Raccontare Parigi non è mai stato facile.
Troppe cose sono cambiate, tanti ambienti sono stati distrutti. Per secoli le sue
fetide viuzze hanno dato asilo a bande di ladri e assassini. Poi, nel XIX
secolo, è arrivato il barone Haussmann a far piazza pulita, radendo al suolo i
vecchi quartieri e creando la Parigi di oggi, coi suoi lunghi viali alberati
(boulevards) e la sua struttura architettonica di stampo borghese. Un massacro
di mattoni e pietre che ha reso difficile “capire” come poteva essere il mondo
e la vita delle classi disagiate, da allora sloggiate verso le periferie.
Il viaggio in treno da Milano Porta Garibaldi
a Paris Gare de Lyon è come sempre penoso: sono circa 600 km, che un presunto
Train Grand Vitesse (TGV) percorre in otto ore. Mi chiedo che farebbe se fosse un
Train Grand “Lentesse”… Un’ora e mezza solo per raggiungere Torino Porta Susa…
Deposto il bagaglio, eccomi in pista, giusto
per rimettere in circolo la pressione sanguigna. Il cielo è azzurro, il vento
rinfrescante. La cattedrale di Saint-Germain-des-Près è subito raggiunta. A
lato, in un giardinetto fa brutta vista di sé il monumento che la Mairie de Paris ha dedicato a Guillaume
Apollinaire, qui rappresentato dal volto di Dora Maar scolpito da Pablo
Picasso. Un monumento voluto dagli amici di Apollinaire e contrastato da beghe locali
- dimostrazione di come il popolo goda nel farsi rappresentare dalla più infima
tipologia della razza umana, e questo in ogni latitudine del pianeta Terra.
Dentro, la cattedrale è in gran parte chiusa
al traffico per lavori di restauro. Nessun problema: sono più di quarant’anni
che la frequento, quindi posso sopportare il disturbo, limitandomi ad un nuovo
scatto alla statua di Notre-Dame-de-la-Consolation
(XIV secolo) e a Davide e Golia - forse
il più antico capitello di questa struttura a suo tempo regale.
Punto al lungo Senna. Nel piccolo square
Honoré Champion ritrovo il pallido Voltaire. Pochi metri più avanti ecco le
panche a forma di libro aperto e la fontana di Fragonard - scolpita nel 1830
per alimentare il mercato des Carmes in
place Maubert e qui trasportata nel 1930, otto anni prima della creazione
dello square dedicato all’organista Pierné. In un angolo l’implume Carolina, scultura in bronzo di Marcello
Tommasi datata 1968, solletica il palato degli amanti delle petites filles à la manière de Balthus.
Seguono rue de Seine (il marciapiede è saturo
di merde canine - o dei padroni che poi danno la colpa ai cani?) e rue des
Grands-Augustins, dove al numero 7 si apre uno dei portoni a me più noto e
caro: qui, tra varie ed eventuali, Picasso realizzò una delle più importanti
opere di ogni tempo, non fosse altro per il suo valore civico: Guernica.
Giro a sinistra e mi ritrovo sul quai des
Grands-Augustins, con la Senna sull’altro lato della strada. Dirigendomi verso
Notre-Dame-de-Paris, a destra imbuco rue Gît-le-Cœur, strada anonima, non fosse
per la presenza dell’hôtel a suo tempo abitato da Ginsberg, Corso, Burroughs e gli altri: l’avventura parigina dei Beat
- come leggo nel sottotitolo del volume Il
Beat Hotel di Barry Miles, un libro dell’anno 2000 stampato in Italia da Ugo
Guanda nel 2007. È un libro già da me recensito alcuni anni fa, che qui
riprendo proponendo l’intero primo capitolo, pp. 15-33. È un po’ lungo, è vero,
ma anticipa molte mie fotografie scattate nei giorni a seguire: tenete queste
pagine a futura memoria.
Abbattuto e ricostruito, l’ex Beat hotel è stato trasformato in una
residenza a 4 stelle: dalle stalle alle stelle la via è breve, a quanto pare.
La corta rue de l’Hirondelle dà accesso alla
place Saint-Michel, ma solo dopo aver superato le forche caudine del portico,
spazio ricoperto da macchie di urina, le cui esalazioni rallegrano le mie
sensibili narici. Come sempre - o quasi - chiudo la mia giornata in Boulevard
Saint-Germaine, dilettandomi nel fotografare i suoi bar e i suoi ristoranti.
Domani è un altro giorno …e chi vivrà vedrà.
Intanto, eccovi il testo di Barry Miles sopra
promesso:
Negli
anni Cinquanta a Parigi la Rive gauche, o Quartiere latino, era quel che Soho
era per Londra, il Greenwich Village per New York e North Beach per San
Francisco: una zona centrale, poco costosa, dove scrittori e artisti potevano
incontrarsi e passare le notti a parlare o a bere, dove gli alloggi spartani
non erano cari e i residenti molto tolleranti verso le follie comportamentali
dei giovani. L'intrico di stradine fra boulevard Saint-Germain e la Senna
ospitava decine e decine di alberghi a poco prezzo, occupati dagli studenti
della vicina Sorbona. L'Università di Parigi, vecchia di settecento anni, aveva
stabilito ormai una solida tradizione secondo la quale gli studenti che la
frequentavano alloggiavano negli alberghetti del circondario. Ci abitavano
anche studenti e modelle della École des Beaux-Arts sul quai des Augustins,
nonché molti artisti affermati i cui studi si aprivano su cortiletti o stradine
laterali, ed erano riconoscibili dai grandi lucernari esposti a nord. Studenti
e artisti bohémien vivevano in mezzo a una gran massa di cittadini appartenenti
alla classe operaia, quei parigini autentici che ogni mattina affollavano le
bancarelle di cibarie di rue de Buci o il mercato coperto a Mabillon e
rientravano a casa con la spesa ben prima che i giovani bohémien avessero
bevuto un sorso del caffè con cui iniziava la loro giornata.
L'area
vicino a rue Saint-Séverin, povera e fatiscente, era tradizionale rifugio dei clochard, che una volta, quando la zona
intorno a place Maubert era frequentata da battellieri e omaccioni forzuti,
avevano una strada tutta per loro, rue Brève. Negli anni Cinquanta a Parigi si
contavano circa diecimila clochard,
uomini e donne, che dormivano sotto i ponti o sui tombini nelle piazze, coperti
di stracci, scaldati dal calore che saliva dalle fogne, stretti in mucchi sulle
griglie di ventilazione della metropolitana dalle quali soffiava l'aria calda
stantia.
Nel
Quartiere latino si trovavano polverosi negozi di libri usati, gallerie d'arte
d'avanguardia, negozietti d'antiquariato, rivendite di prodotti di artigianato
etnico e minuscole e affollate sedi di case editrici radicali o di piccole
stamperie specializzate in letteratura sperimentale e belle arti. Sul
Lungosenna i bouquinistes esibivano
stampe sbrindellate e libri consunti in una sorta di scatole fissate al
parapetto che di notte venivano chiuse a chiave. In tutte le librerie intorno a
rue de Seine e place Saint-Michel si trovavano volumi sul surrealismo, sulla
patafisica, sull'occultismo e l'alchimia, sul misticismo asiatico. A volte
queste librerie erano nascoste in fondo a qualche cortile o ai piani alti delle
case, note solo a una fedele clientela.
C'erano
caffè di artisti, come la Palette, dove si poteva incontrare un gallerista per
programmare una mostra, ingaggiare una modella o comprare droga. C'erano decine
di ristorantini, come il Café des Arts in rue de Seine dove gli allievi
dell'accademia sedevano in fila su delle panche; l'unico menu prevedeva tre
portate a prezzo fisso, con vino rosso a volontà servito in boccali da litro
sui semplici tavoloni di legno senza tovaglia. Un caffè, Chez Raton, era così
piccolo che il pane era tenuto in cestini appesi con delle corde al soffitto e
bisognava tirarli giù per servirsi. Chez Jean, situato in una stradina laterale
di boulevard Saint-Germain, era uno dei pochi ristoranti parigini che avesse
ancora la segatura sul pavimento. A volte vi si ascoltava qualcuno che suonava
il violoncello o la chitarra. Era frequentato da brutti ceffi ma piaceva anche
agli artisti, in una tregua difficile ma tutto sommato duratura. Nel vicinato
c'erano anche molti ristoranti cinesi, vietnamiti e nordafricani a poco prezzo,
specie intorno a place Maubert e a rue de la Huchette.
Ogni
sera su boulevard Saint-Germain si poteva assistere alla passeggiata più
affollata di tutta la città, con centinaia di persone che andavano su e giù da
place Maubert a place Saint- Germain des Prés, oltrepassando i grandi caffè,
come la Brasserie Lipp, il Café aux Deux Magots, il Café Flore, affollati di
esistenzialisti e di ricchi turisti che guardavano e si facevano guardare.
Alcuni di quelli che passeggiavano si fermavano alla Pergola, appena oltre la
fermata Marbillon della metropolitana: aveva anche un menu da cinquecento
franchi e rimaneva aperto tutta la notte. Era il principale punto d'incontro
per gli omosessuali parigini, uomini o donne. Fra i ragazzi più giovani c'era
chi metteva cipria e rossetto, mentre le ragazze più mascoline vestivano da
uomo. La Pergola attirava anche gli studenti più nottambuli, e fra questi
c'erano parecchi residenti del Beat Hotel, che distava solo due isolati.
Il
Beat Hotel si trovava al 9 di rue Gît-le-Coeur, una stretta stradina medievale
che scendeva al fiume da rue Saint-André des Arts fino al quai des Augustins,
nella parte più antica del Quartiere latino. Nel tredicesimo secolo la strada
si chiamava rue de Gilles-le-Queux o Guy-le-Queux (Guy il mendicante). Era nota
anche come rue Guy-le-Preux. Col passar dei secoli divenne Gît-le-Coeur:
secondo Brion Gysin era un gioco di parole escogitato agli inizi del
diciassettesimo secolo da Enrico IV, il primo re di Francia della dinastia dei
Borboni, la cui amante abitava in quella strada. Un giorno il re passava di lì
e dichiarò «Ici gît mon coeur» (Qui
giace il mio cuore). Come molte altre storielle di Gysin probabilmente non è
vera, ma è graziosa lo stesso.
In
alternativa, una versione che si legge in un'altra guida di Parigi afferma che
il nome della strada ricorda l'assassinio di Etienne Marcel, Prevosto dei
Mercanti, uno dei Padri di Parigi. La notte del 31 luglio 1358 fu ucciso in questa
via da Jean Maillart, un mercenario al soldo del Delfino Charles; gît vuol dire «giace», come si legge
sulle iscrizioni tombali, ci-gît,
«qui giace».
Come
in molte vecchie viuzze del quartiere, le case avevano quattro piani, e mentre
il pianterreno incombeva ad aggetto sulla strada, gli altri tre se ne
distanziavano nella ripida ascesa verso l'alto. I numeri 5, 7 e 9 furono
costruiti verso la fine del sedicesimo secolo, e in origine comprendevano la
residenza di Pierre Séguier, Marchese d'O, che in seguito divenne proprietà del
Duca de Luynes, zio di Racine. Nel 1933 il signore e la signora M.L. Rachou,
una coppia di provinciali di Giverny, vicino Rouen, a nord-ovest di Parigi,
avevano acquistato il numero 9 per farne un albergo. Brion Gysin, che negli
anni vissuti all'hotel divenne molto amico di Madame Rachou, diceva che avevano
solo la gérance, la gestione, e non
la proprietà dell'albergo, e questo è molto più plausibile poiché riesce difficile
immaginare come la coppia avesse potuto trovare il denaro per acquistare un
edificio tanto grande. Il signor Rachou faceva da portiere e da fattorino, era
un omone enorme e silenzioso, lento e paziente con i suoi ospiti. La signora
era piccola ed energica, le corte braccia di solito conserte sul grembiule
azzurro chiaro dal colletto rotondo ricamato - del tipo indossato ogni giorno,
tranne la domenica, dalle operaie dell'Ottocento. Lei si occupava del piccolo
bistrò al pianterreno e della registrazione degli ospiti.
Ai
Rachou piaceva la compagnia di artisti e scrittori, e li incoraggiavano a
fermarsi all'albergo. Madame Rachou a volte accettava come pagamento le opere
degli artisti, non tenendone nessuna per sé poiché non pensava nemmeno per un
attimo che sarebbero mai valse qualcosa. La simpatia per gli artisti risaliva
alla sua infanzia, quando, a dodici anni, aveva cominciato a lavorare in una
locanda di campagna a Giverny, poco distante dallo studio di Monet. Dopo aver
passato la mattina a dipingere una serie di sacchi di grano o di pagliai, Monet
arrivava alla locanda per pranzare con il suo vecchio amico Camille Pissarro.
Una volta Madame Rachou chiese a Brion Gysin: «E che ne è stato del figlio, il
giovane M'sieu Pissarro?» Brion non sapeva, ma le disse che proprio in quel
periodo a Parigi c'era una grande retrospettiva dei dipinti di Pissarro e si
offrì di portarcela, ma lei aveva troppo da fare con l'albergo per simili
distrazioni.
La
signora si occupava del bar e il suo nome, J.B. Rachou, era dipinto sulla porta
a vetri nella caratteristica grafia a caratteri inclinati dei decoratori
d'insegne vecchio stile. I Rachou non diedero mai un nome all'albergo,
preferendo semplicemente distinguere gli ingressi: sulla porta a sinistra c'era
l'insegna hotel, e al di sopra
della porta a vetri del caffè si leggeva invece café
vins liqueurs e tanto bastava. Per ventiquattro anni, durante
l'occupazione e nei difficili mesi dopo la Liberazione, quando cibo e
carburante erano ancora più scarsi di quanto non fossero sotto i tedeschi, la
coppia tenne aperto l'albergo pur riuscendo a sopravvivere a stento.
Poi
nel settembre del 1957 il signor Rachou morì in un incidente automobilistico
nella cittadina di Saint-Germain, appena fuori Parigi. I Rachou avevano da poco
comprato una Citroën ds di seconda
mano e il signor Rachou era andato in campagna a prendere alcuni amici per
portarli poi all'albergo per il pranzo domenicale. A Saint-Germain una macchina
aveva investito la sua a un incrocio, uccidendo lui e ferendo gravemente i suoi
quattro amici. Madame Rachou era distrutta, ma non ebbe altra scelta che tirare
avanti. Un albergo, si sa, non può essere trascurato più di qualche giorno.
Essendo
così minuta, per riuscire a servire i clienti dietro il tradizionale bancone di
zinco del bistrò, la signora doveva stare in piedi su una cassetta di vino
capovolta. C'erano tendine di pizzo ai vetri dell'ampia finestra e diverse
piante di aspidistra dallo stelo lungo e delicato, con le punte delle foglie
lanceolate sempre secche. Nel bistrò, su un pavimento di piastrelle malandate,
poggiavano tre tavolini con sottili gambe di ghisa e piani di marmo sui quali
lei serviva caffè e brioche per colazione. La colazione non era inclusa nel
prezzo della camera, non era quel tipo di albergo; i 40 centesimi del caffè
dovevano essere pagati alla consumazione.
Madame
ammanniva pasti poco costosi ma abbondanti a base di stufato d'agnello o di
coniglio in umido, ma dopo la morte del marito non aprì più la grande sala da
pranzo sul retro tranne che per gli occasionali pranzi riservati ad agenti di
polizia o altri fonctionnaires.
L'albergo era di tredicesima classe, la categoria più bassa in assoluto, ed era
quindi tenuto a garantire solo il rispetto dei regolamenti sanitari e di sicurezza,
nient'altro. Dopo la guerra, come parte della stessa operazione di pulizia di
Parigi che aveva chiuso i bordelli, molti alberghetti del vicinato,
appartenenti alla stessa categoria, erano stati chiusi dalla polizia perché
contravvenivano a regolamenti a lungo ignorati. Questo era uno dei motivi per
cui c'erano tanti clochard nelle
strade. Tuttavia Madame Rachou era in buoni rapporti con la polizia fin da
prima dell'occupazione e intendeva conservarli tali.
Aveva
lo spirito della classica concierge. Dall'alto
del suo posto di osservazione sulla grossa cassetta di vino riusciva a
controllare il proprio dominio: alla sua destra, da una porta a vetri si vedeva
lo stretto ingresso dell'albergo, mentre la sala da pranzo sul retro, separata
dal bar da una tenda, aveva una finestra che dava sulle scale e permetteva di
vedere le gambe di chi entrava o usciva - ideale per afferrare alle caviglie un
ospite truffaldino che tentasse di svignarsela senza pagare il conto. Vicino
alla porta, di fronte al bar, la signora aveva il pannello di controllo
dell'impianto elettrico; il numero di ogni camera era indicato da una targhetta
smaltata, su ognuna delle quali s'accendeva una minuscola lampadina quando la
luce di quella stanza era accesa. Ogni camera aveva a disposizione 40 watt,
appena sufficienti per una fioca lampadina da 25 watt e una radio o un
giradischi. L'impianto elettrico era arcaico: estremamente instabile, con
sistematica frequenza faceva piombare tutti nel buio se un ospite
sovraccaricava il circuito. Quando la lucetta sul pannello di controllo si
faceva troppo brillante, la signora sapeva che qualcuno stava usando un
fornelletto abusivo e si precipitava di sopra per scoprire il colpevole. La
disponibilità di ogni camera poteva salire a 60 watt, ma ovviamente si pagava
un piccolo sovrapprezzo. Piuttosto che sobbarcarsi questa spesa extra, la
maggior parte dei residenti cucinava su fornelli a due fuochi, a gas o a
kerosene, che ognuno si procurava da sé. Le cucine a gas erano provviste di
contatori individuali, e la signora sembrava scegliere sempre il momento meno
adatto per arrivare in camera col letturista.
Le
quarantadue stanze non avevano tappeti o telefoni. Alcune erano particolarmente
buie, perché le finestre davano sulla tromba delle scale e ricevevano soltanto
luce indiretta dai finestroni sudici dei pianerottoli. I corridoi avevano
strane pendenze agli angoli, e i pavimenti cigolavano e scricchiolavano. Le
porte antiquate si aprivano con la maniglia al centro invece che su un lato. Su
ogni pianerottolo c'era una chiotte
alla turca: una latrina tradizionale con un buco nel pavimento e due rialzi
laterali a forma di impronta di piede sui quali acquattarsi. Appesi a un chiodo
c'erano pezzi di fogli di giornale al posto della carta igienica, ma molti dei
residenti la compravano per conto proprio e se la portavano dietro. Al
pianterreno c'era una vasca da bagno, ma bisognava prenotarla prima in modo che
si potesse far scaldare l'acqua. Naturalmente anche per questo servizio si
pagava un piccolo sovrapprezzo. Brion Gysin sosteneva che mettendo la testa
sott'acqua nella vasca, si sentiva gorgogliare la Bièvre, il fiume sotterraneo
che sfocia nella Senna alcuni isolati a est di rue Gît-le-Coeur, di fronte a
Notre-Dame - un'affermazione che poi approfondì nel suo romanzo The Last Museum. Come tutto il resto
nell'edificio, l'impianto idraulico era antidiluviano e quindi soggetto a
intasamenti, rumori metallici, fortissime vibrazioni e perdite. Il
riscaldamento c'era tutta la settimana, ma l'acqua calda soltanto giovedì,
venerdì e sabato.
Tende
e copriletti venivano lavati e cambiati in primavera, la biancheria del letto
un pochino più di frequente - in teoria, ai primi di ogni mese. Dopo la morte
del signor Rachou la signora assunse un custode, il signor Duprés, che di tanto
in tanto vagava per l'albergo con l'apparente intenzione di far le pulizie
nelle camere e rifare i letti. Spesso era accompagnato da una fila di
bambinetti e, proprio come la signora, sceglieva inevitabilmente il momento
meno opportuno per entrare in una stanza. Qualche parete era molto sottile,
poco più di una tramezza di cartone, e i rumori viaggiavano per strane vie,
talvolta provenivano molto forti dagli scarichi dei lavandini.
La
porta d'ingresso non era mai chiusa a chiave o sorvegliata, ma Madame Rachou
aveva un suo modo misterioso, quasi da chiaroveggente, di sapere tutto quel che
accadeva sia all'interno dell'albergo sia fuori sulla strada. La signora
riusciva a captare i potenziali problemi - un passo estraneo, uno scricchiolio
insolito - e si materializzava sulla soglia per proteggere i residenti da
creditori, imbroglioni o sporadiche visite della polizia. A qualsiasi ora della
notte, compariva impassibile nella sua camicia da notte bianca: «Monsieur? Que voulez-vous?» Neppure la
polizia riusciva a tenerle testa. Nel 1962, durante la crisi algerina, un
giovane flic foruncoloso era di
servizio sull'altro lato della strada, di guardia all'abitazione di un ex capo
della polizia che era sulla lista nera dell'oas
e s'aspettava da un momento all'altro una bomba o una coltellata assassina. Il
poliziotto notò una bella ragazza americana che entrava in albergo e la seguì
fino alla porta della sua camera, dove apparve Madame Rachou e lo scacciò
dall'albergo con una mitragliata d'insulti, agitando con veemenza le corte
braccia mentre i capelli dai riflessi azzurri brillavano nel corridoio poco
illuminato.
Tuttavia
la signora non poteva tenere sotto controllo il servizio immigrazione. Nella
descrizione di William Burroughs: «La 'polizia degli stranieri', gli addetti
all'immigrazione di tanto in tanto eseguivano controlli dei passaporti, di
solito alle otto di mattina, e spesso si portavano via qualche ospite che non
aveva i documenti in regola. Chi era stato trattenuto veniva rilasciato di lì a
poche ore, dopo aver pagato non una multa bensì una tassa richiesta quando si
faceva domanda per la carte de séjour,
pochi avevano però il tempo e la pazienza di ottemperare alle complesse norme
burocratiche necessarie per ottenere l'ambito documento». La maggior parte,
incluso Burroughs, ricorreva all'espediente di un viaggetto a Bruxelles o ad
Amsterdam ogni tre mesi, in modo da riottenere la concessione di soggiorno
trimestrale a ogni rientro in Francia.
La
cultura della bohème è molto francese. E infatti Henri Murger, autore di Scene della vita di bohème, affermava
(nel 1851) che i veri bohémien possono esistere solo a Parigi. La Gran Bretagna
era meno tollerante verso i comportamenti poco ortodossi. Londra produsse
eccentrici ed esteti, ma non aveva una tradizione di povertà fra gli artisti.
Byron e Shelley avevano scoperto che la vita nel diciannovesimo secolo era più
facile sul continente. Oscar Wilde, una volta rilasciato dal carcere di
Reading, si trasferì a Parigi per vivere più liberamente la propria vita.
Rue
Gît-le-Coeur aveva sempre avuto i suoi residenti bohémien. Nel 1930 Dorothy
Wilde, la scatenata nipote di Oscar, abitò al numero 1, e Lord Gerard Vernon
Wallop Lymington, nono conte di Portsmouth, occupava delle stanze proprio sotto
i tetti dello stesso edificio, nelle quali, verso la fine degli anni Venti, era
solito fumare oppio insieme a Caresse e Harry Crosby. Negli anni Trenta Brion
Gysin abitò in un bellissimo appartamento sull'angolo del quai, mai immaginando
che sarebbe tornato nella stessa strada due decenni dopo.
Rue
Gît-le-Coeur fu anche la scena di un famoso arresto del poeta statunitense
e.e.cummings. Alle 3 di notte di un giorno di luglio del 1923, John Dos Passos,
Gilbert Seldes e cummings erano diretti «alla taverna del Calvados della rue Gît-le-
Coeur». Quando cummings si fermò a orinare contro un muro sbucò «un'intera
schiera di gendarmi». Fu arrestato e portato alla stazione di polizia del quai
des Grands Augustins, dove venne registrato come «un Américain qui pisse» e gli fu ingiunto di ritornare l'indomani
mattina per la formulazione dell'accusa. Seldes telefonò al suo amico scrittore
Paul Morand, Ministre des Affaires
Etrangères, che fece ritirare ogni imputazione, cummings non fu informato
di questi sviluppi e il giorno dopo si presentò alla stazione di polizia. Fu
lasciato andare, ma all'uscita trovò un gruppo di suoi amici che portavano dei
cartelli sui quali era scritto: Sospendete
l'esecuzione del Pisseur Américain. cummings rimase profondamente
commosso dalla loro solidarietà, fino a quando non scoprì che la manifestazione
di protesta era uno scherzo.
L'albergo
dei Rachou mantenne la tradizione bohémien del quartier. In uno degli abbaini
abitavano un fotografo che non rivolgeva la parola a nessuno da due anni, e un
artista che aveva riempito la propria camera di paglia. Fra le prostitute, i
musicisti jazz e le modelle dei pittori c'erano tipi strani come un gigante
della Guyana francese che passava a stento per gli strettissimi corridoi, e
un'imperiosa signora indocinese sempre vestita di seta che alla porta aveva una
tenda di bambù. Il primo dei cosiddetti beatnik arrivò nel 1956: era un pittore
svizzero che tutti chiamavano Gesù Cristo. Aveva capelli neri e folti lunghi
fin quasi alla vita, e barba e baffi incolti. Indossava ampie vesti di cotone
bianco sporco e girava in sandali senza calze anche nel freddo gelido dell'inverno
parigino. Poiché non poteva permettersi di comprare tele, dipingeva sui muri e,
in seguito, sul soffitto e sul pavimento della sua stanza al secondo piano. Il
signor Rachou non se ne preoccupava, perché credeva che la vernice tenesse
lontano i parassiti.
A
differenza delle altre centinaia di alberghetti scalcinati di Parigi che
offrivano appena il minimo necessario, il Beat Hotel rappresentava
un'eccezione, in quanto Madame Rachou incoraggiava gli artisti a fermarsi da
lei e concedeva ai suoi ospiti la libertà di vivere come meglio credevano.
Potevano portarsi in camera un ragazzo, una ragazza o addirittura un gruppo, e
se si fermavano a dormire bastava che firmassero la fiche del registro degli ospiti. Su questo la polizia non
transigeva. Sotto ogni altro aspetto, l'albergo era squallido e sporco come
quelli vicini. C'erano ratti e topi, le camere e le scale erano lerce, i cessi
puzzavano e i corridoi erano saturi di lezzo di cucina stantio. Jean-Jacques
Lebel, un artista che abitava nell'Hotel Colbert, in una via vicina, veniva di
frequente a trovare i beat americani. «Molto spesso da loro c'era un tanfo
tremendo» ricordava, «perché erano in molti a cucinare in camera, e c'era Dixie
Nummo, un giamaicano, che usava molto aglio e olio e appestava l'intero
stabile. C'erano anche alcuni anziani francesi che abitavano lì da secoli e
cucinavano con molto grasso, quindi il posto puzzava... I ratti stavano al
pianterreno, non ai piani alti, e quando la Senna cresceva anche loro uscivano
dalle tane e salivano. Quando ci sono tossici in giro ci sono ratti. Era una
cosa spaventosa, un'atmosfera un po' tipo quella del Pasto nudo.»
Fra
gli ospiti dei Rachou il primo a raggiungere la celebrità fu lo scrittore
afroamericano Chester Himes. Il suo primo racconto lo What Red Hell fu pubblicato nel 1934 da «Esquire», mentre Himes
stava scontando una condanna a otto anni per rapina a mano armata nel
Penitenziario di stato dell'Ohio. Il suo primo romanzo If He Hollers Let Him Go apparve nel 1945, fra i consensi della
critica, ma il suo seguito, Lonely
Crusade, troppo brutalmente sincero sulle condizioni di vita dei neri negli
Stati Uniti, non fu accolto altrettanto bene. Himes giunse in Europa nel 1953 e
rimase all'estero, per lo più in Spagna, fino alla morte avvenuta nel 1984. Il
suo traduttore francese, Marcel Duhamel, gli suggerì di provare a scrivere
qualche libro giallo, genere allora molto popolare in Francia. Himes diede vita
a due investigatori afroamericani di Harlem, Digger Jones e Coffin Ed Johnson,
le cui imprese in una serie di otto romanzi resero celebre in Francia il loro
autore, che invece in patria restò relativamente sconosciuto. Fu solo nel 1970,
quando il regista Ossie Davis trasse da un volume del 1965, Cotton Comes to Harlem, un film di
successo, che Himes fu portato all'attenzione di un più vasto pubblico
americano.
Sulle
prime Himes, quando cercò di trovare una camera d'albergo a Parigi, sperimentò
sulla propria pelle un aperto razzismo. Nell'autobiografia descrive la sua
ricerca d'alloggio nel 1954: «L'Hotel Welcome, che si apriva su place de l'Odéon
ed era tra i preferiti dei giovani americani bianchi, diede l'esempio. Mi
dissero che non potevano accettare noirs:
ai loro clienti non sarebbe piaciuto. I primi nove alberghi ai quali chiedemmo
ci rifiutarono perché io ero nero. La maggior parte dei proprietari ci disse
che il motivo era quello». Molti americani della Rive gauche avevano portato
con sé i propri pregiudizi e pretendevano che gli alberghi rispettassero la
stessa segregazione razziale a cui erano abituati negli Stati Uniti. Alla fine
Himes mandò la sua giovane compagna bianca in un albergo che gli aveva detto di
essere complet. Dopo che la ragazza
ebbe ottenuto una camera si presentò anche lui. Himes viaggiò molto in Francia
e in Europa e, tornato a Parigi nella primavera del 1956, ebbe la fortuna di
imbattersi in Madame Rachou. Si installò nell'albergo con la sua ragazza, una
giovane tedesca di nome Marlene Behrens. Era uno dei pochi alberghi in cui un
nero potesse stare senza dar scandalo insieme a una bianca, specie se questa
aveva la metà dei suoi anni.
Occupavano
una camera del secondo piano sulla facciata, sopra quella dei proprietari,
arredata con una toletta dal piano di marmo che fungeva anche da tavolo da
cucina e da pranzo, completa di fornello a gas. Era una stanza piccola,
riempita quasi interamente dal letto, ma un enorme armadio malconcio con uno
specchio a figura intera creava l'illusione dello spazio. Fu qui che Himes
lavorò a parti di Mamie Mason e qui
che scrisse The Five Cornered Square,
che finì il 18 gennaio 1957. Il 3 maggio dello stesso anno completò A Jealous Man Can't Win. Lavorava con
grande rapidità. Dopo la morte del signor Rachou, Marlene passò molto tempo a
consolare Madame Rachou, sedendo con lei al bar, ascoltando con simpatia i suoi
racconti dei tempi andati. Aveva vissuto in Germania da bambina, negli anni
della guerra, e i racconti della signora sull'occupazione tedesca di Parigi le
insegnarono molto. Himes e Marlene partirono per Palma di Maiorca nell'ottobre
del 1957, e di lì a qualche settimana arrivarono i primi scrittori della Beat
Generation.
I
nuovi arrivati non avrebbero mai saputo quel che era stato l'hotel con la
solida presenza del signor Rachou, o che Madame Rachou aveva il cuore spezzato.
Lei continuava con la vita di sempre, ma ora faceva maggiore assegnamento sui
clienti per la compagnia, trattandoli come se fossero un sostituto della
famiglia. La sera si sedeva a chiacchierare all'infinito con i residenti,
servendo tazzine di acquoso espresso, con Mirtaud, il gatto dell'albergo,
acciambellato in grembo, fino a quando alle 22.30 il bar chiudeva e lei
abbassava la serranda di ferro.
Con
l'arrivo dei beat, quell'ottobre, l'hotel entrò in una nuova fase, e per i
circa sei anni che seguirono fu al centro di una prolungata esplosione di
attività creativa identica a quella che si era da poco verificata a San
Francisco. Laggiù la presenza di Allen Ginsberg e di Jack Kerouac aveva
catalizzato la scena poetica, dando vita a quel che doveva poi essere
conosciuto come San Francisco Poetry Renaissance - un libero gruppo di poeti
che includeva Gary Snyder, Michael McClure, Lawrence Ferlinghetti, Philip
Whalen, Richard Brautigan e altri. (Aveva forse preso nome dall'Harlem
Renaissance, visto che a San Francisco non c'era stato nessun movimento
letterario precedente.) Una serie di reading di poesie, a partire da quello
ormai leggendario che ebbe luogo alla Six Gallery il 7 ottobre 1955, quando
Ginsberg lesse Urlo per la prima
volta, portò i poeti di San Francisco all'attenzione di Richard Eberhardt, il
quale scrisse un importante articolo sulla scena locale per il «New York
Times». Questo, unito al fortuito sequestro con l'accusa di oscenità delle
copie di Urlo di Ginsberg, portò
l'attenzione dell'intero paese a focalizzarsi sui poeti della città della Baia.
Furono organizzati altri reading e i caffè si animarono di poesia dal vivo. I
poeti collaboravano con musicisti jazz nei club che stavano aperti tutta notte.
All'improvviso si era creato un dinamico, vibrante ambiente letterario, che
aveva al suo centro la libreria City Lights di Ferlinghetti, editore della notissima
e prestigiosa collana dei Pockel Poets che includeva Urlo di Ginsberg.
Tuttavia
Ginsberg non rimase a crogiolarsi nella fama. Tornò a New York e di là andò a
Tangeri per aiutare William Burroughs a sistemare il manoscritto di quel che
poi sarebbe divenuto Pasto nudo.
Proprio mentre Urlo si guadagnava la
notorietà dei media, Ginsberg, insieme al suo compagno Peter Orlovsky e al
poeta Gregory Corso, partiva alla volta di Parigi per stabilire un nuovo
quartier generale nel Beat Hotel. L’affitto bassissimo e l'atmosfera permissiva
incoraggiarono un clima di libertà e creatività scevro da preoccupazioni
finanziarie. Non essendo francofoni, non erano affatto coinvolti nella cultura
del paese e nelle questioni nazionali, né erano limitati dalle regole di vita
dei francesi, semplicemente perché non le conoscevano. Per dirla con le parole
del loro amico e traduttore francese Jean-Jacques Lebel: «Erano su un'isola,
distaccati da tutto in questo piccolo, magico paradiso pieno di ratti e cattivi
odori. Ma era idilliaco perché diede loro via libera a essere loro stessi senza
dover rendere conto all'America». Il Beat Hotel offriva la libera scelta tra
l'ozio o l'intensa e appassionata attività, tra l'ingannare il tempo passando
la giornata nei caffè o il discutere tutta la notte. Era un posto dove si potevano
sviluppare idee in una comunità staccata dalla morale comune proprio come i residenti
del famoso Impasse du Doyenné, la prima colonia della bohème.
Un
tempo, nelle vicinanze dell'attuale piramide del Louvre, all'angolo del
Carrousel, lungo una strada senza uscita fra le rovine del priorato di Doyenné,
di cui restavano ancora in piedi alcuni archi e colonne, sorgeva un insieme di
edifici fatiscenti che nel 1830 ospitava una piccola comunità autonoma di bohémien.
Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Arsène Houssaye, Edouard Ourliac e molti
altri scrittori e pittori abitavano e lavoravano, circondati da arredi, tappezzerie
e tendaggi gotici, razziati durante la Rivoluzione che si potevano ancora
trovare e acquistare per poco dai rigattieri. Nerval chiamava questa comunità «la Bohème galante» e scrisse un libro
con questo titolo che descriveva le loro vite. Fu qui che Ourliac lavorò a Suzanne, il libro che doveva renderlo
celebre. E Gautier scrisse Mademoiselle
de Maupin, Houssaye scrisse La
pécheresse, e Rogier illustrò I
racconti di Hoffmann.
Nelle
opere di Gautier e dei suoi amici c'era una forte tendenza all'erotismo che li
distingueva dagli altri scrittori e artisti del tempo, e all'Impasse du Doyenné
l'orgia era un modo piuttosto comune di passare il tempo. Un'orgia fornisce il
tema per Les Jeunes-France di Gautier,
nel quale un gruppo di giovanotti si riunisce per organizzare una festa
colossale. Ci fu una famosa serata nella quale Gautier e i suoi amici si
prostrarono tutti insieme dinanzi a una donna e nel buio più totale bevvero
punch in teschi umani. In occasione di un ballo mascherato nel 1835, Camille
Corot dipinse due grandi paesaggi provenzali sul rivestimento a pannelli
dell'appartamento di Nerval. La Bohème
galante attirò visitatori famosi come Eugène Delacroix, Alexandre Dumas e
Petrus Borel, ansiosi di non essere lasciati fuori dalle ultime tendenze. Era
questa la tradizione che rue Gît-le-Coeur continuava e, come l'Impasse du
Doyenné, per alcuni brevi anni il Beat Hotel fu il centro dell'avanguardia
letteraria mondiale.
Benché
l'albergo fosse a buon mercato e il dollaro forte, gli studenti e gli scrittori
che vi risiedevano dovevano pur prendere il denaro da qualche parte. Una delle
maggiori fonti di guadagno per gli americani indigenti della Rive gauche era
scrivere pornografia per l'Olympia Press di Maurice Girodias, una casa editrice
in lingua inglese che produceva libri che sarebbe stato illegale pubblicare
negli Stati Uniti o in Gran Bretagna.
Circa
un terzo della collana Traveller's Companion nel catalogo della Olympia
consisteva di opere letterarie non in circolazione perché bandite in
Inghilterra e in America: Teleny di
Oscar Wilde; Zenzero di J.P Donleavy;
Lolita di Vladimir Nabokov; Il diario di un ladro di Jean Genet; Il libro nero di Lawrence Durrell; Sexus, Plexus e Nexus di Henry
Miller; La filosofia del boudoir, Le 120 giornate di Sodoma, Justine del Marchese de Sade; Storia di O di Dominique Aury,
conosciuta anche come Pauline Réage; il Kama
Sutra e Fanny Hill di John
Cleland. C'erano anche alcuni testi che non parlavano affatto di sesso, come Zazie nel metrò di Raymond Queneau e Molloy e Watt di Samuel Beckett. Ma per
i turisti inglesi e americani di passaggio a Parigi la caratteristica copertina
verde dei tascabili della collana Traveller's Companion era sinonimo di
«pornografia» e le opere letterarie erano arraffate a casaccio e nascoste in
fondo alla valigia insieme ad altri titoli dell'Olympia quali Sin for Breakfast, Until She Screams e With Open
Mouth.
Girodias
vi faceva riferimento come «DB», Dirty
Books (cioè «libri sporchi»), e spesso annunciava titoli che ancora non
erano in catalogo. Se per quel titolo arrivavano prenotazioni sufficienti,
incaricava uno dei suoi scrittori di prepararglielo. Durante tutti gli anni
Cinquanta e agli inizi dei Sessanta, l'Olympia pubblicò oltre un centinaio di
DB, tutti in pratica scritti sotto pseudonimo da americani, molti dei quali
collegati in un modo o nell'altro al Beat Hotel.
Quando
i turisti ne ebbero abbastanza di letteratura e chiesero più DB, il sagace
Girodias offrì loro una scelta più ampia chiamando le collane Atlantic Library,
Othello Books, Ophelia Press e Ophir Books, ognuna delle quali conteneva titoli
simpaticamente immuni da meriti letterari. Tra queste, l'Ophelia Press era la
più allettante, con titoli quali The
Ordeal of the Rod, Iniquity, The English Governess, Under the Birch, Lust, Without Shame, The Whipping Club e Whips Incorporated, che non lasciavano alcun dubbio al lettore sul
contenuto. Decine e decine di scrittori erano occupati a sfornare DB per tutti
i gusti.
Sulla
Rive gauche il maggior punto vendita di questi titoli era la Librairie Anglaise
in rue de Seine 42, che trattava libri in inglese. La proprietaria era Gaït
Frogé, una bellissima francese in miniatura che adorava scritti e scrittori
americani. Era nata in Bretagna e parlava inglese con raffinato accento
britannico. Il minuscolo negozio quasi triangolare era situato in un edificio
sghembo del XVI secolo all'incrocio di rue de Seine con rue de l'Echaudé.
L'ambiente era dominato da un enorme tavolo che occupava quasi tutto lo spazio,
tanto che girare per il negozio risultava piuttosto arduo. Sul tavolo c'erano
alte pile di polverosi volumi di poesia e di rivistine letterarie, tutti di
pubblicazione propria, una vera miniera per chi andasse alla ricerca di
edizioni rare.
I
libri dell'Olympia Press erano la specialità di Gaït e quelli che si vendevano
meglio nel suo negozio, ma lei ne teneva pochi sugli scaffali, giusto per far
sapere ai clienti che li vendeva. La sera non chiudeva mai la porta a chiave,
nonostante la piccola collana Traveller's Companion dalla copertina verde e le
edizioni più pornografiche dell'Ophelia Press avessero un prezzo piuttosto alto
e fossero ovviamente prese di mira dai taccheggiatori o dai ladri notturni. Li
teneva quasi tutti in uno stipo vicino alla cassa, disponibili su richiesta. I
titoli più letterari dell'Olympia, come quelli di William Burroughs stampati da
Girodias e scritti negli anni trascorsi al Beat Hotel, erano spesso presentati
ai lettori in negozio con una festa nella piccola cave, la cantina medievale della libreria, con la volta a botte e
le pareti piuttosto umide, illuminata da candele infilate in bottiglie da vino.
Girodias pagava il conto del vino e dei biglietti d'invito. Quando nel giugno
del 1960 l'Olympia pubblicò The Young and
Evil di Charles Henri Ford e Parker Tyler (che in origine era stato
pubblicato, sempre a Parigi, da Girodias padre nel 1933), Gaït mise eccezionalmente
in mostra le foto degli autori e riempì la vetrina di copie del libro.
La
libreria era angusta e sovraccarica, zeppa di libri ammucchiati gli uni sugli
altri, con locandine di mostre e reading che coprivano la porta e la vetrina e
bicchieri da vino vuoti in equilibrio instabile su pile di gialli americani
tascabili a poco prezzo, copie della rivista «Encounter» di due anni prima
allineate sullo stesso scaffale accanto al volumetto di un poeta locale, fresco
di stampa. Gaït abitava sopra la libreria e spesso i clienti entrando trovavano
che alla cassa non c'era nessuno e nel negozio silenzioso si udiva solo il
vigoroso cigolio delle molle del letto al piano superiore. Quando nel 1958
Burroughs si trasferì a Parigi, Gaït diventò uno dei suoi finanziatori. Nel
1960, quando Two Cities, l'editore di Minutes
to Go, non fu in grado di saldare il conto di 300 dollari per le spese di
stampa, subentrò subentrò lei
nell'impresa, pagò e lanciò il libro dalla sua libreria. E ancora, fu lei a far
uscire un album dal titolo Call Me
Burroughs, prodotto da Ian Somerville, nel quale Bill leggeva brani da Pasto nudo e altri scritti più recenti,
e che era stato registrato nella sua cave.
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi dei
Sessanta gli americani e i britannici che vivevano a Parigi erano parecchi, ben
serviti da librerie che vendevano testi in inglese. Vi era Stock, a place du
Théâtre-Français; Brentano su avenue de
l'Opéra; i cinque negozi di Flammarion; Galignani, su rue de Rivoli e, dieci
numeri più oltre sulla stessa strada, il rigido conservatore W.H. Smith, dove
si serviva tè inglese. Ma in queste librerie si vendevano soprattutto libri di
successo o testi tecnici alla vasta comunità di lettori del mondo diplomatico o
militare; i gruppi più giovani di studenti o di letterati erano accuditi dalle
due librerie di lingua inglese sulla Rive gauche, una delle quali era la
Librairie Anglaise di Gaït,
nota anche come English Bookshop. L'altra era la Mistral, al 37 di rue de la
Boucherie, in un altro vecchio edificio sulla riva della Senna opposta a
Notre-Dame, vicino alle rovine di Saint-Julien-le-Pauvre. Il proprietario, e
quindi arcirivale di Gaït,
si chiamava George Whitman, era americano ma risiedeva in Francia dal 1946,
quando era arrivato per occuparsi degli orfani di guerra. Si era poi avvicinato
al mondo librario e nel 1951 aveva acquistato l'edificio della Mistral con i
quattrini di una eredità, trasformando quel che era stata una drogheria araba
in una combinazione di libreria, ostello della gioventù e circolo sociale. Al
piano superiore c'era una sala di lettura con letti, dove scrittori e poeti di
passaggio potevano fermarsi gratuitamente fino a una settimana: per questo,
come la Librairie Anglaise, la Mistral era usata come punto d'incontro e
recapito postale da molti degli espatriati americani. C'era un'aspra
competizione fra i due negozi. La Frogé affermava che Whitman lavorasse per la
CIA - «Come si spiegherebbero altrimenti le sue lunghe assenze dalla libreria?»
- e sosteneva che lui raccontava in giro che lei si drogava.
L'English Bookshop era la più «letteraria» delle due e
l'unica che vendesse i libri dell'Olympia Press.
Nonostante le suppliche appassionate di Girodias e le argomentazioni degli
autori dell'Olympia, Whitman si rifiutava di mettere in vendita i titoli
dell'Olympia Press, forse per timore di possibili problemi con la polizia. Cosa
poco probabile, se perfino Brentano aveva in stock libri dell'Olympia; c'era
uno scaffale su cui con molta discrezione erano allineati i volumetti dei
Traveller's Companion, e gli americani sapevano sempre dove trovarli. C'era chi
entrava e si dirigeva dritto lì, ignorando tutti gli altri libri.
La
Mistral era più grande dell'English Bookshop e aveva più spazio per i reading
di poesia. I residenti del Beat Hotel frequentavano entrambe le librerie, visto
che si trovavano più o meno alla stessa distanza dall'albergo. La Mistral era
nella stessa direzione dell'Olympia Press e ci si poteva passare l'intera
giornata a leggere libri senza che George protestasse, mentre la Librairie
Anglaise era a pochi passi dalla Palette, all'angolo fra rue de Seine e rue
Jacques-Callot, che a quei tempi era ritrovo abituale di spacciatori. Ogni
percorso aveva i suoi naturali vantaggi.
Fra
gli occupanti del Beat Hotel, molti non si spingevano più in là di qualche
isolato da rue Gît-le-Coeur,
un mese via l'altro: in pratica, tutto quel di cui avevano bisogno era lì a due
passi. C'era una quantità di ristorantini economici nel raggio di pochi isolati
e alcuni dei residenti avevano accordi stabili con i proprietari, come
chitarristi o intrattenitori d'altro genere. La zona era piena di localini jazz
e caffè aperti fino a tardi. La scuola d'arte era solo a due isolati, per le
ragazze che stavano all'albergo e facevano le modelle, mentre la maggior parte
degli americani si guadagnava da vivere facendo gli strilloni per l'edizione
parigina del «New York Herald Tribune» e di rado si spingeva oltre boulevard
Saint-Germain in cerca di acquirenti. In genere la droga veniva consegnata al
destinatario a domicilio nell'albergo, ma si poteva anche reperire con facilità
nei caffè algerini e marocchini vicino a rue Saint-Séverin e alla Palette. Il
meraviglioso mercato di bancarelle di rue de Buci distava solo qualche minuto,
e in rue de la Huchette era possibile fare la spesa fino a tardissimo. C'era un
posto chiamato Ali Baba dove chi alloggiava all'albergo poteva comprare da
mangiare fino alle due di notte, se voleva cenare tardi; la frutta esposta sul
marciapiedi era coperta da una rete che la proteggeva dai ladri di passaggio. A
molti dei residenti dell’hotel quella zona sembrava il paradiso.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
domenica, 1 ottobre 2017