lunedì 30 maggio 2016

Santa Croce degli Armeni, a Venezia


Dalla fine degli anni Sessanta ad oggi, tante e tante e tante volte ho calpestato il suolo di Venezia, a volte seguendo un determinato percorso ideale (i luoghi abitati da un singolo personaggio, ad esempio), a volte determinato “a perdermi” per calli e campielli alla ricerca di angoli tranquilli, non invasi dalle masse al seguito di un ombrellino deambulante.
Vuoi di riffa o vuoi di raffa, dalla calle dei Armeni sono sempre finito per passare: la sua tenebrosità, le sue finestre sbarrate, il suo sotoportego mi attirano come e più del miele - anche, soprattutto, per via di quel nome, Armeni, così carico di tragica storia. Ed ogni volta scatto fotografie, tutte uguali nel soggetto ma tutte diverse perché è diversa la luce del giorno. Una sola, costante delusione: per me la porta della chiesa di Santa Croce degli Armeni è sempre rimasta chiusa ...e questo perché il mio passaggio non è mai coinciso con la domenica che vede un padre mechitarista arrivare dall’isola di San Lazzaro per qui celebrare l’ufficio con rito orientale.
Dai e ridai, non fosse altro per la regola dei grandi numeri, anche il gran giorno è arrivato - e neppure di domenica. Vengo al dunque: sono dalle parti di Rialto e come sempre mi è “naturale” deviare verso il rio terà delle Colonne …e qui mi fermo per tornare indietro nel tempo.




Venezia e gli Armeni sono uniti in matrimonio da secoli. Raccontare le gesta per filo e per segno nei limiti di un post è cosa ingiusta sia per la Storia (che raccontata in breve diventa una storiella) che per il lavoro di altri scrittori che a questo connubio hanno dedicato tempo e fatiche. Quindi rinvio a questi ultimi, suggerendo due libri diversi tra loro. Il primo, edito nel 1986 da Jaca Book col titolo Gli Armeni si autopresenta con queste parole: «Questo libro costituisce in un certo senso la sintesi di un lavoro di ricerca e di studio sul mondo armeno iniziato da oltre 15 anni e condotto in collaborazione tra il Centro Studi e Documentazione della Cultura Armena di Milano e i Colleghi della Accademia delle Scienze dell’Armenia SSR, con il patrocinio ufficiale del Ministero degli Affari Esteri d’Italia.»
Diverso per scrittura, meno tecnico, è La Venezia degli Armeni. Sedici secoli tra storia e leggenda di Aleramo Hermet e Paola Cogni Ratti di Desio, Gruppo Ugo Mursia Editore, Milano, 1993; ha una sola pecca, a mio avviso: l’antropologia del sacro non è il punto forte degli autori, più portati a cedere acriticamente al leggendario. Ma va bene così: ognuno ha il diritto di scrivere il suo libro come vuole.

Dal tomo della Jaca Book (si trova facilmente dai rivenditori di libri fuori catalogo) estraggo queste poche righe inerenti la struttura architettonica delle chiese armene:

Capitolo primo: L’ambiente naturale e l’ambiente costruito, di Adriano Alpago Novello, pp. 16 e 41: «I presupposti concettuali e simbolici traspaiono anche dalle scelte di forme progettuali che tendono a privilegiare semplicità e chiarezza. Semplicità che soprattutto all’esterno si traduce in una sorta di «ermetismo architettonico» (o si può parlare di «iconoclastia»?) che si inserisce certo nella tradizione dell’oriente cristiano, che privilegia l’interno rispetto all’esterno, il contenuto ai contenitori, ma che in qualche modo riprende lo spirito dell’architettura scavata che è solo interno, non esistendo ovviamente le facciate. Semplicità che non è povertà e che si traduce più che nel disegno delle singole parti o nel decoro, nella progettazione e nell’impostazione spaziale attraverso volumi geometrici unitari ed elementari, spesso sovrapposti edaccostati (cubi, prismi, piramidi, coni…). Il tutto governato e regolato da un rigore di tipo matematico, in cui le singole parti ruotano e si articolano attorno ad assi di simmetria e con una gerarchia degli elementi componenti che spesso, ancora una volta, ha chiari riferimenti simbolici. Si pensi al concetto di quadrato che indica il finito e il cerchio l’infinito, e all’inserimento e combinazione del cerchio nel quadrato (la tipica impostazione planimetrica per il nucleo centrale della chiesa cristiana d’oriente), che poi spazialmente si conclude con coperture a cupola (la calotta è evocazione della volta celeste), con una assialità zenitale che indica la tensione terra/cielo.
[…] Matematicità, quindi, razionalità assoluta e simbologia, più espressione di fede che di logica, in una pregnante simbiosi, a testimoniare le due componenti, l’umana e la divina che si incontrano nella costruzione del più importante segno dell’uomo, l’edificio sacro, che per l’Armenia è simbolo di Dio, ma anche struggente volontà di «memoria» di se stesso, di volontà di sopravvivenza.»




Dal secondo libro, invece, estraggo i brani relativi alla Casa degli Armeni e alla sua chiesa dedicata alla Santa Croce, così detta per le lignee reliquie custodite al suo interno, con un incipit:
Ad assicurare il buon andamento della Casa Armena era stato nominato un «guardiano» responsabile della gestione. Gli archivi veneziani ne citano diversi: Agheksandr, Simon, Gevorg, Baltasar, Petros, Georg, Gasparo... C’è anche una Maria Armina, non meglio specificata, benestante armena, che con testamento registrato dal notaio Jacopo Marchesini, prete di S. Zulian, il 2 ottobre 1341, conservato nella sezione notarile dell’Archivio di Stato, lasciò in eredità cento scudi d’oro a beneficio della Casa Armena (per i lavori di restauro), nonché di dieci famiglie abitanti nella predetta Casa e di diversi prelati e laici armeni sparsi per Venezia.
E adesso vediamo per volontà di chi nacque la Casa Armena di Venezia. L’annalista Muazzo asserisce che il veneziano Sebastiano Ziani, che fu poi doge dal 1172 al 1178, «lasciò, in contrada S. Zulian, nella calle delle Lanterne, una casa per gli armeni che venissero a Venezia». Questo gesto munifico, che verrà poi ufficializzato dal testamento di Marco, nipote di detto doge, ha la sua plausibile e logica spiegazione: il sentimento di amicizia e di riconoscenza di Sebastiano Ziani verso gli armeni per i felici ricordi riportati dal soggiorno nella Nuova Armenia, dove il giovane veneziano fu accolto con caloroso affetto tanto da sentirsi come in famiglia.

Pag. 13: «La differenza fra la Chiesa apostolica armena e la Chiesa romana non si basa su questioni dogmatiche, bensì su aspetti gerarchici: in pratica, la Chiesa armena, partendo dal principio che tutti gli apostoli erano uguali tra loro e che S. Pietro era dunque un «primo fra uguali», non riconosce al papa il primato su tutta la cristianità né l’infallibilità. A parte ciò, la Chiesa apostolica dispensa gli stessi sacramenti della cattolica, sia pure con qualche variante di rito. Per esempio, insieme al battesimo, fatto con la totale immersione nella fonte come per i primi cristiani nel Giordano, vengono dispensate la cresima la comunione; la confessione avviene collettivamente, e non individuale come per i cattolici: il prete, che può essere sposato o celibe, legge l’elenco dei peccati (ed è certo che ci sono tutti quelli che l’uomo può escogitare e compiere nella sua estrema debolezza!), i fedeli ascoltano, riconoscono in cuor loro, senza dirli, i peccati commessi, quindi la remissione delle colpe avviene in comune e nel più assoluto anonimato.»

Più avanti, tra le pagine 37 e 48, con note da me aggiunte:

NASCE LA CASA ARMENA IN CONTRADA S. ZULIAN

Nel loro andirivieni con la laguna veneta, gli armeni si erano sistemati in diverse parti di Venezia. A differenza di altri orientali, essi, in quanto cristiani, potevano risiedere in qualsiasi zona della città. Avevano perciò affittato, qua e là, delle case dove dimoravano e dove avevano modo di conservare le merci, se erano mercanti, o fabbricare oggetti tipici della loro regione se erano artigiani. Talvolta le compravano anche, le case, nonostante le leggi veneziane vietassero, fino a metà Quattrocento, la vendita di immobili a stranieri. Questo ostacolo lo superavano abilmente italianizzando i loro nomi: Yacopdjan diventava Giacobbi, Ciucunan si mimetizzava in Valle, Karakash in Rizzi, Teran in Teron e così via, tanto da rendere oggi impossibile individuare fra i casati veneziani quelli di eventuale origine armena. Di questi insediamenti abbiamo notizia soprattutto nelle calli Fiubera, Catullo, degli Armeni, in marzaria S. Zulian, in calle dei Pignoli, nella ruga Giuffa, in Dorsoduro, Santi Apostoli, S. Biagio, S. Martino e, dietro la riva degli Schiavoni, nella calle delle Rasse, dove lo studioso di cose veneziane Ugo Fugagnollo colloca un intrico orientale di minuscole case «parte in muratura e parte in legno, ornate di fregi su sfondi di fiori, leoni, palme e volatili». Arrivavano anche dei preti armeni, ma questi trovavano facile ospitalità in una delle tante parrocchie: S. Giovanni in Bragora, S. Domenico, S. Giovanni Elemosinario o di Rialto, S. Marina, S. Zaccaria, S. Maria in Broglio, S. Giovanni Novo...
Col moltiplicarsi di questi arrivi, dovuti allo spettacolare infittirsi degli scambi mercantili fra la Serenissima e il nuovo regno armeno dei Rubenidi, non poteva però mancare a Venezia un luogo che offrisse in qualsiasi momento agli armeni la tranquillità e il conforto di un soggiorno sicuro come la propria casa, opportunamente ubicato in rapporto al loro lavoro e ai contatti con i connazionali. È la Hay Dun, Casa Armena, cioè una casa-albergo, organizzata nei servizi anche per ospitare temporaneamente chi fosse sprovvisto di mezzi o fosse ammalato.
Questa Casa nasce in calle delle Lanterne (chiamata poi «dei Armeni»), ossia nella contrada più densamente popolata di armeni, la parrocchia S. Zulian, lungo il percorso che collegava necessariamente il centro del potere politico, piazza S. Marco, col centro dell’attività mercantile, Rialto. Sulla sua nascita, ci s’imbatte in ripetuti riferimenti e testimonianze legati al nome della ricchissima e illustre famiglia veneziana degli Ziani. Sia però chiaro fin d’ora che questa Casa, che si sviluppò su un nucleo abitativo già esistente e che i secoli vedranno crescere e trasformarsi come attestano numerosi documenti dei Procuratori e come leggiamo anche nella Historia Veneta di Pietro Bembo, resta il riferimento più determinato della numerosa e vitale comunità armena della Venezia del Medioevo e oltre. Ancor oggi, chiunque può vedere tale casamento, non più abitato dagli armeni, annerito e sbocconcellato dal tempo al pari di tante altre costruzioni lagunari. È un grande, alto edificio dalle linee severe, le cui finestre sono protette da robuste inferriate medievali. Fino a quasi la metà dell’Ottocento restò lambito su due lati da corsi d’acqua: il rio dei Ferali (un nome che suona un po’ sinistro, ma che vuol dire solo dei Fanali) e il rio delle Colonne, interrato un secolo e mezzo fa.[1]
Su quest’angolo veneziano degli armeni, è avvincente leggere alcune impressioni che l’ingegnere Alessandro Crespi, esperto visitatore dei nostri giorni, ha riversato nel suo saggio Sotoportego dei Armeni:

«Ciò che colpisce è la sensazione di trovarsi in una calle “diversa”. Eppure, tutte le condizioni sono rispettate ed assolutamente analoghe alle centinaia di viuzze, calli, canali di cui Venezia è disseminata in un paradosso di regole e situazioni che rendono armonici il disordine, le sproporzioni, gli allineamenti, i collegamenti (...). Le luci e il colore sono ostinatamente da abito da sera: non i colori pastello del porpora o del tenue verde-azzurro o azzurro-verde che colorano la laguna veneta: qui tutto è “fumo di Londra”, quasi fossero i resti di un enorme incendio che avesse avviluppato abitazioni e abitanti (...). Enormi e poderose inferriate proteggono ai piani inferiori ipotetici accessi e sono talvolta circolari, talvolta ovali, talvolta quadri o rettangolari, ma nulla è concesso, neppure all’occhio, di penetrare negli ambienti interni rigorosamente inaccessibili.»








Da piazza S. Marco, inserendosi nel caotico brulichio turistico della marzaria dell’Orologio, sbuchiamo in quel tratto della marzaria S. Zulian, che va al rio dei Ferali. Giunti sull’omonimo ponte, quello che fino al Cinquecento si chiamava degli Armeni, ecco, tra l’opalescente immobilità del rio e il dinamico tramestio della calle Fiubera, un ampio scorcio d’angolo dell’antico edificio, su cui, al piano terra risalta l’insegna di una trattoria dal curioso, candido nome «Anima Bella». La Casa Armena, avvolta d’ombra umida, sembra trattenere ancora tra i suoi muri episodi delle sue epoche più intense di vita.
Il desiderio di ritrovare nel tempo le memorie racchiuse e vaganti fra questi silenzi non ammette soste. Attraversato il ponte e percorso il lucido selciato della popolare calle Fiubera,[2] pochi metri più avanti si apre, sulla destra, una deserta calle, quella «dei Armeni». Leggendo questa targa, si ha l’impressione di trovarsi dinanzi a un sorprendente specchio su cui sono riflesse le vicende di quelle generazioni che qui hanno vissuto.
Sul lato opposto alla Fiubera, il rio terà delle Colonne delimita il perimetro del grosso edificio, nel quale s’insinua quasi segretamente un ramo con due semibui sotoporteghi, le cui volte sostengono altre case severe, che sfoggiano però balconcini gentilmente addobbati di gerani e pianticelle di sempreverde.
Ma da dove entravano gli ospiti, o inquilini, della Casa Armena?
I rifacimenti, le migliorie e gli ampliamenti apportati nel tempo sono stati molti. Non è perciò facile dare una precisa risposta alla domanda. Forse penetravano da quel portoncino lì, sulla destra, prima del sotoportego che sbuca sul rio terà delle Colonne. Oppure da quell’uscio nel ramo dei Armeni?

[…]

[…]
Ma a quell’epoca dove andavano a messa i religiosissimi armeni di Venezia? Alishan, col suo straordinario intuito, fa osservare che, se ogni comunità armena delle altre città d’Italia aveva una propria chiesa di rispettabile dimensione, a maggior ragione doveva averne una la folta comunità armena della Serenissima. Così, partendo dal ritrovamento del testamento di un certo Zannino di Scala, registrato il 26 giugno 1348 dal notaio Ognibene, parroco di S. Giovanni di Rialto, che lascia «cinque ducati ai Frati armeni di S. Giovanni Battista», si può dedurre che lì, nella chiesa di S. Giovanni di Rialto, andassero a messa e ricevessero i vari sacramenti molti armeni di quel tempo.
A parte ciò, c’erano diversi monaci e preti armeni anche in altre chiese veneziane. Gli annali ne citano alcuni in S. Maria Celestia, dove erano conservate le reliquie dei martiri del monte Ararat, un martirio da cui molti secoli più tardi il Carpaccio trasse ispirazione per la stupenda pala della chiesa di S. Antonio di Castello commissionatagli dal priore Antonio Ottobon, oggi conservata all’Accademia di Venezia. Ma ce n’erano pure in Santi Apostoli, S. Salvador e nella basilica marciana, dove incontriamo, a metà del Trecento, il simpatico e bonario frate armeno dell’ordine dei domenicani Eghpark. Erano questi religiosi che, pur officiando nelle chiese di cui facevano parte, si recavano nel quartiere armeno in S. Zulian a svolgere le funzioni sacre. Perciò, anche qui, almeno una cappella di legno doveva essere stata allestita per battezzare al coperto i bambini che, completamente nudi, venivano immersi, per tre volte, nell’acqua del fonte battesimale, impartendo poi, nel corso della stessa cerimonia, i sacramenti della cresima e della comunione secondo il rito della Chiesa apostolica armena. Tutto fa supporre che questa cappelletta rustica fosse là, dove ne fu eretta poco dopo una di pietra, e su questa costruita successivamente la chiesa di S. Croce (così chiamata perché dedicata alla croce di Cristo, della quale conserva alcune reliquie), che fa corpo unico con la Casa Armena. Con accesso da una massiccia porta di rovere, nera con lontani riflessi verdi, quasi nascosta dall’ombra del sotoportego dei Armeni, essa è in Italia l’unica chiesa armena del Medioevo tuttora aperta al culto di rito orientale, anche se dal Settecento è dei padri cattolici armeni di S. Lazzaro. Una sufficiente visione esterna di questa chiesa, si ha da rio terà delle Colonne, addossandosi al muro di mattoni che nasconde uno di quei folti segreti giardini veneziani. Da lì si coglie la svettante inquadratura del campanile con la sua bella cupola. Dove fosse in antico l’ingresso della chiesa, oggi è impossibile dirlo. Ma sappiamo che il padre mechitarista Luca Fogolyan sta cercando di stabilirlo con studi e ricerche che lo hanno già portato a scoprire nel lontano Canada l’esistenza della copia del progetto originario di questo edificio sacro, che aveva anche un proprio cimitero. Visitando la chiesa di S. Croce, non se ne può non apprezzare la luminosa serenità architettonica, su cui traspaiono stucchi multicolori, intarsi di marmo e dipinti del Celesti: L’invenzione della croce e l’Assunta; e del Lazzarini: S. Gregorio vescovo che battezza il re e la regina. Numerose lapidi vi stanno altresì a testimoniare la sepoltura di armeni vissuti a Venezia. Appena superato il vestibolo, spicca sulla soglia la lapide a ricordo del marchese Serpos, scaltro uomo d’affari armeno del XVIII secolo, che visse in ruga Giuffa; altre quindici coprono il pavimento della sacrestia, fra le quali quella del benefattore Gregorio Girach Mirman, armeno dell’Iran, che finanziò l’ampliamento della chiesa verso la fine del Seicento. In S. Croce si conserva un documento che, in quanto ad antichità, ha insostituibile importanza per la comunità armena di Venezia: si tratta del cembalo di fabbricazione orientale, i cui due artistici piatti di bronzo cesellato furono donati nel 1659 dal mercante Amir di Nuova Giulfa.


Accanto al nome Ziani, troviamo anche dichiarazioni secondo le quali, pressoché nello stesso periodo, «un vecchio armeno, probabilmente dell’Atropatene, l’Azerbaigian iraniano, ha lasciato con testamento una consistente somma di denaro, affinché sia acquistata una casa e costruita una chiesetta nella calle delle Lanterne, per comodo e utilità dei suoi connazionali».
Ma, allora, a chi attribuire il merito di questa Casa Armena veneziana? Allo Ziani Sebastiano oppure al vecchio armeno non identificato?
Testamenti e testimonianze offrono materia di perplessità dinanzi al fatto che i due benefattori indicano, ciascuno per proprio conto, la stessa casa per alloggiare gli armeni nella stessa calle delle Lanterne.
Spesso, se si vuole arrivare alla conoscenza, bisogna saper andare oltre la realtà. Ed è seguendo questo criterio che si può giungere alla convinzione che tra le due versioni non c’è contrasto e che le cose andarono così: Sebastiano Ziani, rientrato a Venezia, mise a disposizione degli armeni una sua grande casa in calle delle Lanterne, casa che poi fu lasciata in regalo per testamento; il vecchio armeno lasciò il denaro, che costituì una specie di fondo di dotazione con cui si darà migliore assetto all’edificio, si trasformerà la cappella in chiesetta e si farà fronte a successive opere di manutenzione.
Per completa informazione, non dobbiamo comunque tralasciare di riferire che qualcuno, basandosi sul fatto che del testamento del vecchio armeno non è stata finora trovata traccia, ha dato anche un’altra spiegazione: Sebastiano Ziani, che aveva vissuto a Layazzo, nell’Armenia di Cilicia, stringendo affettuose relazioni con gli abitanti del posto, tornato in patria ed eletto doge volle dimostrare la sua simpatia e generosità verso gli armeni che soggiornavano a Venezia mettendo a loro disposizione, gratuitamente, il vasto stabile di calle delle Lanterne. Ragioni politiche o di stato gli suggerirono però di coprire, almeno all’inizio, questo suo comportamento munifico a favore della nazione armena inventando la storia dell’anonimo vecchio armeno di Persia che aveva lasciato in eredità ai suoi connazionali i soldi per comprare quella casa. Secondo questa tesi, il «vecchio armeno» non sarebbe dunque mai esistito.
Circa la data in cui questo edificio divenne casa-albergo per armeni, alcune dichiarazioni rese nel corso di vertenze civili con la Repubblica di S. Marco indicano il 25 maggio 1235. Probabilmente tale data è anticipabile di diverse decine di anni, ma pur senza questa correzione Venezia può sempre gloriarsi di aver avuto la Casa Armena più antica fra quelle sorte in Occidente.





Bella descrizione, vero? il libro è davvero utile: portatelo in casa - i libri non mordono e non regalano malattie - e leggetelo per intero.
Se poi volete e potete, eccovi un terzo titolo da mettere in casa: Storia degli armeni a cura di Gérard Dédéyan. Edizione italiana a cura di Antonia Arslan e Boghos Levon Zekiyan. Guerini e associati, 2002.



Come detto sopra, l’occasione si è palesata. Un lunedì mattina volutamente passo dalla calle dei Armeni e - miracolo - vedo che la porta di Santa Croce è aperta e la luce accesa. Non ho alcuna esitazione: apro la seconda porta, a vetri, ed eccomi nel gavit, il portico che precede la chiesa vera e propria, che nella struttura chiesistica armena è destinato a svolgere sia le funzioni di cappella funeraria per le famiglie nobili sia ad essere un luogo di raduno di carattere religioso e civile. Una scala aperta e appoggiata sopra alcune lapidi tombali mi fa capire che vi sono dei lavori in corso - ed ecco spiegato il perché della porta aperta. Senza indugi sposto la scala, liberando le lapidi, manovra che attira l’attenzione di una persona che s’affaccia dalla porta della chiesa: “tranquillo” gli dico “la sposto per scattare delle foto ma poi la rimetto esattamente dover stava.” Il mio interlocutore risponde, quasi a scusarsi: “sono solo lapidi, le tombe sono vuote, senza resti umani.” Un buon inizio, penso tra me e me. Ci presentiamo: lui è Isaia Nahapetyan, un coordinatore del Padiglione Armeno alla Biennale di Venezia. Spiego le ragioni della mia intrusione e lui - diversamente da altri in altre strutture, negazionisti per sciocche “ragioni di sicurezza” - mi accoglie e mi autorizza a muovermi nella chiesa e a scattare fotografie. L’interno, in stile barocco - quindi totalmente diverso rispetto alla struttura primitiva, mi si presenta come uno spazio a pianta quadrata e sormontata da una azzurra cupola suddivisa in otto spicchi: otto, il numero di derivazione mesopotamica associato alla resurrezione, non necessariamente dei corpi morti. Infatti, in passato in questa chiesa veniva officiato il battesimo - e simultaneamente la comunione e la cresima - col rito dell’immersione …e il battesimo è di fatto una resurrezione: per questa ragione in ambito cristiano hanno otto angoli sia i battisteri sia le camere mortuarie.
L’ambiente è buio - ho detto no alla gentile offerta di Isaia di accendere le luci: le lampadine alterano la “naturalezza” del luogo - e solo dopo un breve periodo d’acclimatazione visiva posso ammirare i lavori di Andrea Celesti e del Lazzarini.
Prima di lasciarci Isaia Nahapetyan m’informa che dal primo giugno 2016 e fino alla chiusura della Biennale questo “nascosto” gioiello - nato nel 1496 come Santa Croce di Cristo, ricostruito nel 1682-88 e rinnovato nelle vesti attuali nel 1703 - resterà aperto ogni giorno della settimana per accogliere il viandante curioso. Adesso lo sapete anche voi…


NOTE


[1] Si legge all’indirizzo http://www.venipedia.org/wiki/index.php?title=Rio_dei_Ferali: I feralàri, ossia i costruttori di fanali, erano presenti in contrada di San Zulian già nella metà del XVI secolo, come testimoniano varie fedi di morte della medesima chiesa, un tempo parrocchiale. La loro corporazione era unita ai petenèri da testa (una sorta di parrucchieri) formando così una delle tante scuole di arti e mestieri attive al tempo della Repubblica Veneta. I primi fanali per l’illuminazione pubblica furono posti in marzaria (il principale collegamento pedonale fra l’area marciana e quella realtina) nel 1719 e l’anno seguente vennero estesi alle principali calli di passaggio, mentre l’intera città fu illuminata solamente nel 1732. A metà del rio dei ferali, ove un tempo si innestava il rio de le colonete (interrato nel secolo scorso), venne edificata nel 1496 la chiesetta di Santa Croce degli Armeni, tuttora officiata ogni domenica mattina dai padri mechitaristi di San Lazzaro.
[2] La calle dei fabbricanti e dei commercianti di fibbie.


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