista della missione Dakar-Gibuti. Anche le opinioni di quest’ultimo sulla crisi, vista da Dakar o da Yaoundé, sono interessanti: “Ho una gran fretta di essere nella savana, lontano dagli europei imbecilli e dai negri truccati. ... Vista da lontano la situazione europea mi sembra più che mai insensata. In ogni caso essa costituisce la prova più schiacciante dell’inutilità della nostra civiltà”.
Alla galleria ci si annoia a morte. È un deserto. ... Fra il 1929 e il 1933 la galleria Simon non organizza neppure una mostra. Anche l’attività editoriale è considerevolmente ridotta: escono solo le poesie di Carl Einstein e L’anus solaire di Georges Bataille. Gli altri aspetteranno. Non si può ingozzare un pubblico restio.»
Pierre Assouline. Il mercante di Picasso
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990, pp 275-277



Certo, sono anni difficili, aiutati dalla vecchia regola della coperta corta: se la massa ha i piedi al freddo è perché pochi hanno le spalle al caldo. Le gallerie d’arte cercano di sopravvivere e le loro attività collaterali, quali l’edizione di libri da collezione, boccheggiano per mancanza d’ossigeno.
È proprio in questo momento storico che un ricco mercante di quadri, Ambroise Vollard, lancia il guanto e sfida il destino - e qui mi fermo per fare un balzo indietro nel tempo di cent’anni, quando il 31 luglio e il 7 agosto 1831 il periodico L’artiste pubblica Le chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac,[1] che inizia così:

Vers la fin de l’année 1612, par une froide matinée de décembre, un jeune homme dont le costume était de très-mince apparence, entra dans une maison de la rue des Grands-Augustins, ...&tc. &tc.



Ritorno all’anno 1931. Come detto sopra, la crisi morde i polpacci ai poveri e al ceto medio, ma non sono queste masse ad aver reso ricco Vollard. Il mercato ristagna, è vero, ma lui, che ama il rischio (calcolato), chiede a Picasso se ha dei disegni utili ad illustrare una nuova edizione de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tirata in poche copie e in grande formato. Roba di lusso, per collezionisti ricchi.
Scrive Patrick O’Brian in Picasso (pp. 320-321), una biografia già citata in altri miei post:

Un artista al lavoro, talvolta un pittore, talaltra uno scultore, spesso con una modella, fa ora la sua comparsa tra i personaggi di Picasso: una figura che ritroveremo spesso nei suoi quadri, in varie forme, mai però ispirata a un sentimento di autostima.
Spesso si tratta di un uomo tarchiato, con barba, abbastanza «classico» non fosse per i calzoncini corti, dall’aria sbalordita se non stupida, quale a volte può avere un toro; in una delle prime acqueforti l’uomo è seduto davanti al cavalletto e fissa attentamente la modella o qualcosa attraverso di lei; intanto con la destra traccia una mirabile serie di curve e di piani rettilinei che non sembrano avere molta attinenza con la donna: costei, d’aspetto gradevole, di mezz’età, lavora a maglia in grembiule ed è disegnata, al pari dell’uomo, con il perfetto realismo descrittivo che Picasso, quando voleva, sapeva produrre.
Sarebbe interessante sapere se l’acquaforte fu eseguita prima che Vollard parlasse a Picasso della sua intenzione di realizzare un’edizione illustrata del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac, poiché il libro narra di un pittore il cui capolavoro non può essere capito da nessuno se non dal suo stesso autore, ma in proposito gli studiosi hanno pareri contrastanti e anche i ricordi di Vollard sono vaghi. Altrettanto interessante sarebbe sapere se Picasso avesse letto il romanzo o no. Dalla descrizione che ne fece a Geneviève Laporte molti anni più tardi sembrerebbe di no, eppure poche opere gli sarebbero maggiormente piaciute. Molto succintamente la storia, ambientata nel 1612, è questa: il giovane Nicolas Poussin va a trovare il noto pittore Pourbus in Rue des Grands-Augustins e, dopo qualche esitazione, entra nello stesso istante in cui sopraggiunge anche un ricco signore anziano, di nome Frenhofer: Frenhofer critica il lavoro di Pourbus con grande libertà, esprimendo alcune opinioni molto interessanti in fatto di pittura. Poussin, sconosciuto a entrambi, si intromette ed è riconosciuto da ambedue quale un vero artista. Pourbus è gentile con il giovane, lo incita a lavorare, gli dice che Frenhofer era stato allievo di Mabuse e che adesso è pittore dilettante giacché, essendo ricco, non è obbligato a vendere, ma capace al punto che Pourbus ha scambiato i suoi dipinti per quelli di Giorgione. L’amicizia si fa più stretta, grazie anche al fatto che Poussin ha una giovane amante molto bella («una di quelle anime nobili e generose capaci di soffrire accanto a un grand’uomo, condividendone angosce e difficoltà e facendo tutto il possibile per comprenderne gli umori, sopportando l’indigenza e attingendo forza all’amore»), una donna che a Frenhofer piacerebbe avere come modella. Un giorno si trovano tutti nello studio di Frenhofer, dove Poussin vede alcuni quadri di mirabile fattura, che tuttavia Frenhofer giudica di poco conto a paragone del suo capolavoro, un dipinto che egli è estremamente riluttante a mostrare; infine si decide e lo fa vedere agli amici. Poussin non riesce a capire nulla in quel caos di colori, in quelle «gradazioni incerte, in quella specie di bruma informe», tranne «un solo piede, vivo e squisito». Dice però che non riesce a distinguere alcuna figura femminile nel dipinto. Frenhofer piange, per un attimo cerca di confortarsi immaginando che i due siano ladri, ma finisce per bruciare il quadro quella stessa notte, e muore.
Nel 1931, quando finalmente fu pubblicato, il libro conteneva acqueforti e disegni di Picasso puntiformi e cubisti, certamente precedenti all’idea del libro, oltre a qualche acquaforte realizzata per l’occasione; in tutto ottanta illustrazioni.

Sebbene Picasso abbia scelto le incisioni “a naso”, l’unità dell’opera non ne esce alterata. Il successo di critica e di vendita premiano il coraggio dell’editore.



Potrei fermarmi qui, se non fosse che il bello è ancora da venire.
Siamo ai primi giorni di gennaio del 1937 e Picasso, privato del grande studio di Boisgeloup che il tribunale ha assegnato a sua moglie Olga, da cui si è separato, cerca una nuova sistemazione per lavorare. Gli viene incontro Vollard che gli affitta una vecchia casa da lui comperata a Le Tremblay-sur-Mauldre, col granaio trasformato in studio; come abitazione, a Parigi il pittore mantiene i due piani acquistati in Rue La Boëtie, mentre la sua nuova fiamma, Dora Markovich - in arte Dora Maar - vive in un appartamento in Rue de Savoie, vicinissimo al complesso di studi che Picasso ha preso in affitto da alcuni anni, ma che finora ha poco o nulla frequentato.
Lo fa verso la fine di marzo, quando decide di occupare saltuariamente i due piani della vecchia casa del Settecento al n. 7 di Rue des Grands-Augustins, chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino - e il caso vuole che questa fosse proprio la casa in cui Balzac aveva ambientato Le chef-d’œuvre inconnu, una storia che ruota attorno a un pittore ...cubista.
Poche settimane dopo, il 26 aprile, la città di Guernica è distrutta dai bombardieri tedeschi, ma la notizia arriva a Parigi il 28. Nello studio di Rue des Grands-Augustins il primo maggio Picasso esegue i primi cinque schizzi preparatori della tela che a giugno sarà esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi, da allora nota col nome della città martire, Guernica.
Ma è solo nel mese di giugno del 1939 che Picasso si insedia definitivamente al numero 7 di Rue des Grands-Augustins, seppur continuando a conservare l’appartamento di Rue de la Boëtie, dove lascia parte delle sue pitture. Per l’occasione, l’artista decide di far mettere il riscaldamento centrale per rendere abitabili i due piani dell’ex granaio Barrault. Decide anche di impiantare in casa un laboratorio d’incisione e fa venire da Boisgeloup il vecchio torchio e tutto il materiale necessario. Verso la fine di giugno ogni lavoro è terminato e Picasso può iniziare la sua ennesima vita, entusiasmando Vollard con i suoi progetti di stampe per edizioni future. Purtroppo il sogno di Vollard è di breve durata: il 21 luglio, a causa di incidente d’auto, muore dopo essere stato colpito alla nuca da una pesante scultura di Maillol che stava trasportando.



Anno 1940, anno di guerra. Picasso continua ad abitare in Rue La Boëtie, ma i tragitti tra la casa e lo studio divengono difficili. Decide così di trasferire la residenza in Rue des Grands-Augustins, installandovi una camera da letto. Per i pasti, capita spesso in un ristorante che porta un nome suggestivo, Le Catalan - 25, Rue des Grands-Augustins. Ed è qui che una sera di maggio del 1942, mentre sta cenando con Dora Maar, Marie-Laure de Noailles e altri amici, nota due giovani belle donne sedute a un tavolo in compagnia di Cuny, un attore allora in auge. Dopo le presentazioni e scambiata qualche battuta Picasso invita le ragazze a fargli visita nella sua casa-studio e molti anni dopo una delle due, Françoise Gilot, scriverà nelle sue acide memorie (pp 12-15):

Il lunedì seguente, verso le undici, Geneviève e io ci arrampicavamo per una buia e stretta scala a chiocciola, nascosta nell’angolo del cortile acciottolato del numero sette di rue des Grands-Augustins, e bussavamo alla porta dell’appartamento di Picasso. Dopo una breve attesa, la porta si aprì di pochi centimetri per rivelare il naso lungo e sottile del suo segretario, Jaime Sabartés. Non l’avevamo mai incontrato prima di allora, ma sapevamo chi era. Avevamo visto riproduzioni dei disegni che Picasso gli aveva fatto e Cuny inoltre ci aveva avvertito che sarebbe stato lui ad accoglierci. Ci guardò con aria sospettosa e chiese: «Avete un appuntamento?» Risposi affermativamente. Ci lasciò entrare. Aveva un aspetto inquieto e ci scrutava dietro le spesse lenti.
Entrammo in un vestibolo pieno di uccelli - c’erano delle tortore e un certo numero di uccelli esotici dentro a gabbie di vimini - e di piante. Le piante non erano belle; verdi e spinose come se ne vede spesso nei vasi di rame delle portinerie. Là invece erano disposte in un modo più attraente, e facevano un bell’effetto di fronte alla finestra spalancata. Avevo visto una di quelle piante un mese prima, in un ritratto recente di Dora Maar, esposto, a dispetto dei nazisti che avevano messo al bando le opere di Picasso, in un angolo della galleria di Louise Leiris, in rue d’Astorg. Era un magnifico ritratto in rosa e grigio. Sul fondo della tela c’era una vetrata a piccoli riquadri, che riconobbi nella vecchia e grande finestra, una gabbia d’uccelli e una di quelle piante verdi.
Seguimmo Sabartés in una seconda stanza, molto lunga. Disposti su vecchi divani e su sedie Luigi XIII si trovavano chitarre, mandolini ed altri strumenti musicali che pensai Picasso avesse usato per i suoi quadri del periodo cubista. Egli mi raccontò più tardi che aveva acquistato quegli strumenti dopo aver dipinto i quadri, non prima, e che li conservava a ricordo degli anni del Cubismo. La stanza era bella e ampia, ma vi regnava un disordine indescrivibile. La lunga tavola che si stendeva fino a noi e due banchi da falegname, uno a prolungamento dell’altro, ridosso alla parete di destra, erano coperti da pile di libri, di riviste, di quotidiani, di fotografie, di cappelli e di oggetti di vario genere. Sopra uno di questi banchi era posato un pezzo di cristallo grezzo d’ametista, grande quanto una testa umana. Al centro di questo blocco c’era una piccola cavità, totalmente chiusa, piena di qualcosa che sembrava acqua. In un ripiano sotto al tavolo si trovavano una pila di vestiti da uomo e tre o quattro paia di scarpe.
Mentre costeggiavamo la grande tavola centrale, notai che Sabartés girava attorno a un oggetto di color bruno scuro, posato sul pavimento, vicino alla porta che dava nella stanza accanto. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di una scultura: un cranio in bronzo.
La stanza successiva era uno studio quasi totalmente stipato di sculture. Vidi così L’uomo col montone, ora fuso in bronzo e collocato nella piazza del mercato di Vallauris, e che, a quel tempo, era semplicemente di gesso. C’erano inoltre numerose grandi teste di donna che Picasso aveva eseguito a Boisgeloup, nel 1932, un ammasso di manubri di bicicletta, rotoli di tele, un Cristo spagnolo di legno policromo del XV secolo, e una bizzarra e affusolata scultura, rappresentante una donna che teneva in una mano una mela e nell’altro braccio qualche cosa che assomigliava a una borsa dell’acqua calda.
La cosa più sorprendente, tuttavia, era costituita da uno squillante Matisse, una natura morta del 1912, che rappresentava una fruttiera piena d’arance posata sopra una tovaglia rosa e contro un fondo oltremare e color rosa di Tiro. Ricordo anche un Vuillard, un Doganiere Rousseau e un Modigliani; ma in quello studio avvolto d’ombra, lo splendore del Matisse squillava fra le sculture. Non potei trattenermi dall’esclamare: «Oh, che bel Matisse!» Sabartés si volse e disse, austero: «Qui non c’è che Picasso!»
Per un’altra scaletta a chiocciola, all’estremità della stanza, salimmo al secondo piano dell’appartamento di Picasso. Là il soffitto era molto più basso. Passammo in un grande studio. Sul fondo, circondato da sette od otto persone, scorsi Picasso. Indossava un vecchio paio di pantaloni che gli stavano larghi e una maglia da marinaio a righe bianche e blu. Quando ci vide il suo volto si illuminò di un sorriso. Lasciò il gruppo e ci venne incontro. Sabartés brontolò qualcosa circa il nostro appuntamento e scomparve.
«Volete vedere lo studio?» chiese Picasso. Rispondemmo di sì. Speravamo che ci mostrasse dei quadri, ma non osavamo chiederlo. Ci ricondusse al piano inferiore, nello studio di scultura.
«Prima che m’installassi qui,» disse, «questo primo piano era il laboratorio di un tessitore, quello di sopra, lo studio di Jean-Louis Barrault. In questa stanza ho dipinto Guernica.» Si era seduto su una tavola Luigi XIII, davanti alle finestre che davano sul cortile interno. «A parte questo, non lavoro quasi mai in questa stanza. Ho scolpito qui L’homme au mouton,» disse indicando il grande gesso dell’uomo che tiene fra le braccia la pecora, «ma dipingo lassù e, di solito, eseguo le sculture in un altro studio che si trova poco più avanti su questa strada. «La scala a chiocciola che avete preso per venir qui è quella che il giovane pittore de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac saliva per andar a trovare il vecchio Pourbus, l’amico di Poussin che dipingeva tele non comprese da nessuno. Oh, tutto il luogo è ricco di fantasmi storici e letterari. Bene, torniamo su.» Scivolò giù dalla tavola e lo seguimmo per la scaletta a chiocciola. Ci condusse attraverso il grande studio, attorno al gruppo dei visitatori, nessuno dei quali alzò la testa al nostro passaggio, fino a una piccola stanza, proprio in fondo.
«Qui lavoro alle mie incisioni,» disse. «Guardate qui.» Si diresse verso l’acquaio e aprì il rubinetto. Dopo un po’ l’acqua prese a fumare. «Meraviglioso, vero? Nonostante la guerra ho l’acqua calda. Del resto,» aggiunse, «potete venire a fare il bagno quando volete.» Ma non era l’acqua calda che ci interessava, nonostante che allora fosse scarsa. Guardando Geneviève pensai: «La smettesse di parlare dell’acqua calda e ci facesse vedere almeno dei quadri!» Invece cominciò a tenerci un piccolo corso sulla tecnica dell’acquaforte e stavo proprio pensando che con tutta probabilità ce ne saremmo dovute andare senza vedere alcuna delle sue opere e che non saremmo mai più ritornate, quando, finalmente, ci condusse nel grande studio e ci mostrò alcuni quadri. Ricordo un gallo, ricco di colore e forte nell’impostazione, che lanciava un vigoroso chicchirichì. Ricordo anche un altro quadro, dello stesso periodo, molto rigoroso e tutto in bianco e nero.
Verso l’una, il gruppo dei visitatori ci lasciò e ciascuno prese congedo.
Ciò che mi colpì in modo curioso fin da quel primo giorno fu il fatto che lo studio sembrava il tempio di una specie di «religione picassiana», e che tutti i presenti apparivano completamente immersi in quel culto - tutti, eccetto quell’uno cui quell’attenzione era rivolta. Egli sembrava prender tutto per scontato, senza dare importanza a nulla in particolare come se volesse mostrarci che non intendeva affatto essere al centro di un culto.
Mentre ci apprestavamo ad andarcene, Picasso ci disse: «Se volete ritornare, fatelo. Ma non come pellegrini che vanno alla Mecca. Venite perché trovate interessante la mia compagnia e perché volete avere con me uno scambio semplice e diretto. Se volete vedere soltanto i miei quadri, potete benissimo andare in un museo.»
Non presi troppo seriamente quest’osservazione. Prima di tutto perché a quel tempo non c’era quasi alcun Picasso nei musei parigini. Secondo, perché egli si trovava nella lista dei pittori proibiti dai nazisti e nessuna delle gallerie private poteva esporre apertamente le sue opere e in una certa quantità. E a un pittore non basta vedere le opere di un altro pittore riprodotte in un libro. Per conoscere meglio i suoi lavori, ed era il mio caso, la cosa più semplice era di recarsi al numero 7 di rue des Grands-Augustins.

Per essere la prima visita, i fin troppo precisi dettagli rendono poco credibile questo racconto. Comunque sia, per alcuni anni i due si frequentano come amici, finché, scrive ancora la Gilot, «una sera sul presto, verso la fine di maggio 1946, mentre mi preparavo a lasciare Rue des Grands Augustins per tornare dalla nonna, Pablo ricominciò a insistere … e rimasi lì, senza dire addio e senza dare una spiegazione a nessuno … Non uscii di casa per un mese intero dal giorno in cui ero andata a vivere con Pablo.»
Risultato: da questa relazione il 15 maggio 1947 nasce un figlio, Claude. Il mese dopo la famiglia si sposta al Sud, a Golfe-Juan, dove abitano la casetta di Louis Fort. Nell’autunno Picasso comincia a lavorare nella fabbrica Madoura di Vallauris condotta dagli amici Ramié: un nuovo amore, una nuova casa è la costante di Picasso.


Françoise Gilot e Pablo Picasso
by Robert Doisneau, 1952

Gran finale. A Milano, sotto i portici di piazza Diaz, una volta al mese si tiene una ricca fiera del libro usato. Domenica scorsa, 14 giugno 2015, vengo attratto da una custodia marroncina, quadrata. La prendo, sfilo il libro e che mi ritrovo tra le mani? La riedizione de Le chef-d’œuvre inconnu curata nel 1966 dalle Éditions L.C.L. Il colophon recita (in francese, qui da me tradotto): Questo volume della collezione «Les Peintres du Livre» composto in carattere Bodoni corpo 18 è stato tirato dallo stampatore Firmin-Didot, Parigi - Mesnil - Ivry su carta Blanchemer delle Papeteries Prioux. La stampa delle illustrazioni è stata curata dall’Imprimerie Genése di Parigi. La rilegatura è stata realizzata da Bonnet-Madin a Dreux. La tiratura è stata limitata a 3000 esemplari numerati da 1 a 3000 e a 50 esemplari fuori commercio marcati H. C. destinati ai fondatori e ai collaboratori della collana.
Questa copia porta il numero 1490. Dentro vi sono le incisioni di Picasso, mentre il Pittore osservato dalla modella nuda è stampato e inserito a parte, su cartoncino bianco, fuori dal libro.
Domando: «Quanto chiede per questo libro?».
«Dieci euro.»
È in casa.

[1] Racconto inserito lo stesso anno 1831 nel terzo tomo dei Romans et contes philosophiques par M. Balzac, Paris, Charles Gosselin Libraire, poi ripubblicato con leggere modifiche nel 1847 col titolo Gillette ne Le provincial à Paris par H. de Balzac, Paris, Gabriel Roux et Cassanet Éditeur.



Atelier di Rue des Grands-Augustins
Guernica, dettaglio, 1937
by Dora Maar


Picasso e la stufa
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1939



Kazbek
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944

Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944


Pittore osservato dalla modella nuda, 1927