Su Google ho digitato “picasso guernica no, l’avete fatto voi”
e una tonnellata di imbecillità si è riversata sul mio monitor. Tutti a
scrivere di tutto, copiando dai copiatori dei copiatori - e mai nessuno che
legga un documento o uno scritto originale.
Per la precisione qui mi riferisco alla celeberrima risposta
che Pablo Picasso avrebbe dato a un ufficiale tedesco di fronte al quadro Guernica: “questo l’ha
fatto lei? No, l’avete fatto voi!” - domanda e risposta da me recentemente ascoltata in televisione per bocca di Philippe Daverio nell’ennesima riproposizione di Passepartout, dunque panzana resa verità.
Tutto inizia nell’anno 1941. Parigi è occupata dalle truppe naziste,
posti di controllo sono allestiti in ogni angolo di strada. Per ridurre ogni possibile pericolo, Picasso decide di chiudere la casa-studio di rue La Boétie e
di trasferirsi nei due piani d’una vecchia casa del Settecento affittata al numero
7 di rue des Grands-Augustins, allora chiamata il “granaio Barrault” dal nome
del vecchio inquilino. Il caso vuole che proprio tra quelle mura Balzac abbia
immaginato l’ambiente del suo Chef-d’œuvre inconnu,
ma di questo ho già raccontato altrove.
Integro con quanto Jean Cocteau ha scritto nel suo Diario (1942-1945), Éditions Gallimard 1989,
Mursia 1993, pp. 28 e 29:
Lunedì 23 marzo [1942]. Pranzo con Picasso e Dora. Dopo il pranzo,
in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio
svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento
che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi
che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi,
andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa
dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato
delle soffitte le une sulle altre, le une vicine alle altre, con angolini e
scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale
- abitato dai mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste
di bronzo, tele, oggetti di legno e di latta. Picasso si è anche ricordato di
avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La
Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve
valere parecchi milioni.
Aggiunge qualche giorno
dopo: Giovedì 26 marzo. […] Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si
vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono
Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina nera è ora la Camera sindacale
degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.
*
* *
Come la Storia insegna, senza ragione alcuna (se non per
mettere a punto la strategia d’attacco aereo da utilizzare nella programmata
occupazione tedesca dell’Europa, meglio nota come Seconda guerra mondiale) il 26
aprile 1937 la cittadina basca di Guernica viene distrutta dai bombardieri
tedeschi, la popolazione deliberatamente massacrata - e perché non si dimentichi, aggiungo che i bombardamenti sulle città (la guerra psicologica) è stata
“pensata” da Giulio Douhet, generale Italiano. Le prove furono fatte in Africa nella guerra del 1935
(bombardamenti su villaggi con armi chimiche) e poi in Europa, durante la guerra civile spagnola. Oggi a
Douhet é dedicata la scuola dei cadetti a Firenze.
Scrive lo
storico Giorgio Bonaccina, Le bombe
dell’apocalisse, Fratelli Fabbri editori, Milano 1972, pag. 101 in poi:
È stato detto che nei paraggi di
Guernica c’era un ponte che bisognava distruggere. Frottole, nel modo più
assoluto: i ponti si attaccano (se si può, e la Legione Condor lo poteva) con i
bombardieri in picchiata, in ogni caso le caratteristiche selvagge
dell’incursione dimostrano di per se stesse che il bersaglio non era affatto il
ponte. È stato detto anche che Guernica era un centro di ferventi repubblicani
e che aveva remotissime tradizioni di libertà. E questo è vero, ma a Sperrle
non importava assolutamente nulla del livore dei falangisti per Guernica. Egli
scelse Guernica solo perché si addiceva topograficamente al suo scopo di pura
distruzione: un agglomerato non troppo vasto di case, separate da vie strette e
tortuose in centro, un po’ più sparso ‑ ma non troppo ‑ in periferia.
La barbarica aggressione della
Legione Condor ebbe luogo il 26 aprile 1937. Un lunedì, giorno di mercato. Alla
popolazione abituale s’erano aggiunti 3 o 4 000 agricoltori dei dintorni che
portavano alla fiera il bestiame, l’olio e il vino. Le strade erano
affollatissime, il sole splendeva alto, i ragazzi giocavano a pelota lanciando
la palla contro le fiancate della Cattedrale. Dapprima, in qualità di
ricognitori, comparvero su Guernica due caccia Heinkel 51. Alle 16.30 in punto
ne arrivarono in formazione una trentina, che si gettarono in picchiata e
mitragliarono all’impazzata. I corpi di un centinaio di uomini, donne, bambini
s’ammucchiarono uno sull’altro. Buoi e cavalli, folli di terrore, fuggirono per
ogni dove calpestando i feriti. Passò un’ora. Sulla città già sconvolta
comparvero 20 Heinkel 111 da bombardamento in quota, muniti di bombe da 100 e
da 250 chilogrammi. Sganciarono “a salvo”, cioè contemporaneamente. La piccola
Guernica sembrò spazzata via. Passò un’altra ora e gli Heinkel 111 tornarono,
lanciando pressappoco 10.000 spezzoni incendiari. Alle sette e mezzo di sera
non rimasero che cumuli informi di rovine annerite, su un fondale di fuoco.
A Guernica ‑ letteralmente
assassinate ‑ morirono 1654 persone. I feriti e i mutilati furono 889. La
propaganda nazista cercò di far credere che Guernica era stata distrutta dai
“dinamiteros” delle Asturie, ma nel 1939 lo stesso Sperrle si vantò in pubblico
di averla personalmente condannata. E Göring, prima di suicidarsi a Norimberga
nel 1946, dichiarerà ai giudici delle Nazioni Unite: “Guernica fu per la
Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un luogo più adatto per far
compiere un test ai nostri bombardieri”.
La notizia della strage degli innocenti arriva a Parigi due
giorni dopo, il 28 aprile. Picasso, che ha ricevuto l’incarico di realizzare un’opera
per il padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi scarta
ogni precedente lavoro e riprendendo alcuni suoi vecchi studi (sono i
lavori del 1933 sul tema Minotauro
che preparano il terreno a Guernica) già
il primo maggio realizza cinque schizzi preparatori per una tela che vuole di
grandi dimensioni - 349,3 x 777,6 mm secondo il MOMA di New York, 351 x 782 mm per
altri - su cui raccontare a modo suo l’orrore per quel massacro.
All’apertura, a giugno, il ricordo della tragedia di Guernica
non piace ai politicanti filotedeschi - non solo francesi - e di conseguenza
non può piacere ai leccaculo attivi nel settore della carta stampata. Il gelo
cade su quella tela: meglio ignorarla (la porta dell’oblio) e deviare
l’attenzione altrove.
Chiusa l’Esposizione di Parigi per gli amici dei criminali
tedeschi l’incubo finisce - o meglio, come Roma antica insegna: quando hai un
problema interno, esportalo. E così è per Guernica,
che con grande sollievo dei politicanti francesi e spagnoli prende la via
dell’esilio. Nel 1938 è a Londra, ma qui tira tutt’altra aria e per Guernica è un vero trionfo, tanto che i
rappresentanti dei lavoratori ottengono che l’opera sia esposta nel quartiere
operaio di Whitechapel, a Leeds e a Liverpool prima di essere imbarcata sulla
nave che la porterà a New York dove rimarrà, per volere di Picasso, fino al giorno in cui “le libertà pubbliche della Spagna saranno ristabilite”.
*
* *
Già da quanto fin qui raccontato si deduce che nel 1941
nessun “ufficiale tedesco” può aver posto a Picasso quella domanda - in tutte
le fantasiose varianti leggibili in rete e sui libri di storielle - visto che da
tre anni la tela era custodita tra le mura del MOMA di New York.
Quanto alla celebrata botta e risposta mi affido a quanto scritto da tre importanti biografi di Picasso (e la
Vallentin, esperta d’arte, scriveva praticamente sotto gli occhi del pittore,
di cui era amica). Ecco le loro versioni, in ordine cronologico:
Antonina
VALLENTIN, Pablo Picasso
Éditions
Albin Michel, Paris 1961
Edizione
italiana: Storia di Picasso
Traduzione
di Renzo Federici
Giulio
Einaudi editore 1961
pp.
362-63
Ma gli amici che, diretti da Albert Camus, fanno la lettura
dialogata della commedia di Picasso sono quelli che, come lui, attendono l’ora
della libertà e si riuniscono per sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de
Beauvoir, Raymond Queneau, Dora Maar, George e Germaine Hugnet, Jacquest
Laurent Bost. L’amicizia è stata il mezzo migliore per sopravvivere in questi
anni neri, fluiti con un’opprimente lentezza che ora è quasi impossibile
immaginare. A tutti coloro che li hanno passati a Parigi o altrove, fuori della
loro vita abituale, gli anni dell’occupazione sembravano snodarsi secondo un ritmo
tutto particolare, come se gli orologi procedessero col rallentatore. Le
speranze si logoravano. Spesso questo logorio spingeva anche i meno arditi all’azione
o incitava gli altri a patteggiare col nemico.
Picasso era nello stesso tempo protetto dalla sua celebrità e
particolarmente esposto proprio a causa di essa. In tutta la Francia occupata
circolava la voce che Otto Abetz in persona, già professore di disegno e
ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo
che c’era nel suo studio, gli avesse proposto di fargli avere del carbone,
offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si raccontava anche che, davanti alla
fotografia di Guernica, Abetz si era
fermato e aveva chiesto: «Oh, signor Picasso, l’avete fatto voi
questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No, voi!»
La Francia occupata
cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della
clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a
Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera,
press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con
la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la
riproduzione di Guernica e dicevo: - Tenetele, ricordo! Ricordo!»
Automaticamente sospettato, Picasso è anche il bersaglio degli invidiosi.
Circola insistente la voce che è ebreo o almeno mezzo ebreo. Quando lo
interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per quanto ne sa, non ha
sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto averne».
Patrick O’BRIAN
Pablo
Ruiz Picasso. A Biography,
1976
Edizione italiana: Picasso
Traduzione dall’originale inglese di
Paola Merla
Longanesi & C. 1989
pp. 414-15
Fu nell’estate che
seguì L’Aubade che i tedeschi e la polizia francese
rastrellarono Parigi, arrestando nei mesi di luglio e di agosto del 1942
migliaia di ebrei. Cominciarono allora le grandi deportazioni: treni carichi di
résistants, di comunisti, di ebrei,
di sospetti provenienti da tutto il paese, molti dei quali vittime di
delazioni, attraversarono la Francia diretti a Buchenwald, Auschwitz, Dachau,
Mauthausen. La fucilazione degli ostaggi era cominciata da tempo, ma ora,
appena fuori Parigi, i nazisti ne uccisero duecento nei soli mesi di agosto e
settembre. Furono i giorni delle delazioni, quando per una semplice telefonata
o una lettera anonima la Gestapo bussava alla porta a notte fonda; furono i
giorni in cui i tedeschi vennero più volte in Rue des Grands-Augustins a
chiedere di Lipchitz (naturalmente non c’era: era in America, come essi
sapevano perfettamente) e a informarsi se Picasso fosse ebreo, perquisendo lo
studio. Non so se, a parte il bronzo, ci fosse qualcosa di illecito da
scoprire, ma se c’era non fu trovato; può darsi che il disperato disordine di
Picasso abbia scoraggiato anche i più zelanti poliziotti tedeschi. Costoro si
comportarono «correttamente» con Picasso, il quale da parte sua fece in modo di
avere sempre i documenti perfettamente in regola, in modo da non offrire nessun
appiglio: nel suo caso, forse per ignoranza o forse per un certo disagio
provocato dalla sua fama, la Gestapo non tentò quei ricatti che aveva adottato
con tanto successo in altri casi. Tuttavia non tutti i tedeschi venivano per
perquisire lo studio: alcuni si presentavano in veste di intermediari
semiufficiali, facendo balenare la prospettiva di privilegi, carbone, razioni supplementari,
mentre altri sostenevano di essere amanti dell’arte. Le loro lusinghe non
ebbero comunque alcun effetto, e da lui i tedeschi non ottennero mai niente se
non alcune cartoline di Guernica che
Picasso ficcò loro in mano, ripetendo: «Souvenir, souvenir». C’è l’episodio di
Abetz, l’ambasciatore tedesco, che era venuto un giorno a trovarlo con l’intenzione
di rendersi simpatico: osservando una riproduzione del grande quadro, domandò
con un sogghigno: «E così, questo l’ha fatto lei, monsieur Picasso?» «No»,
rispose Picasso, «l’avete fatto voi.» L’episodio non è vero, alla lettera, ma
era sulla bocca di tutti ed è significativo della stima di cui godeva Picasso.
Nessuno, nemmeno le lingue più velenose di un ambiente noto per le maldicenze,
lo accusarono mai della minima concessione ai Tedeschi o a Vichy.
Jacques PERRY, Yo Picasso
Éditions J.-C. Lattès, Paris 1982
pp. 327-28
Tout de suite, il faut froid. Mon énorme
poêle, qui ressemble à une sculpture maya, dévore et reste toujours sur la
faim. Des Allemands viennent me voir. L’ambassade et Jünger me proposent de me faire avoir des
bons de chauffage, des bons d’essence. Je refuse : «un Espagnol n’a jamais froid ». Très
vite, je décide de ma conduite : ne rien demander, ne rien accepter, ne
pas mettre à la porte les visiteurs allemands s’ils se présentent avec
politesse. Et je mets au point une distribution gratuite de reproductions de Guernica. Vous trouverez dans tous
les livres qui m’ont été consacrés une anecdote drôle. Un officier allemand
regarde une reproduction de Guernica
et me dit : « C’est vous qui avez fait ça ? » Je réponds : «
Non, c’est vous. » Je ne jurerais pas que cette histoire est vraie. C’est une
bonne réplique et j’en suis capable. Mon doute vient de ceci : j’adorais
inventer ce genre d’histoires en les déviant à peine du réel.
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