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giovedì 8 gennaio 2015

Il cubismo e Picasso raccontati da Guillaume Apollinaire (1913)



Guillaume Apollinaire
PITTORI CUBISTI
MEDITAZIONI ESTETICHE
Introduzione e traduzione di Libero de Libero
Edizioni del Secolo, s.d. [ma 1947]
pp 7-49


Per Apollinaire

Je lègue à l’ avenir l’histoire de Guillaume Apollinaire
Qui fut à la guerre et sut être partout...
(Calligrammes)

Pomeriggio del 10 giugno 1940. Al telefono un amico mi grida: «Viva la Francia!», mentre da una radio sbava truculenta la voce del dittatore. Avveniva quanto nessuno di noi aveva creduto possibile, nonostante la ferocia del caporale che aveva già portato guerra in Abissinia e vergogna italiana in Spagna. La stella d’Italia si spegneva in una macchia livida, e io pensavo con odio alle aquile romane, al lugubre volo delle aquile da distruggere una buona volta e per sempre, a certa triste eredità che ognuno di noi nascendo rifiuta; pensavo alla distruzione di Cartagine. Anche a me doleva fortemente quello parte della mente che, sin dagli anni scolastici, s’è sfamata al grande banchetto di poeti e di artisti che da secoli la Francia apparecchia ai popoli della terra. Tuttavia non mi sentivo innocente, neanch’io. Bastava quel sentimento di vergogna o di rimorso a farmi colpevole. E chiedevo perdono a Ronsard, a Racine, a Baudelaire, a Rimbaud, a Mallarmé, a Péguy e a Valéry; chiedevo perdono a Delacroix, a Manet, a Cézanne, al doganiere Rousseau. E se non mi avesse perdonato Alain Fournier o Radiguet e neppure Proust, mi sarei rivolto con fiducia a Guillaume Apollinaire, l’amico di Ungaretti e di Savinio, amici miei.
Le poète assassiné mi venne incontro la sera stessa, col suo profilo bendato di garza alla testa, come nel disegno di Picasso. La sua statura gigantesca mi stava dinanzi con la fronte étoilée e la croce di guerra sul petto, e guardando il cielo della finestra che mi slava alle spalle, pareva gridasse:

C’est a toi que je songe Italie mère de mes pensées
et dejà quand von Kluch marchait sur Paris avant la Marne
j’évoquais le sac de Rome par les Allemands
………………………………………………………..
Est-il possibile que la nation
qui est la mère de la civilisation
regarde sans la defendre les offerts qu’on fait pour la dètruire
………………………………………………………..
Italie
toi notre mère et notre fille quelque chose comme une soeur
………………………………………………………..
O frères d’Italie vos plumes sur la tête
Italie

placandosi in questa dolcissima invocazione che tuttavia condannava «en criant sus aux Tudesques», lentamente si lasciava assorbire dall’ultima scintilla che faceva luce sulla parete d’aria, su cui la voce scriveva cancellandosi:

Nous te tournons bénignement le dos Italie
mais ne t’en fais pas nous t’aimons bien
Italie mère qui est aussi notre fille
Nous sommes là tranquillement et sans tristesse

E fu amarissima consolazione quella che snebbiava in me un sentimento incerto, temuto per tanti anni come una delusione, la speranza, che è il sentimento dei poveri, di chi non ha più amici sulla terra: la speranza che, a prezzo di terribili distruzioni, l’Italia avrebbe finalmente dato una catastrofe alla lunga farsa. Finalmente avremmo potuto schiacciare le uova d’aquila.
Quella notte stessa aeroplani francesi vagarono sul cielo di Roma, sulle nostre case, senza sganciare una bomba; e anch’io non andai nel rifugio, ma uscii in terrazza per salutare. Su uno dei volantini che, sfarfallando, mi cadde sulla spalla non erano scritte parole d’odio; a me parve anzi di leggere alcuni versi di Apollinaire:

Notre civilisation a plus de finesse...
Les fleurs sont nos enfants...

Perché Apollinaire (nato a Roma) aveva voluto pacifica la scorreria degli aviatori sul cielo della sua Roma, sulle case d’Italia.
La capitolazione di Parigi fu definitiva come data della nostra vergogna. Ma le lagrime dei plenipotenziari francesi non furono certo più cocenti delle lagrime che piansero, poi, centinaia di madri italiane per i loro figli morti inutilmente su molti fronti. E ci chiedevamo, tra noi amici, che facevano Gide, Jacob e Valéry, Eluard e Breton, Picasso e Matisse, e non quello che pensavano di noi. Perché noi amavamo la Francia più che mai, la Francia, regione della nostra memoria.

Poi, quando fu l’occasione di scegliere qualche libro francese da tradurre, mi venne facile proporre un libro di Apollinaire, tra i suoi il più raro a trovarsi perché stampato in qualche centinaio di esemplari nel 1913, per le edizioni «Athèna» (place de l’Odèon 3, Paris).
Questo saggio è la più importante, la più sensibile, e quindi la più storica introduzione alla conoscenza del cubismo e all’intelligenza d’un periodo tanto ricco di significati plastici, concluso ormai dall’opera di Picasso e di Braque; con tali e tanti apporti non solo ai fatti della pittura contemporanea, ma alla sensibilità di poeti, musicisti e architetti che vi hanno scoperto i modi più puri della modernità. Né saranno gli scolaretti eruditi, gli imitatori sperticati che ancora oggi producono opere cubiste e postcubiste, o i soliti detrattori, ad annullare la storicità del cubismo, a imbrattarlo di polemiche o a restringerne il significato. Peggio per quei giovani artisti che volessero chiedere al cubismo e ai cubisti un facilissimo modo per evadere dai problemi eterni dell’arte, una saccenteria di gusto o di intellettualismo, da cui un artista d’oggi deve ripugnare se non vuole essere il prodotto spurio d’un movimento artistico che ha distrutto e ricostruito tutto quanto era da distruggere e ricostruire.
Dopo gli scritti d’arte di Baudelaire e di Laforgue, le «Méditations esthétiques» sono da considerare fra quei pochi capolavori critici che l’arte ha ispirato ai poeti. La poesia di Apollinaire, classica allo stesso titolo della poesia di Rimbaud, Verlaine e Mallarmé («fu il poeta più profondamente classico che onori di sé il primo quarto del nostro secolo... fu uno dei precursori più illuminati del tempo nuovo» ha scritto Savinio) nasce parallelamente alle inquietudini delle arti plastiche, in quel periodo che va dal 1906 al 1918; e ad esse porta tutto un contributo di potenza inventiva, di felice speculazione, di chiarificazioni intellettuali, che daranno carattere alle azioni, ai pensieri della modernità.
Con Apollinaire e Picasso, i due geni del cubismo, ha inizio quella fiumana d’invenzioni e di fantasie e di tentativi («Hommes de l’avenir souvenez-vous de moi - je vivais a l’époque où finissaient les rois») che mutarono faccia al mondo e il modo di vederlo, di sentirlo, di narrarlo. A opera d’essi la sensibilità moderna, intesa nel suo significato più spirituale, visionario e anche umano, e non nella moda che essa indicò e nelle follie che giustificò, ebbe una sua vera e propria estetica, vissuta e realizzata in un decennio, e da questa più tardi erediterà qualche seme il surrealismo, termine inventato da Apollinaire stesso per definire uno stato poetico.
Il cubismo e le altre tendenze da esso derivate crearono la profonda vitalità di un’epoca cui si deve, oltre tutto, la possibilità di distinguere criticamente ciò che è vivo da ciò che è morto in una società quando siano decaduti i valori della immaginazione, quanto v’è di disumano in una tradizione da quanto è durevole o caduco nello spirito dell’artista moderno: «Nous ne nous épuiserons pas a saisir le présent trop fugace et qui ne peut être pour l’artiste que le masque de la mort: la mode».
Apollinaire ha dato, in vita, gloria al doganiere Rousseau che insieme a Modigliani è il luogo celeste della pittura europea di ieri. Apollinaire amava l’erudizione e l’ironia, a lui necessarie per placare l’avidità di sapere e di creare modi di vita profondi. Apollinaire è il creatore d’uno stato moderno in poesia. Alla sua generosità noi dobbiamo mille invenzioni poetiche, tante meraviglie di grazia e di divertimento. Apollinaire andò alla guerra contro i tedeschi e ne riportò una ferita alla fronte. Quasi nulla, una stella, e di quella stella morì il giorno in cui per le strade di Parigi si festeggiava l’armistizio.
Non importa che, in queste pagine, talvolta l’entusiasmo induca Apollinaire a vedere nel futuro dell’opera di Picabia, di Metzinger, Gleizes e Léger che allora erano agli inizi, avvenimenti straordinari e definitivi che essi poi non realizzarono mai. È il poeta che attribuisce agli amici propositi geniali, possibilità d’avvenire che sono soltanto suoi. Ma basterebbero le pagine su Picasso, ove l’opera di questi, nei periodi cosidetti rosa e blu, è narrata con figurazioni e apparizioni che danno alla prosa andatura di poema. Basterebbero le pagine su Rousseau, su Seurat, sugli impressionisti.
Oggi nessuno ricorda, Apollinaire. Sui giornali francesi in cui si parla dei poeti, degli scrittori, degli artisti che hanno resistito e combattuto la barbarie, non si legge il nome di Apollinaire. Pare che nessun critico di Francia voglia rileggersi i Calligrammes. Ma c’è forse un poeta francese contemporaneo che sia maggior poeta di Apollinaire? Max Jacob avrebbe potuto dire la verità.
Vorrei pregare Alberto Savinio, che invece parla e scrive sempre di Apollinaire, grande poeta e suo grande amico, di accettare, l’omaggio di questa mia amorosa fatica.

LIBERO DE LIBERO


DELLA PITTURA

I

Le virtù plastiche: purezza, unità e verità tengono sotto i piedi la natura vinta.
Invano si tende l’arcobaleno, le stagioni fremono, le folle si lanciano verso la morte, la scienza disfa e rifà ciò che esiste, i mondi s’allontanano per sempre dalla nostra concezione, le nostre immagini volubili si ripetono o ridestano la loro incoscienza e i colori, gli odori, i rumori che seguiamo ci meravigliano, poi scompaiono dalla natura.

Questo mostro della bellezza non è eterno.
Noi sappiamo che il nostro respiro non ha avuto principio e non avrà fine, ma concepiamo innanzi tutto la creazione e la fine del mondo.
Però, troppi pittori adorano ancora le piante, le pietre, l’acqua o gli uomini.
Ci si avvezza presto alla schiavitù del mistero. E la servitù finisce per creare dolci ozi.
Si lasciano gli operai spadroneggiare sull’universo e i giardinieri hanno meno rispetto per la natura di quanto non l’abbiano gli artisti.
È tempo d’essere i padroni. La buona volontà non garantisce la vittoria.
Al di qua dell’eternità danzano le mortali forme dell’amore e il nome della natura riassume la loro maledetta disciplina.

La fiamma è il simbolo della pittura e le tre virtù plastiche fiammeggiano sfavillando.
La fiamma ha la purezza che non tollera niente d’estraneo e trasforma crudelmente in sé stessa ciò che tocca.
Essa ha una tale unità magica da far sì che, se uno riesce a dividerla, ogni lingua di fiamma è simile alla fiamma unica.
Essa ha finalmente la verità sublime della sua luce che niente può negare.

I pittori virtuosi di quest’epoca occidentale considerano la loro purezza a dispetto delle forze naturali.
Essa è l’oblio dopo lo studio. E, perché un artista puro muoia, bisognerebbe che tutti gli artisti dei secoli scorsi non fossero esistiti.
La pittura si purifica, in Occidente, con quella logica ideale che i pittori antichi hanno trasmessa ai nuovi come se dessero ad essi la vita.
Ed è tutto.
L’uno vive nelle delizie, l’altro nel dolore, gli uni sciupano l’eredità loro, gli altri diventano ricchi e altri ancora non hanno che la vita.
Ed è tutto.
Uno non può trascinarsi dietro ovunque il cadavere del proprio padre. Lo lascia in compagnia degli altri morti. E se ne ricorda, lo rimpiange, ne parla con ammirazione. E se diventa padre, non deve aspettarsi che un figlio voglia farsi in quattro per la vita del suo cadavere.
Ma i nostri piedi non si staccheranno che vanamente dal suolo che chiude i morti.

Considerare la purezza significa battezzare l’istinto, umanizzare l’arte e divinizzare la personalità.
La radice, lo stelo e il fiore del giglio mostrano il progredire della purezza sino alla fioritura simbolica.

Tutti i corpi sono uguali dinanzi alla luce e le loro modificazioni risultano da quel potere luminoso che costruisce a suo piacere.
Noi non conosciamo tutti i colori e ogni uomo ne inventa dei nuovi.
Ma il pittore deve innanzi tutto darsi lo spettacolo della sua propria divinità e i quadri che offre all’ammirazione degli uomini conferiranno ad essi la gloria d’esercitare quindi e momentaneamente la loro propria divinità.
Bisogna perciò abbracciare con un colpo d’occhio: passato, presente e avvenire.
La tela deve presentare quell’unità essenziale che sola provoca l’estasi.
Allora, niente d’effimero alletterà a caso. Noi non torneremo bruscamente indietro. Spettatori liberi non rinunceremo alla vita per la nostra curiosità. I contrabbandieri del sale delle apparenze non introdurranno con frode le nostre statue di sale dinanzi al dazio della ragione.
Noi non andremo erranti nell’avvenire ignoto che separato dall’eternità è soltanto una parola destinata a tentar l’uomo.
Noi non perderemo le nostre forze per afferrare il presente troppo fugace, che non può esser per l’artista se non la maschera della morte: la moda.

Il quadro avrà vita inevitabilmente. La visione sarà intera, completa e il suo infinito invece di sottolineare un’imperfezione, farà solamente risaltare il rapporto d’una nuova creatura a un nuovo creatore e nient’altro. Senza di che, non vi sarà unità, e i rapporti che avranno i diversi punti della tela coi differenti gusti, differenti oggetti, differenti luci, non mostreranno se non una molteplicità di sproporzioni senza armonia.
Perché, se ci può essere un numero infinito di creature che attestino ognuna il loro creatore, senza che nessuna creazione ingombri lo sviluppo di quelle che già coesistono, è impossibile concepirle in un sol tempo e la morte deriva dalla loro sovrapposizione, dalla loro rissa, dal loro amore.
Ogni divinità crea l’immagine sua: così è dei pittori. E i fotografi soltanto fabbricano riproduzioni della natura.

La purezza e l’unità non contano senza la verità che non si può paragonare alla realtà poiché sono la stessa cosa, al di là d’ogni istinto che si sforza di trattenerci nell’ordine fatale ove non siamo che degli animali.
Prima di tutto, gli artisti sono uomini che vogliono diventare disumani.
Essi cercano faticosamente le tracce della disumanità, tracce che non s’incontrano in nessun luogo della natura.
Esse sono la verità e fuor d’esse noi non conosciamo realtà alcuna.

Ma non si scoprirà mai la realtà una volta per sempre. La verità sarà sempre nuova.
Altrimenti essa non è che un sistema più miserevole della natura.
In tal caso, la deplorevole verità, più lontana, meno distinta, meno reale ogni giorno ridurrebbe la pittura allo stato di scrittura plastica semplicemente destinata a facilitare le relazioni fra persone della stessa razza.
Ai giorni nostri, si farebbe presto a inventare la macchina per riprodurre tali segni, senza conoscenza.

II

Molti pittori nuovi non dipingono che quadri ove manca un vero soggetto. E i titoli che si trovano nei cataloghi hanno allora la funzione di nomi che stanno a designare gli uomini senza caratterizzarli.
Come esistono dei Grossi che sono molto magri e dei Biondi che sono molto bruni, così ho visto tele intitolate: Solitudine, ove erano parecchi personaggi.
In questo caso, si accondiscende ancora talvolta a far uso di parole vagamente espressive come ritratto, paesaggio, natura morta; ma molti giovani pittori si servono soltanto del vocabolo generale di pittura.
Tali pittori, pur osservando ancora la natura, non la imitano più ed evitano con cura la rappresentazione di scene naturali osservate e ricostruite studiosamente.
Il verosimile non ha più importanza alcuna, perché tutto viene sacrificato dall’artista alle verità, alle necessità d’una natura superiore che egli suppone senza scoprirla. Il soggetto non conta o conta appena.
L’arte moderna respinge, generalmente, la maggior parte dei mezzi per piacere adoperati dai grandi artisti del passato.
Se il fine della pittura è sempre quello d’un tempo: piacere degli occhi, ormai si richiede all’amatore di trovarci un piacere diverso da quello che può tanto bene procurargli lo spettacolo delle cose naturali.

Ci si incammina verso un’arte assolutamente nuova, che sarà per la pittura, così come è stata guardata sino ad ora, ciò che la musica è per la letteratura.
Sarà della pittura pura, come la musica è della letteratura pura.
L’amatore di musica prova, ascoltando un concerto, una gioia d’un ordine diverso dalla gioia che prova ascoltando rumori naturali, come il mormorio d’un ruscello, il fragore d’un torrente, il fischio del vento in una foresta o le armonie del linguaggio umano basato sulla ragione e non sull’estetica.
Così i pittori nuovi procureranno ai loro ammiratori sensazioni artistiche unicamente dovute all’armonia di luci dispari.

È noto l’aneddoto d’Apelle e Protogene che si legge in Plinio.
Esso dimostra il piacere estetico che risulta solamente da quella costruzione dispari di cui parlavo.
Apelle sbarca un giorno, nell’isola di Rodi per vedere le opere di Protogene che colà dimorava. Questi era assente dal suo studio quando Apelle vi entrò. Una vecchia era là a guardia di una grande tavola preparata per esser dipinta. Apelle invece di lasciare il suo nome, tirò sulla tavola una linea così sottile che non si sarebbe potuto veder niente di più perfetto.
Al ritorno, Protogene, scorgendola, vi riconobbe la mano di Apelle e tirò su quella linea una linea di colore diverso e più sottile ancora, sicché pareva ci fossero tre linee.
Apelle tornò ancora l’indomani senza incontrare colui che cercava e la sottigliezza della linea ch’egli tracciò quel giorno fece disperare Protogene. Questo quadro fece per molto tempo l’ammirazione dei conoscitori che lo guardavano con lo stesso piacere come se, in luogo di rappresentare linee quasi invisibili, vi avessero raffigurato dei e dee.

I giovani pittori delle scuole estremiste hanno come fine segreto di far della pittura pura. È un’arte plastica totalmente nuova. Non è che agli inizi e non è ancora astratta quanto vorrebbe esserlo. La maggior parte dei nuovi pittori fanno anzi della matematica senza saperlo o senza conoscerla, ma non hanno abbandonato ancora la natura che interrogano pazientemente affinché insegni loro il cammino nella vita.
Un Picasso studia un oggetto come un chirurgo dissecca un cadavere.
L’arte della pittura pura, se riesce a svincolarsi interamente dall’antica pittura, non porterà questa, non più di quanto lo sviluppo della musica abbia portato alla scomparsa dei diversi generi letterari, non più di quanto l’agrezza del tabacco abbia sostituito il sapore degli alimenti.

III

Hanno vivamente rimproverato ai pittori nuovi le preoccupazioni geometriche. Tuttavia le figure geometriche sono l’essenziale nel disegno. La geometria, scienza che ha per oggetto lo spazio, la sua misura e i suoi rapporti, è stata in ogni tempo la regola stessa della pittura.
Sino ad oggi, le tre dimensioni della geometria euclidea bastavano alle inquietudini che il sentimento dell’infinito mette nell’animo dei grandi artisti.
I nuovi pittori non più degli antichi si son proposti d’essere geometri. Ma si può dire che la geometria sta alle arti plastiche quanto la grammatica all’arte dello scrittore. Oggigiorno gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni della geometria euclidea. I pittori sono stati indotti molto naturalmente e, diciamo, per intuito a preoccuparsi delle possibili nuove misure dello spazio che nel linguaggio degli studi moderni veniva designato nel complesso e brevemente col termine di quarta dimensione.

Così come si presenta alla mente, dal punto di vista plastico, la quarta dimensione trarrebbe origine dalle tre misure note: essa sta a rappresentare l’immensità dello spazio che si fa eterno in ogni direzione d’un determinato momento. Essa è lo spazio medesimo, la dimensione dell’infinito; è essa che assicura plasticità agli oggetti. Lui dà le proporzioni che meritano nell’opera, mentre nell’arte greca per esempio, un ritmo in certo modo meccanico rompe senza posa le proporzioni.
L’arte greca aveva della bellezza un concetto puramente umano. Assumeva l’uomo quale misura della perfezione. L’arte dei pittori nuovi prende l’universo infinito come ideale e a questo ideale si deve una misura nuova della perfezione che permette al pittore di assegnare all’oggetto proporzioni conformi al grado di plasticità cui egli desidera condurlo.
Nietzsche aveva presentito la possibilità d’un’arte tale.
«O Dioniso divino, perché mi tiri le orecchie?» chiede Arianna al suo filosofico amante in un celebre dialogo sull’Isola di Nasso. «C’è qualcosa di piacevole e di divertente nelle tue orecchie. Arianna: perché non sono ancora più lunghe?».
Nietzsche, nel riportare l’aneddoto, fa per bocca di Dioniso il processo all’arte greca.
Si aggiunga che tale fantasia: la quarta dimensione non è stato che il manifestarsi di aspirazioni, d’inquietudini d’un gran numero di giovani artisti che guardano alle sculture egizie, negre e oceaniche e meditano opere di scienza, sperando in un’arte sublime; e oggi non si attribuisce più a questa espressione utopistica, che andava notata e spiegata, se non un interesse per così dire storico.

IV

Volendo cogliere le proporzioni dell’ideale, non limitandosi all’umanità, i giovani pittori ci presentano opere più cerebrali che sensuali. S’allontanano sempre più dall’antica arte delle illusioni ottiche e delle proporzioni locali per esprimerò la grandezza delle forme metafisiche. Perciò l’arte attuale, pur non essendo emanazione diretta di determinate credenze religiose, presenta tuttavia molti caratteri della grande arte, cioè dell’Arte religiosa.

V

I grandi poeti e i grandi artisti hanno la funzione sociale di rinnovare senza posa l’apparenza che riveste la natura agli occhi dell’uomo.
Senza i poeti e senza gli artisti, gli uomini si annoierebbero presto della monotonia naturale. L’idea sublime che essi hanno dell’universo crollerebbe con rapidità vertiginosa. L’ordine, che appare nella natura e che è soltanto un effetto dell’arte, svanirebbe invece immediatamente. Tutto si scioglierebbe nel caos. Più stagioni, più civiltà, più pensiero, più umanità, più vita anche e l’impotente oscurità regnerebbe per sempre.
I poeti e gli artisti determinano d’accordo il volto della loro epoca e docilmente l’avvenire si dispone secondo il parer loro.
La struttura generale d’una mummia egiziana è conforme alle figure disegnate dagli artisti egizi e tuttavia gli antichi Egizi erano assai diversi gli uni dagli altri. Essi si sono conformati all’arte dell’epoca loro.
È proprio dell’arte, suo ruolo sociale, creare questa illusione: il tipo. Dio sa quanti si son burlati dei quadri di Manet e di Renoir! Ebbene! Basta gettare uno sguardo alle fotografie dell’epoca per accorgersi della conformità di persone e cose ai quadri dipinti da quei grandi pittori.
Una tale illusione mi sembra assolutamente naturale, poiché le opere d’arte sono quanto di più energico produca un’epoca dal punto di vista plastico. Questa energia s’impone agli uomini ed è per essi la misura plastica d’un’epoca. Perciò coloro che si burlano dei nuovi pittori, si burlano della propria faccia, perché l’umanità dell’avvenire si rappresenterà l’umanità d’oggi secondo le rappresentazioni che gli artisti dell’arte più viva, cioè più nuova, avranno lasciato d’essa. Non venite a dirmi che ci sono oggi altri pittori che dipingono in modo tale che l’umanità ci si possa riconoscere dipinta a immagine sua. Tutte le opere d’arte d’un’epoca finiscono per somigliare all’opera d’arte più energica, più espressiva, più tipica. Le bambole hanno origine dall’arte popolare; sembrano sempre ispirate alle opere della grande arte della stessa epoca. È una verità facilmente controllabile. E tuttavia chi oserebbe dire che le bambole vendute nei bazar verso il 1880 furono fabbricate con un sentimento uguale a quello di Renoir quando dipingeva i suoi ritratti? Allora nessuno se ne accorgeva. Ciò significa intanto che l’arte di Renoir era abbastanza energica, abbastanza viva per imporsi ai nostri sensi mentre al gran pubblico dell’epoca in cui egli esordiva le sue concezioni apparivano come tante assurdità e follie.

VI

Talvolta si è considerato, specie a proposito, dei pittori più recenti, la possibilità d’una mistificazione o d’un errore collettivo.
Ora non si conosce in tutta la storia delle arti una sola mistificazione collettiva, non più d’un errore artistico collettivo. Ci sono casi isolati di mistificazione e d’errore, ma gli elementi convenzionali di cui si compongono in gran parte le opere d’arte ci garantiscono che di casi tali non potrebbero essercene di collettivi.
Se la nuova scuola di pittura ci presentasse uno di tali casi, l’avvenimento sarebbe talmente straordinario da doverlo chiamare un miracolo. Concepire un caso di tal specie significherebbe concepire che bruscamente, in una nazione, tutti i bambini nascessero privi di testa o d’una gamba o d’un braccio, concezione evidentemente assurda. Non ci sono errori né mistificazioni collettive in arte, ci sono solamente differenti epoche e differenti scuole d’arte. Per quanto il fine che si propone ognuna d’esse non sia ugualmente alto, ugualmente puro, tuttavia sono ugualmente rispettabili tutte, e, a seconda delle idee che uno si fa della bellezza, ogni scuola artistica è di volta in volta ammirata, disprezzata e di nuovo ammirata.

VII

La nuova scuola di pittura porta il nome di cubismo, che le fu dato per ridere nell’autunno del 1908 da Henri Matisse che aveva visto un quadro ove figuravano case la cui apparenza cubica lo colpì vivamente.
Tale estetica nuova fu elaborata anzitutto dalla mente di André Derain, ma le opere più importanti e più audaci che essa produsse si debbono a un grande artista che va considerato perciò come un fondatore: Pablo Picasso le cui invenzioni avvalorate dal buon senso di Georges Braque che espose, sin dal 1908, un quadro cubista al «Salon des Indépendents», trovarono la loro formula negli studi di Jean Metzinger che espose il primo ritratto cubista (il mio) al «Salon des Indépendents» nel 1910 e fece accettare quindi, lo stesso anno, alcune opere cubiste dalla giuria del «Salon d’Automne». Anche nel 1910 furono esposte presso gli «Indépendents» quadri di Robert Delaunay, di Marie Laurencin, di Le Fauconnier, che uscivano dalla stessa scuola.
La prima esposizione complessiva del cubismo, i cui allievi si facevano sempre più numerosi, ebbe luogo nel 1911 agli «Indépendents», ove la sala 41 riservata ai cubisti produsse una grande impressione. C’erano opere abili e seducenti di Jean Metzinger; paesaggi, l’uomo nudo e la donna coi flocs di Albert Gleizes; il ritratto della signora Fernanda X... e Fanciulle di Marie Laurencin; La Torre di Robert Delaunay, l’Abbondanza di Le Fauconnier, i Nudi in un paesaggio di Fernand Léger.
La prima manifestazione dei cubisti all’estero fu tenuta a Brusselle, lo stesso anno, e nella prefazione a quella mostra io accettai, a nome degli espositori, le denominazioni: cubismo e cubisti.
Alla fine del 1911, la mostra dei cubisti al «Salon d’Automne» fece uno scalpore considerevole, non furono risparmiati motteggi né a Gleizes (La caccia, Ritratto di Jacques Nayral) né a Metzinger (La donna col cucchiaio) né a Fernand Léger. A questi artisti s’era unito un pittore nuovo, Marcel Duchamp e uno scultore architetto, Duchamp-Villon.
Altre esposizioni collettive ebbero luogo nel novembre del 1911 alla «Galérie d’Art Contemporain», in rue Tronchet a Parigi; nel 1812, al «Salon des Indépendents» ove fu notata l’adesione di Juan Gris; nel mese di maggio, in Spagna, ove Barcellona accoglie con entusiasmo i giovani Francesi; infine nel mese di giugno, a Rouen, mostra organizzata dalla Società degli Artisti normanni ove fu notata l’adesione di Francis Picabia alla nuova scuola. (Nota scritta nel settembre del 1912).
La differenza tra il cubismo e la antica pittura sta in questo: che esso non è un’arte d’imitazione, ma un’arte di concetto che tende ad innalzarsi sino alla creazione.
Nel rappresentare la realtà concepita o la realtà creata, il pittore può dare l’apparenza di tre dimensioni, può in certo modo far cubico. Ciò non gli riuscirebbe se volesse rendere semplicemente la realtà vista, che lo porterebbe a far degli «inganni» di scorcio o in prospettiva deformando così la qualità della forma concepita o creata.
Quattro tendenze si sono frattanto manifestate in seno al cubismo così come io l’ho diviso. Di cui due tendenze sono parallele e pure.
Il cubismo scientifico è una delle tendenze pure. È l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi non dalla realtà di visione ma dalla realtà di conoscenza.
Ogni uomo ha il sentimento di tale realtà ulteriore. Non c’è bisogno d’essere un uomo colto per concepire, ad esempio, una forma rotonda.
L’oggetto geometrico che colpiva così fortemente coloro che vedevano le prime tele scientifiche nasceva dal fatto che la realtà essenziale ivi era resa con una grande purezza e che l’accidente visuale e aneddotico ne restava escluso.
I pittori usciti da tale arte sono: Picasso la cui arte luminosa appartiene anche all’altra tendenza pura del cubismo, e Georges Braque, Metzinger, Albert Gleizes, Marie Laurencin e Juan Gris.
Il cubismo fisico è l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi la maggior parte dalla realtà di visione. Ma tale arte sfociò intanto nel cubismo mediante la disciplina costruttiva. Esso ha un grande avvenire come pittura di storia. La sua funzione sociale è ben definita, ma non è più un’arte pura. Vi si confonde il soggetto con le immagini.
Il pittore fisico che ha creato tale tendenza è Le Fauconnier.
Il cubismo orfico è l’altra grande tendenza della pittura moderna. È l’arte di dipingere complessi nuovi con elementi presi non dalla realtà visuale ma totalmente creati dall’artista e da lui investiti d’una realtà potente. Le opere degli artisti orfici debbono presentare simultaneamente un piacere estetico puro, una costruzione che afferra i sensi e un significato sublime, cioè il soggetto. È arte pura. La luce nelle opere di Picasso racchiude quest’arte che è inventata a sua volta da Robert Delaunay e nella quale si adoperano anche Fernand Léger, Francis Picabia e Marcel Duchamp.
Il cubismo istintivo, arte di dipingere complessi nuovi presi non dalla realtà visuale, ma da quella che suggeriscono all’artista l’istinto e l’intuito, tende da molto tempo all’orfismo. Gli artisti istintivi difettono di lucidità e d’una fede artistica; il cubismo istintivo comprende un gran numero d’artisti. Originato dall’impressionismo francese, questo movimento va diffondendosi ora in tutta Europa.

Gli ultimi dipinti di Cézanne e i suoi acquarelli sfociano nel cubismo, ma Courbet è il padre dei nuovi pittori e André Derain, sul quale un giorno tornerò, fu il maggiore dei suoi figli prediletti, perché lo troviamo all’origine del movimento dei Fauves che fu una specie di preambolo al cubismo e quindi all’origine di questo grande movimento soggettivo, ma oggi sarebbe troppo difficile scrivere con precisione d’un uomo che volontariamente si tiene in disparte da tutto e da tutti.

La scuola moderna di pittura mi sembra la più audace che vi sia mai stata. Essa ha posto la questione del bello in sé.
Essa vuole immaginare il bello fuori dal piacere che l’uomo procura all’uomo, e sin dagli inizi dei tempi storici nessun artista europeo aveva osato ciò. Gli artisti nuovi han bisogno d’una bellezza ideale che non sia più soltanto espressione orgogliosa della specie, ma espressione dell’universo, nella misura in cui esso s’è umanizzato nella luce.
L’arte d’oggi investe le sue creazioni d’un’apparenza grandiosa, monumentale che supera a tal riguardo tutto ciò ch’era stato concepito dagli artisti dell’età nostra. Piena d’ardore nella ricerca della bellezza, essa è nobile, energica e la realtà che ci offre è meravigliosamente chiara.
Io amo l’arte d’oggi perché amo anzitutto la luce, e tutti gli nomini amano anzitutto la luce. Sono essi che hanno inventato il fuoco.

PITTORI NUOVI
PICASSO

Se noi sapessimo, gli dei tutti si desterebbero. Nati dalla conoscenza profonda che l’umanità serbava di se stessa, i panteismi adorati che le rassomigliavano si sono assopiti. Ma nonostante i sonni eterni, ci sono occhi in cui si riflettono umanità simili a fantasmi divini e gioiosi.
Questi occhi sono attenti come fiori che vogliono sempre contemplare il sole. O gioia feconda, ci sono uomini che vedono con tali occhi.

A quei tempi Picasso aveva rivolto lo sguardo a immagini umane che fluttuavano nell’azzurro delle nostre memorie ed erano partecipi della divinità per mandare all’inferno i metafisici. Quanto son pii i suoi cieli frementi di voli, le sue luci gravi e basse come quelle delle grotte.
Ci sono fanciulli che sono andati errando senza imparare il catechismo. Essi si fermano e la pioggia finisce di cadere: « Guarda! Quante persone in quelle case e le vesti loro sono povere ». Questi fanciulli che uno non bacia comprendono tanto! Mamma, amami molto! Essi sanno far salti e i giucchi in cui riescono sono evoluzioni mentali.
Queste donne che uno non ama più ricordano. Esse hanno troppo stirato oggi le loro idee taglienti. Non pregano; sono devote ai ricordi. Si rannicchiano nel crepuscolo come in una antica chiesa Queste donne rinunciano e le dita loro si muoverebbero per intrecciar corone di paglia. Con la luce esse scompaiono, si sono consolate nel silenzio. Hanno traversato molte porte: le madri proteggevano le culle perché i neonati non avessero cattive doti; quando esse si chinavano i bimbi sorridevano nel saperle così buone.
Hanno spesso ringraziato e i gesti del loro avambraccio tremavano come le palpebre loro.
Avviluppati di gelida nebbia, dei vecchi attendono senza meditare, perché i fanciulli soli meditano. Animati di paesi lontani, di bisticci animali, di capigliature indurite, questi vecchi possono mendicare senza umiltà.
Altri mendicanti si sono consumati a vivere. Sono infermi con le grucce e bricconi. Si meravigliano d’aver raggiunto il traguardo che è rimasto blu e non è più l’orizzonte. Invecchiando son diventati folli come re che avessero troppi greggi d’elefanti con piccole cittadelle in groppa. Ci sono viaggiatori che confondono fiori e stelle.
Invecchiati come buoi muoiono verso i venticinque anni, i giovani hanno guidato bimbi in fasce allattati con la luna.
In una luce pura, donne stanno silenziose, i loro corpi sono angelici e i loro sguardi tremano.
Per il pericolo i sorrisi loro sono interiori. Esse attendono lo spavento per confessare peccati innocenti.

Per lo spazio d’un anno Picasso visse questa pittura umida, blu come il fondo dell’abisso e pietosa.
La pietà fece Picasso più aspro. Le piazze sopportarono un impiccato che s’allungava contro le case al di sopra dei passanti obliqui. Questi suppliziati attendevano un redentore. La corda strapiombava miracolosa sugli abbaini; i vetri fiammeggiavano coi fiori delle finestre.
Nelle stanze, poveri pittori disegnavano a lume di lampada nudità vellose. L’abbandono di scarpe di donna presso il letto significava una tenera fretta.

Venne la calma dopo una tale frenesia.
Gli arlecchini vivono sotto gli orpelli quando la pittura raccoglie, riscalda o imbianca i suoi colori per dir la forza e la durata delle passioni, quando le linee limitate dalle maglie si curvano, si spezzano o si slanciano.
La paternità trasfigura l’arlecchino in una stanza quadrata mentre la moglie si bagna nell’acqua fredda e s’ammira svelta e gracile quanto il marito burattino. Un focolare vicino fa tepido il carrozzone. Belle canzoni s’intrecciano e soldati passano altrove maledicendo alla giornata.
L’amore è buono quando uno lo abbellisce e l’abitudine di vivere in casa propria raddoppia il sentimento paterno. Il figlio ravvicina al padre la moglie che Picasso vuole gloriosa e immacolata.
Le madri, primaiole, non attendevano più il figlio, forse per certi corvi ciarlieri e di cattivo augurio.
Natale! Esse partorirono futuri acrobati fra le scimmie familiari, i cavalli bianchi e i cani come orsi.
Le sorelle adolescenti, sospingendo in equilibrio le grosse palle dei saltimbanchi, comandano a queste sfere il movimento che irraggia dai mondi. Queste adolescenti, da impuberi, hanno le inquietudini dell’innocenza, gli animali insegnano ad esse il mistero religioso. Arlecchini accompagnano la gloria delle donne, rassomigliano ad esse né maschi né femmine.
Il colore ha delle appannature di affresco, le linee sono vigorose. Ma posti al limite della vita, gli animali sono umani e i sessi indecisi.
Bestie ibride hanno la coscienza di semidei d’Egitto; arlecchini taciturni hanno le guance e la fronte avvizzite da sensibilità morbose.
Non si possono confondere questi saltimbanchi con gli istrioni. Lo spettatore deve esser pietoso perché essi celebrano riti silenziosi con un’agilità difficile. Proprio ciò distingueva questo pittore dai vasi greci, cui talvolta il suo disegno si ravvicinava. Sulle crete dipinte preti barbuti e chiacchieroni offrivano in sacrificio animali rassegnati e senza destino. Qui la virilità è imberbe, ma si manifesta nelle nervature delle braccia magre; spianature di volto e gli animali sono misteriosi.
Il gusto di Picasso per la linea sfuggente, mutevole e penetrante ha prodotto esempi quasi unici di puntasecche lineari in cui non ha alterato gli aspetti generali del mondo.

Questo Malaghese ci lasciava i lividi come un gelo rapido. Le sue meditazioni si denudavano nel silenzio. Egli veniva da lontano, dalle ricchezze compositive e dalla decorazione brutale degli Spagnoli del diciassettesimo secolo.
E coloro che l’avevano conosciuto ricordavano truculenze violente che non erano già più delle prove.
La sua insistenza nell’inseguire la bellezza ha mutato tutto allora nell’Arte.
Allora, con severità, egli ha interrogato l’Universo. S’è abituato all’immensa luce delle profondità. E, talvolta, non ha sdegnato affidare alla luce oggetti autentici, una canzone da due soldi, un francobollo vero, un pezzo di tela cerata su cui è impressa la scannellatura d’una sedia. L’arte del pittore non aggiungerebbe nessun elemento pittoresco alla verità di quegli oggetti.
La sorpresa ride selvaggiamente nella purezza della luce e con legittimità cifre, lettere modellate appaiono come elementi pittoreschi nuovi nell’arte, e da lungo tempo già impregnati d’umanità.

Non è possibile indovinare le possibilità, né tutte le tendenze di un’arte così profonda e minuziosa.
L’oggetto reale a mo’ d’inganno è chiamato senza dubbio ad avere una parte sempre più importante. È la cornice interna del quadro e ne segna i limiti profondi, allo stesso modo che la cornice ne segna i limiti esteriori.

Imitando i piani per rappresentare i volumi, Picasso presenta dei diversi elementi che compongono gli oggetti una enumerazione così completa e acuta che essi non assumono l’aspetto di oggetto in virtù della fatica degli spettatori che, per forza, ne scoprono la simultaneità, ma in ragione proprio della loro disposizione.
Quest’arte è forse più profonda che alta? Essa non può fare a meno dell’osservazione della natura e agisce su noi familiarmente quanto lei stessa.

Ci sono poeti cui una musa detta le opere loro, ci sono artisti la cui mano è guidata da un essere sconosciuto che si serve d’essi come d’uno strumento. Per essi nessuna fatica, perché non lavorano e possono produrre molto, a tutte l’ore, tutti i giorni, in ogni paese e in ogni stagione, non si tratta d’uomini, ma di strumenti poetici o artistici. La ragione loro è senza forza contro se stessi, essi non lottano e le opere loro non serbano tracce di lotta. Essi non sono divini e possono fare a meno di se stessi. Sono come un prolungamento della natura e le opere loro non passano per l’intelligenza. Possono essere commoventi senza che le armonie da essi suscitate si siano umanizzate. Altri poeti, altri artisti invece stanno lì a sforzarsi, vanno incontro alla natura e non hanno con lei nessuna vicinanza immediata, debbono tirar fuori ogni cosa da se stessi e nessun demone, nessuna musa li ispira. Essi abitano nella solitudine e nulla viene espresso se non quello che essi hanno da se stessi balbettato, balbettato così spesso che arrivano talvolta di sforzo in sforzo, di tentativo in tentativo a formulare quello che desiderano formulare. Uomini creati a immagine di Dio, si riposeranno un giorno per ammirare l’opera loro. Ma quante fatiche, imperfezioni e grossolanità?

Picasso era un’artista come i primi. Non c’è stato mai spettacolo così fantastico come la metamorfosi che lui ha subita nel diventare un artista come i secondi.

Per Picasso l’idea di morire si formò mentre guardava le sopracciglia circonflesse del suo migliore amico che cavalcavano insieme nell’inquietudine. Un altro amico suo lo condusse un giorno ai confini d’un paese mistico ove gli abitanti erano nello stesso tempo così semplici e grotteschi che uno poteva rifarli con facilità.
Eppoi davvero, l’anatomia, per esempio, non esisteva più nell’arte, bisognava reinventarla ed eseguirne l’assassinio con la scienza e il metodo d’un grande chirurgo.

La grande rivoluzione delle arti che lui ha condotto a termine quasi da solo, sta nel fatto che il mondo è la sua rappresentazione nuova.
Enorme fiamma.
Uomo nuovo, il mondo è la sua rappresentazione nuova. Egli ne enumera gli elementi, i particolari con una brutalità che sa essere anche graziosa. È un neonato che mette ordine nell’universo per uso personale, e anche allo scopo di facilitare i suoi rapporti coi propri simili. Tale enumerazione ha la grandezza dell’epopea, e, con l’ordine, scoppierà il dramma. Si può contestare un sistema, un’idea, una data, una somiglianza, ma non vedo come si potrebbe contestare la semplice azione del numeratore. Dal punto di vista plastico, si può pensare che noi avremmo potuto fare a meno di tanta verità, ma una volta apparsa questa verità diventa necessaria. Eppoi, ci sono paesi. Una grotta in una foresta ove si facevano capriole, un passaggio a dorso di mulo sul bordo d’un precipizio e l’arrivo in un villaggio ove ogni cosa odora d’olio caldo e di vino rancido. È ancora la passeggiata verso un cimitero e l’acquisto d’una corona di maiolica (corona d’immortali) e la menzione Mille Condoglianze che è inimitabile. M’hanno parlato anche di candelabri in argilla che bisognava apporre sopra una tela perché sembrassero uscirne. Pendenti di cristallo, e quel famoso ritorno da Havre.
Per me, non ho paura dell’Arte e non ho pregiudizio alcuno riguardo alla materia dei pittori.
I mosaicisti dipingono con marmi o con pezzi di legno colorati. Viene citato un pittore italiano che dipingeva con materie fecali; ai tempi della Rivoluzione francese qualcuno dipinse col sangue. Si può dipingere con quello che si vuole, con pipe, francobolli, cartoline postali o carte da giuoco, candelabri, pezzi di tela cerata, colletti, carta dipinta, giornali.
Per me, mi basta vedere il lavoro, bisogna ch’io veda il lavoro; proprio dalla quantità di lavoro data dall’artista si misura il valore d’un opera d’arte.
Contrasti delicati, linee parallele, un mestiere d’operaio; talvolta l’oggetto medesimo, talvolta un’indicazione, tal’altra ancora un’enumerazione che s’individualizza; meno dolcezza che grossolanità. Non si sceglie nel moderno, così non si accetta la moda senza discuterla.

Pittura... Un’arte sorprendente, dove la luce è senza limiti.


Calligrammes (1918)

Apollinaire ferito, disegno di Picasso (1916)
in Calligrammes (1918)

Pablo Picasso, di Apollinaire (1917)
bozza di stampa con le correzioni dell'autore

Pablo Picasso, di Apollinaire (1917)

Guillaume Apollinaire a casa di Picasso (1910)
11, boulevard de Clichy

Georges Braque nel suo studio (1910)
101, rue Caulaincourt

Juan Gris e sua moglie al Bateau-Lavoir (1914)
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