Guillaume Apollinaire
PITTORI CUBISTI
MEDITAZIONI ESTETICHE
Introduzione e traduzione di Libero de Libero
Edizioni del Secolo, s.d. [ma 1947]
pp 7-49
Per Apollinaire
Je lègue à l’ avenir l’histoire
de Guillaume Apollinaire
Qui fut à la guerre et sut être
partout...
(Calligrammes)
Pomeriggio
del 10 giugno 1940. Al telefono un amico mi grida: «Viva la Francia!», mentre
da una radio sbava truculenta la voce del dittatore. Avveniva quanto nessuno di
noi aveva creduto possibile, nonostante la ferocia del caporale che aveva già
portato guerra in Abissinia e vergogna italiana in Spagna. La stella d’Italia
si spegneva in una macchia livida, e io pensavo con odio alle aquile romane, al
lugubre volo delle aquile da distruggere una buona volta e per sempre, a certa
triste eredità che ognuno di noi nascendo rifiuta; pensavo alla distruzione di
Cartagine. Anche a me doleva fortemente quello parte della mente che, sin dagli
anni scolastici, s’è sfamata al grande banchetto di poeti e di artisti che da
secoli la Francia apparecchia ai popoli della terra. Tuttavia non mi sentivo
innocente, neanch’io. Bastava quel sentimento di vergogna o di rimorso a farmi
colpevole. E chiedevo perdono a Ronsard, a Racine, a Baudelaire, a Rimbaud, a
Mallarmé, a Péguy e a Valéry; chiedevo perdono a Delacroix, a Manet, a Cézanne,
al doganiere Rousseau. E se non mi avesse perdonato Alain Fournier o Radiguet e
neppure Proust, mi sarei rivolto con fiducia a Guillaume Apollinaire, l’amico
di Ungaretti e di Savinio, amici miei.
Le
poète assassiné mi venne incontro la
sera stessa, col suo profilo bendato di garza alla testa, come nel disegno di
Picasso. La sua statura gigantesca mi stava dinanzi con la fronte étoilée e la croce di guerra sul petto, e guardando il
cielo della finestra che mi slava alle spalle, pareva gridasse:
C’est a toi
que je songe Italie mère de mes pensées
et dejà quand
von Kluch marchait sur Paris avant la Marne
j’évoquais
le sac de Rome par les Allemands
Est-il possibile
que la nation
qui est la
mère de la civilisation
regarde sans
la defendre les offerts qu’on fait pour la dètruire
toi notre
mère et notre fille quelque chose comme une soeur
O frères d’Italie
vos plumes sur la tête
placandosi in questa
dolcissima invocazione che tuttavia condannava «en criant sus aux Tudesques», lentamente si lasciava assorbire dall’ultima
scintilla che faceva luce sulla parete d’aria, su cui la voce scriveva
cancellandosi:
Nous te
tournons bénignement le dos Italie
mais ne t’en
fais pas nous t’aimons bien
Italie mère
qui est aussi notre fille
Nous sommes
là tranquillement et sans tristesse
E
fu amarissima consolazione quella che snebbiava in me un sentimento incerto,
temuto per tanti anni come una delusione, la speranza, che è il sentimento dei
poveri, di chi non ha più amici sulla terra: la speranza che, a prezzo di
terribili distruzioni, l’Italia avrebbe finalmente dato una catastrofe alla
lunga farsa. Finalmente avremmo potuto schiacciare le uova d’aquila.
Quella
notte stessa aeroplani francesi vagarono sul cielo di Roma, sulle nostre case,
senza sganciare una bomba; e anch’io non andai nel rifugio, ma uscii in
terrazza per salutare. Su uno dei volantini che, sfarfallando, mi cadde sulla
spalla non erano scritte parole d’odio; a me parve anzi di leggere alcuni versi
di Apollinaire:
Notre
civilisation a plus de finesse...
Les fleurs
sont nos enfants...
Perché
Apollinaire (nato a Roma) aveva voluto pacifica la scorreria degli aviatori sul
cielo della sua Roma, sulle case d’Italia.
La
capitolazione di Parigi fu definitiva come data della nostra vergogna. Ma le
lagrime dei plenipotenziari francesi non furono certo più cocenti delle lagrime
che piansero, poi, centinaia di madri italiane per i loro figli morti
inutilmente su molti fronti. E ci chiedevamo, tra noi amici, che facevano Gide,
Jacob e Valéry, Eluard e Breton, Picasso e Matisse, e non quello che pensavano
di noi. Perché noi amavamo la Francia più che mai, la Francia, regione della
nostra memoria.
Poi,
quando fu l’occasione di scegliere qualche libro francese da tradurre, mi venne
facile proporre un libro di Apollinaire, tra i suoi il più raro a trovarsi
perché stampato in qualche centinaio di esemplari nel 1913, per le edizioni «Athèna»
(place de l’Odèon 3, Paris).
Questo
saggio è la più importante, la più sensibile, e quindi la più storica
introduzione alla conoscenza del cubismo e all’intelligenza d’un periodo tanto
ricco di significati plastici, concluso ormai dall’opera di Picasso e di
Braque; con tali e tanti apporti non solo ai fatti della pittura contemporanea,
ma alla sensibilità di poeti, musicisti e architetti che vi hanno scoperto i
modi più puri della modernità. Né saranno gli scolaretti eruditi, gli imitatori
sperticati che ancora oggi producono opere cubiste e postcubiste, o i soliti
detrattori, ad annullare la storicità del cubismo, a imbrattarlo di polemiche o
a restringerne il significato. Peggio per quei giovani artisti che volessero
chiedere al cubismo e ai cubisti un facilissimo modo per evadere dai problemi
eterni dell’arte, una saccenteria di gusto o di intellettualismo, da cui un
artista d’oggi deve ripugnare se non vuole essere il prodotto spurio d’un movimento
artistico che ha distrutto e ricostruito tutto quanto era da distruggere e
ricostruire.
Dopo
gli scritti d’arte di Baudelaire e di Laforgue, le «Méditations esthétiques» sono da considerare
fra quei pochi capolavori critici che l’arte ha ispirato ai poeti. La poesia di
Apollinaire, classica allo stesso titolo della poesia di Rimbaud, Verlaine e
Mallarmé («fu il poeta più profondamente classico che onori di sé il primo
quarto del nostro secolo... fu uno dei precursori più illuminati del tempo
nuovo» ha scritto Savinio) nasce parallelamente alle inquietudini delle arti
plastiche, in quel periodo che va dal 1906 al 1918; e ad esse porta tutto un
contributo di potenza inventiva, di felice speculazione, di chiarificazioni
intellettuali, che daranno carattere alle azioni, ai pensieri della modernità.
Con
Apollinaire e Picasso, i due geni del cubismo, ha inizio quella fiumana d’invenzioni
e di fantasie e di tentativi («Hommes de l’avenir
souvenez-vous de moi - je vivais a l’époque où finissaient les rois») che mutarono faccia
al mondo e il modo di vederlo, di sentirlo, di narrarlo. A opera d’essi la
sensibilità moderna, intesa nel suo significato più spirituale, visionario e
anche umano, e non nella moda che essa indicò e nelle follie che giustificò,
ebbe una sua vera e propria estetica, vissuta e realizzata in un decennio, e da
questa più tardi erediterà qualche seme il surrealismo, termine inventato da
Apollinaire stesso per definire uno stato poetico.
Il
cubismo e le altre tendenze da esso derivate crearono la profonda vitalità di
un’epoca cui si deve, oltre tutto, la possibilità di distinguere criticamente
ciò che è vivo da ciò che è morto in una società quando siano decaduti i valori
della immaginazione, quanto v’è di disumano in una tradizione da quanto è
durevole o caduco nello spirito dell’artista moderno: «Nous ne nous épuiserons pas a saisir le présent
trop fugace et qui ne peut être pour l’artiste que le masque de la mort: la
mode».
Apollinaire
ha dato, in vita, gloria al doganiere Rousseau che insieme a Modigliani è il
luogo celeste della pittura europea di ieri. Apollinaire amava l’erudizione e l’ironia,
a lui necessarie per placare l’avidità di sapere e di creare modi di vita
profondi. Apollinaire è il creatore d’uno stato moderno in poesia. Alla sua
generosità noi dobbiamo mille invenzioni poetiche, tante meraviglie di grazia e
di divertimento. Apollinaire andò alla guerra contro i tedeschi e ne riportò
una ferita alla fronte. Quasi nulla, una stella, e di quella stella morì il
giorno in cui per le strade di Parigi si festeggiava l’armistizio.
Non
importa che, in queste pagine, talvolta l’entusiasmo induca Apollinaire a
vedere nel futuro dell’opera di Picabia, di Metzinger, Gleizes e Léger che allora
erano agli inizi, avvenimenti straordinari e definitivi che essi poi non
realizzarono mai. È il poeta che attribuisce agli amici propositi geniali,
possibilità d’avvenire che sono soltanto suoi. Ma basterebbero le pagine su
Picasso, ove l’opera di questi, nei periodi cosidetti rosa e blu, è narrata con
figurazioni e apparizioni che danno alla prosa andatura di poema. Basterebbero
le pagine su Rousseau, su Seurat, sugli impressionisti.
Oggi
nessuno ricorda, Apollinaire. Sui giornali francesi in cui si parla dei poeti,
degli scrittori, degli artisti che hanno resistito e combattuto la barbarie,
non si legge il nome di Apollinaire. Pare che nessun critico di Francia voglia
rileggersi i Calligrammes. Ma c’è forse un poeta
francese contemporaneo che sia maggior poeta di Apollinaire? Max Jacob avrebbe
potuto dire la verità.
Vorrei
pregare Alberto Savinio, che invece parla e scrive sempre di Apollinaire,
grande poeta e suo grande amico, di accettare, l’omaggio di questa mia amorosa
fatica.
LIBERO DE LIBERO
DELLA PITTURA
I
Le virtù plastiche: purezza,
unità e verità tengono sotto i piedi la natura vinta.
Invano si tende l’arcobaleno, le
stagioni fremono, le folle si lanciano verso la morte, la scienza disfa e rifà
ciò che esiste, i mondi s’allontanano per sempre dalla nostra concezione, le
nostre immagini volubili si ripetono o ridestano la loro incoscienza e i
colori, gli odori, i rumori che seguiamo ci meravigliano, poi scompaiono dalla
natura.
Questo mostro della bellezza non
è eterno.
Noi sappiamo che il nostro
respiro non ha avuto principio e non avrà fine, ma concepiamo innanzi tutto la
creazione e la fine del mondo.
Però, troppi pittori adorano
ancora le piante, le pietre, l’acqua o gli uomini.
Ci si avvezza presto alla
schiavitù del mistero. E la servitù finisce per creare dolci ozi.
Si lasciano gli operai
spadroneggiare sull’universo e i giardinieri hanno meno rispetto per la natura
di quanto non l’abbiano gli artisti.
È tempo d’essere i padroni. La
buona volontà non garantisce la vittoria.
Al di qua dell’eternità danzano
le mortali forme dell’amore e il nome della natura riassume la loro maledetta
disciplina.
La fiamma è il simbolo della
pittura e le tre virtù plastiche fiammeggiano sfavillando.
La fiamma ha la purezza che non tollera
niente d’estraneo e trasforma crudelmente in sé stessa ciò che tocca.
Essa ha una tale unità magica da
far sì che, se uno riesce a dividerla, ogni lingua di fiamma è simile alla
fiamma unica.
Essa ha finalmente la verità
sublime della sua luce che niente può negare.
I pittori virtuosi di quest’epoca
occidentale considerano la loro purezza a dispetto delle forze naturali.
Essa è l’oblio dopo lo studio. E,
perché un artista puro muoia, bisognerebbe che tutti gli artisti dei secoli
scorsi non fossero esistiti.
La pittura si purifica, in
Occidente, con quella logica ideale che i pittori antichi hanno trasmessa ai
nuovi come se dessero ad essi la vita.
Ed è tutto.
L’uno vive nelle delizie, l’altro
nel dolore, gli uni sciupano l’eredità loro, gli altri diventano ricchi e altri
ancora non hanno che la vita.
Ed è tutto.
Uno non può trascinarsi dietro
ovunque il cadavere del proprio padre. Lo lascia in compagnia degli altri
morti. E se ne ricorda, lo rimpiange, ne parla con ammirazione. E se diventa
padre, non deve aspettarsi che un figlio voglia farsi in quattro per la vita
del suo cadavere.
Ma i nostri piedi non si
staccheranno che vanamente dal suolo che chiude i morti.
Considerare la purezza significa
battezzare l’istinto, umanizzare l’arte e divinizzare la personalità.
La radice, lo stelo e il fiore
del giglio mostrano il progredire della purezza sino alla fioritura simbolica.
Tutti i corpi sono uguali dinanzi
alla luce e le loro modificazioni risultano da quel potere luminoso che
costruisce a suo piacere.
Noi non conosciamo tutti i colori
e ogni uomo ne inventa dei nuovi.
Ma il pittore deve innanzi tutto
darsi lo spettacolo della sua propria divinità e i quadri che offre all’ammirazione
degli uomini conferiranno ad essi la gloria d’esercitare quindi e
momentaneamente la loro propria divinità.
Bisogna perciò abbracciare con un
colpo d’occhio: passato, presente e avvenire.
La tela deve presentare quell’unità
essenziale che sola provoca l’estasi.
Allora, niente d’effimero
alletterà a caso. Noi non torneremo bruscamente indietro. Spettatori liberi non
rinunceremo alla vita per la nostra curiosità. I contrabbandieri del sale delle
apparenze non introdurranno con frode le nostre statue di sale dinanzi al dazio
della ragione.
Noi non andremo erranti nell’avvenire
ignoto che separato dall’eternità è soltanto una parola destinata a tentar l’uomo.
Noi non perderemo le nostre forze
per afferrare il presente troppo fugace, che non può esser per l’artista se non
la maschera della morte: la moda.
Il quadro avrà vita
inevitabilmente. La visione sarà intera, completa e il suo infinito invece di
sottolineare un’imperfezione, farà solamente risaltare il rapporto d’una nuova
creatura a un nuovo creatore e nient’altro. Senza di che, non vi sarà unità, e
i rapporti che avranno i diversi punti della tela coi differenti gusti,
differenti oggetti, differenti luci, non mostreranno se non una molteplicità di
sproporzioni senza armonia.
Perché, se ci può essere un
numero infinito di creature che attestino ognuna il loro creatore, senza che
nessuna creazione ingombri lo sviluppo di quelle che già coesistono, è
impossibile concepirle in un sol tempo e la morte deriva dalla loro
sovrapposizione, dalla loro rissa, dal loro amore.
Ogni divinità crea l’immagine
sua: così è dei pittori. E i fotografi soltanto fabbricano riproduzioni della
natura.
La purezza e l’unità non contano
senza la verità che non si può paragonare alla realtà poiché sono la stessa
cosa, al di là d’ogni istinto che si sforza di trattenerci nell’ordine fatale
ove non siamo che degli animali.
Prima di tutto, gli artisti sono
uomini che vogliono diventare disumani.
Essi cercano faticosamente le
tracce della disumanità, tracce che non s’incontrano in nessun luogo della
natura.
Esse sono la verità e fuor d’esse
noi non conosciamo realtà alcuna.
Ma non si scoprirà mai la realtà
una volta per sempre. La verità sarà sempre nuova.
Altrimenti essa non è che un
sistema più miserevole della natura.
In tal caso, la deplorevole
verità, più lontana, meno distinta, meno reale ogni giorno ridurrebbe la
pittura allo stato di scrittura plastica semplicemente destinata a facilitare
le relazioni fra persone della stessa razza.
Ai giorni nostri, si farebbe presto a inventare la
macchina per riprodurre tali segni, senza conoscenza.
II
Molti pittori nuovi non dipingono
che quadri ove manca un vero soggetto. E i titoli che si trovano nei cataloghi
hanno allora la funzione di nomi che stanno a designare gli uomini senza
caratterizzarli.
Come esistono dei Grossi che sono
molto magri e dei Biondi che sono molto bruni, così ho visto tele intitolate: Solitudine, ove erano parecchi personaggi.
In questo caso, si accondiscende
ancora talvolta a far uso di parole vagamente espressive come ritratto, paesaggio,
natura morta; ma molti giovani pittori si
servono soltanto del vocabolo generale di pittura.
Tali pittori, pur osservando
ancora la natura, non la imitano più ed evitano con cura la rappresentazione di
scene naturali osservate e ricostruite studiosamente.
Il verosimile non ha più
importanza alcuna, perché tutto viene sacrificato dall’artista alle verità,
alle necessità d’una natura superiore che egli suppone senza scoprirla. Il
soggetto non conta o conta appena.
L’arte moderna respinge,
generalmente, la maggior parte dei mezzi per piacere adoperati dai grandi
artisti del passato.
Se il fine della pittura è sempre
quello d’un tempo: piacere degli occhi, ormai si richiede all’amatore di
trovarci un piacere diverso da quello che può tanto bene procurargli lo
spettacolo delle cose naturali.
Ci si incammina verso un’arte
assolutamente nuova, che sarà per la pittura, così come è stata guardata sino ad
ora, ciò che la musica è per la letteratura.
Sarà della pittura pura, come la
musica è della letteratura pura.
L’amatore di musica prova,
ascoltando un concerto, una gioia d’un ordine diverso dalla gioia che prova
ascoltando rumori naturali, come il mormorio d’un ruscello, il fragore d’un
torrente, il fischio del vento in una foresta o le armonie del linguaggio umano
basato sulla ragione e non sull’estetica.
Così i pittori nuovi procureranno
ai loro ammiratori sensazioni artistiche unicamente dovute all’armonia di luci
dispari.
È noto l’aneddoto d’Apelle e
Protogene che si legge in Plinio.
Esso dimostra il piacere estetico
che risulta solamente da quella costruzione dispari di cui parlavo.
Apelle sbarca un giorno, nell’isola
di Rodi per vedere le opere di Protogene che colà dimorava. Questi era assente
dal suo studio quando Apelle vi entrò. Una vecchia era là a guardia di una
grande tavola preparata per esser dipinta. Apelle invece di lasciare il suo
nome, tirò sulla tavola una linea così sottile che non si sarebbe potuto veder
niente di più perfetto.
Al ritorno, Protogene,
scorgendola, vi riconobbe la mano di Apelle e tirò su quella linea una linea di
colore diverso e più sottile ancora, sicché pareva ci fossero tre linee.
Apelle tornò ancora l’indomani senza
incontrare colui che cercava e la sottigliezza della linea ch’egli tracciò quel
giorno fece disperare Protogene. Questo quadro fece per molto tempo l’ammirazione
dei conoscitori che lo guardavano con lo stesso piacere come se, in luogo di
rappresentare linee quasi invisibili, vi avessero raffigurato dei e dee.
I giovani pittori delle scuole
estremiste hanno come fine segreto di far della pittura pura. È un’arte
plastica totalmente nuova. Non è che agli inizi e non è ancora astratta quanto
vorrebbe esserlo. La maggior parte dei nuovi pittori fanno anzi della
matematica senza saperlo o senza conoscerla, ma non hanno abbandonato ancora la
natura che interrogano pazientemente affinché insegni loro il cammino nella
vita.
Un Picasso studia un oggetto come
un chirurgo dissecca un cadavere.
L’arte della pittura pura, se
riesce a svincolarsi interamente dall’antica pittura, non porterà questa, non
più di quanto lo sviluppo della musica abbia portato alla scomparsa dei diversi
generi letterari, non più di quanto l’agrezza del tabacco abbia sostituito il
sapore degli alimenti.
III
Hanno vivamente rimproverato ai
pittori nuovi le preoccupazioni geometriche. Tuttavia le figure geometriche
sono l’essenziale nel disegno. La geometria, scienza che ha per oggetto lo
spazio, la sua misura e i suoi rapporti, è stata in ogni tempo la regola stessa
della pittura.
Sino ad oggi, le tre dimensioni
della geometria euclidea bastavano alle inquietudini che il sentimento dell’infinito
mette nell’animo dei grandi artisti.
I nuovi pittori non più degli
antichi si son proposti d’essere geometri. Ma si può dire che la geometria sta
alle arti plastiche quanto la grammatica all’arte dello scrittore. Oggigiorno
gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni della geometria euclidea.
I pittori sono stati indotti molto naturalmente e, diciamo, per intuito a
preoccuparsi delle possibili nuove misure dello spazio che nel linguaggio degli
studi moderni veniva designato nel complesso e brevemente col termine di quarta dimensione.
Così come si presenta alla mente,
dal punto di vista plastico, la quarta dimensione trarrebbe origine dalle tre
misure note: essa sta a rappresentare l’immensità dello spazio che si fa eterno
in ogni direzione d’un determinato momento. Essa è lo spazio medesimo, la
dimensione dell’infinito; è essa che assicura plasticità agli oggetti. Lui dà
le proporzioni che meritano nell’opera, mentre nell’arte greca per esempio, un
ritmo in certo modo meccanico rompe senza posa le proporzioni.
L’arte greca aveva della bellezza
un concetto puramente umano. Assumeva l’uomo quale misura della perfezione. L’arte
dei pittori nuovi prende l’universo infinito come ideale e a questo ideale si
deve una misura nuova della perfezione che permette al pittore di assegnare all’oggetto
proporzioni conformi al grado di plasticità cui egli desidera condurlo.
Nietzsche aveva presentito la
possibilità d’un’arte tale.
«O Dioniso divino, perché mi
tiri le orecchie?» chiede Arianna al suo filosofico amante in un celebre
dialogo sull’Isola di Nasso. «C’è qualcosa di piacevole e di divertente nelle
tue orecchie. Arianna: perché non sono ancora più lunghe?».
Nietzsche, nel riportare l’aneddoto,
fa per bocca di Dioniso il processo all’arte greca.
Si aggiunga che tale fantasia: la
quarta dimensione non è stato che il manifestarsi di aspirazioni, d’inquietudini
d’un gran numero di giovani artisti che guardano alle sculture egizie, negre e
oceaniche e meditano opere di scienza, sperando in un’arte sublime; e oggi non
si attribuisce più a questa espressione utopistica, che andava notata e spiegata,
se non un interesse per così dire storico.
IV
Volendo cogliere le proporzioni
dell’ideale, non limitandosi all’umanità, i giovani pittori ci presentano opere
più cerebrali che sensuali. S’allontanano sempre più dall’antica arte delle
illusioni ottiche e delle proporzioni locali per esprimerò la grandezza delle
forme metafisiche. Perciò l’arte attuale, pur non essendo emanazione diretta di
determinate credenze religiose, presenta tuttavia molti caratteri della grande
arte, cioè dell’Arte religiosa.
V
I grandi poeti e i grandi artisti
hanno la funzione sociale di rinnovare senza posa l’apparenza che riveste la
natura agli occhi dell’uomo.
Senza i poeti e senza gli
artisti, gli uomini si annoierebbero presto della monotonia naturale. L’idea
sublime che essi hanno dell’universo crollerebbe con rapidità vertiginosa. L’ordine,
che appare nella natura e che è soltanto un effetto dell’arte, svanirebbe
invece immediatamente. Tutto si scioglierebbe nel caos. Più stagioni, più
civiltà, più pensiero, più umanità, più vita anche e l’impotente oscurità
regnerebbe per sempre.
I poeti e gli artisti determinano
d’accordo il volto della loro epoca e docilmente l’avvenire si dispone secondo
il parer loro.
La struttura generale d’una
mummia egiziana è conforme alle figure disegnate dagli artisti egizi e tuttavia
gli antichi Egizi erano assai diversi gli uni dagli altri. Essi si sono
conformati all’arte dell’epoca loro.
È proprio dell’arte, suo ruolo
sociale, creare questa illusione: il tipo. Dio sa quanti si son burlati dei
quadri di Manet e di Renoir! Ebbene! Basta gettare uno sguardo alle fotografie
dell’epoca per accorgersi della conformità di persone e cose ai quadri dipinti
da quei grandi pittori.
Una tale illusione mi sembra
assolutamente naturale, poiché le opere d’arte sono quanto di più energico
produca un’epoca dal punto di vista plastico. Questa energia s’impone agli
uomini ed è per essi la misura plastica d’un’epoca. Perciò coloro che si
burlano dei nuovi pittori, si burlano della propria faccia, perché l’umanità
dell’avvenire si rappresenterà l’umanità d’oggi secondo le rappresentazioni che
gli artisti dell’arte più viva, cioè più nuova, avranno lasciato d’essa. Non
venite a dirmi che ci sono oggi altri pittori che dipingono in modo tale che l’umanità
ci si possa riconoscere dipinta a immagine sua. Tutte le opere d’arte d’un’epoca
finiscono per somigliare all’opera d’arte più energica, più espressiva, più
tipica. Le bambole hanno origine dall’arte popolare; sembrano sempre ispirate
alle opere della grande arte della stessa epoca. È una verità facilmente
controllabile. E tuttavia chi oserebbe dire che le bambole vendute nei bazar
verso il 1880 furono fabbricate con un sentimento uguale a quello di Renoir
quando dipingeva i suoi ritratti? Allora nessuno se ne accorgeva. Ciò significa
intanto che l’arte di Renoir era abbastanza energica, abbastanza viva per imporsi
ai nostri sensi mentre al gran pubblico dell’epoca in cui egli esordiva le sue
concezioni apparivano come tante assurdità e follie.
VI
Talvolta si è considerato, specie
a proposito, dei pittori più recenti, la possibilità d’una mistificazione o d’un
errore collettivo.
Ora non si conosce in tutta la
storia delle arti una sola mistificazione collettiva, non più d’un errore
artistico collettivo. Ci sono casi isolati di mistificazione e d’errore, ma gli
elementi convenzionali di cui si compongono in gran parte le opere d’arte ci
garantiscono che di casi tali non potrebbero essercene di collettivi.
Se la nuova scuola di pittura ci
presentasse uno di tali casi, l’avvenimento sarebbe talmente straordinario da
doverlo chiamare un miracolo. Concepire un caso di tal specie significherebbe
concepire che bruscamente, in una nazione, tutti i bambini nascessero privi di
testa o d’una gamba o d’un braccio, concezione evidentemente assurda. Non ci
sono errori né mistificazioni collettive in arte, ci sono solamente differenti
epoche e differenti scuole d’arte. Per quanto il fine che si propone ognuna d’esse
non sia ugualmente alto, ugualmente puro, tuttavia sono ugualmente rispettabili
tutte, e, a seconda delle idee che uno si fa della bellezza, ogni scuola
artistica è di volta in volta ammirata, disprezzata e di nuovo ammirata.
VII
La nuova scuola di pittura porta
il nome di cubismo, che le fu dato per ridere nell’autunno del 1908 da Henri
Matisse che aveva visto un quadro ove figuravano case la cui apparenza cubica
lo colpì vivamente.
Tale estetica nuova fu elaborata
anzitutto dalla mente di André Derain, ma le opere più importanti e più audaci
che essa produsse si debbono a un grande artista che va considerato perciò come
un fondatore: Pablo Picasso le cui invenzioni avvalorate dal buon senso di
Georges Braque che espose, sin dal 1908, un quadro cubista al «Salon des
Indépendents», trovarono la loro formula negli studi di Jean Metzinger che
espose il primo ritratto cubista (il mio) al «Salon des Indépendents» nel
1910 e fece accettare quindi, lo stesso anno, alcune opere cubiste dalla giuria
del «Salon d’Automne». Anche nel 1910 furono esposte presso gli «Indépendents» quadri di Robert Delaunay, di Marie Laurencin, di Le Fauconnier,
che uscivano dalla stessa scuola.
La prima esposizione complessiva
del cubismo, i cui allievi si facevano sempre più numerosi, ebbe luogo nel 1911
agli «Indépendents», ove la sala 41 riservata ai cubisti produsse una grande
impressione. C’erano opere abili e seducenti di Jean Metzinger; paesaggi, l’uomo nudo e la donna coi flocs
di Albert Gleizes; il
ritratto della signora Fernanda X...
e Fanciulle di Marie Laurencin; La Torre di Robert Delaunay, l’Abbondanza
di Le Fauconnier, i Nudi
in un paesaggio di Fernand Léger.
La prima manifestazione dei
cubisti all’estero fu tenuta a Brusselle, lo stesso anno, e nella prefazione a
quella mostra io accettai, a nome degli espositori, le denominazioni: cubismo e
cubisti.
Alla fine del 1911, la mostra dei
cubisti al «Salon d’Automne» fece uno scalpore considerevole, non furono
risparmiati motteggi né a Gleizes (La caccia, Ritratto di Jacques Nayral) né a Metzinger (La donna col cucchiaio) né a Fernand Léger. A questi artisti s’era unito
un pittore nuovo, Marcel Duchamp e uno scultore architetto, Duchamp-Villon.
Altre esposizioni collettive
ebbero luogo nel novembre del 1911 alla «Galérie d’Art Contemporain», in rue
Tronchet a Parigi; nel 1812, al «Salon des Indépendents» ove fu notata l’adesione
di Juan Gris; nel mese di maggio, in Spagna, ove Barcellona accoglie con
entusiasmo i giovani Francesi; infine nel mese di giugno, a Rouen, mostra
organizzata dalla Società degli Artisti normanni ove fu notata l’adesione di
Francis Picabia alla nuova scuola. (Nota scritta nel settembre del 1912).
La differenza tra il cubismo e la
antica pittura sta in questo: che esso non è un’arte d’imitazione, ma un’arte
di concetto che tende ad innalzarsi sino alla creazione.
Nel rappresentare la realtà
concepita o la realtà creata, il pittore può dare l’apparenza di tre
dimensioni, può in certo modo far cubico. Ciò non gli
riuscirebbe se volesse rendere semplicemente la realtà vista, che lo porterebbe
a far degli «inganni» di scorcio o in prospettiva deformando così la qualità
della forma concepita o creata.
Quattro tendenze si sono
frattanto manifestate in seno al cubismo così come io l’ho diviso. Di cui due
tendenze sono parallele e pure.
Il cubismo scientifico è una delle tendenze pure. È l’arte di dipingere
complessi nuovi con elementi presi non dalla realtà di visione ma dalla realtà
di conoscenza.
Ogni uomo ha il sentimento di
tale realtà ulteriore. Non c’è bisogno d’essere un uomo colto per concepire, ad
esempio, una forma rotonda.
L’oggetto geometrico che colpiva
così fortemente coloro che vedevano le prime tele scientifiche nasceva dal
fatto che la realtà essenziale ivi era resa con una grande purezza e che l’accidente
visuale e aneddotico ne restava escluso.
I pittori usciti da tale arte
sono: Picasso la cui arte luminosa appartiene anche all’altra tendenza pura del
cubismo, e Georges Braque, Metzinger, Albert Gleizes, Marie Laurencin e Juan
Gris.
Il cubismo fisico è l’arte di dipingere
complessi nuovi con elementi presi la maggior parte dalla realtà di visione. Ma
tale arte sfociò intanto nel cubismo mediante la disciplina costruttiva. Esso
ha un grande avvenire come pittura di storia. La sua funzione sociale è ben definita,
ma non è più un’arte pura. Vi si confonde il soggetto con le immagini.
Il pittore fisico che ha creato
tale tendenza è Le Fauconnier.
Il cubismo orfico è l’altra grande tendenza della pittura moderna. È
l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi non dalla realtà visuale
ma totalmente creati dall’artista e da lui investiti d’una realtà potente. Le
opere degli artisti orfici debbono presentare simultaneamente un piacere
estetico puro, una costruzione che afferra i sensi e un significato sublime,
cioè il soggetto. È arte pura. La luce nelle opere di Picasso racchiude quest’arte
che è inventata a sua volta da Robert Delaunay e nella quale si adoperano anche
Fernand Léger, Francis Picabia e Marcel Duchamp.
Il cubismo istintivo, arte di dipingere complessi nuovi presi non dalla
realtà visuale, ma da quella che suggeriscono all’artista l’istinto e l’intuito,
tende da molto tempo all’orfismo. Gli artisti istintivi difettono di lucidità e
d’una fede artistica; il cubismo istintivo comprende un gran numero d’artisti. Originato
dall’impressionismo francese, questo movimento va diffondendosi ora in tutta
Europa.
Gli ultimi dipinti di Cézanne e i
suoi acquarelli sfociano nel cubismo, ma Courbet è il padre dei nuovi pittori e
André Derain, sul quale un giorno tornerò, fu il maggiore dei suoi figli
prediletti, perché lo troviamo all’origine del movimento dei Fauves che fu una specie di preambolo al cubismo e quindi
all’origine di questo grande movimento soggettivo, ma oggi sarebbe troppo
difficile scrivere con precisione d’un uomo che volontariamente si tiene in
disparte da tutto e da tutti.
La scuola moderna di pittura mi
sembra la più audace che vi sia mai stata. Essa ha posto la questione del bello
in sé.
Essa vuole immaginare il bello
fuori dal piacere che l’uomo procura all’uomo, e sin dagli inizi dei tempi
storici nessun artista europeo aveva osato ciò. Gli artisti nuovi han bisogno d’una
bellezza ideale che non sia più soltanto espressione orgogliosa della specie,
ma espressione dell’universo, nella misura in cui esso s’è umanizzato nella
luce.
L’arte d’oggi investe le sue
creazioni d’un’apparenza grandiosa, monumentale che supera a tal riguardo tutto
ciò ch’era stato concepito dagli artisti dell’età nostra. Piena d’ardore nella
ricerca della bellezza, essa è nobile, energica e la realtà che ci offre è
meravigliosamente chiara.
Io amo l’arte d’oggi perché amo
anzitutto la luce, e tutti gli nomini amano anzitutto la luce. Sono essi che
hanno inventato il fuoco.
PITTORI NUOVI
PICASSO
Se noi sapessimo, gli dei tutti
si desterebbero. Nati dalla conoscenza profonda che l’umanità serbava di se
stessa, i panteismi adorati che le rassomigliavano si sono assopiti. Ma
nonostante i sonni eterni, ci sono occhi in cui si riflettono umanità simili a
fantasmi divini e gioiosi.
Questi occhi sono attenti come
fiori che vogliono sempre contemplare il sole. O gioia feconda, ci sono uomini
che vedono con tali occhi.
A quei tempi Picasso aveva
rivolto lo sguardo a immagini umane che fluttuavano nell’azzurro delle nostre
memorie ed erano partecipi della divinità per mandare all’inferno i metafisici.
Quanto son pii i suoi cieli frementi di voli, le sue luci gravi e basse come quelle
delle grotte.
Ci sono fanciulli che sono andati
errando senza imparare il catechismo. Essi si fermano e la pioggia finisce di
cadere: « Guarda! Quante persone in quelle case e le vesti loro sono povere ».
Questi fanciulli che uno non bacia comprendono tanto! Mamma, amami molto! Essi
sanno far salti e i giucchi in cui riescono sono evoluzioni mentali.
Queste donne che uno non ama più
ricordano. Esse hanno troppo stirato oggi le loro idee taglienti. Non pregano;
sono devote ai ricordi. Si rannicchiano nel crepuscolo come in una antica
chiesa Queste donne rinunciano e le dita loro si muoverebbero per intrecciar
corone di paglia. Con la luce esse scompaiono, si sono consolate nel silenzio.
Hanno traversato molte porte: le madri proteggevano le culle perché i neonati
non avessero cattive doti; quando esse si chinavano i bimbi sorridevano nel saperle
così buone.
Hanno spesso ringraziato e i gesti
del loro avambraccio tremavano come le palpebre loro.
Avviluppati di gelida nebbia, dei
vecchi attendono senza meditare, perché i fanciulli soli meditano. Animati di
paesi lontani, di bisticci animali, di capigliature indurite, questi vecchi
possono mendicare senza umiltà.
Altri mendicanti si sono
consumati a vivere. Sono infermi con le grucce e bricconi. Si meravigliano d’aver
raggiunto il traguardo che è rimasto blu e non è più l’orizzonte. Invecchiando
son diventati folli come re che avessero troppi greggi d’elefanti con piccole
cittadelle in groppa. Ci sono viaggiatori che confondono fiori e stelle.
Invecchiati come buoi muoiono
verso i venticinque anni, i giovani hanno guidato bimbi in fasce allattati con
la luna.
In una luce pura, donne stanno
silenziose, i loro corpi sono angelici e i loro sguardi tremano.
Per il pericolo i sorrisi loro
sono interiori. Esse attendono lo spavento per confessare peccati innocenti.
Per lo spazio d’un anno Picasso visse
questa pittura umida, blu come il fondo dell’abisso e pietosa.
La pietà fece Picasso più aspro.
Le piazze sopportarono un impiccato che s’allungava contro le case al di sopra
dei passanti obliqui. Questi suppliziati attendevano un redentore. La corda
strapiombava miracolosa sugli abbaini; i vetri fiammeggiavano coi fiori delle
finestre.
Nelle stanze, poveri pittori
disegnavano a lume di lampada nudità vellose. L’abbandono di scarpe di donna
presso il letto significava una tenera fretta.
Venne la calma dopo una tale
frenesia.
Gli arlecchini vivono sotto gli
orpelli quando la pittura raccoglie, riscalda o imbianca i suoi colori per dir
la forza e la durata delle passioni, quando le linee limitate dalle maglie si
curvano, si spezzano o si slanciano.
La paternità trasfigura l’arlecchino
in una stanza quadrata mentre la moglie si bagna nell’acqua fredda e s’ammira
svelta e gracile quanto il marito burattino. Un focolare vicino fa tepido il
carrozzone. Belle canzoni s’intrecciano e soldati passano altrove maledicendo
alla giornata.
L’amore è buono quando uno lo
abbellisce e l’abitudine di vivere in casa propria raddoppia il sentimento
paterno. Il figlio ravvicina al padre la moglie che Picasso vuole gloriosa e
immacolata.
Le madri, primaiole, non
attendevano più il figlio, forse per certi corvi ciarlieri e di cattivo
augurio.
Natale! Esse partorirono futuri
acrobati fra le scimmie familiari, i cavalli bianchi e i cani come orsi.
Le sorelle adolescenti,
sospingendo in equilibrio le grosse palle dei saltimbanchi, comandano a queste
sfere il movimento che irraggia dai mondi. Queste adolescenti, da impuberi,
hanno le inquietudini dell’innocenza, gli animali insegnano ad esse il mistero
religioso. Arlecchini accompagnano la gloria delle donne, rassomigliano ad esse
né maschi né femmine.
Il colore ha delle appannature di
affresco, le linee sono vigorose. Ma posti al limite della vita, gli animali
sono umani e i sessi indecisi.
Bestie ibride hanno la coscienza
di semidei d’Egitto; arlecchini taciturni hanno le guance e la fronte avvizzite
da sensibilità morbose.
Non si possono confondere questi
saltimbanchi con gli istrioni. Lo spettatore deve esser pietoso perché essi
celebrano riti silenziosi con un’agilità difficile. Proprio ciò distingueva
questo pittore dai vasi greci, cui talvolta il suo disegno si ravvicinava.
Sulle crete dipinte preti barbuti e chiacchieroni offrivano in sacrificio
animali rassegnati e senza destino. Qui la virilità è imberbe, ma si manifesta
nelle nervature delle braccia magre; spianature di volto e gli animali sono
misteriosi.
Il gusto di Picasso per la linea
sfuggente, mutevole e penetrante ha prodotto esempi quasi unici di puntasecche
lineari in cui non ha alterato gli aspetti generali del mondo.
Questo Malaghese ci lasciava i
lividi come un gelo rapido. Le sue meditazioni si denudavano nel silenzio. Egli
veniva da lontano, dalle ricchezze compositive e dalla decorazione brutale
degli Spagnoli del diciassettesimo secolo.
E coloro che l’avevano conosciuto
ricordavano truculenze violente che non erano già più delle prove.
La sua insistenza nell’inseguire
la bellezza ha mutato tutto allora nell’Arte.
Allora, con severità, egli ha
interrogato l’Universo. S’è abituato all’immensa luce delle profondità. E,
talvolta, non ha sdegnato affidare alla luce oggetti autentici, una canzone da
due soldi, un francobollo vero, un pezzo di tela cerata su cui è impressa la
scannellatura d’una sedia. L’arte del pittore non aggiungerebbe nessun elemento
pittoresco alla verità di quegli oggetti.
La sorpresa ride selvaggiamente
nella purezza della luce e con legittimità cifre, lettere modellate appaiono
come elementi pittoreschi nuovi nell’arte, e da lungo tempo già impregnati d’umanità.
Non è possibile indovinare le
possibilità, né tutte le tendenze di un’arte così profonda e minuziosa.
L’oggetto reale a mo’ d’inganno è
chiamato senza dubbio ad avere una parte sempre più importante. È la cornice
interna del quadro e ne segna i limiti profondi, allo stesso modo che la
cornice ne segna i limiti esteriori.
Imitando i piani per
rappresentare i volumi, Picasso presenta dei diversi elementi che compongono
gli oggetti una enumerazione così completa e acuta che essi non assumono l’aspetto
di oggetto in virtù della fatica degli spettatori che, per forza, ne scoprono
la simultaneità, ma in ragione proprio della loro disposizione.
Quest’arte è forse più profonda
che alta? Essa non può fare a meno dell’osservazione della natura e agisce su
noi familiarmente quanto lei stessa.
Ci sono poeti cui una musa detta
le opere loro, ci sono artisti la cui mano è guidata da un essere sconosciuto
che si serve d’essi come d’uno strumento. Per essi nessuna fatica, perché non
lavorano e possono produrre molto, a tutte l’ore, tutti i giorni, in ogni paese
e in ogni stagione, non si tratta d’uomini, ma di strumenti poetici o
artistici. La ragione loro è senza forza contro se stessi, essi non lottano e
le opere loro non serbano tracce di lotta. Essi non sono divini e possono fare
a meno di se stessi. Sono come un prolungamento della natura e le opere loro
non passano per l’intelligenza. Possono essere commoventi senza che le armonie
da essi suscitate si siano umanizzate. Altri poeti, altri artisti invece stanno
lì a sforzarsi, vanno incontro alla natura e non hanno con lei nessuna
vicinanza immediata, debbono tirar fuori ogni cosa da se stessi e nessun
demone, nessuna musa li ispira. Essi abitano nella solitudine e nulla viene
espresso se non quello che essi hanno da se stessi balbettato, balbettato così
spesso che arrivano talvolta di sforzo in sforzo, di tentativo in tentativo a
formulare quello che desiderano formulare. Uomini creati a immagine di Dio, si
riposeranno un giorno per ammirare l’opera loro. Ma quante fatiche,
imperfezioni e grossolanità?
Picasso era un’artista come i
primi. Non c’è stato mai spettacolo così fantastico come la metamorfosi che lui
ha subita nel diventare un artista come i secondi.
Per Picasso l’idea di morire si
formò mentre guardava le sopracciglia circonflesse del suo migliore amico che
cavalcavano insieme nell’inquietudine. Un altro amico suo lo condusse un giorno
ai confini d’un paese mistico ove gli abitanti erano nello stesso tempo così
semplici e grotteschi che uno poteva rifarli con facilità.
Eppoi davvero, l’anatomia, per
esempio, non esisteva più nell’arte, bisognava reinventarla ed eseguirne l’assassinio
con la scienza e il metodo d’un grande chirurgo.
La grande rivoluzione delle arti
che lui ha condotto a termine quasi da solo, sta nel fatto che il mondo è la
sua rappresentazione nuova.
Enorme fiamma.
Uomo nuovo, il mondo è la sua
rappresentazione nuova. Egli ne enumera gli elementi, i particolari con una
brutalità che sa essere anche graziosa. È un neonato che mette ordine nell’universo
per uso personale, e anche allo scopo di facilitare i suoi rapporti coi propri
simili. Tale enumerazione ha la grandezza dell’epopea, e, con l’ordine,
scoppierà il dramma. Si può contestare un sistema, un’idea, una data, una
somiglianza, ma non vedo come si potrebbe contestare la semplice azione del
numeratore. Dal punto di vista plastico, si può pensare che noi avremmo potuto
fare a meno di tanta verità, ma una volta apparsa questa verità diventa
necessaria. Eppoi, ci sono paesi. Una grotta in una foresta ove si facevano
capriole, un passaggio a dorso di mulo sul bordo d’un precipizio e l’arrivo in
un villaggio ove ogni cosa odora d’olio caldo e di vino rancido. È ancora la
passeggiata verso un cimitero e l’acquisto d’una corona di maiolica (corona d’immortali)
e la menzione Mille
Condoglianze che è inimitabile. M’hanno
parlato anche di candelabri in argilla che bisognava apporre sopra una tela
perché sembrassero uscirne. Pendenti di cristallo, e quel famoso ritorno da
Havre.
Per me, non ho paura dell’Arte e
non ho pregiudizio alcuno riguardo alla materia dei pittori.
I mosaicisti dipingono con marmi
o con pezzi di legno colorati. Viene citato un pittore italiano che dipingeva
con materie fecali; ai tempi della Rivoluzione francese qualcuno dipinse col
sangue. Si può dipingere con quello che si vuole, con pipe, francobolli, cartoline
postali o carte da giuoco, candelabri, pezzi di tela cerata, colletti, carta
dipinta, giornali.
Per me, mi basta vedere il
lavoro, bisogna ch’io veda il lavoro; proprio dalla quantità di lavoro data
dall’artista si misura il valore d’un opera d’arte.
Contrasti delicati, linee
parallele, un mestiere d’operaio; talvolta l’oggetto medesimo, talvolta un’indicazione,
tal’altra ancora un’enumerazione che s’individualizza; meno dolcezza che
grossolanità. Non si sceglie nel moderno, così non si accetta la moda senza
discuterla.
Pittura... Un’arte sorprendente,
dove la luce è senza limiti.
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Calligrammes (1918)
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Apollinaire ferito, disegno di Picasso (1916)
in Calligrammes (1918)
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Pablo Picasso, di Apollinaire (1917)
bozza di stampa con le correzioni dell'autore
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Pablo Picasso, di Apollinaire (1917) |
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Guillaume Apollinaire a casa di Picasso (1910) 11, boulevard de Clichy |
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Georges Braque nel suo studio (1910) 101, rue Caulaincourt |
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Juan Gris e sua moglie al Bateau-Lavoir (1914) |
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