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mercoledì 11 ottobre 2017

Il Beat hotel


Raccontare Parigi non è mai stato facile. Troppe cose sono cambiate, tanti ambienti sono stati distrutti. Per secoli le sue fetide viuzze hanno dato asilo a bande di ladri e assassini. Poi, nel XIX secolo, è arrivato il barone Haussmann a far piazza pulita, radendo al suolo i vecchi quartieri e creando la Parigi di oggi, coi suoi lunghi viali alberati (boulevards) e la sua struttura architettonica di stampo borghese. Un massacro di mattoni e pietre che ha reso difficile “capire” come poteva essere il mondo e la vita delle classi disagiate, da allora sloggiate verso le periferie.

Il viaggio in treno da Milano Porta Garibaldi a Paris Gare de Lyon è come sempre penoso: sono circa 600 km, che un presunto Train Grand Vitesse (TGV) percorre in otto ore. Mi chiedo che farebbe se fosse un Train Grand “Lentesse”… Un’ora e mezza solo per raggiungere Torino Porta Susa…
Deposto il bagaglio, eccomi in pista, giusto per rimettere in circolo la pressione sanguigna. Il cielo è azzurro, il vento rinfrescante. La cattedrale di Saint-Germain-des-Près è subito raggiunta. A lato, in un giardinetto fa brutta vista di sé il monumento che la Mairie de Paris ha dedicato a Guillaume Apollinaire, qui rappresentato dal volto di Dora Maar scolpito da Pablo Picasso. Un monumento voluto dagli amici di Apollinaire e contrastato da beghe locali - dimostrazione di come il popolo goda nel farsi rappresentare dalla più infima tipologia della razza umana, e questo in ogni latitudine del pianeta Terra.
Dentro, la cattedrale è in gran parte chiusa al traffico per lavori di restauro. Nessun problema: sono più di quarant’anni che la frequento, quindi posso sopportare il disturbo, limitandomi ad un nuovo scatto alla statua di Notre-Dame-de-la-Consolation (XIV secolo) e a Davide e Golia - forse il più antico capitello di questa struttura a suo tempo regale.
Punto al lungo Senna. Nel piccolo square Honoré Champion ritrovo il pallido Voltaire. Pochi metri più avanti ecco le panche a forma di libro aperto e la fontana di Fragonard - scolpita nel 1830 per alimentare il mercato des Carmes in place Maubert e qui trasportata nel 1930, otto anni prima della creazione dello square dedicato all’organista Pierné. In un angolo l’implume Carolina, scultura in bronzo di Marcello Tommasi datata 1968, solletica il palato degli amanti delle petites filles à la manière de Balthus.
Seguono rue de Seine (il marciapiede è saturo di merde canine - o dei padroni che poi danno la colpa ai cani?) e rue des Grands-Augustins, dove al numero 7 si apre uno dei portoni a me più noto e caro: qui, tra varie ed eventuali, Picasso realizzò una delle più importanti opere di ogni tempo, non fosse altro per il suo valore civico: Guernica.
Giro a sinistra e mi ritrovo sul quai des Grands-Augustins, con la Senna sull’altro lato della strada. Dirigendomi verso Notre-Dame-de-Paris, a destra imbuco rue Gît-le-Cœur, strada anonima, non fosse per la presenza dell’hôtel a suo tempo abitato da Ginsberg, Corso, Burroughs e gli altri: l’avventura parigina dei Beat - come leggo nel sottotitolo del volume Il Beat Hotel di Barry Miles, un libro dell’anno 2000 stampato in Italia da Ugo Guanda nel 2007. È un libro già da me recensito alcuni anni fa, che qui riprendo proponendo l’intero primo capitolo, pp. 15-33. È un po’ lungo, è vero, ma anticipa molte mie fotografie scattate nei giorni a seguire: tenete queste pagine a futura memoria.
Abbattuto e ricostruito, l’ex Beat hotel è stato trasformato in una residenza a 4 stelle: dalle stalle alle stelle la via è breve, a quanto pare.
La corta rue de l’Hirondelle dà accesso alla place Saint-Michel, ma solo dopo aver superato le forche caudine del portico, spazio ricoperto da macchie di urina, le cui esalazioni rallegrano le mie sensibili narici. Come sempre - o quasi - chiudo la mia giornata in Boulevard Saint-Germaine, dilettandomi nel fotografare i suoi bar e i suoi ristoranti. Domani è un altro giorno …e chi vivrà vedrà.
Intanto, eccovi il testo di Barry Miles sopra promesso:


Negli anni Cinquanta a Parigi la Rive gauche, o Quartiere latino, era quel che Soho era per Londra, il Greenwich Village per New York e North Beach per San Francisco: una zona centrale, poco costosa, dove scrittori e artisti potevano incontrarsi e passare le notti a parlare o a bere, dove gli alloggi spartani non erano cari e i residenti molto tolleranti verso le follie comportamentali dei giovani. L'intrico di stradine fra boulevard Saint-Germain e la Senna ospitava decine e decine di alberghi a poco prezzo, occupati dagli studenti della vicina Sorbona. L'Università di Parigi, vecchia di settecento anni, aveva stabilito ormai una solida tradizione secondo la quale gli studenti che la frequentavano alloggiavano negli alberghetti del circondario. Ci abitavano anche studenti e modelle della École des Beaux-Arts sul quai des Augustins, nonché molti artisti affermati i cui studi si aprivano su cortiletti o stradine laterali, ed erano riconoscibili dai grandi lucernari esposti a nord. Studenti e artisti bohémien vivevano in mezzo a una gran massa di cittadini appartenenti alla classe operaia, quei parigini autentici che ogni mattina affollavano le bancarelle di cibarie di rue de Buci o il mercato coperto a Mabillon e rientravano a casa con la spesa ben prima che i giovani bohémien avessero bevuto un sorso del caffè con cui iniziava la loro giornata.
L'area vicino a rue Saint-Séverin, povera e fatiscente, era tradizionale rifugio dei clochard, che una volta, quando la zona intorno a place Maubert era frequentata da battellieri e omaccioni forzuti, avevano una strada tutta per loro, rue Brève. Negli anni Cinquanta a Parigi si contavano circa diecimila clochard, uomini e donne, che dormivano sotto i ponti o sui tombini nelle piazze, coperti di stracci, scaldati dal calore che saliva dalle fogne, stretti in mucchi sulle griglie di ventilazione della metropolitana dalle quali soffiava l'aria calda stantia.
Nel Quartiere latino si trovavano polverosi negozi di libri usati, gallerie d'arte d'avanguardia, negozietti d'antiquariato, rivendite di prodotti di artigianato etnico e minuscole e affollate sedi di case editrici radicali o di piccole stamperie specializzate in letteratura sperimentale e belle arti. Sul Lungosenna i bouquinistes esibivano stampe sbrindellate e libri consunti in una sorta di scatole fissate al parapetto che di notte venivano chiuse a chiave. In tutte le librerie intorno a rue de Seine e place Saint-Michel si trovavano volumi sul surrealismo, sulla patafisica, sull'occultismo e l'alchimia, sul misticismo asiatico. A volte queste librerie erano nascoste in fondo a qualche cortile o ai piani alti delle case, note solo a una fedele clientela.
C'erano caffè di artisti, come la Palette, dove si poteva incontrare un gallerista per programmare una mostra, ingaggiare una modella o comprare droga. C'erano decine di ristorantini, come il Café des Arts in rue de Seine dove gli allievi dell'accademia sedevano in fila su delle panche; l'unico menu prevedeva tre portate a prezzo fisso, con vino rosso a volontà servito in boccali da litro sui semplici tavoloni di legno senza tovaglia. Un caffè, Chez Raton, era così piccolo che il pane era tenuto in cestini appesi con delle corde al soffitto e bisognava tirarli giù per servirsi. Chez Jean, situato in una stradina laterale di boulevard Saint-Germain, era uno dei pochi ristoranti parigini che avesse ancora la segatura sul pavimento. A volte vi si ascoltava qualcuno che suonava il violoncello o la chitarra. Era frequentato da brutti ceffi ma piaceva anche agli artisti, in una tregua difficile ma tutto sommato duratura. Nel vicinato c'erano anche molti ristoranti cinesi, vietnamiti e nordafricani a poco prezzo, specie intorno a place Maubert e a rue de la Huchette.
Ogni sera su boulevard Saint-Germain si poteva assistere alla passeggiata più affollata di tutta la città, con centinaia di persone che andavano su e giù da place Maubert a place Saint- Germain des Prés, oltrepassando i grandi caffè, come la Brasserie Lipp, il Café aux Deux Magots, il Café Flore, affollati di esistenzialisti e di ricchi turisti che guardavano e si facevano guardare. Alcuni di quelli che passeggiavano si fermavano alla Pergola, appena oltre la fermata Marbillon della metropolitana: aveva anche un menu da cinquecento franchi e rimaneva aperto tutta la notte. Era il principale punto d'incontro per gli omosessuali parigini, uomini o donne. Fra i ragazzi più giovani c'era chi metteva cipria e rossetto, mentre le ragazze più mascoline vestivano da uomo. La Pergola attirava anche gli studenti più nottambuli, e fra questi c'erano parecchi residenti del Beat Hotel, che distava solo due isolati.

Il Beat Hotel si trovava al 9 di rue Gît-le-Coeur, una stretta stradina medievale che scendeva al fiume da rue Saint-André des Arts fino al quai des Augustins, nella parte più antica del Quartiere latino. Nel tredicesimo secolo la strada si chiamava rue de Gilles-le-Queux o Guy-le-Queux (Guy il mendicante). Era nota anche come rue Guy-le-Preux. Col passar dei secoli divenne Gît-le-Coeur: secondo Brion Gysin era un gioco di parole escogitato agli inizi del diciassettesimo secolo da Enrico IV, il primo re di Francia della dinastia dei Borboni, la cui amante abitava in quella strada. Un giorno il re passava di lì e dichiarò «Ici gît mon coeur» (Qui giace il mio cuore). Come molte altre storielle di Gysin probabilmente non è vera, ma è graziosa lo stesso.
In alternativa, una versione che si legge in un'altra guida di Parigi afferma che il nome della strada ricorda l'assassinio di Etienne Marcel, Prevosto dei Mercanti, uno dei Padri di Parigi. La notte del 31 luglio 1358 fu ucciso in questa via da Jean Maillart, un mercenario al soldo del Delfino Charles; gît vuol dire «giace», come si legge sulle iscrizioni tombali, ci-gît, «qui giace».
Come in molte vecchie viuzze del quartiere, le case avevano quattro piani, e mentre il pianterreno incombeva ad aggetto sulla strada, gli altri tre se ne distanziavano nella ripida ascesa verso l'alto. I numeri 5, 7 e 9 furono costruiti verso la fine del sedicesimo secolo, e in origine comprendevano la residenza di Pierre Séguier, Marchese d'O, che in seguito divenne proprietà del Duca de Luynes, zio di Racine. Nel 1933 il signore e la signora M.L. Rachou, una coppia di provinciali di Giverny, vicino Rouen, a nord-ovest di Parigi, avevano acquistato il numero 9 per farne un albergo. Brion Gysin, che negli anni vissuti all'hotel divenne molto amico di Madame Rachou, diceva che avevano solo la gérance, la gestione, e non la proprietà dell'albergo, e questo è molto più plausibile poiché riesce difficile immaginare come la coppia avesse potuto trovare il denaro per acquistare un edificio tanto grande. Il signor Rachou faceva da portiere e da fattorino, era un omone enorme e silenzioso, lento e paziente con i suoi ospiti. La signora era piccola ed energica, le corte braccia di solito conserte sul grembiule azzurro chiaro dal colletto rotondo ricamato - del tipo indossato ogni giorno, tranne la domenica, dalle operaie dell'Ottocento. Lei si occupava del piccolo bistrò al pianterreno e della registrazione degli ospiti.
Ai Rachou piaceva la compagnia di artisti e scrittori, e li incoraggiavano a fermarsi all'albergo. Madame Rachou a volte accettava come pagamento le opere degli artisti, non tenendone nessuna per sé poiché non pensava nemmeno per un attimo che sarebbero mai valse qualcosa. La simpatia per gli artisti risaliva alla sua infanzia, quando, a dodici anni, aveva cominciato a lavorare in una locanda di campagna a Giverny, poco distante dallo studio di Monet. Dopo aver passato la mattina a dipingere una serie di sacchi di grano o di pagliai, Monet arrivava alla locanda per pranzare con il suo vecchio amico Camille Pissarro. Una volta Madame Rachou chiese a Brion Gysin: «E che ne è stato del figlio, il giovane M'sieu Pissarro?» Brion non sapeva, ma le disse che proprio in quel periodo a Parigi c'era una grande retrospettiva dei dipinti di Pissarro e si offrì di portarcela, ma lei aveva troppo da fare con l'albergo per simili distrazioni.
La signora si occupava del bar e il suo nome, J.B. Rachou, era dipinto sulla porta a vetri nella caratteristica grafia a caratteri inclinati dei decoratori d'insegne vecchio stile. I Rachou non diedero mai un nome all'albergo, preferendo semplicemente distinguere gli ingressi: sulla porta a sinistra c'era l'insegna hotel, e al di sopra della porta a vetri del caffè si leggeva invece café vins liqueurs e tanto bastava. Per ventiquattro anni, durante l'occupazione e nei difficili mesi dopo la Liberazione, quando cibo e carburante erano ancora più scarsi di quanto non fossero sotto i tedeschi, la coppia tenne aperto l'albergo pur riuscendo a sopravvivere a stento.
Poi nel settembre del 1957 il signor Rachou morì in un incidente automobilistico nella cittadina di Saint-Germain, appena fuori Parigi. I Rachou avevano da poco comprato una Citroën ds di seconda mano e il signor Rachou era andato in campagna a prendere alcuni amici per portarli poi all'albergo per il pranzo domenicale. A Saint-Germain una macchina aveva investito la sua a un incrocio, uccidendo lui e ferendo gravemente i suoi quattro amici. Madame Rachou era distrutta, ma non ebbe altra scelta che tirare avanti. Un albergo, si sa, non può essere trascurato più di qualche giorno.
Essendo così minuta, per riuscire a servire i clienti dietro il tradizionale bancone di zinco del bistrò, la signora doveva stare in piedi su una cassetta di vino capovolta. C'erano tendine di pizzo ai vetri dell'ampia finestra e diverse piante di aspidistra dallo stelo lungo e delicato, con le punte delle foglie lanceolate sempre secche. Nel bistrò, su un pavimento di piastrelle malandate, poggiavano tre tavolini con sottili gambe di ghisa e piani di marmo sui quali lei serviva caffè e brioche per colazione. La colazione non era inclusa nel prezzo della camera, non era quel tipo di albergo; i 40 centesimi del caffè dovevano essere pagati alla consumazione.
Madame ammanniva pasti poco costosi ma abbondanti a base di stufato d'agnello o di coniglio in umido, ma dopo la morte del marito non aprì più la grande sala da pranzo sul retro tranne che per gli occasionali pranzi riservati ad agenti di polizia o altri fonctionnaires. L'albergo era di tredicesima classe, la categoria più bassa in assoluto, ed era quindi tenuto a garantire solo il rispetto dei regolamenti sanitari e di sicurezza, nient'altro. Dopo la guerra, come parte della stessa operazione di pulizia di Parigi che aveva chiuso i bordelli, molti alberghetti del vicinato, appartenenti alla stessa categoria, erano stati chiusi dalla polizia perché contravvenivano a regolamenti a lungo ignorati. Questo era uno dei motivi per cui c'erano tanti clochard nelle strade. Tuttavia Madame Rachou era in buoni rapporti con la polizia fin da prima dell'occupazione e intendeva conservarli tali.
Aveva lo spirito della classica concierge. Dall'alto del suo posto di osservazione sulla grossa cassetta di vino riusciva a controllare il proprio dominio: alla sua destra, da una porta a vetri si vedeva lo stretto ingresso dell'albergo, mentre la sala da pranzo sul retro, separata dal bar da una tenda, aveva una finestra che dava sulle scale e permetteva di vedere le gambe di chi entrava o usciva - ideale per afferrare alle caviglie un ospite truffaldino che tentasse di svignarsela senza pagare il conto. Vicino alla porta, di fronte al bar, la signora aveva il pannello di controllo dell'impianto elettrico; il numero di ogni camera era indicato da una targhetta smaltata, su ognuna delle quali s'accendeva una minuscola lampadina quando la luce di quella stanza era accesa. Ogni camera aveva a disposizione 40 watt, appena sufficienti per una fioca lampadina da 25 watt e una radio o un giradischi. L'impianto elettrico era arcaico: estremamente instabile, con sistematica frequenza faceva piombare tutti nel buio se un ospite sovraccaricava il circuito. Quando la lucetta sul pannello di controllo si faceva troppo brillante, la signora sapeva che qualcuno stava usando un fornelletto abusivo e si precipitava di sopra per scoprire il colpevole. La disponibilità di ogni camera poteva salire a 60 watt, ma ovviamente si pagava un piccolo sovrapprezzo. Piuttosto che sobbarcarsi questa spesa extra, la maggior parte dei residenti cucinava su fornelli a due fuochi, a gas o a kerosene, che ognuno si procurava da sé. Le cucine a gas erano provviste di contatori individuali, e la signora sembrava scegliere sempre il momento meno adatto per arrivare in camera col letturista.
Le quarantadue stanze non avevano tappeti o telefoni. Alcune erano particolarmente buie, perché le finestre davano sulla tromba delle scale e ricevevano soltanto luce indiretta dai finestroni sudici dei pianerottoli. I corridoi avevano strane pendenze agli angoli, e i pavimenti cigolavano e scricchiolavano. Le porte antiquate si aprivano con la maniglia al centro invece che su un lato. Su ogni pianerottolo c'era una chiotte alla turca: una latrina tradizionale con un buco nel pavimento e due rialzi laterali a forma di impronta di piede sui quali acquattarsi. Appesi a un chiodo c'erano pezzi di fogli di giornale al posto della carta igienica, ma molti dei residenti la compravano per conto proprio e se la portavano dietro. Al pianterreno c'era una vasca da bagno, ma bisognava prenotarla prima in modo che si potesse far scaldare l'acqua. Naturalmente anche per questo servizio si pagava un piccolo sovrapprezzo. Brion Gysin sosteneva che mettendo la testa sott'acqua nella vasca, si sentiva gorgogliare la Bièvre, il fiume sotterraneo che sfocia nella Senna alcuni isolati a est di rue Gît-le-Coeur, di fronte a Notre-Dame - un'affermazione che poi approfondì nel suo romanzo The Last Museum. Come tutto il resto nell'edificio, l'impianto idraulico era antidiluviano e quindi soggetto a intasamenti, rumori metallici, fortissime vibrazioni e perdite. Il riscaldamento c'era tutta la settimana, ma l'acqua calda soltanto giovedì, venerdì e sabato.
Tende e copriletti venivano lavati e cambiati in primavera, la biancheria del letto un pochino più di frequente - in teoria, ai primi di ogni mese. Dopo la morte del signor Rachou la signora assunse un custode, il signor Duprés, che di tanto in tanto vagava per l'albergo con l'apparente intenzione di far le pulizie nelle camere e rifare i letti. Spesso era accompagnato da una fila di bambinetti e, proprio come la signora, sceglieva inevitabilmente il momento meno opportuno per entrare in una stanza. Qualche parete era molto sottile, poco più di una tramezza di cartone, e i rumori viaggiavano per strane vie, talvolta provenivano molto forti dagli scarichi dei lavandini.
La porta d'ingresso non era mai chiusa a chiave o sorvegliata, ma Madame Rachou aveva un suo modo misterioso, quasi da chiaroveggente, di sapere tutto quel che accadeva sia all'interno dell'albergo sia fuori sulla strada. La signora riusciva a captare i potenziali problemi - un passo estraneo, uno scricchiolio insolito - e si materializzava sulla soglia per proteggere i residenti da creditori, imbroglioni o sporadiche visite della polizia. A qualsiasi ora della notte, compariva impassibile nella sua camicia da notte bianca: «Monsieur? Que voulez-vous?» Neppure la polizia riusciva a tenerle testa. Nel 1962, durante la crisi algerina, un giovane flic foruncoloso era di servizio sull'altro lato della strada, di guardia all'abitazione di un ex capo della polizia che era sulla lista nera dell'oas e s'aspettava da un momento all'altro una bomba o una coltellata assassina. Il poliziotto notò una bella ragazza americana che entrava in albergo e la seguì fino alla porta della sua camera, dove apparve Madame Rachou e lo scacciò dall'albergo con una mitragliata d'insulti, agitando con veemenza le corte braccia mentre i capelli dai riflessi azzurri brillavano nel corridoio poco illuminato.
Tuttavia la signora non poteva tenere sotto controllo il servizio immigrazione. Nella descrizione di William Burroughs: «La 'polizia degli stranieri', gli addetti all'immigrazione di tanto in tanto eseguivano controlli dei passaporti, di solito alle otto di mattina, e spesso si portavano via qualche ospite che non aveva i documenti in regola. Chi era stato trattenuto veniva rilasciato di lì a poche ore, dopo aver pagato non una multa bensì una tassa richiesta quando si faceva domanda per la carte de séjour, pochi avevano però il tempo e la pazienza di ottemperare alle complesse norme burocratiche necessarie per ottenere l'ambito documento». La maggior parte, incluso Burroughs, ricorreva all'espediente di un viaggetto a Bruxelles o ad Amsterdam ogni tre mesi, in modo da riottenere la concessione di soggiorno trimestrale a ogni rientro in Francia.

La cultura della bohème è molto francese. E infatti Henri Murger, autore di Scene della vita di bohème, affermava (nel 1851) che i veri bohémien possono esistere solo a Parigi. La Gran Bretagna era meno tollerante verso i comportamenti poco ortodossi. Londra produsse eccentrici ed esteti, ma non aveva una tradizione di povertà fra gli artisti. Byron e Shelley avevano scoperto che la vita nel diciannovesimo secolo era più facile sul continente. Oscar Wilde, una volta rilasciato dal carcere di Reading, si trasferì a Parigi per vivere più liberamente la propria vita.
Rue Gît-le-Coeur aveva sempre avuto i suoi residenti bohémien. Nel 1930 Dorothy Wilde, la scatenata nipote di Oscar, abitò al numero 1, e Lord Gerard Vernon Wallop Lymington, nono conte di Portsmouth, occupava delle stanze proprio sotto i tetti dello stesso edificio, nelle quali, verso la fine degli anni Venti, era solito fumare oppio insieme a Caresse e Harry Crosby. Negli anni Trenta Brion Gysin abitò in un bellissimo appartamento sull'angolo del quai, mai immaginando che sarebbe tornato nella stessa strada due decenni dopo.
Rue Gît-le-Coeur fu anche la scena di un famoso arresto del poeta statunitense e.e.cummings. Alle 3 di notte di un giorno di luglio del 1923, John Dos Passos, Gilbert Seldes e cummings erano diretti «alla taverna del Calvados della rue Gît-le- Coeur». Quando cummings si fermò a orinare contro un muro sbucò «un'intera schiera di gendarmi». Fu arrestato e portato alla stazione di polizia del quai des Grands Augustins, dove venne registrato come «un Américain qui pisse» e gli fu ingiunto di ritornare l'indomani mattina per la formulazione dell'accusa. Seldes telefonò al suo amico scrittore Paul Morand, Ministre des Affaires Etrangères, che fece ritirare ogni imputazione, cummings non fu informato di questi sviluppi e il giorno dopo si presentò alla stazione di polizia. Fu lasciato andare, ma all'uscita trovò un gruppo di suoi amici che portavano dei cartelli sui quali era scritto: Sospendete l'esecuzione del Pisseur Américain. cummings rimase profondamente commosso dalla loro solidarietà, fino a quando non scoprì che la manifestazione di protesta era uno scherzo.
L'albergo dei Rachou mantenne la tradizione bohémien del quartier. In uno degli abbaini abitavano un fotografo che non rivolgeva la parola a nessuno da due anni, e un artista che aveva riempito la propria camera di paglia. Fra le prostitute, i musicisti jazz e le modelle dei pittori c'erano tipi strani come un gigante della Guyana francese che passava a stento per gli strettissimi corridoi, e un'imperiosa signora indocinese sempre vestita di seta che alla porta aveva una tenda di bambù. Il primo dei cosiddetti beatnik arrivò nel 1956: era un pittore svizzero che tutti chiamavano Gesù Cristo. Aveva capelli neri e folti lunghi fin quasi alla vita, e barba e baffi incolti. Indossava ampie vesti di cotone bianco sporco e girava in sandali senza calze anche nel freddo gelido dell'inverno parigino. Poiché non poteva permettersi di comprare tele, dipingeva sui muri e, in seguito, sul soffitto e sul pavimento della sua stanza al secondo piano. Il signor Rachou non se ne preoccupava, perché credeva che la vernice tenesse lontano i parassiti.
A differenza delle altre centinaia di alberghetti scalcinati di Parigi che offrivano appena il minimo necessario, il Beat Hotel rappresentava un'eccezione, in quanto Madame Rachou incoraggiava gli artisti a fermarsi da lei e concedeva ai suoi ospiti la libertà di vivere come meglio credevano. Potevano portarsi in camera un ragazzo, una ragazza o addirittura un gruppo, e se si fermavano a dormire bastava che firmassero la fiche del registro degli ospiti. Su questo la polizia non transigeva. Sotto ogni altro aspetto, l'albergo era squallido e sporco come quelli vicini. C'erano ratti e topi, le camere e le scale erano lerce, i cessi puzzavano e i corridoi erano saturi di lezzo di cucina stantio. Jean-Jacques Lebel, un artista che abitava nell'Hotel Colbert, in una via vicina, veniva di frequente a trovare i beat americani. «Molto spesso da loro c'era un tanfo tremendo» ricordava, «perché erano in molti a cucinare in camera, e c'era Dixie Nummo, un giamaicano, che usava molto aglio e olio e appestava l'intero stabile. C'erano anche alcuni anziani francesi che abitavano lì da secoli e cucinavano con molto grasso, quindi il posto puzzava... I ratti stavano al pianterreno, non ai piani alti, e quando la Senna cresceva anche loro uscivano dalle tane e salivano. Quando ci sono tossici in giro ci sono ratti. Era una cosa spaventosa, un'atmosfera un po' tipo quella del Pasto nudo
Fra gli ospiti dei Rachou il primo a raggiungere la celebrità fu lo scrittore afroamericano Chester Himes. Il suo primo racconto lo What Red Hell fu pubblicato nel 1934 da «Esquire», mentre Himes stava scontando una condanna a otto anni per rapina a mano armata nel Penitenziario di stato dell'Ohio. Il suo primo romanzo If He Hollers Let Him Go apparve nel 1945, fra i consensi della critica, ma il suo seguito, Lonely Crusade, troppo brutalmente sincero sulle condizioni di vita dei neri negli Stati Uniti, non fu accolto altrettanto bene. Himes giunse in Europa nel 1953 e rimase all'estero, per lo più in Spagna, fino alla morte avvenuta nel 1984. Il suo traduttore francese, Marcel Duhamel, gli suggerì di provare a scrivere qualche libro giallo, genere allora molto popolare in Francia. Himes diede vita a due investigatori afroamericani di Harlem, Digger Jones e Coffin Ed Johnson, le cui imprese in una serie di otto romanzi resero celebre in Francia il loro autore, che invece in patria restò relativamente sconosciuto. Fu solo nel 1970, quando il regista Ossie Davis trasse da un volume del 1965, Cotton Comes to Harlem, un film di successo, che Himes fu portato all'attenzione di un più vasto pubblico americano.
Sulle prime Himes, quando cercò di trovare una camera d'albergo a Parigi, sperimentò sulla propria pelle un aperto razzismo. Nell'autobiografia descrive la sua ricerca d'alloggio nel 1954: «L'Hotel Welcome, che si apriva su place de l'Odéon ed era tra i preferiti dei giovani americani bianchi, diede l'esempio. Mi dissero che non potevano accettare noirs: ai loro clienti non sarebbe piaciuto. I primi nove alberghi ai quali chiedemmo ci rifiutarono perché io ero nero. La maggior parte dei proprietari ci disse che il motivo era quello». Molti americani della Rive gauche avevano portato con sé i propri pregiudizi e pretendevano che gli alberghi rispettassero la stessa segregazione razziale a cui erano abituati negli Stati Uniti. Alla fine Himes mandò la sua giovane compagna bianca in un albergo che gli aveva detto di essere complet. Dopo che la ragazza ebbe ottenuto una camera si presentò anche lui. Himes viaggiò molto in Francia e in Europa e, tornato a Parigi nella primavera del 1956, ebbe la fortuna di imbattersi in Madame Rachou. Si installò nell'albergo con la sua ragazza, una giovane tedesca di nome Marlene Behrens. Era uno dei pochi alberghi in cui un nero potesse stare senza dar scandalo insieme a una bianca, specie se questa aveva la metà dei suoi anni.
Occupavano una camera del secondo piano sulla facciata, sopra quella dei proprietari, arredata con una toletta dal piano di marmo che fungeva anche da tavolo da cucina e da pranzo, completa di fornello a gas. Era una stanza piccola, riempita quasi interamente dal letto, ma un enorme armadio malconcio con uno specchio a figura intera creava l'illusione dello spazio. Fu qui che Himes lavorò a parti di Mamie Mason e qui che scrisse The Five Cornered Square, che finì il 18 gennaio 1957. Il 3 maggio dello stesso anno completò A Jealous Man Can't Win. Lavorava con grande rapidità. Dopo la morte del signor Rachou, Marlene passò molto tempo a consolare Madame Rachou, sedendo con lei al bar, ascoltando con simpatia i suoi racconti dei tempi andati. Aveva vissuto in Germania da bambina, negli anni della guerra, e i racconti della signora sull'occupazione tedesca di Parigi le insegnarono molto. Himes e Marlene partirono per Palma di Maiorca nell'ottobre del 1957, e di lì a qualche settimana arrivarono i primi scrittori della Beat Generation.
I nuovi arrivati non avrebbero mai saputo quel che era stato l'hotel con la solida presenza del signor Rachou, o che Madame Rachou aveva il cuore spezzato. Lei continuava con la vita di sempre, ma ora faceva maggiore assegnamento sui clienti per la compagnia, trattandoli come se fossero un sostituto della famiglia. La sera si sedeva a chiacchierare all'infinito con i residenti, servendo tazzine di acquoso espresso, con Mirtaud, il gatto dell'albergo, acciambellato in grembo, fino a quando alle 22.30 il bar chiudeva e lei abbassava la serranda di ferro.
Con l'arrivo dei beat, quell'ottobre, l'hotel entrò in una nuova fase, e per i circa sei anni che seguirono fu al centro di una prolungata esplosione di attività creativa identica a quella che si era da poco verificata a San Francisco. Laggiù la presenza di Allen Ginsberg e di Jack Kerouac aveva catalizzato la scena poetica, dando vita a quel che doveva poi essere conosciuto come San Francisco Poetry Renaissance - un libero gruppo di poeti che includeva Gary Snyder, Michael McClure, Lawrence Ferlinghetti, Philip Whalen, Richard Brautigan e altri. (Aveva forse preso nome dall'Harlem Renaissance, visto che a San Francisco non c'era stato nessun movimento letterario precedente.) Una serie di reading di poesie, a partire da quello ormai leggendario che ebbe luogo alla Six Gallery il 7 ottobre 1955, quando Ginsberg lesse Urlo per la prima volta, portò i poeti di San Francisco all'attenzione di Richard Eberhardt, il quale scrisse un importante articolo sulla scena locale per il «New York Times». Questo, unito al fortuito sequestro con l'accusa di oscenità delle copie di Urlo di Ginsberg, portò l'attenzione dell'intero paese a focalizzarsi sui poeti della città della Baia. Furono organizzati altri reading e i caffè si animarono di poesia dal vivo. I poeti collaboravano con musicisti jazz nei club che stavano aperti tutta notte. All'improvviso si era creato un dinamico, vibrante ambiente letterario, che aveva al suo centro la libreria City Lights di Ferlinghetti, editore della notissima e prestigiosa collana dei Pockel Poets che includeva Urlo di Ginsberg.
Tuttavia Ginsberg non rimase a crogiolarsi nella fama. Tornò a New York e di là andò a Tangeri per aiutare William Burroughs a sistemare il manoscritto di quel che poi sarebbe divenuto Pasto nudo. Proprio mentre Urlo si guadagnava la notorietà dei media, Ginsberg, insieme al suo compagno Peter Orlovsky e al poeta Gregory Corso, partiva alla volta di Parigi per stabilire un nuovo quartier generale nel Beat Hotel. L’affitto bassissimo e l'atmosfera permissiva incoraggiarono un clima di libertà e creatività scevro da preoccupazioni finanziarie. Non essendo francofoni, non erano affatto coinvolti nella cultura del paese e nelle questioni nazionali, né erano limitati dalle regole di vita dei francesi, semplicemente perché non le conoscevano. Per dirla con le parole del loro amico e traduttore francese Jean-Jacques Lebel: «Erano su un'isola, distaccati da tutto in questo piccolo, magico paradiso pieno di ratti e cattivi odori. Ma era idilliaco perché diede loro via libera a essere loro stessi senza dover rendere conto all'America». Il Beat Hotel offriva la libera scelta tra l'ozio o l'intensa e appassionata attività, tra l'ingannare il tempo passando la giornata nei caffè o il discutere tutta la notte. Era un posto dove si potevano sviluppare idee in una comunità staccata dalla morale comune proprio come i residenti del famoso Impasse du Doyenné, la prima colonia della bohème.
Un tempo, nelle vicinanze dell'attuale piramide del Louvre, all'angolo del Carrousel, lungo una strada senza uscita fra le rovine del priorato di Doyenné, di cui restavano ancora in piedi alcuni archi e colonne, sorgeva un insieme di edifici fatiscenti che nel 1830 ospitava una piccola comunità autonoma di bohémien. Théophile Gautier, Gérard de Nerval, Arsène Houssaye, Edouard Ourliac e molti altri scrittori e pittori abitavano e lavoravano, circondati da arredi, tappezzerie e tendaggi gotici, razziati durante la Rivoluzione che si potevano ancora trovare e acquistare per poco dai rigattieri. Nerval chiamava questa comunità «la Bohème galante» e scrisse un libro con questo titolo che descriveva le loro vite. Fu qui che Ourliac lavorò a Suzanne, il libro che doveva renderlo celebre. E Gautier scrisse Mademoiselle de Maupin, Houssaye scrisse La pécheresse, e Rogier illustrò I racconti di Hoffmann.
Nelle opere di Gautier e dei suoi amici c'era una forte tendenza all'erotismo che li distingueva dagli altri scrittori e artisti del tempo, e all'Impasse du Doyenné l'orgia era un modo piuttosto comune di passare il tempo. Un'orgia fornisce il tema per Les Jeunes-France di Gautier, nel quale un gruppo di giovanotti si riunisce per organizzare una festa colossale. Ci fu una famosa serata nella quale Gautier e i suoi amici si prostrarono tutti insieme dinanzi a una donna e nel buio più totale bevvero punch in teschi umani. In occasione di un ballo mascherato nel 1835, Camille Corot dipinse due grandi paesaggi provenzali sul rivestimento a pannelli dell'appartamento di Nerval. La Bohème galante attirò visitatori famosi come Eugène Delacroix, Alexandre Dumas e Petrus Borel, ansiosi di non essere lasciati fuori dalle ultime tendenze. Era questa la tradizione che rue Gît-le-Coeur continuava e, come l'Impasse du Doyenné, per alcuni brevi anni il Beat Hotel fu il centro dell'avanguardia letteraria mondiale.

Benché l'albergo fosse a buon mercato e il dollaro forte, gli studenti e gli scrittori che vi risiedevano dovevano pur prendere il denaro da qualche parte. Una delle maggiori fonti di guadagno per gli americani indigenti della Rive gauche era scrivere pornografia per l'Olympia Press di Maurice Girodias, una casa editrice in lingua inglese che produceva libri che sarebbe stato illegale pubblicare negli Stati Uniti o in Gran Bretagna.
Circa un terzo della collana Traveller's Companion nel catalogo della Olympia consisteva di opere letterarie non in circolazione perché bandite in Inghilterra e in America: Teleny di Oscar Wilde; Zenzero di J.P Donleavy; Lolita di Vladimir Nabokov; Il diario di un ladro di Jean Genet; Il libro nero di Lawrence Durrell; Sexus, Plexus e Nexus di Henry Miller; La filosofia del boudoir, Le 120 giornate di Sodoma, Justine del Marchese de Sade; Storia di O di Dominique Aury, conosciuta anche come Pauline Réage; il Kama Sutra e Fanny Hill di John Cleland. C'erano anche alcuni testi che non parlavano affatto di sesso, come Zazie nel metrò di Raymond Queneau e Molloy e Watt di Samuel Beckett. Ma per i turisti inglesi e americani di passaggio a Parigi la caratteristica copertina verde dei tascabili della collana Traveller's Companion era sinonimo di «pornografia» e le opere letterarie erano arraffate a casaccio e nascoste in fondo alla valigia insieme ad altri titoli dell'Olympia quali Sin for Breakfast, Until She Screams e With Open Mouth.
Girodias vi faceva riferimento come «DB», Dirty Books (cioè «libri sporchi»), e spesso annunciava titoli che ancora non erano in catalogo. Se per quel titolo arrivavano prenotazioni sufficienti, incaricava uno dei suoi scrittori di prepararglielo. Durante tutti gli anni Cinquanta e agli inizi dei Sessanta, l'Olympia pubblicò oltre un centinaio di DB, tutti in pratica scritti sotto pseudonimo da americani, molti dei quali collegati in un modo o nell'altro al Beat Hotel.
Quando i turisti ne ebbero abbastanza di letteratura e chiesero più DB, il sagace Girodias offrì loro una scelta più ampia chiamando le collane Atlantic Library, Othello Books, Ophelia Press e Ophir Books, ognuna delle quali conteneva titoli simpaticamente immuni da meriti letterari. Tra queste, l'Ophelia Press era la più allettante, con titoli quali The Ordeal of the Rod, Iniquity, The English Governess, Under the Birch, Lust, Without Shame, The Whipping Club e Whips Incorporated, che non lasciavano alcun dubbio al lettore sul contenuto. Decine e decine di scrittori erano occupati a sfornare DB per tutti i gusti.
Sulla Rive gauche il maggior punto vendita di questi titoli era la Librairie Anglaise in rue de Seine 42, che trattava libri in inglese. La proprietaria era Gaït Frogé, una bellissima francese in miniatura che adorava scritti e scrittori americani. Era nata in Bretagna e parlava inglese con raffinato accento britannico. Il minuscolo negozio quasi triangolare era situato in un edificio sghembo del XVI secolo all'incrocio di rue de Seine con rue de l'Echaudé. L'ambiente era dominato da un enorme tavolo che occupava quasi tutto lo spazio, tanto che girare per il negozio risultava piuttosto arduo. Sul tavolo c'erano alte pile di polverosi volumi di poesia e di rivistine letterarie, tutti di pubblicazione propria, una vera miniera per chi andasse alla ricerca di edizioni rare.
I libri dell'Olympia Press erano la specialità di Gaït e quelli che si vendevano meglio nel suo negozio, ma lei ne teneva pochi sugli scaffali, giusto per far sapere ai clienti che li vendeva. La sera non chiudeva mai la porta a chiave, nonostante la piccola collana Traveller's Companion dalla copertina verde e le edizioni più pornografiche dell'Ophelia Press avessero un prezzo piuttosto alto e fossero ovviamente prese di mira dai taccheggiatori o dai ladri notturni. Li teneva quasi tutti in uno stipo vicino alla cassa, disponibili su richiesta. I titoli più letterari dell'Olympia, come quelli di William Burroughs stampati da Girodias e scritti negli anni trascorsi al Beat Hotel, erano spesso presentati ai lettori in negozio con una festa nella piccola cave, la cantina medievale della libreria, con la volta a botte e le pareti piuttosto umide, illuminata da candele infilate in bottiglie da vino. Girodias pagava il conto del vino e dei biglietti d'invito. Quando nel giugno del 1960 l'Olympia pubblicò The Young and Evil di Charles Henri Ford e Parker Tyler (che in origine era stato pubblicato, sempre a Parigi, da Girodias padre nel 1933), Gaït mise eccezionalmente in mostra le foto degli autori e riempì la vetrina di copie del libro.
La libreria era angusta e sovraccarica, zeppa di libri ammucchiati gli uni sugli altri, con locandine di mostre e reading che coprivano la porta e la vetrina e bicchieri da vino vuoti in equilibrio instabile su pile di gialli americani tascabili a poco prezzo, copie della rivista «Encounter» di due anni prima allineate sullo stesso scaffale accanto al volumetto di un poeta locale, fresco di stampa. Gaït abitava sopra la libreria e spesso i clienti entrando trovavano che alla cassa non c'era nessuno e nel negozio silenzioso si udiva solo il vigoroso cigolio delle molle del letto al piano superiore. Quando nel 1958 Burroughs si trasferì a Parigi, Gaït diventò uno dei suoi finanziatori. Nel 1960, quando Two Cities, l'editore di Minutes to Go, non fu in grado di saldare il conto di 300 dollari per le spese di stampa, subentrò subentrò lei nell'impresa, pagò e lanciò il libro dalla sua libreria. E ancora, fu lei a far uscire un album dal titolo Call Me Burroughs, prodotto da Ian Somerville, nel quale Bill leggeva brani da Pasto nudo e altri scritti più recenti, e che era stato registrato nella sua cave.
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi dei Sessanta gli americani e i britannici che vivevano a Parigi erano parecchi, ben serviti da librerie che vendevano testi in inglese. Vi era Stock, a place du Théâtre-Français; Brentano su avenue de l'Opéra; i cinque negozi di Flammarion; Galignani, su rue de Rivoli e, dieci numeri più oltre sulla stessa strada, il rigido conservatore W.H. Smith, dove si serviva tè inglese. Ma in queste librerie si vendevano soprattutto libri di successo o testi tecnici alla vasta comunità di lettori del mondo diplomatico o militare; i gruppi più giovani di studenti o di letterati erano accuditi dalle due librerie di lingua inglese sulla Rive gauche, una delle quali era la Librairie Anglaise di Gaït, nota anche come English Bookshop. L'altra era la Mistral, al 37 di rue de la Boucherie, in un altro vecchio edificio sulla riva della Senna opposta a Notre-Dame, vicino alle rovine di Saint-Julien-le-Pauvre. Il proprietario, e quindi arcirivale di Gaït, si chiamava George Whitman, era americano ma risiedeva in Francia dal 1946, quando era arrivato per occuparsi degli orfani di guerra. Si era poi avvicinato al mondo librario e nel 1951 aveva acquistato l'edificio della Mistral con i quattrini di una eredità, trasformando quel che era stata una drogheria araba in una combinazione di libreria, ostello della gioventù e circolo sociale. Al piano superiore c'era una sala di lettura con letti, dove scrittori e poeti di passaggio potevano fermarsi gratuitamente fino a una settimana: per questo, come la Librairie Anglaise, la Mistral era usata come punto d'incontro e recapito postale da molti degli espatriati americani. C'era un'aspra competizione fra i due negozi. La Frogé affermava che Whitman lavorasse per la CIA - «Come si spiegherebbero altrimenti le sue lunghe assenze dalla libreria?» - e sosteneva che lui raccontava in giro che lei si drogava.
L'English Bookshop era la più «letteraria» delle due e l'unica che vendesse i libri dell'Olympia Press. Nonostante le suppliche appassionate di Girodias e le argomentazioni degli autori dell'Olympia, Whitman si rifiutava di mettere in vendita i titoli dell'Olympia Press, forse per timore di possibili problemi con la polizia. Cosa poco probabile, se perfino Brentano aveva in stock libri dell'Olympia; c'era uno scaffale su cui con molta discrezione erano allineati i volumetti dei Traveller's Companion, e gli americani sapevano sempre dove trovarli. C'era chi entrava e si dirigeva dritto lì, ignorando tutti gli altri libri.
La Mistral era più grande dell'English Bookshop e aveva più spazio per i reading di poesia. I residenti del Beat Hotel frequentavano entrambe le librerie, visto che si trovavano più o meno alla stessa distanza dall'albergo. La Mistral era nella stessa direzione dell'Olympia Press e ci si poteva passare l'intera giornata a leggere libri senza che George protestasse, mentre la Librairie Anglaise era a pochi passi dalla Palette, all'angolo fra rue de Seine e rue Jacques-Callot, che a quei tempi era ritrovo abituale di spacciatori. Ogni percorso aveva i suoi naturali vantaggi.


Fra gli occupanti del Beat Hotel, molti non si spingevano più in là di qualche isolato da rue Gît-le-Coeur, un mese via l'altro: in pratica, tutto quel di cui avevano bisogno era lì a due passi. C'era una quantità di ristorantini economici nel raggio di pochi isolati e alcuni dei residenti avevano accordi stabili con i proprietari, come chitarristi o intrattenitori d'altro genere. La zona era piena di localini jazz e caffè aperti fino a tardi. La scuola d'arte era solo a due isolati, per le ragazze che stavano all'albergo e facevano le modelle, mentre la maggior parte degli americani si guadagnava da vivere facendo gli strilloni per l'edizione parigina del «New York Herald Tribune» e di rado si spingeva oltre boulevard Saint-Germain in cerca di acquirenti. In genere la droga veniva consegnata al destinatario a domicilio nell'albergo, ma si poteva anche reperire con facilità nei caffè algerini e marocchini vicino a rue Saint-Séverin e alla Palette. Il meraviglioso mercato di bancarelle di rue de Buci distava solo qualche minuto, e in rue de la Huchette era possibile fare la spesa fino a tardissimo. C'era un posto chiamato Ali Baba dove chi alloggiava all'albergo poteva comprare da mangiare fino alle due di notte, se voleva cenare tardi; la frutta esposta sul marciapiedi era coperta da una rete che la proteggeva dai ladri di passaggio. A molti dei residenti dell’hotel quella zona sembrava il paradiso.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
domenica, 1 ottobre 2017


































giovedì 8 gennaio 2015

Il cubismo e Picasso raccontati da Guillaume Apollinaire (1913)



Guillaume Apollinaire
PITTORI CUBISTI
MEDITAZIONI ESTETICHE
Introduzione e traduzione di Libero de Libero
Edizioni del Secolo, s.d. [ma 1947]
pp 7-49


Per Apollinaire

Je lègue à l’ avenir l’histoire de Guillaume Apollinaire
Qui fut à la guerre et sut être partout...
(Calligrammes)

Pomeriggio del 10 giugno 1940. Al telefono un amico mi grida: «Viva la Francia!», mentre da una radio sbava truculenta la voce del dittatore. Avveniva quanto nessuno di noi aveva creduto possibile, nonostante la ferocia del caporale che aveva già portato guerra in Abissinia e vergogna italiana in Spagna. La stella d’Italia si spegneva in una macchia livida, e io pensavo con odio alle aquile romane, al lugubre volo delle aquile da distruggere una buona volta e per sempre, a certa triste eredità che ognuno di noi nascendo rifiuta; pensavo alla distruzione di Cartagine. Anche a me doleva fortemente quello parte della mente che, sin dagli anni scolastici, s’è sfamata al grande banchetto di poeti e di artisti che da secoli la Francia apparecchia ai popoli della terra. Tuttavia non mi sentivo innocente, neanch’io. Bastava quel sentimento di vergogna o di rimorso a farmi colpevole. E chiedevo perdono a Ronsard, a Racine, a Baudelaire, a Rimbaud, a Mallarmé, a Péguy e a Valéry; chiedevo perdono a Delacroix, a Manet, a Cézanne, al doganiere Rousseau. E se non mi avesse perdonato Alain Fournier o Radiguet e neppure Proust, mi sarei rivolto con fiducia a Guillaume Apollinaire, l’amico di Ungaretti e di Savinio, amici miei.
Le poète assassiné mi venne incontro la sera stessa, col suo profilo bendato di garza alla testa, come nel disegno di Picasso. La sua statura gigantesca mi stava dinanzi con la fronte étoilée e la croce di guerra sul petto, e guardando il cielo della finestra che mi slava alle spalle, pareva gridasse:

C’est a toi que je songe Italie mère de mes pensées
et dejà quand von Kluch marchait sur Paris avant la Marne
j’évoquais le sac de Rome par les Allemands
………………………………………………………..
Est-il possibile que la nation
qui est la mère de la civilisation
regarde sans la defendre les offerts qu’on fait pour la dètruire
………………………………………………………..
Italie
toi notre mère et notre fille quelque chose comme une soeur
………………………………………………………..
O frères d’Italie vos plumes sur la tête
Italie

placandosi in questa dolcissima invocazione che tuttavia condannava «en criant sus aux Tudesques», lentamente si lasciava assorbire dall’ultima scintilla che faceva luce sulla parete d’aria, su cui la voce scriveva cancellandosi:

Nous te tournons bénignement le dos Italie
mais ne t’en fais pas nous t’aimons bien
Italie mère qui est aussi notre fille
Nous sommes là tranquillement et sans tristesse

E fu amarissima consolazione quella che snebbiava in me un sentimento incerto, temuto per tanti anni come una delusione, la speranza, che è il sentimento dei poveri, di chi non ha più amici sulla terra: la speranza che, a prezzo di terribili distruzioni, l’Italia avrebbe finalmente dato una catastrofe alla lunga farsa. Finalmente avremmo potuto schiacciare le uova d’aquila.
Quella notte stessa aeroplani francesi vagarono sul cielo di Roma, sulle nostre case, senza sganciare una bomba; e anch’io non andai nel rifugio, ma uscii in terrazza per salutare. Su uno dei volantini che, sfarfallando, mi cadde sulla spalla non erano scritte parole d’odio; a me parve anzi di leggere alcuni versi di Apollinaire:

Notre civilisation a plus de finesse...
Les fleurs sont nos enfants...

Perché Apollinaire (nato a Roma) aveva voluto pacifica la scorreria degli aviatori sul cielo della sua Roma, sulle case d’Italia.
La capitolazione di Parigi fu definitiva come data della nostra vergogna. Ma le lagrime dei plenipotenziari francesi non furono certo più cocenti delle lagrime che piansero, poi, centinaia di madri italiane per i loro figli morti inutilmente su molti fronti. E ci chiedevamo, tra noi amici, che facevano Gide, Jacob e Valéry, Eluard e Breton, Picasso e Matisse, e non quello che pensavano di noi. Perché noi amavamo la Francia più che mai, la Francia, regione della nostra memoria.

Poi, quando fu l’occasione di scegliere qualche libro francese da tradurre, mi venne facile proporre un libro di Apollinaire, tra i suoi il più raro a trovarsi perché stampato in qualche centinaio di esemplari nel 1913, per le edizioni «Athèna» (place de l’Odèon 3, Paris).
Questo saggio è la più importante, la più sensibile, e quindi la più storica introduzione alla conoscenza del cubismo e all’intelligenza d’un periodo tanto ricco di significati plastici, concluso ormai dall’opera di Picasso e di Braque; con tali e tanti apporti non solo ai fatti della pittura contemporanea, ma alla sensibilità di poeti, musicisti e architetti che vi hanno scoperto i modi più puri della modernità. Né saranno gli scolaretti eruditi, gli imitatori sperticati che ancora oggi producono opere cubiste e postcubiste, o i soliti detrattori, ad annullare la storicità del cubismo, a imbrattarlo di polemiche o a restringerne il significato. Peggio per quei giovani artisti che volessero chiedere al cubismo e ai cubisti un facilissimo modo per evadere dai problemi eterni dell’arte, una saccenteria di gusto o di intellettualismo, da cui un artista d’oggi deve ripugnare se non vuole essere il prodotto spurio d’un movimento artistico che ha distrutto e ricostruito tutto quanto era da distruggere e ricostruire.
Dopo gli scritti d’arte di Baudelaire e di Laforgue, le «Méditations esthétiques» sono da considerare fra quei pochi capolavori critici che l’arte ha ispirato ai poeti. La poesia di Apollinaire, classica allo stesso titolo della poesia di Rimbaud, Verlaine e Mallarmé («fu il poeta più profondamente classico che onori di sé il primo quarto del nostro secolo... fu uno dei precursori più illuminati del tempo nuovo» ha scritto Savinio) nasce parallelamente alle inquietudini delle arti plastiche, in quel periodo che va dal 1906 al 1918; e ad esse porta tutto un contributo di potenza inventiva, di felice speculazione, di chiarificazioni intellettuali, che daranno carattere alle azioni, ai pensieri della modernità.
Con Apollinaire e Picasso, i due geni del cubismo, ha inizio quella fiumana d’invenzioni e di fantasie e di tentativi («Hommes de l’avenir souvenez-vous de moi - je vivais a l’époque où finissaient les rois») che mutarono faccia al mondo e il modo di vederlo, di sentirlo, di narrarlo. A opera d’essi la sensibilità moderna, intesa nel suo significato più spirituale, visionario e anche umano, e non nella moda che essa indicò e nelle follie che giustificò, ebbe una sua vera e propria estetica, vissuta e realizzata in un decennio, e da questa più tardi erediterà qualche seme il surrealismo, termine inventato da Apollinaire stesso per definire uno stato poetico.
Il cubismo e le altre tendenze da esso derivate crearono la profonda vitalità di un’epoca cui si deve, oltre tutto, la possibilità di distinguere criticamente ciò che è vivo da ciò che è morto in una società quando siano decaduti i valori della immaginazione, quanto v’è di disumano in una tradizione da quanto è durevole o caduco nello spirito dell’artista moderno: «Nous ne nous épuiserons pas a saisir le présent trop fugace et qui ne peut être pour l’artiste que le masque de la mort: la mode».
Apollinaire ha dato, in vita, gloria al doganiere Rousseau che insieme a Modigliani è il luogo celeste della pittura europea di ieri. Apollinaire amava l’erudizione e l’ironia, a lui necessarie per placare l’avidità di sapere e di creare modi di vita profondi. Apollinaire è il creatore d’uno stato moderno in poesia. Alla sua generosità noi dobbiamo mille invenzioni poetiche, tante meraviglie di grazia e di divertimento. Apollinaire andò alla guerra contro i tedeschi e ne riportò una ferita alla fronte. Quasi nulla, una stella, e di quella stella morì il giorno in cui per le strade di Parigi si festeggiava l’armistizio.
Non importa che, in queste pagine, talvolta l’entusiasmo induca Apollinaire a vedere nel futuro dell’opera di Picabia, di Metzinger, Gleizes e Léger che allora erano agli inizi, avvenimenti straordinari e definitivi che essi poi non realizzarono mai. È il poeta che attribuisce agli amici propositi geniali, possibilità d’avvenire che sono soltanto suoi. Ma basterebbero le pagine su Picasso, ove l’opera di questi, nei periodi cosidetti rosa e blu, è narrata con figurazioni e apparizioni che danno alla prosa andatura di poema. Basterebbero le pagine su Rousseau, su Seurat, sugli impressionisti.
Oggi nessuno ricorda, Apollinaire. Sui giornali francesi in cui si parla dei poeti, degli scrittori, degli artisti che hanno resistito e combattuto la barbarie, non si legge il nome di Apollinaire. Pare che nessun critico di Francia voglia rileggersi i Calligrammes. Ma c’è forse un poeta francese contemporaneo che sia maggior poeta di Apollinaire? Max Jacob avrebbe potuto dire la verità.
Vorrei pregare Alberto Savinio, che invece parla e scrive sempre di Apollinaire, grande poeta e suo grande amico, di accettare, l’omaggio di questa mia amorosa fatica.

LIBERO DE LIBERO


DELLA PITTURA

I

Le virtù plastiche: purezza, unità e verità tengono sotto i piedi la natura vinta.
Invano si tende l’arcobaleno, le stagioni fremono, le folle si lanciano verso la morte, la scienza disfa e rifà ciò che esiste, i mondi s’allontanano per sempre dalla nostra concezione, le nostre immagini volubili si ripetono o ridestano la loro incoscienza e i colori, gli odori, i rumori che seguiamo ci meravigliano, poi scompaiono dalla natura.

Questo mostro della bellezza non è eterno.
Noi sappiamo che il nostro respiro non ha avuto principio e non avrà fine, ma concepiamo innanzi tutto la creazione e la fine del mondo.
Però, troppi pittori adorano ancora le piante, le pietre, l’acqua o gli uomini.
Ci si avvezza presto alla schiavitù del mistero. E la servitù finisce per creare dolci ozi.
Si lasciano gli operai spadroneggiare sull’universo e i giardinieri hanno meno rispetto per la natura di quanto non l’abbiano gli artisti.
È tempo d’essere i padroni. La buona volontà non garantisce la vittoria.
Al di qua dell’eternità danzano le mortali forme dell’amore e il nome della natura riassume la loro maledetta disciplina.

La fiamma è il simbolo della pittura e le tre virtù plastiche fiammeggiano sfavillando.
La fiamma ha la purezza che non tollera niente d’estraneo e trasforma crudelmente in sé stessa ciò che tocca.
Essa ha una tale unità magica da far sì che, se uno riesce a dividerla, ogni lingua di fiamma è simile alla fiamma unica.
Essa ha finalmente la verità sublime della sua luce che niente può negare.

I pittori virtuosi di quest’epoca occidentale considerano la loro purezza a dispetto delle forze naturali.
Essa è l’oblio dopo lo studio. E, perché un artista puro muoia, bisognerebbe che tutti gli artisti dei secoli scorsi non fossero esistiti.
La pittura si purifica, in Occidente, con quella logica ideale che i pittori antichi hanno trasmessa ai nuovi come se dessero ad essi la vita.
Ed è tutto.
L’uno vive nelle delizie, l’altro nel dolore, gli uni sciupano l’eredità loro, gli altri diventano ricchi e altri ancora non hanno che la vita.
Ed è tutto.
Uno non può trascinarsi dietro ovunque il cadavere del proprio padre. Lo lascia in compagnia degli altri morti. E se ne ricorda, lo rimpiange, ne parla con ammirazione. E se diventa padre, non deve aspettarsi che un figlio voglia farsi in quattro per la vita del suo cadavere.
Ma i nostri piedi non si staccheranno che vanamente dal suolo che chiude i morti.

Considerare la purezza significa battezzare l’istinto, umanizzare l’arte e divinizzare la personalità.
La radice, lo stelo e il fiore del giglio mostrano il progredire della purezza sino alla fioritura simbolica.

Tutti i corpi sono uguali dinanzi alla luce e le loro modificazioni risultano da quel potere luminoso che costruisce a suo piacere.
Noi non conosciamo tutti i colori e ogni uomo ne inventa dei nuovi.
Ma il pittore deve innanzi tutto darsi lo spettacolo della sua propria divinità e i quadri che offre all’ammirazione degli uomini conferiranno ad essi la gloria d’esercitare quindi e momentaneamente la loro propria divinità.
Bisogna perciò abbracciare con un colpo d’occhio: passato, presente e avvenire.
La tela deve presentare quell’unità essenziale che sola provoca l’estasi.
Allora, niente d’effimero alletterà a caso. Noi non torneremo bruscamente indietro. Spettatori liberi non rinunceremo alla vita per la nostra curiosità. I contrabbandieri del sale delle apparenze non introdurranno con frode le nostre statue di sale dinanzi al dazio della ragione.
Noi non andremo erranti nell’avvenire ignoto che separato dall’eternità è soltanto una parola destinata a tentar l’uomo.
Noi non perderemo le nostre forze per afferrare il presente troppo fugace, che non può esser per l’artista se non la maschera della morte: la moda.

Il quadro avrà vita inevitabilmente. La visione sarà intera, completa e il suo infinito invece di sottolineare un’imperfezione, farà solamente risaltare il rapporto d’una nuova creatura a un nuovo creatore e nient’altro. Senza di che, non vi sarà unità, e i rapporti che avranno i diversi punti della tela coi differenti gusti, differenti oggetti, differenti luci, non mostreranno se non una molteplicità di sproporzioni senza armonia.
Perché, se ci può essere un numero infinito di creature che attestino ognuna il loro creatore, senza che nessuna creazione ingombri lo sviluppo di quelle che già coesistono, è impossibile concepirle in un sol tempo e la morte deriva dalla loro sovrapposizione, dalla loro rissa, dal loro amore.
Ogni divinità crea l’immagine sua: così è dei pittori. E i fotografi soltanto fabbricano riproduzioni della natura.

La purezza e l’unità non contano senza la verità che non si può paragonare alla realtà poiché sono la stessa cosa, al di là d’ogni istinto che si sforza di trattenerci nell’ordine fatale ove non siamo che degli animali.
Prima di tutto, gli artisti sono uomini che vogliono diventare disumani.
Essi cercano faticosamente le tracce della disumanità, tracce che non s’incontrano in nessun luogo della natura.
Esse sono la verità e fuor d’esse noi non conosciamo realtà alcuna.

Ma non si scoprirà mai la realtà una volta per sempre. La verità sarà sempre nuova.
Altrimenti essa non è che un sistema più miserevole della natura.
In tal caso, la deplorevole verità, più lontana, meno distinta, meno reale ogni giorno ridurrebbe la pittura allo stato di scrittura plastica semplicemente destinata a facilitare le relazioni fra persone della stessa razza.
Ai giorni nostri, si farebbe presto a inventare la macchina per riprodurre tali segni, senza conoscenza.

II

Molti pittori nuovi non dipingono che quadri ove manca un vero soggetto. E i titoli che si trovano nei cataloghi hanno allora la funzione di nomi che stanno a designare gli uomini senza caratterizzarli.
Come esistono dei Grossi che sono molto magri e dei Biondi che sono molto bruni, così ho visto tele intitolate: Solitudine, ove erano parecchi personaggi.
In questo caso, si accondiscende ancora talvolta a far uso di parole vagamente espressive come ritratto, paesaggio, natura morta; ma molti giovani pittori si servono soltanto del vocabolo generale di pittura.
Tali pittori, pur osservando ancora la natura, non la imitano più ed evitano con cura la rappresentazione di scene naturali osservate e ricostruite studiosamente.
Il verosimile non ha più importanza alcuna, perché tutto viene sacrificato dall’artista alle verità, alle necessità d’una natura superiore che egli suppone senza scoprirla. Il soggetto non conta o conta appena.
L’arte moderna respinge, generalmente, la maggior parte dei mezzi per piacere adoperati dai grandi artisti del passato.
Se il fine della pittura è sempre quello d’un tempo: piacere degli occhi, ormai si richiede all’amatore di trovarci un piacere diverso da quello che può tanto bene procurargli lo spettacolo delle cose naturali.

Ci si incammina verso un’arte assolutamente nuova, che sarà per la pittura, così come è stata guardata sino ad ora, ciò che la musica è per la letteratura.
Sarà della pittura pura, come la musica è della letteratura pura.
L’amatore di musica prova, ascoltando un concerto, una gioia d’un ordine diverso dalla gioia che prova ascoltando rumori naturali, come il mormorio d’un ruscello, il fragore d’un torrente, il fischio del vento in una foresta o le armonie del linguaggio umano basato sulla ragione e non sull’estetica.
Così i pittori nuovi procureranno ai loro ammiratori sensazioni artistiche unicamente dovute all’armonia di luci dispari.

È noto l’aneddoto d’Apelle e Protogene che si legge in Plinio.
Esso dimostra il piacere estetico che risulta solamente da quella costruzione dispari di cui parlavo.
Apelle sbarca un giorno, nell’isola di Rodi per vedere le opere di Protogene che colà dimorava. Questi era assente dal suo studio quando Apelle vi entrò. Una vecchia era là a guardia di una grande tavola preparata per esser dipinta. Apelle invece di lasciare il suo nome, tirò sulla tavola una linea così sottile che non si sarebbe potuto veder niente di più perfetto.
Al ritorno, Protogene, scorgendola, vi riconobbe la mano di Apelle e tirò su quella linea una linea di colore diverso e più sottile ancora, sicché pareva ci fossero tre linee.
Apelle tornò ancora l’indomani senza incontrare colui che cercava e la sottigliezza della linea ch’egli tracciò quel giorno fece disperare Protogene. Questo quadro fece per molto tempo l’ammirazione dei conoscitori che lo guardavano con lo stesso piacere come se, in luogo di rappresentare linee quasi invisibili, vi avessero raffigurato dei e dee.

I giovani pittori delle scuole estremiste hanno come fine segreto di far della pittura pura. È un’arte plastica totalmente nuova. Non è che agli inizi e non è ancora astratta quanto vorrebbe esserlo. La maggior parte dei nuovi pittori fanno anzi della matematica senza saperlo o senza conoscerla, ma non hanno abbandonato ancora la natura che interrogano pazientemente affinché insegni loro il cammino nella vita.
Un Picasso studia un oggetto come un chirurgo dissecca un cadavere.
L’arte della pittura pura, se riesce a svincolarsi interamente dall’antica pittura, non porterà questa, non più di quanto lo sviluppo della musica abbia portato alla scomparsa dei diversi generi letterari, non più di quanto l’agrezza del tabacco abbia sostituito il sapore degli alimenti.

III

Hanno vivamente rimproverato ai pittori nuovi le preoccupazioni geometriche. Tuttavia le figure geometriche sono l’essenziale nel disegno. La geometria, scienza che ha per oggetto lo spazio, la sua misura e i suoi rapporti, è stata in ogni tempo la regola stessa della pittura.
Sino ad oggi, le tre dimensioni della geometria euclidea bastavano alle inquietudini che il sentimento dell’infinito mette nell’animo dei grandi artisti.
I nuovi pittori non più degli antichi si son proposti d’essere geometri. Ma si può dire che la geometria sta alle arti plastiche quanto la grammatica all’arte dello scrittore. Oggigiorno gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni della geometria euclidea. I pittori sono stati indotti molto naturalmente e, diciamo, per intuito a preoccuparsi delle possibili nuove misure dello spazio che nel linguaggio degli studi moderni veniva designato nel complesso e brevemente col termine di quarta dimensione.

Così come si presenta alla mente, dal punto di vista plastico, la quarta dimensione trarrebbe origine dalle tre misure note: essa sta a rappresentare l’immensità dello spazio che si fa eterno in ogni direzione d’un determinato momento. Essa è lo spazio medesimo, la dimensione dell’infinito; è essa che assicura plasticità agli oggetti. Lui dà le proporzioni che meritano nell’opera, mentre nell’arte greca per esempio, un ritmo in certo modo meccanico rompe senza posa le proporzioni.
L’arte greca aveva della bellezza un concetto puramente umano. Assumeva l’uomo quale misura della perfezione. L’arte dei pittori nuovi prende l’universo infinito come ideale e a questo ideale si deve una misura nuova della perfezione che permette al pittore di assegnare all’oggetto proporzioni conformi al grado di plasticità cui egli desidera condurlo.
Nietzsche aveva presentito la possibilità d’un’arte tale.
«O Dioniso divino, perché mi tiri le orecchie?» chiede Arianna al suo filosofico amante in un celebre dialogo sull’Isola di Nasso. «C’è qualcosa di piacevole e di divertente nelle tue orecchie. Arianna: perché non sono ancora più lunghe?».
Nietzsche, nel riportare l’aneddoto, fa per bocca di Dioniso il processo all’arte greca.
Si aggiunga che tale fantasia: la quarta dimensione non è stato che il manifestarsi di aspirazioni, d’inquietudini d’un gran numero di giovani artisti che guardano alle sculture egizie, negre e oceaniche e meditano opere di scienza, sperando in un’arte sublime; e oggi non si attribuisce più a questa espressione utopistica, che andava notata e spiegata, se non un interesse per così dire storico.

IV

Volendo cogliere le proporzioni dell’ideale, non limitandosi all’umanità, i giovani pittori ci presentano opere più cerebrali che sensuali. S’allontanano sempre più dall’antica arte delle illusioni ottiche e delle proporzioni locali per esprimerò la grandezza delle forme metafisiche. Perciò l’arte attuale, pur non essendo emanazione diretta di determinate credenze religiose, presenta tuttavia molti caratteri della grande arte, cioè dell’Arte religiosa.

V

I grandi poeti e i grandi artisti hanno la funzione sociale di rinnovare senza posa l’apparenza che riveste la natura agli occhi dell’uomo.
Senza i poeti e senza gli artisti, gli uomini si annoierebbero presto della monotonia naturale. L’idea sublime che essi hanno dell’universo crollerebbe con rapidità vertiginosa. L’ordine, che appare nella natura e che è soltanto un effetto dell’arte, svanirebbe invece immediatamente. Tutto si scioglierebbe nel caos. Più stagioni, più civiltà, più pensiero, più umanità, più vita anche e l’impotente oscurità regnerebbe per sempre.
I poeti e gli artisti determinano d’accordo il volto della loro epoca e docilmente l’avvenire si dispone secondo il parer loro.
La struttura generale d’una mummia egiziana è conforme alle figure disegnate dagli artisti egizi e tuttavia gli antichi Egizi erano assai diversi gli uni dagli altri. Essi si sono conformati all’arte dell’epoca loro.
È proprio dell’arte, suo ruolo sociale, creare questa illusione: il tipo. Dio sa quanti si son burlati dei quadri di Manet e di Renoir! Ebbene! Basta gettare uno sguardo alle fotografie dell’epoca per accorgersi della conformità di persone e cose ai quadri dipinti da quei grandi pittori.
Una tale illusione mi sembra assolutamente naturale, poiché le opere d’arte sono quanto di più energico produca un’epoca dal punto di vista plastico. Questa energia s’impone agli uomini ed è per essi la misura plastica d’un’epoca. Perciò coloro che si burlano dei nuovi pittori, si burlano della propria faccia, perché l’umanità dell’avvenire si rappresenterà l’umanità d’oggi secondo le rappresentazioni che gli artisti dell’arte più viva, cioè più nuova, avranno lasciato d’essa. Non venite a dirmi che ci sono oggi altri pittori che dipingono in modo tale che l’umanità ci si possa riconoscere dipinta a immagine sua. Tutte le opere d’arte d’un’epoca finiscono per somigliare all’opera d’arte più energica, più espressiva, più tipica. Le bambole hanno origine dall’arte popolare; sembrano sempre ispirate alle opere della grande arte della stessa epoca. È una verità facilmente controllabile. E tuttavia chi oserebbe dire che le bambole vendute nei bazar verso il 1880 furono fabbricate con un sentimento uguale a quello di Renoir quando dipingeva i suoi ritratti? Allora nessuno se ne accorgeva. Ciò significa intanto che l’arte di Renoir era abbastanza energica, abbastanza viva per imporsi ai nostri sensi mentre al gran pubblico dell’epoca in cui egli esordiva le sue concezioni apparivano come tante assurdità e follie.

VI

Talvolta si è considerato, specie a proposito, dei pittori più recenti, la possibilità d’una mistificazione o d’un errore collettivo.
Ora non si conosce in tutta la storia delle arti una sola mistificazione collettiva, non più d’un errore artistico collettivo. Ci sono casi isolati di mistificazione e d’errore, ma gli elementi convenzionali di cui si compongono in gran parte le opere d’arte ci garantiscono che di casi tali non potrebbero essercene di collettivi.
Se la nuova scuola di pittura ci presentasse uno di tali casi, l’avvenimento sarebbe talmente straordinario da doverlo chiamare un miracolo. Concepire un caso di tal specie significherebbe concepire che bruscamente, in una nazione, tutti i bambini nascessero privi di testa o d’una gamba o d’un braccio, concezione evidentemente assurda. Non ci sono errori né mistificazioni collettive in arte, ci sono solamente differenti epoche e differenti scuole d’arte. Per quanto il fine che si propone ognuna d’esse non sia ugualmente alto, ugualmente puro, tuttavia sono ugualmente rispettabili tutte, e, a seconda delle idee che uno si fa della bellezza, ogni scuola artistica è di volta in volta ammirata, disprezzata e di nuovo ammirata.

VII

La nuova scuola di pittura porta il nome di cubismo, che le fu dato per ridere nell’autunno del 1908 da Henri Matisse che aveva visto un quadro ove figuravano case la cui apparenza cubica lo colpì vivamente.
Tale estetica nuova fu elaborata anzitutto dalla mente di André Derain, ma le opere più importanti e più audaci che essa produsse si debbono a un grande artista che va considerato perciò come un fondatore: Pablo Picasso le cui invenzioni avvalorate dal buon senso di Georges Braque che espose, sin dal 1908, un quadro cubista al «Salon des Indépendents», trovarono la loro formula negli studi di Jean Metzinger che espose il primo ritratto cubista (il mio) al «Salon des Indépendents» nel 1910 e fece accettare quindi, lo stesso anno, alcune opere cubiste dalla giuria del «Salon d’Automne». Anche nel 1910 furono esposte presso gli «Indépendents» quadri di Robert Delaunay, di Marie Laurencin, di Le Fauconnier, che uscivano dalla stessa scuola.
La prima esposizione complessiva del cubismo, i cui allievi si facevano sempre più numerosi, ebbe luogo nel 1911 agli «Indépendents», ove la sala 41 riservata ai cubisti produsse una grande impressione. C’erano opere abili e seducenti di Jean Metzinger; paesaggi, l’uomo nudo e la donna coi flocs di Albert Gleizes; il ritratto della signora Fernanda X... e Fanciulle di Marie Laurencin; La Torre di Robert Delaunay, l’Abbondanza di Le Fauconnier, i Nudi in un paesaggio di Fernand Léger.
La prima manifestazione dei cubisti all’estero fu tenuta a Brusselle, lo stesso anno, e nella prefazione a quella mostra io accettai, a nome degli espositori, le denominazioni: cubismo e cubisti.
Alla fine del 1911, la mostra dei cubisti al «Salon d’Automne» fece uno scalpore considerevole, non furono risparmiati motteggi né a Gleizes (La caccia, Ritratto di Jacques Nayral) né a Metzinger (La donna col cucchiaio) né a Fernand Léger. A questi artisti s’era unito un pittore nuovo, Marcel Duchamp e uno scultore architetto, Duchamp-Villon.
Altre esposizioni collettive ebbero luogo nel novembre del 1911 alla «Galérie d’Art Contemporain», in rue Tronchet a Parigi; nel 1812, al «Salon des Indépendents» ove fu notata l’adesione di Juan Gris; nel mese di maggio, in Spagna, ove Barcellona accoglie con entusiasmo i giovani Francesi; infine nel mese di giugno, a Rouen, mostra organizzata dalla Società degli Artisti normanni ove fu notata l’adesione di Francis Picabia alla nuova scuola. (Nota scritta nel settembre del 1912).
La differenza tra il cubismo e la antica pittura sta in questo: che esso non è un’arte d’imitazione, ma un’arte di concetto che tende ad innalzarsi sino alla creazione.
Nel rappresentare la realtà concepita o la realtà creata, il pittore può dare l’apparenza di tre dimensioni, può in certo modo far cubico. Ciò non gli riuscirebbe se volesse rendere semplicemente la realtà vista, che lo porterebbe a far degli «inganni» di scorcio o in prospettiva deformando così la qualità della forma concepita o creata.
Quattro tendenze si sono frattanto manifestate in seno al cubismo così come io l’ho diviso. Di cui due tendenze sono parallele e pure.
Il cubismo scientifico è una delle tendenze pure. È l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi non dalla realtà di visione ma dalla realtà di conoscenza.
Ogni uomo ha il sentimento di tale realtà ulteriore. Non c’è bisogno d’essere un uomo colto per concepire, ad esempio, una forma rotonda.
L’oggetto geometrico che colpiva così fortemente coloro che vedevano le prime tele scientifiche nasceva dal fatto che la realtà essenziale ivi era resa con una grande purezza e che l’accidente visuale e aneddotico ne restava escluso.
I pittori usciti da tale arte sono: Picasso la cui arte luminosa appartiene anche all’altra tendenza pura del cubismo, e Georges Braque, Metzinger, Albert Gleizes, Marie Laurencin e Juan Gris.
Il cubismo fisico è l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi la maggior parte dalla realtà di visione. Ma tale arte sfociò intanto nel cubismo mediante la disciplina costruttiva. Esso ha un grande avvenire come pittura di storia. La sua funzione sociale è ben definita, ma non è più un’arte pura. Vi si confonde il soggetto con le immagini.
Il pittore fisico che ha creato tale tendenza è Le Fauconnier.
Il cubismo orfico è l’altra grande tendenza della pittura moderna. È l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi non dalla realtà visuale ma totalmente creati dall’artista e da lui investiti d’una realtà potente. Le opere degli artisti orfici debbono presentare simultaneamente un piacere estetico puro, una costruzione che afferra i sensi e un significato sublime, cioè il soggetto. È arte pura. La luce nelle opere di Picasso racchiude quest’arte che è inventata a sua volta da Robert Delaunay e nella quale si adoperano anche Fernand Léger, Francis Picabia e Marcel Duchamp.
Il cubismo istintivo, arte di dipingere complessi nuovi presi non dalla realtà visuale, ma da quella che suggeriscono all’artista l’istinto e l’intuito, tende da molto tempo all’orfismo. Gli artisti istintivi difettono di lucidità e d’una fede artistica; il cubismo istintivo comprende un gran numero d’artisti. Originato dall’impressionismo francese, questo movimento va diffondendosi ora in tutta Europa.

Gli ultimi dipinti di Cézanne e i suoi acquarelli sfociano nel cubismo, ma Courbet è il padre dei nuovi pittori e André Derain, sul quale un giorno tornerò, fu il maggiore dei suoi figli prediletti, perché lo troviamo all’origine del movimento dei Fauves che fu una specie di preambolo al cubismo e quindi all’origine di questo grande movimento soggettivo, ma oggi sarebbe troppo difficile scrivere con precisione d’un uomo che volontariamente si tiene in disparte da tutto e da tutti.

La scuola moderna di pittura mi sembra la più audace che vi sia mai stata. Essa ha posto la questione del bello in sé.
Essa vuole immaginare il bello fuori dal piacere che l’uomo procura all’uomo, e sin dagli inizi dei tempi storici nessun artista europeo aveva osato ciò. Gli artisti nuovi han bisogno d’una bellezza ideale che non sia più soltanto espressione orgogliosa della specie, ma espressione dell’universo, nella misura in cui esso s’è umanizzato nella luce.
L’arte d’oggi investe le sue creazioni d’un’apparenza grandiosa, monumentale che supera a tal riguardo tutto ciò ch’era stato concepito dagli artisti dell’età nostra. Piena d’ardore nella ricerca della bellezza, essa è nobile, energica e la realtà che ci offre è meravigliosamente chiara.
Io amo l’arte d’oggi perché amo anzitutto la luce, e tutti gli nomini amano anzitutto la luce. Sono essi che hanno inventato il fuoco.

PITTORI NUOVI
PICASSO

Se noi sapessimo, gli dei tutti si desterebbero. Nati dalla conoscenza profonda che l’umanità serbava di se stessa, i panteismi adorati che le rassomigliavano si sono assopiti. Ma nonostante i sonni eterni, ci sono occhi in cui si riflettono umanità simili a fantasmi divini e gioiosi.
Questi occhi sono attenti come fiori che vogliono sempre contemplare il sole. O gioia feconda, ci sono uomini che vedono con tali occhi.

A quei tempi Picasso aveva rivolto lo sguardo a immagini umane che fluttuavano nell’azzurro delle nostre memorie ed erano partecipi della divinità per mandare all’inferno i metafisici. Quanto son pii i suoi cieli frementi di voli, le sue luci gravi e basse come quelle delle grotte.
Ci sono fanciulli che sono andati errando senza imparare il catechismo. Essi si fermano e la pioggia finisce di cadere: « Guarda! Quante persone in quelle case e le vesti loro sono povere ». Questi fanciulli che uno non bacia comprendono tanto! Mamma, amami molto! Essi sanno far salti e i giucchi in cui riescono sono evoluzioni mentali.
Queste donne che uno non ama più ricordano. Esse hanno troppo stirato oggi le loro idee taglienti. Non pregano; sono devote ai ricordi. Si rannicchiano nel crepuscolo come in una antica chiesa Queste donne rinunciano e le dita loro si muoverebbero per intrecciar corone di paglia. Con la luce esse scompaiono, si sono consolate nel silenzio. Hanno traversato molte porte: le madri proteggevano le culle perché i neonati non avessero cattive doti; quando esse si chinavano i bimbi sorridevano nel saperle così buone.
Hanno spesso ringraziato e i gesti del loro avambraccio tremavano come le palpebre loro.
Avviluppati di gelida nebbia, dei vecchi attendono senza meditare, perché i fanciulli soli meditano. Animati di paesi lontani, di bisticci animali, di capigliature indurite, questi vecchi possono mendicare senza umiltà.
Altri mendicanti si sono consumati a vivere. Sono infermi con le grucce e bricconi. Si meravigliano d’aver raggiunto il traguardo che è rimasto blu e non è più l’orizzonte. Invecchiando son diventati folli come re che avessero troppi greggi d’elefanti con piccole cittadelle in groppa. Ci sono viaggiatori che confondono fiori e stelle.
Invecchiati come buoi muoiono verso i venticinque anni, i giovani hanno guidato bimbi in fasce allattati con la luna.
In una luce pura, donne stanno silenziose, i loro corpi sono angelici e i loro sguardi tremano.
Per il pericolo i sorrisi loro sono interiori. Esse attendono lo spavento per confessare peccati innocenti.

Per lo spazio d’un anno Picasso visse questa pittura umida, blu come il fondo dell’abisso e pietosa.
La pietà fece Picasso più aspro. Le piazze sopportarono un impiccato che s’allungava contro le case al di sopra dei passanti obliqui. Questi suppliziati attendevano un redentore. La corda strapiombava miracolosa sugli abbaini; i vetri fiammeggiavano coi fiori delle finestre.
Nelle stanze, poveri pittori disegnavano a lume di lampada nudità vellose. L’abbandono di scarpe di donna presso il letto significava una tenera fretta.

Venne la calma dopo una tale frenesia.
Gli arlecchini vivono sotto gli orpelli quando la pittura raccoglie, riscalda o imbianca i suoi colori per dir la forza e la durata delle passioni, quando le linee limitate dalle maglie si curvano, si spezzano o si slanciano.
La paternità trasfigura l’arlecchino in una stanza quadrata mentre la moglie si bagna nell’acqua fredda e s’ammira svelta e gracile quanto il marito burattino. Un focolare vicino fa tepido il carrozzone. Belle canzoni s’intrecciano e soldati passano altrove maledicendo alla giornata.
L’amore è buono quando uno lo abbellisce e l’abitudine di vivere in casa propria raddoppia il sentimento paterno. Il figlio ravvicina al padre la moglie che Picasso vuole gloriosa e immacolata.
Le madri, primaiole, non attendevano più il figlio, forse per certi corvi ciarlieri e di cattivo augurio.
Natale! Esse partorirono futuri acrobati fra le scimmie familiari, i cavalli bianchi e i cani come orsi.
Le sorelle adolescenti, sospingendo in equilibrio le grosse palle dei saltimbanchi, comandano a queste sfere il movimento che irraggia dai mondi. Queste adolescenti, da impuberi, hanno le inquietudini dell’innocenza, gli animali insegnano ad esse il mistero religioso. Arlecchini accompagnano la gloria delle donne, rassomigliano ad esse né maschi né femmine.
Il colore ha delle appannature di affresco, le linee sono vigorose. Ma posti al limite della vita, gli animali sono umani e i sessi indecisi.
Bestie ibride hanno la coscienza di semidei d’Egitto; arlecchini taciturni hanno le guance e la fronte avvizzite da sensibilità morbose.
Non si possono confondere questi saltimbanchi con gli istrioni. Lo spettatore deve esser pietoso perché essi celebrano riti silenziosi con un’agilità difficile. Proprio ciò distingueva questo pittore dai vasi greci, cui talvolta il suo disegno si ravvicinava. Sulle crete dipinte preti barbuti e chiacchieroni offrivano in sacrificio animali rassegnati e senza destino. Qui la virilità è imberbe, ma si manifesta nelle nervature delle braccia magre; spianature di volto e gli animali sono misteriosi.
Il gusto di Picasso per la linea sfuggente, mutevole e penetrante ha prodotto esempi quasi unici di puntasecche lineari in cui non ha alterato gli aspetti generali del mondo.

Questo Malaghese ci lasciava i lividi come un gelo rapido. Le sue meditazioni si denudavano nel silenzio. Egli veniva da lontano, dalle ricchezze compositive e dalla decorazione brutale degli Spagnoli del diciassettesimo secolo.
E coloro che l’avevano conosciuto ricordavano truculenze violente che non erano già più delle prove.
La sua insistenza nell’inseguire la bellezza ha mutato tutto allora nell’Arte.
Allora, con severità, egli ha interrogato l’Universo. S’è abituato all’immensa luce delle profondità. E, talvolta, non ha sdegnato affidare alla luce oggetti autentici, una canzone da due soldi, un francobollo vero, un pezzo di tela cerata su cui è impressa la scannellatura d’una sedia. L’arte del pittore non aggiungerebbe nessun elemento pittoresco alla verità di quegli oggetti.
La sorpresa ride selvaggiamente nella purezza della luce e con legittimità cifre, lettere modellate appaiono come elementi pittoreschi nuovi nell’arte, e da lungo tempo già impregnati d’umanità.

Non è possibile indovinare le possibilità, né tutte le tendenze di un’arte così profonda e minuziosa.
L’oggetto reale a mo’ d’inganno è chiamato senza dubbio ad avere una parte sempre più importante. È la cornice interna del quadro e ne segna i limiti profondi, allo stesso modo che la cornice ne segna i limiti esteriori.

Imitando i piani per rappresentare i volumi, Picasso presenta dei diversi elementi che compongono gli oggetti una enumerazione così completa e acuta che essi non assumono l’aspetto di oggetto in virtù della fatica degli spettatori che, per forza, ne scoprono la simultaneità, ma in ragione proprio della loro disposizione.
Quest’arte è forse più profonda che alta? Essa non può fare a meno dell’osservazione della natura e agisce su noi familiarmente quanto lei stessa.

Ci sono poeti cui una musa detta le opere loro, ci sono artisti la cui mano è guidata da un essere sconosciuto che si serve d’essi come d’uno strumento. Per essi nessuna fatica, perché non lavorano e possono produrre molto, a tutte l’ore, tutti i giorni, in ogni paese e in ogni stagione, non si tratta d’uomini, ma di strumenti poetici o artistici. La ragione loro è senza forza contro se stessi, essi non lottano e le opere loro non serbano tracce di lotta. Essi non sono divini e possono fare a meno di se stessi. Sono come un prolungamento della natura e le opere loro non passano per l’intelligenza. Possono essere commoventi senza che le armonie da essi suscitate si siano umanizzate. Altri poeti, altri artisti invece stanno lì a sforzarsi, vanno incontro alla natura e non hanno con lei nessuna vicinanza immediata, debbono tirar fuori ogni cosa da se stessi e nessun demone, nessuna musa li ispira. Essi abitano nella solitudine e nulla viene espresso se non quello che essi hanno da se stessi balbettato, balbettato così spesso che arrivano talvolta di sforzo in sforzo, di tentativo in tentativo a formulare quello che desiderano formulare. Uomini creati a immagine di Dio, si riposeranno un giorno per ammirare l’opera loro. Ma quante fatiche, imperfezioni e grossolanità?

Picasso era un’artista come i primi. Non c’è stato mai spettacolo così fantastico come la metamorfosi che lui ha subita nel diventare un artista come i secondi.

Per Picasso l’idea di morire si formò mentre guardava le sopracciglia circonflesse del suo migliore amico che cavalcavano insieme nell’inquietudine. Un altro amico suo lo condusse un giorno ai confini d’un paese mistico ove gli abitanti erano nello stesso tempo così semplici e grotteschi che uno poteva rifarli con facilità.
Eppoi davvero, l’anatomia, per esempio, non esisteva più nell’arte, bisognava reinventarla ed eseguirne l’assassinio con la scienza e il metodo d’un grande chirurgo.

La grande rivoluzione delle arti che lui ha condotto a termine quasi da solo, sta nel fatto che il mondo è la sua rappresentazione nuova.
Enorme fiamma.
Uomo nuovo, il mondo è la sua rappresentazione nuova. Egli ne enumera gli elementi, i particolari con una brutalità che sa essere anche graziosa. È un neonato che mette ordine nell’universo per uso personale, e anche allo scopo di facilitare i suoi rapporti coi propri simili. Tale enumerazione ha la grandezza dell’epopea, e, con l’ordine, scoppierà il dramma. Si può contestare un sistema, un’idea, una data, una somiglianza, ma non vedo come si potrebbe contestare la semplice azione del numeratore. Dal punto di vista plastico, si può pensare che noi avremmo potuto fare a meno di tanta verità, ma una volta apparsa questa verità diventa necessaria. Eppoi, ci sono paesi. Una grotta in una foresta ove si facevano capriole, un passaggio a dorso di mulo sul bordo d’un precipizio e l’arrivo in un villaggio ove ogni cosa odora d’olio caldo e di vino rancido. È ancora la passeggiata verso un cimitero e l’acquisto d’una corona di maiolica (corona d’immortali) e la menzione Mille Condoglianze che è inimitabile. M’hanno parlato anche di candelabri in argilla che bisognava apporre sopra una tela perché sembrassero uscirne. Pendenti di cristallo, e quel famoso ritorno da Havre.
Per me, non ho paura dell’Arte e non ho pregiudizio alcuno riguardo alla materia dei pittori.
I mosaicisti dipingono con marmi o con pezzi di legno colorati. Viene citato un pittore italiano che dipingeva con materie fecali; ai tempi della Rivoluzione francese qualcuno dipinse col sangue. Si può dipingere con quello che si vuole, con pipe, francobolli, cartoline postali o carte da giuoco, candelabri, pezzi di tela cerata, colletti, carta dipinta, giornali.
Per me, mi basta vedere il lavoro, bisogna ch’io veda il lavoro; proprio dalla quantità di lavoro data dall’artista si misura il valore d’un opera d’arte.
Contrasti delicati, linee parallele, un mestiere d’operaio; talvolta l’oggetto medesimo, talvolta un’indicazione, tal’altra ancora un’enumerazione che s’individualizza; meno dolcezza che grossolanità. Non si sceglie nel moderno, così non si accetta la moda senza discuterla.

Pittura... Un’arte sorprendente, dove la luce è senza limiti.


Calligrammes (1918)

Apollinaire ferito, disegno di Picasso (1916)
in Calligrammes (1918)

Pablo Picasso, di Apollinaire (1917)
bozza di stampa con le correzioni dell'autore

Pablo Picasso, di Apollinaire (1917)

Guillaume Apollinaire a casa di Picasso (1910)
11, boulevard de Clichy

Georges Braque nel suo studio (1910)
101, rue Caulaincourt

Juan Gris e sua moglie al Bateau-Lavoir (1914)
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