Antonina
Vallentin. Storia di Picasso. Giulio Einaudi editore 1961, pp. 350-377.
Titolo
originale: Pablo Picasso. Editions
Albin Michel, Paris, 1957.
Traduzione
di Renzo Federici
XIV. La deriva dell’umano. 1939-1944
Per il 1939 è prevista
una di quelle mostre retrospettive che si risolvono in un’apoteosi per un
artista. Il 15 novembre dovrebbe aprirsi al Museo d’Arte Moderna di New York la
mostra intitolata «Quarant’anni della sua arte», destinata a consacrare
definitivamente la fama di Picasso negli Stati Uniti. L’Art Institute di
Chicago collabora con New York; tutti i musei americani, tutte le gallerie,
tutti i collezionisti hanno inviato opere; molti quadri di collezionisti
europei sono già arrivati, altri, nell’autunno, sono in viaggio per gli Stati Uniti.
La mostra è stata preparata da tempo. Picasso ha trovato nel direttore del
Museo d’Arte Moderna, Alfred H. Barr jr, che prepara il catalogo, il suo
interprete più scrupoloso e penetrante, e il lavoro di Barr servirà di guida a
tutti i lavori del genere che verranno in seguito. Picasso stesso ha spedito
molti quadri di sua proprietà, anche certi dai quali si separa solo a
malincuore. Certe sculture sono state fuse in bronzo apposta per la
circostanza. Ma al momento dell’inaugurazione certi quadri non sono ancora
arrivati: l’Europa è precipitata nella guerra.
Sempre in questo anno
muore sua madre. Muore a ottantatre anni, lontano da lui, a Barcellona, dove
Picasso, per la posizione politica da lui assunta, non può andare a trovarla.
Sono passati più di quindici anni da quando ha dipinto il suo ultimo ritratto,
raffigurandola ormai con l’aria di vecchia signora, maestosa e tuttavia con lo
sguardo pieno di vivacità e penetrazione. Picasso era rimasto in corrispondenza
con lei. Le scriveva meno spesso di quanto lei avrebbe voluto, ma la sua fede
nel figlio non era diminuita e considerava il suo clamoroso successo come
qualcosa di debito. Un legame profondo, fatto di risonanze lontane, di tratti
comuni del carattere, esisteva tra la vecchia signora e Picasso e alla sua
fedeltà di figlio spagnolo andava congiunta la gratitudine per averlo sempre
sostenuto. Il suo dolore, come tutti i suoi sentimenti profondi, è muto e anche
coloro che gli sono vicini non sanno se gioca d’astuzia con la pena o se in
lui, abitudinario com’è, la lontananza ha attenuato la sofferenza.
Nell’estate del 1939 il
Sud l’attira, come sempre. Ormai ha tutte le comodità per muoversi. Dispone di
una macchina e di un autista, Marcelle, che d’altronde diventa un personaggio
importante nella sua vita. Il personale che lo serve, come le cose di cui si
serve, giungono ad essergli indispensabili per via di durata. Una volta entrati
nella sua vita quotidiana sembrano prendervi un posto immutabile, di cui lui stesso
si irrita a volte, senza tuttavia riuscire a rompere un legame che spesso è
nato solo dal caso. Anche la sua sistemazione di quest’anno ad Antibes,
sistemazione che avrà più tardi tanta importanza nella sua vita, si deve al
caso: è Man Ray che gli consegna la chiave di un piccolo appartamento nel
palazzo Alberto I.
Picasso sgombra i
mobili dalla stanza più grande per trasformarla in studio. È preso allora da
una sorta di impazienza, dal desiderio di cominciare un’opera di grande mole.
Forse, grazie alla costante sensibilità che ha per il suo tempo, avverte che la
quiete necessaria al lavoro ormai gli è misurata, che le ore di sollievo
saranno ancora poche. Scosso dal suo recente lutto, è ancora più sensibile a
quello che accade intorno a lui. Per spiegare il suo accanimento nel lavoro
bada a ripetere a Sabartés: «È per non buttarmi dalla finestra».
Si avverte, nel suo
fare, anche quel senso di fretta precipitosa che c’è nell’uomo inseguito. Se
questa effettiva disperazione non diventa totale, al punto da paralizzare le
sue facoltà creative, è per un sentimento assai simile a quello di chi sta
annegando ma sa di poter contare su un colpo di reni così forte da poter
risalire alla superficie.
Non ha ancora deciso il
soggetto quando tende su tre pareti dello studio una grande tela che può essere
tagliata successivamente. «Picasso vuole dipingere quello che gli passa per la
testa senza doversi tenere alle dimensioni di un telaio», spiega Sabartés.
Ha assorbito
profondamente l’atmosfera del luogo prima di mettersi al lavoro. A Sabartés fa
vedere tutti i punti della costa che lo incantano, le mura che piombano
bruscamente in mare, come il bastingaggio di una gigantesca nave di pietra,
dominata dalla massa imponente del Castello Grimaldi, di cui il sole tinge di biondo
i muri austeri. Per quanto sia fanatico del gran sole, questa volta non è il
fulgore del giorno ad attirarlo, ma una scena notturna: come se queste notti d’estate,
con la loro ricchezza di colore, gli apparissero più preziose delle rivelazioni
della luce piena. Una scena di genere gli serve da punto di partenza. Nel porto
di Antibes la notte si pesca a fiocina alla luce di fanali. Sul molo due
ragazze guardano i pescatori al lavoro. Una, che regge una bicicletta, ha i
tratti deformati di Dora Maar, l’altra ricorda Jacqueline Breton-Lamba. «Era
caldo la sera che si fece il giro del porto, - racconta Dora Maar, - e si erano
comprati dei coni gelati». La ragazza con la bicicletta lecca infatti con la
lingua aguzza un doppio cono. Ma scena di genere ed aneddoto sono per Picasso
solo pretesti per trasferire nel suo mondo una fantasmagoria notturna. Sullo
sfondo del cielo d’un blu vellutato naviga un’enorme luna rossiccia che lascia
filtrare la sua luce come tra due ciglia. Le torri e i tetti delle case si profilano
violetti su questo caldo cielo d’estate; il mare smalta di un azzurro verde il
molo azzurro, ma una murata di esso luccica verde sotto la luce artificiale;
dal fondo della piccola barca, di un azzurro cupo sul viola, emergono dei
pescatori come pallidi fantasmi. Gli esseri umani e gli oggetti non sono più
che segni di un baluginare di forme in fondo a una notte di luna, nella quale
le ombre rimaste trasparenti si urtano alla forza esplosiva delle luci. La
deformazione che riscatta la sagoma volgare della bicicletta con le sue curve
ondeggianti, le curve delle braccia, dei capelli, delle vesti, tutto prende un
senso particolare, tutto sembra ridotto a una durata limitata, a una realtà
appena intravista e già sul punto di dissolversi.
Chi ha vissuto le notti
di questo agosto del 1939 nel Sud, le ricorda come struggenti di dolcezza e
fulgore. La Péche de nuit à Antibes
(New York, Museum of Modern Art), come inquadrata, ai due lati, dalla tela
bianca, che funge da riflettore, prende uno splendore di cristallo.
Picasso ormai lavora
accanitamente; lavora contro il tempo. I frequentatori del caffè di Place
Victor-Massé commentano con angoscia crescente le gravi notizie del giorno. Ci
si aggrappa alla speranza come se la quiete immobile di queste notti d’estate
escludesse ogni mutamento. Picasso dipinge, quasi suo malgrado, un mondo
stabile già pronto a saltare in aria. È solo una scena, quanto mai tranquilla,
in un angolo del porto: in realtà è già il cataclisma del mondo che si
preannuncia.
Le notizie si fanno
sempre più allarmanti. Picasso si aggrappa alla sua vita operosa come volesse
farsene una difesa. I primi manifesti di mobilitazione appaiono sui muri dei
municipi. «Proprio ora che ho cominciato a lavorare!», brontola Picasso. Place
Victor-Massé si è improvvisamente vuotata; il caffè è deserto. Autocarri
attraversano la città carichi di soldati. Poi, all’improvviso, la difesa
antiaerea ordina l’oscuramento. Una notte opaca si abbatte su Antibes. Le
lanterne dei pescatori non ondeggiano più sull’acqua verde. Tutto è chiuso
nelle tenebre. Si stacca in fretta la grande tela.
Ed è la Parigi delle
voci contraddittorie, delle notizie, false o vere, scambiate come fossero
confidenze segrete; è il panico irragionevole che si diffonde e l’affacciarsi
di speranze più assurde ancora. Tutti corrono da Picasso, fin dal mattino,
tutti quelli che, per la sua celebrità, lo credono meglio informato di tutti
gli altri.
Anche se lui stesso è
indeciso e disarmato, esercita tuttavia una singolare attrazione sui dubbiosi e
gli agitati, come se comunicasse loro un po’ della forza che nel profondo
resiste in lui. Tuttavia anch’egli si trascina alla cieca in questo mondo
fantomatico di vigilia di guerra, di una guerra ancora senza volto. A Rue La
Boétie e nel suo studio fa imballare i quadri, ma poi lascia i pacchi a mezzo,
comincia a ordinare certe cose, ma poi lascia fare. Si comporta in pratica come
tutti coloro che, pur sapendo la guerra inevitabile, si ribellano, in un
sussulto del loro istinto vitale, contro la loro stessa certezza.
Parigi si vuota. Il
fuggi fuggi generale è cominciato. «Ogni separazione sembra un addio per l’eternità»,
racconta Sabartés. Anche Picasso sfolla, accompagnato da Sabartés e sua moglie,
da Dora Maar e il suo cane Kazbek. In questa notte del 1° settembre ci si
attende la comparsa degli aerei tedeschi su Parigi.
Come tutti quelli che
si rifanno alle esperienze della prima guerra mondiale, Picasso ha scelto per
rifugio la zona costiera, che è considerata al riparo dall’avanzata nemica.
Sulla strada di Royan l’auto incrocia dei gruppi di cavalli requisiti dall’esercito.
Se ne vanno due a due o tre a tre, guidati da un uomo a piedi. Picasso è
impressionato dall’aria sottomessa, stanca degli animali. Le sofferenze degli
animali lo toccano sempre profondamente, in modo più forte forse di quelle
degli uomini. «Sembra che capiscano, - osserva, - e capiscono certo che non
vanno al loro solito lavoro». I primi disegni che butta giù a Royan, non appena
ha un blocco di carta a disposizione, rappresentano dei cavalli requisiti.
Scende all’Hotel du
Tigre e affitta una stanza nella villa «Gerbier de Joncs». Questa stanza, che
serviva da sala da pranzo, è stipata di mobili, buffet, scrivania, mensole,
tavolini, tutto il bric-à-brac che si trova in certi interni di provincia.
«Muoversi tra questi mobili sovraccarichi è difficile come manovrare in un
porto minato», osserva Sabartés. Picasso trova a stento posto per le tele, i
colori, i pennelli. Tuttavia vuole mettersi subito al lavoro. «Tende sempre a
risolvere ogni problema, per quanto grave, assoggettandosi a una cura di
lavoro». Quando vede Sabartés disoccupato e irritato di questo ozio forzato,
gli consiglia la stessa disciplina: «Scrivi, vecchio mio, scrivi... Scrivi quel
che vuoi. Scrivi per te se vuoi, anche se sarà solo per te e vedrai che il
cattivo umore se ne andrà...»
Da questo saggio
consiglio è nato poi il libro Portraits
et souvenirs, libro chiave per la conoscenza di Picasso. Ma quanto a
Picasso, la ricetta non serve a difenderlo contro l’angoscia del momento. È
venuto a sapere che i forestieri arrivati dopo il 25 agosto non hanno diritto
di soggiornare in città, dichiarata zona di frontiera. La sua celebrità
basterebbe a proteggerlo da ogni fastidio della polizia, ma questo eterno
oppositore, questo indisciplinato feroce conserva uno strano rispetto per l’autorità.
«Il fatto di sapere che non è del tutto in regola con la legge lo inquieta a
tal punto che non riesce a lavorare». Corre a Parigi per ottenere il permesso
di soggiorno necessario e l’indomani è di ritorno.
[...]
Nonostante la strana
calma che regna nel mondo, che pure è in guerra, egli si preoccupa della sorte
dei quadri che ha lasciato nei suoi vari domicili. Verso la metà di novembre,
con Sabartés e Dora Maar, parte per Parigi. Arriva anche a Tremblay e a
Boisgeloup per mettere in luogo sicuro tele e disegni e prendere dei colori e
un vero cavalletto.
La ex sala da pranzo
che gli serve da studio sembra farsi più piccola e meno luminosa via via che le
giornate si accorciano. Picasso si decide alla fine ad affittare uno studio e
una stanzetta all’ultimo piano della villa «Les Voiliers», una stretta casa
incuneata tra i due grandi alberghi di Royan. Avrà una vista magnifica davanti.
«Non ho bisogno, da solo, di un panorama così grande, - commenta, - ma non aver
niente davanti a sé pesa molto». Quando vi si trasferisce, verso la fine di
gennaio del 1940, indugia a lungo davanti alla finestra a contemplare il mare e
il ciclo arrossato dal tramonto. «Andrebbe bene per qualcuno che fosse
pittore», gli scappa detto, quasi con una punta d’invidia per tutti coloro che
non si sentono investiti della missione di scomporre l’universo. Sembra che gli
dispiaccia di aver lasciato la stanza scomoda e ingombra, dove bisognava
piegarsi in due per lavorare. Così si porta dietro dei mobili bizzarri, una
poltrona coperta di velluto verde oliva, un’altra fatta di legni flessibili
ritorti e lavorati come giunchi.
Questa poltrona è uno degli
accessori che s’imporranno, tirannici, nell’opera di Picasso come unico
elemento di continuità nella sua perpetua dispersione. Dipinge, soprattutto
facendo posare Dora Maar, una serie di ritratti sempre più distanti dal modello
e sempre più tendenti alla maschera, alla magia terrifica. Le Donne sedute di
questo momento, figure dai tratti decomposti, dipinte come fantasmi di carne beige su fondo grigio o involte in bluse
multicolori giocate su accordi stridenti, sono il più delle volte ridotte a
piani lineari, a forme geometriche infernali. Ma ritorna anche alle sue antiche
figure da prua di nave, a forte rilievo. La Femme
nue se coiffant, dipinta in quest’estate di Royan, è un monumento all’atroce
dismisura del tempo. Il corpo che, con le sue curve abbondanti, sembra di legno
tornito, a differenza delle bagnanti che compivano i loro gesti barcollanti da
robot sullo sfondo del cielo e del mare, è incuneato tra muri verdi, in uno
spazio così ristretto che ne urta i limiti con i gomiti, i piedi e la testa.
Visto dal sotto in su, il nudo seduto su un guanciale violetto presenta
anzitutto i suoi piedi giganteschi, la cui pianta enorme è dipinta in modo
quasi realistico, e nei quali sono accuratamente segnate le unghie degli
alluci. «Picasso vuole fare vero, più vero che la natura, - scrive Frank Elgar;
- i suoi peggiori attentati contro la figura umana sono la contropartita
malefica della sua passione di veridicità».
Il colosso dilaga nelle
natiche e nel ventre, si strozza invece alla vita grazie a due pieghe
fortissime; incavi profondi fanno risaltare le coste, i seni puntano verso l’alto,
metà carne metà legno tagliato, con punte a forma d’occhio. Questo mostro si
assottiglia in cima, il pezzettino di testa si scompone in un naso volto verso
destra, in una bocca volta a sinistra, negli occhi che si urtano alle palpebre
arrossate. Il tratto più spaventoso in questo viso devastato è che una delle
narici freme ancora in questo legno tagliato e che, sulla superficie piallata,
la bocca si allarga piatta, rossa, provocante di femminilità.
Questo modo di
disarticolare i tratti delle figure ha avuto inizio con Guernica, come fa notare Sidney Janis, che aggiunge: «Proprio come
la guerra, che da conflitto spagnolo, localizzato, è dilagata a lotta mondiale,
così queste deformazioni si sono dilatate invadendo tutta la sua opera e dando
inizio a una nuova fase della sua arte».
Si agita a quell’epoca
in Picasso un sordo rancore contro l’umanità stravolta. «Ci crediamo superiori
agli animali, - brontola, - è falso». Si ribella alle invenzioni dell’uomo, l’orologio,
ad esempio, di cui denuncia i misfatti. «Con tutte le nostre scienze siamo
arrivati a perdere il senso della direzione; ora non abbiamo che un residuo di
istinto per portare la mano al punto del nostro corpo che vogliamo grattare
quando ci prude».
Una nuova inquietudine
si impadronisce di lui. Ha lavorato molto. Oltre ai quadri, ha dipinto a olio
su carta innumerevoli schizzi, per lo più a monocromo. A volte, lasciando la
tela che aveva nel cavalletto, ha fatto parecchi schizzi in un sol giorno. Per
lui non sono che appunti, benché spesso si tratti di cose molto elaborate.
«Questo accumulare idee pittoriche sulla carta, - ha spiegato più tardi, - è
una eventuale aggiunta a qualche cosa che posso utilizzare nei quadri, benché
non sia mai esattamente la stessa cosa».
Via via che l’inquietudine
aumenta riduce il lavoro. Il momento è gravido di minacce. Si sente che la
guerra ben presto cambierà fisionomia. Verso la metà di marzo Picasso parte con
Dora Maar per Parigi. «Lavoro, dipingo e mi secco tremendamente», scrive in una
cartolina a Sabartés. Una mostra di suoi acquarelli, guazzi e disegni dovrebbe
aprirsi alla Galleria M. A. I. il 19 agosto. In questa Parigi tutta voci
allarmanti gli prende nostalgia della quiete di Royan. Il 27, 28 e 29 marzo,
tre giorni di seguito, dipinge delle nature morte. È il mercato di Royan che ha
davanti agli occhi nel suo studio di Rue des Grands-Augustins quando scrive a Sabartés:
«Ho lavorato. Ho fatto tre nature morte, dei pesci, con una bilancia, un grande
granchio e delle anguille».
La grande offensiva
tedesca è cominciata. Le proporzioni del disastro si immaginano a fatica. Una
ventata di panico piomba su Parigi. Picasso ritorna a Royan il 17 maggio. Si
butta al lavoro come per mettere un muro tra sé e gli avvenimenti. Ma la guerra
prende un volto anche per coloro che non riuscivano a immaginarne l’orrore. Si
scavano trincee, difesa irrisoria contro forze esplosive ignote. I primi
rifugiati arrivano a Royan. Picasso incontra per la strada amici o conoscenti
in fuga, uomini politicamente compromessi, artisti ebrei, che vogliono
imbarcarsi a Bordeaux o rifugiarsi nel Sud.
Le truppe francesi
ripiegano senza ancora aver capito quel che accade. I locali sono requisiti, i
ristoranti rigurgitano di gente. Davanti ai fornai si formano le prime code. I
tedeschi sono entrati a Parigi.
È un’altra razza, -
brontola Picasso. - Si credono molto intelligenti e lo sono a volte... In ogni
caso è certo che noi dipingiamo meglio di loro. Tante truppe, tante macchine,
tanta forza e tanto spavento per venire fin qui... Immaginano d’aver preso
Parigi. Per contro noi, senza muoverci di qui, da molto tempo siamo padroni di
Berlino e non credo che saranno capaci di sloggiarcene.
Sembra parlare per
rassicurare se stesso. Una sera le truppe tedesche arrivano a Royan. Picasso le
vede sfilare dalla finestra del suo studio. La Kommandantur si insedia nelle
immediate vicinanze dell’Hotel de Paris.
Il 15 agosto Picasso
dipinge il Café a Royan. Ha profuso
nella tela tutte le sonorità della sua tavolozza e la freschezza dei colori è
ravvivata dal lucido degli smalti. Sopra i verdi, i lillà, i violetti della piazza
si leva una casa gialla con le imposte azzurre entro cornici rosse. Il
balconcino di legno al quale si è spesso affacciato suggerisce l’idea di un
grazioso scenario teatrale, le tende che lo riparano sono a righe festose verdi
e gialle.Il cielo d’un azzurro cristallo, toccato di verde per il riverbero del
mare, sembra spazzato da un vento fresco. Il quadro è un’esplosione di gioia,
di fede nella vita. È l’addio di Picasso a Royan.
Fra poco non resterà
nulla della Royan che ha conosciuto. L’Hotel de Paris, dove i tedeschi si sono
arrogantemente insediati, scomparirà sotto i bombardamenti. La villa «Les
Voiliers», nella quale ha dipinto il volto felice della città, sarà anch’essa
ridotta a macerie. Amici consigliano a Picasso di lasciare la Francia occupata.
È l’esponente per eccellenza di quel «Kunstbolschevismus» contro il quale un
pittore mancato, l’onnipotente vincitore del momento, riversa il suo rancore
personale. È noto l’aiuto che l’autore di Guernica
ha prestato ai repubblicani spagnoli e l’odio dei tedeschi tiene una
contabilità precisa. Picasso riceve inviti da tutte le parti, dal Messico, dall’Argentina,
dagli Stati Uniti. La sua grande mostra di New York ha attirato su di lui l’attenzione
generale. Egli invece decide di rientrare a Parigi occupata. Al momento della
partenza, quando sta per salire in macchina, con Kazbek dietro, un ufficiale
tedesco, che se ne stava rigido davanti alla porta della Kommandantur, gli si
accosta: «Bitte, - e facendo appello a tutte le sue conoscenze di francese, -
le dispiacerebbe dirmi di che razza è il suo cane?»
È una Parigi deserta e
triste quella in cui ritorna. Dapprima va ad abitare in Rue La Boétie. Ma i
tragitti tra casa e studio divengono difficili. Decide così di trasferirsi in
Rue des Grands-Augustins. Nel generale clima di freddo e di fame si mette al
lavoro.
Gli ultimi giorni del
soggiorno a Royan, quando già aveva imballato tutte le sue tele, ha dipinto
ancora due ritratti sui coperchi delle casse d’imballaggio. Sempre a Royan, a
un collega agitatissimo che gli chiedeva: «Cosa faremo con i tedeschi alle
calcagna?», «Delle mostre», ha risposto. In realtà invece, compromesso com’è
agli occhi dei tedeschi, gli sarà proibito di esporre a Parigi. Provvede a
mettere al sicuro la maggior parte dei suoi quadri nei sotterranei blindati di
una banca, ne trattiene però presso di sé più di un centinaio. E lavora.
Non era il momento per
un artista di venir meno, di tirarsi indietro, di arrestarsi nel lavoro, - dirà
più tardi; - non gli restava altro da fare che lavorare, seriamente, con
fervore, che lottare per il cibo, che incontrare con calma gli amici, e
aspettare la libertà.
La lotta anche
semplicemente per sopravvivere è dura. Fa freddo nella grande casa di Rue des
Grands-Augustins, dove l’impianto di riscaldamento centrale, messo di recente,
è inutilizzabile. Le dita intirizzite reggono con fatica un pennello. Un giorno
scova da qualche parte una immensa stufa a carbone che viene issata a fatica
per la scala ripida e a curve strette. Non si riesce a trovare abbastanza
carbone per alimentarla, ma Picasso trova che assomiglia a una scultura negra.
Tuttora essa domina con la sua massa sgraziata lo studio di Rue des
Grands-Augustins. Per semplificare le cose, gli prestano una cucina economica
che riempie di fumo la stanza.
Ai primi di febbraio
del 1941, «unicamente come passatempo, - dice Sabartés, - Picasso comincia a
scrivere». Riempie un album di appunti. Gioca con le parole come con la carta
pieghettata, il filo di ferro, i fogli di stagnola, i fiammiferi, i pezzi di
crine o gli spaghi con i quali fa innumerevoli oggettini ricordo. Ma le sue
dita impazienti sembrano spontaneamente arrivare a forme coerenti; le parole
invece prendono in lui strade autonome. Il suo pensiero letterario non ha la
disciplina, la sicurezza istintiva della sua visione plastica. Il surrealismo,
che non ha influito sulla sua pittura, se si tolgono certi disegni del 1933,
impronta invece sensibilmente il suo stile. Gli appunti di cui riempie i suoi
taccuini prendono forma di una commedia che scrive guidato da idee vagabonde,
da frammenti di quel che ha visto e sentito. Bruschi contrasti tra l’assurdo e
il quotidiano formano arabeschi imprevisti, un pulviscolo di colori. Picasso si
diverte molto a scrivere questa commedia che intitola Le désir attrappé par la queue.
L’opera conserva un’eco
delle privazioni del tempo, da lui interpretate secondo il suo particolare
senso dell’humour. L’inizio del secondo atto si svolge in un corridoio del
Sordid Hotel con due piedi davanti a ogni porta che si torcono di dolore e
urlano in coro: «I miei geloni! i miei geloni!...» C’è anche il ricordo della
stufa che fa fumo, «la mia cuoca, schiava slavo-ispano-moresca e serva e
padrona albuminurica». L’isolamento degli uomini fra gli egoismi ripiegati su
se stessi, nella sete d’amicizia e nella diffidenza dei vicini, si rispecchia
in questa battuta di uno dei personaggi, l’Angoscia magra: «Io batto il mio
ritratto contro la mia fronte e offro la mercé del mio dolore contro le
finestre chiuse a ogni misericordia». Le
désir attrappé par la queue è un riso un po’ forzato, esploso attraverso le
notti di Parigi.
Nel marzo del 1943 i
Leiris invitano alcuni amici per una lettura dell’opera. È la Parigi del
coprifuoco, delle perquisizioni a ogni ora, dei colpi violenti alla porta che
sono l’incubo di ogni notte. È la Parigi cantata da Eluard con parole che ogni
francese allora sapeva a memoria, è la Francia del terrore di cui ha fissato il
volto:
Que voulez-vous la porte était gardée
Que voulez-vous nous étions enfermés
Que voulez-vous la me était barrée
Que voulez-vous la ville était matée
Que voulez-vous elle était affamée...
Ma gli amici che,
diretti da Albert Camus, fanno la lettura dialogata della commedia di Picasso sono
di quelli che, come lui, attendono l’ora della libertà e si riuniscono per
sentirsi vicini: Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Raymond Queneau, Dora
Maar, George e Germain Hugnet, Jacques Laurent Bost. L’amicizia è stata il
mezzo migliore per sopravvivere in questi anni neri, fluiti con un’opprimente
lentezza che ora è quasi impossibile immaginare. A tutti coloro che li hanno
passati a Parigi o altrove, fuori della loro vita abituale, gli anni dell’occupazione
sembravano snodarsi secondo un ritmo tutto particolare, come se gli orologi
procedessero col rallentatore. Le speranze si logoravano. Spesso questo logorio
spingeva anche i meno arditi all’azione o incitava gli altri a patteggiare col
nemico.
Picasso era nello
stesso tempo protetto dalla sua celebrità e particolarmente esposto proprio a
causa di essa. In tutta la Francia occupata circolava la voce che Otto Abetz in
persona, già professore di disegno e ambasciatore di Hitler a Parigi, fosse
andato a trovarlo e, sorpreso dal freddo che c’era nel suo studio, gli avesse
proposto di fargli avere del carbone, offerta che Picasso avrebbe rifiutato. Si
raccontava anche che, davanti alla fotografia di Guernica, Abetz si era fermato e aveva chiesto: «Oh, signor
Picasso, l’avete fatto voi questo? - e che Picasso pronto aveva risposto: - No,
voi!»
La Francia occupata
cercava di farsi forza con battute di questo genere che il tam-tam della
clandestinità diffondeva largamente. Quando, dopo la Liberazione, fu chiesto a
Picasso se questa bella storia era vera, egli rispose ridendo: «Sì, è vera,
press’a poco è vera. A volte c’erano dei tedeschi che mi entravano in casa con
la scusa di ammirare i miei quadri. Io distribuivo loro cartoline con la
riproduzione di Guernica e dicevo: -
Tenetele, ricordo! Ricordo!» Automaticamente sospettato, Picasso è anche il
bersaglio degli invidiosi. Circola insistente la voce che è ebreo o almeno
mezzo ebreo. Quando lo interrogano sulle sue origini, Picasso risponde che, per
quanto ne sa, non ha sangue ebreo nelle vene, ma aggiunge subito: «Avrei voluto
averne».
In un articolo
pubblicato in «Comoedia» Vlaminck fulmina contro di lui, Camille Mauclair lo
proclama responsabile della crisi dell’arte moderna, un volantino fascista
americano lo accusa della decadenza della pittura e il suo nome figura
degnamente in un libro di Vanderpyl dal titolo ben eloquente: L’Art sans patrie est un mensonge; le
pinceau d’Israel.
È in questo momento che
la forza d’astrazione di Picasso, quella sua impermeabilità a tutto ciò che può
distoglierlo dalla sua strada, si manifesta a pieno. Come se, in un mondo in
piena distruzione, volesse aggrapparsi a qualche cosa di stabile, egli varia
all’infinito un unico motivo, quello della Donna seduta. Ma il senso di
distruzione che è nell’aria s’insinua anche in lui e scatena le catastrofi che
egli compie sul viso di Dora Maar. Ecco ad esempio la Femme au corsage bleu (Galleria Leiris), dove appare una blusa
punteggiata di bolli bianchi che ritornerà a più riprese nei suoi quadri e che
in realtà Dora Maar non ha mai portato.
Questo frammento di
testa troppo pesante non è che un primo segno, si direbbe ancora timido, delle
deformazioni future. Picasso dipinge Dora Maar a due riprese in un abito che ha
veramente portato nell’estate del 1941: un corto giacchetto scozzese ad ampi
risvolti, il bustino col colletto a punte. Ma tra questo abito elegante e il
cappellino con una grande piuma si leva, sul minuscolo cuneo del collo, una
testa immensa, costruita a forza di mutilazioni atroci, come per diffondere l’orrore.
Il fondo del quadro rappresenta la solita cella di prigione, col soffitto così
basso che il cappello vi urta. In questi quadri, in cui l’intero viso umano si
decompone, l’unico elemento che perdura uguale è una poltrona metallica a schienale
diritto con due palle in cima: una sorta d’armatura che resiste alla
distruzione.
La poltrona, la cella e
il soffitto basso, solcato da travi grigio acciaio, ritornano anche in un
ritratto dipinto nell’inverno 1941-1942 (Milano, coll. Carlo de Angeli Frua),
in cui il modello porta un elegante vestito azzurro con maniche a sbuffi e un
cappello a minuscola calotta e orli ondeggianti. Le deformazioni dell’immensa
testa, issata su una base aguzza, sono così accentuate che sembra essere stata
tornita in legno prima d’essere stata mutilata.
In forme ugualmente
scultoree è dipinto il Garçon à la langouste, con lo stesso gruppo naso-occhio che sporge
verso l’alto mentre una bocca a mezzaluna con denti rari sorride, come
sorridono i monelli di Murillo. La parte inferiore del corpo, con due enormi
piedi, è nuda e scopre un piccolo sesso. È un ricordo di Royan che affiora in
questa Parigi tormentata, un ricordo dei tempi felici in cui dei ragazzi
giocavano ridendo con degli animali in riva al mare. Il ragazzetto del quadro è
già una visione infernale, tipica di un mondo sconvolto.
Ma gli incubi di
Picasso non infieriscono solo sui visi. I nudi che dipinge o disegna in questo
tempo si presentano sempre più spesso, se pure sotto aspetti diversi, con i
loro corpi stretti insieme senza elementi di passaggio. Essi sembrano evocare
gli incubi di Goya, il Goya che nelle Disparates
disegna donne con molte membra e con la testa di Giano. Picasso però non si
propone, come Goya, di raffigurare le contraddizioni che si agitano in un
essere umano, ma la simultaneità tormentosa della sua esistenza. Una serie di
schizzi, eseguiti nel mese di maggio del 1941, studia, attraverso molte
variazioni, la veduta circolare di un corpo disteso. Un disegno dai contorni
quasi realistici mostra un nudo con due profili saldati insieme, una veduta da
tergo unita alla veduta frontale.
Il tormento dei corpi
persiste attraverso la tormenta del tempo. Su un letto appaiono una donna nuda,
vista di fronte e di profilo, distesa, e una seconda donna seduta, vista anch’essa
di schiena e di fronte, con le gambe penzoloni scostate sì che lasciano vedere
il sesso ombreggiato. Picasso ripete più volte, soprattutto nel 1942, il motivo
torbido delle due donne e le dipinge nude, con gran violenza di verdi, gialli,
rossi, bruni e violetti: l’una in piedi, l’altra stesa sul divano in fondo al
quale si leva un armadio a specchio.
Il tema delle due donne
amorose, accentuato dalla presenza di uno specchio, si conclude nell’Aubade (Parigi, Museo d’Arte Moderna),
nella quale una donna nuda, tutta contorta in modo da presentarsi da ogni lato,
sta distesa su un divano a righe, mentre l’altra, dall’aria curiosamente di
maschiaccio, sta seduta su una sedia, vestita, con un mandolino sulle
ginocchia. I diversi aspetti simultanei del nudo sono resi a piani continui o a
sfaccettature, spigoli aguzzi e ombre marcate, disseminate qua e là. In pratica
però è l’incastro dei piani netti che prevale in lui, con contrasti violenti di
colore.
Egli svolge
metodicamente la sua visione con la serie delle Donne sedute, esercizio d’interpretazione
condotto su vastissima scala. Le forme sfuggono sempre più in direzioni
opposte, come se fossero prese dal panico. Della Femme assise dipinta in ottobre non rimane che un vestito azzurro
appoggiato alla poltrona, molto scollato, contro un fondo arancione, mentre il
triangolo del collo si è rifugiato su una spalla e sostiene sul suo fragile
vertice i grossi triangoli e rettangoli che compongono il viso azzurro, lillà e
rosso. Il tutto è sormontato da un cappello a guarnizioni complicate come se il
nodo, il fiore o la penna che regge avessero il compito di legare l’indicibile
e l’assurdo alla femminilità.
Nella Femme assise tenant un alphabet,
eseguita nello stesso mese, la poltrona sormontata dalle palle rimane la sola
struttura stabile di un mondo sconvolto. Come dice Barr, i tratti completamente
centrifugati del viso avvicinano la figura a un totem rituale della Nuova Irlanda.
Nella serie delle Donne
sedute i toni violenti si alternano a colori spenti. La Femme assise dipinta nel novembre porta un vestito nero a
riflessi azzurri e la sola nota di colore in questo notturno è il lungo ovale
rosa del viso mezzo mangiato da un’ombra azzurra. Secondo la legge intima di
Picasso, le cose resistono mentre l’elemento umano va alla deriva, e il
vestito, con il suo drappeggio complicato (inventato da lui, d’altronde, non
copiato dal vestito della modella) è dipinto minuziosamente, al pari del
fermaglio d’oro che lo chiude. Fra tutte le sue barbariche evocazioni di donne
sedute, nelle quali l’urlo dei gialli, rossi e verdi si fa sempre più forte,
questo ritratto fatto di penombra, con un occhio verticale accanto a uno
orizzontale e la piccola macchia purpurea della bocca contro la guancia, è uno
dei più allucinanti. Gli occhi, resi con una semplice macchia nera ovale, con
un puntino al centro, sono invasi dalla paura. La donna seduta in nero potrebbe
anch’essa servire da emblema a questi anni che scorrono tetri con appena un
vago soffio di speranza.
Non ho dipinto la
guerra, - ha detto Picasso dopo la Liberazione, - perché non sono di quei
pittori che, come fotografi, vanno in cerca d’un soggetto. Ma non c’è dubbio
che la guerra c’è nei quadri che ho dipinto allora. Più tardi forse uno storico
dimostrerà che la mia pittura ha cambiato per effetto della guerra. Io,
personalmente, non lo so.
La guerra c’è, in
realtà, nei quadri di Picasso. C’è perfino nelle nature morte di quegli anni.
La vita quotidiana di allora è fatta di privazioni sordide. Picasso, che ha nel
sangue la grande sobrietà degli spagnoli, si adatta facilmente alle condizioni
di vita più austere. Ma la crescente penuria di ogni cosa intacca perfino la
sua indifferenza in fatto di cibo. Un giorno dipinge il Buffet du «Savoyard», il ristorante dove mangia spesso, con i pezzi
forti dei pasti di quel tempo: un sanguinaccio nero e dei carciofi, e in più un
grande coltello da cucina e una bottiglia. Il quadro è dipinto con gli stessi
toni spenti del ritratto precedente e vi domina, secondo le parole stesse di
Picasso, «un’atmosfera grigia e tetra come Filippo II»; i coltelli e le
forchette spuntano dal cassetto «come anime del Purgatorio». Gli anni bui si
riflettono anche nelle Nature morte col cranio di toro del 1942 (Parigi,
Galleria Leiris), condotte in un verde crepuscolare contro un muro grigio, al
di sopra di una tavola viola cupo, accanto a una pianta verde. Attraverso la
finestra penetra obliquamente un’onda di luce rosa sul lillà, ma la finestra ha
un’inferriata spessa come quella d’una prigione.
Gli anni di freddo e di
fame si ritrovano, evocati con un humour nero, nella Femme assise avec chapeau aux poissons, dove il viso della figura,
immerso in un’ombra d’un grigio verdastro segnato di nero, è sormontato, come
fosse un cappello, da un piatto di un azzurro festoso sul quale posano una
testa di pesce, un limone tagliato, un coltello e una forchetta.
Di quando in quando
Picasso si concede una pausa, una breve evasione dalla tristezza dei tempi. Dei
fiori appaiono sulla tavola, in una brocca di cristallo posta davanti a una
finestra o a un muro chiaro, con in fondo uno specchio che capta tutta la luce.
Altro momento di sollievo: un ritratto di Dora Maar (maggio 1941) che riproduce
il suo vero volto oppure il ritratto di Nush Eluard (Parigi, Museo d’Arte
Moderna) dell’agosto dello stesso anno. Sul busto nudo di un corpo giovanissimo
si erge un collo fragile, sul quale la testa, con la sua massa di capelli,
appare troppo pesante; nei lunghi occhi, mezzo abbassati sotto la frangia delle
ciglia, sembra passare il sorriso che non c’è sulla bocca dolce, quasi
infantile. Questo straordinario ritratto è un avvertimento del destino, è il
viso, tessuto di luce, di quelli che non sono fatti per resistere e che già
portano in sé una morte precoce.
I mostri continuano
nell’opera di Picasso, prendendo volta a volta l’apparenza di tutti i terrori
che ossessionavano l’uomo primitivo quando aveva freddo e fame, quando lottava
per sopravvivere. Ecco la Femme tenant un
artichaut, un carciofo grosso come una mazza irta di punte, idolo barbarico
con un occhio-narice, un orecchio issato più in alto del sopracciglio, una
bocca a mezzaluna (1942). Oppure quella personificazione della collera che è la
Femme assise dell’anno dopo con gli
occhi rivoltati, il vestito a pieghe che assomiglia a un’armatura d’acciaio, o
ancora, quelle Donne in grigio che divengono sempre più allucinanti. Si
direbbero vittime di una vendetta oscura che attribuisce loro occhi
sovrapposti, folli e tristi, una cattiva bocca a mezzaluna oppure un rettangolo
di denti messi a nudo. Dipinge anche donne il cui profilo invade il viso visto
di fronte e che sembrano dipinte in una materia fosforescente. Tale è la forza
di distruzione che emana da queste creature che sembrano mettere in pericolo
tutto ciò che le circonda: quando si cullano su una poltrona a dondolo il
pavimento a mattonelle si alza gonfiandosi come un’onda.
Ma il cerchio infernale
della sua opera non ha presa su Picasso. Circondato da incubi e da violenze
condotte contro il mondo visibile, egli tuttavia conserva quell’estrema
sensibilità che lo porta a solidarizzare con tutte le sofferenze e tutta la sua
lucidità di giudizio. La sua penetrazione psicologica e i grandi mezzi di cui
dispone per rivelare intero un essere umano appaiono nel drammatico ritratto di
Dora Maar dell’ottobre del 1942. Tuttavia questo viso dalle mascelle quadrate
che si stringono è un viso chiuso; esso spicca, bianco e rosa, contro le ombre
azzurre e verdi, entro la sua cornice di capelli scuri con riflessi che vanno
dal rosso al verde. La veste che figura nel ritratto, e che in realtà Dora Maar
non ha mai portato, è d’un tessuto a righe allegre, verdi e rosse, con un collettino
bianco orlato di smerli. Ma contro il vestito vivace, che si tende sul petto
alto, le braccia si stringono con un gesto freddoloso. Col suo ricco cromatismo
questo ritratto era forse destinato a segnare uno dei momenti di speranza che
illuminavano quegli anni, o uno dei sogni sul futuro che permettevano di
resistere. Anche i tratti del modello spiravano calma: la fronte liscia oltre
le sopracciglia, la bocca segreta e ferma; solo il fremito delle nari rivelava
la forza emotiva della figura. Ma mentre il ritratto è ancora in lavorazione
Dora Maar è sconvolta da un dolore famigliare: sua madre si ammala e muore
prima che il ritratto sia finito. L’angoscia del modello è penetrata a poco a
poco nel quadro e si rivela nella contrazione dolorosa della fronte, nelle
ciglia corrugate, nello sguardo che si rifiuta di capire, in un muscolo della
guancia che freme. Di fronte a questa donna che muta espressione via via che il
ritratto procede, vestita d’un abito troppo festoso per la circostanza, Picasso
si sforza di cogliere ciò che è quasi impossibile fissare: un viso umano che
passa dalla spensieratezza all’apprensione, dall’apprensione alla certezza
dolorosa. Tutto il quadro è permeato, e in modo evidente anche non conoscendo
le circostanze, d’un sentimento drammatico. Il fondo con i suoi azzurri che
schiariscono o incupiscono, i suoi bruni che s’infuocano o trapassano al verde,
ha qualche cosa d’una tenda o d’un paravento chiuso su un mistero. Sempre
seguendo la simbolica di quel senso di gelosia che assegnava a Dora Maar una
stretta cella come sfondo dei suoi ritratti, anche qui Picasso aveva messo nel
fondo un’inferriata, una brocca d’acqua e un pezzo di pane. Ma di fronte al
dolore della sua bella prigioniera il feroce sentimento di possesso di Picasso
scompare, e scompare anche l’inferriata simbolica del quadro.
Nel ciclo della donna
prigioniera rientrano però ancora il Buste
devant la fenétre (Galleria Leiris) dall’apparenza di un manichino di
modista con un doppio profilo giustapposto. Una gabbia di uccelli, uno dei simboli
cari a Picasso, e la pianta nel vaso sottolineano questo carattere di figura
sottratta alle tentazioni del mondo.
Il Buste è condotto nella tonalità spenta di cui Raynal ha detto: «La
tavolozza di Picasso si era messa in lutto». Questo periodo è stato anche
chiamato «l’epoca grigia». Ma la sua gamma consta di lillà, verdi, azzurri,
bruni, di tutto il ricco gioco di sfumature che si dispiega al crepuscolo, e
che è simile all’effetto delle voci che, parlando basso, rivelano una cantilena
segreta. C’è nelle nature morte di questo periodo un fondo di mistero e Picasso
stesso sembra preso dalla magia da lui creata. Capita spesso in un ristorante
vicino a casa sua e che porta un nome suggestivo per lui: «Le Catalan». Verso
la fine di maggio del 1943 dipinge in due riprese la Desserte del ristorante, contro un fondo giallo con le cornici
barocche di un mobile scuro alle quali corrispondono le curve dei piatti. Ha
raccontato più tardi:
Desinavo al «Catalan»
da mesi e da mesi guardavo il buffet senza pensare altro che: «È un buffet». Un
giorno decido di farne un quadro. Lo faccio. Il giorno dopo, quando arrivo, il
buffet non c’è più, il suo posto è vuoto. Dovevo averlo preso senza
accorgermene, dipingendolo.
Come tante altre
battute di Picasso, anche questa nasconde un grano di verità: il suo stupore di
fronte a tutto ciò che gli succede di strano, di fronte ai suoi rapporti, del
tutto speciali, con gli oggetti che la vita convoglia per depositarglieli
accanto. Le sue nature morte, anche quando la tavolozza si schiarisce, anche
quando riversa sulla tela tutta la festa dei suoi colori, rimangono permeate da
un senso di dramma. Così la Nature morte ù
la colombe suggerisce con poderoso realismo l’idea di una creatura morta,
come se l’uccello non avesse un triangolo appena abbozzato per testa e due
occhi uno sopra l’altro.
La Nature morte avec la guitare et l’épée de matador sembra fatta anch’essa
d’accenti festosi, d’un accostamento d’oggetti piacevoli, ad esempio il sigaro
che si consuma in un portacenere di cristallo.
Si nota allora in
Picasso, così restio ad ammettere soggetti nuovi, un desiderio di novità. Nelle
sue nature morte introduce oggetti che finora non gli erano mai serviti. Un
campo nuovo si apre nella sua opera: l’infanzia. Tanto il soggetto che il modo
di trattarlo sono del tutto imprevisti. Un grosso bimbo paffuto sta seduto a
terra, vicino a una sedia sulla quale stanno appollaiate due colombe, una sul
sedile, l’altra sullo schienale. Nella testa tonda del bambino gli occhi
appaiono sbarrati con insistenza. Non si è servito di modello, tuttavia i
tratti della figura hanno qualcosa di vagamente famigliare. «L’abbiamo chiamato
Churchill, - spiega Picasso ridendo; - abbiamo trovato che gli somigliava».
Dello stesso anno 1943 sono anche Les
premiers pas. Picasso non ha rappresentato l’incanto del goffo muoversi dei
bambini, la grazia di un corpicino appena formato, ma l’immensità dello sforzo
sostenuto da questo bimbo più grande del vero, il dinamismo della sua conquista
del mondo. Il bimbo in un primo tempo doveva figurare da solo nel quadro;
solamente più tardi Picasso vi ha aggiunto la madre piegata su di lui. La
scelta del soggetto è dovuta al caso o non indica invece qualcosa come un
impeto di tenerezza, che non sa ancora che un giorno sarà soddisfatta?
Fra i soggetti rari in
Picasso (e tanto più significativi quando sporadicamente fanno la loro
comparsa) sono anche i paesaggi. Il primo è la Fenêtre de l’atelier, con una cascata di
tetti e di camini che rappresenta un termine di passaggio tra le nature morte
davanti a una finestra e il paesaggio vero e proprio. L’elemento più
significativo di questo quadro è quella manopola di radiatore smisurata che
rappresenta da sé sola un sogno di calore, l’attesa di tempi migliori in cui di
nuovo non ci sarà che da girare la manopola per non avere più da soffrire il
freddo (quando l’inverno verrà, beninteso, dato che il quadro è stato dipinto
in piena estate).
L’estate del 1943 è
illuminata dalla speranza. L’incubo regna ancora nel cuore della città, il
passo dei soldati tedeschi risuona ancora sui selciati, il terrore s’aggrava,
trovando sempre nuovi mezzi, ma i rovesci degli eserciti tedeschi in Russia
preannunciano una svolta nella guerra. La vittoria sta cambiando campo. Picasso
non aveva quasi mai passato l’estate a Parigi, ma dal suo rientro da Royan non
viaggia più: gli spostamenti sono difficili per gli stranieri. Tuttavia uscendo
di casa vede, proprio a due passi, come se lo vedesse per la prima volta, il
giardinetto del Vert-Galant, ai piedi del Pont-Neuf, con i suoi alberi che
sembrano parte integrante dell’architettura e, nel fondo, la statua equestre di
Enrico IV. Il giardino è luogo d’appuntamento per gli innamorati e Picasso li
dipinge in forma grottesca, con occhi tondi, baffi appoggiati contro la
mezzaluna rovesciata di un viso di donna e il cerchio della bocca. Il
Vert-Galant e la serie degli innamorati che si baciano mostrano che la tendenza
a cambiare si va accentuando. Il moto pendolare del suo lavoro lo porta dalle
forme lineari, dai piani di colore, chiusi da un segno scuro, a un rilievo
sempre più marcato.
Dipinge in questo
momento una delle sue sfingi più strane; egli la intitola ancora Femme assise, ma in realtà è solo un
monumento della sua inquietudine, intagliato nel legno duro. Nella piramide
tronca della massa dei capelli è inserito l’uovo appuntito di un viso dai
tratti indicati sommariamente, che ondeggia piccolo, troppo piccolo, sopra le
masse immense dei seni. La plasticità del quadro rivela il desiderio sempre
maggiore di esprimersi in scultura.
Dal 1941 Picasso si era
rimesso a scolpire: gatti di grande mole, uccelli, teste vagamente umane,
oggetti senza una base precisa, da tenere nel cavo della mano. Da Boisgeloup fa
venire dei gessi degli anni tra il 1931 e il 1933, dato che da una decina d’anni
aveva quasi completamente abbandonato la scultura. Le difficoltà per farli fondere
in bronzo sono molto grandi in questo momento in cui gli occupanti portano via
le statue dalle piazze e dalle strade di Parigi per fame cannoni.
Forse in questo ritorno
alla scultura c’è anche un gesto di sfida, che viene ad aggiungersi all’audacia
del suo stile. Le opere di scultura di questi anni sono infatti senza legame
alcuno con il lavoro fatto finora, senza alcuna continuità con il passato, né
con la sua visione pittorica. Il suo spirito inventivo vi si scatena con
allegra furia. Per le sue sculture egli si serve di tutto ciò che gli capita
sotto mano, degli oggetti più umili, più negletti. Uno stampo da torte sembra
aver servito per il suo Fauceur au grand
chapeau. Un giorno scova da qualche parte un manichino da sarta di forma
antiquata, col busto alto, e lo trasforma in donna «belle époque», con la
sottana lunga e senza piedi, che bilancia una testa asimmetrica su un collo
vezzoso. Al contrario la Femme a l’orange
è costituita da un fusto stretto che si apre in rami che sono braccia, coronato
da una placca quadrata che funge da testa: le scanalature del busto si devono
al cartone ondulato che gli era stato messo intorno per la fusione. L’acutezza
della sua visione si palesa nel modo straordinario con cui sa scoprire una
parentela tra il fatto quotidiano, l’oggetto famigliare e l’insolito che vi si
nasconde, invisibile per tutti tranne che per lui. Un giorno il suo sguardo (e
si pensa a quale inventore avrebbe potuto essere) cade su una sella e un
manubrio di bicicletta. Nella sella Picasso scopre un cranio di bue e il
manubrio fornirà le corna. L’illusione è sorprendente. L’abilità della
trasformazione, compiuta quasi in spregio alla «bella materia», ha assicurato a
questa Tête de taureau una strepitosa
celebrità. Quando fu esposta dopo la Liberazione Picasso la guardò con aria
divertita.
Una metamorfosi c’è
stata, - dichiara allora a Andre Warnod, - ma ora vorrei che ne avvenisse un’altra
in direzione opposta. Mettete che la mia testa di toro sia gettata nei rifiuti
e che un giorno arrivi uno e dica: «Ecco qualcosa che potrebbe servirmi come
manubrio per la mia bicicletta». In questo modo la metamorfosi sarebbe stata
doppia...
Picasso sembra
particolarmente soddisfatto di aver potuto, grazie alla sua abilità manuale,
dimostrare la fondamentale identità di tutte le cose. Cocteau l’ha chiamato un
giorno: il re dei cenciaioli. In questo suo gusto per la roba vecchia c’è il
rispetto per la cosa creata e nello stesso tempo un interesse appassionato per
le possibilità di trasformazione che sono in essa, come se, scoprendole,
partecipasse lui stesso al divenire e si facesse anello di una catena senza
fine.
Fra le sculture
eseguite in questi anni ritorna a più riprese un teschio, non però reso come un
cranio scarnificato, ma come un blocco segnato da qualche piccola cavità.
Queste teste di bronzo hanno piuttosto l’aria di pietre che abbiano rotolato
per un tempo infinito, scavate e levigate dalle onde.
La guerra domina senza
possibilità d’equivoco in questi teschi, dei quali il più intenso data del
1944, del momento in cui il conflitto si conclude nell’orrore. L’apertura tonda
degli occhi dà sul vuoto, il naso pare roso dalla lebbra, la bocca assomiglia a
una cicatrice mal chiusa. Questo teschio non ha nulla in comune con i crani che
ripetono il terribile monito dal fondo degli ossari, come è lontano dagli
scheletri ghignanti che lungo tutto il corso dell’arte spagnola ricordavano ai
vivi la vanità delle cose: con i suoi occhi vuoti, la carne tagliuzzata della
bocca, sembra l’immagine stessa del terrore, dedicata ai morti anonimi.
Tutto quello che
Picasso crea negli ultimi anni della guerra esprime il suo rifiuto di
capitolare, la sua volontà di resistere. Amici della Resistenza si incaricano
di trasportare di notte i gessi verso le fonderie clandestine. È il tempo delle
cose inconcepibili, quando si diffonde un manifestino qualunque a rischio della
vita, senza stare troppo a chiedersi se l’effetto di questo foglio di carta
valga una morte sotto la tortura. I gessi di Picasso, per fondere i quali si
sottrae materiale bellico, sono avviati, coperti di rifiuti, in carrettini a
mano sotto il naso delle pattuglie tedesche, e i bronzi vengono riportati nello
stesso modo. Quel che importa è la sfida in sé, l’affermazione di vita contro
la volontà di distruzione del nemico.
Picasso si mette a una
grande opera di scultura. La prepara attraverso molti schizzi e disegni, che un
critico americano fa ammontare a un centinaio. La preparazione è così
approfondita, la concezione così completa, definita anche nei minimi
particolari, che la statua, alta due metri, viene eseguita dall’artista in una
sola giornata di lavoro, nel febbraio del 1943. L’opera appare senza alcun
rapporto con il presente e senza radici nel passato di Picasso: un tema isolato
nella sua opera. Soprattutto è di una estrema semplicità. «Nessuno è mai
riuscito a superare la scultura primitiva», diceva Picasso a Sabartés nel corso
di una delle loro conversazioni a Royan.
Picasso, il cerebrale,
sembra aver ritrovato il segreto dell’istinto primitivo quando scolpisce l’Homme au mouton. Questa immagine,
spoglia all’estremo, è apparsa, cosa curiosa, davanti agli occhi d’un uomo di
città che fa una vita da assediato.
I precedenti artistici
dell’Homme au mouton, se di
precedenti si può parlare, potrebbero risalire al Buon Pastore dei primi tempi
cristiani. Ma la presentazione della figura umana e il suo modo di tenere l’animale
smentiscono ogni intenzione simbolistica. La figura è piantata sui suoi enormi
piedi che escono appena dal suolo, il nudo corpo sale alto sopra le lunghe
gambe. Non è un giovane nel pieno vigore delle forze, che confronta la bellezza
del suo corpo con il vigore dell’animale, né uno di quei robusti apostoli che
portavano allegramente sulle spalle un agnello. Picasso l’ha fatto con la barba
tonda e la testa calva. Il suo corpo, che già invecchia, invecchia bene, è
secco come un ceppo di vigna e dritto come un pioppo, la testa è gettata
indietro come per schivare i colpi dell’animale. Le braccia sono abbastanza
forti per poter chiudere la bestia nella loro stretta. La bestia è pesante;
guardandola di lato si scopre tutta la sua greve massa dominata a fatica. La
statua è modellata a colpi rapidi, differenziando il corpo liscio dell’uomo
dalla superficie a bioccoli della pecora. All’uscire da questi anni di guerra l’opera
si leva come l’incarnazione stessa della sopravvivenza: non un giovane David
trionfante, ma un uomo calmo, dal corpo indurito e smagrito dalle privazioni.
Stranamente solenne nel suo gesto semplice, esso si pone sulla stessa linea di
tutti coloro che hanno dominato la vita, salvando la specie e la dignità dell’uomo.
Gli ultimi guizzi della
guerra arrivano a fine. La liberazione è ormai vicina e proprio allora il
terrore si fa più duro, l’odio si esaspera. Ogni giorno arriva la notizia della
scomparsa di un amico, di un ebreo che fino allora era rimasto nascosto, di un
militante della Resistenza. Max Jacob, sfollato a Saint-Benoît-sur-Loire
non sfugge alla persecuzione razziale, alla discriminazione che equivale alla
segregazione dei lebbrosi: «Felice tu, rospo! Tu non hai la stella gialla»,
scrive.
L’arresto della sorella
lo colpisce dolorosamente, ma non fa nulla per sfuggire alla stessa sorte, non
lascia nemmeno il villaggio dove è troppo conosciuto. Arrestato nel febbraio
del 1944, morirà a Drancy. Quando riportarono la sua salma a Parigi per
seppellirla nel cimitero di Ivry, Picasso fu tra i rari amici che osarono
seguire il corteo funebre. C’è qualche cosa di ben spaventoso in questa serie
di morti dell’ultima ora. La solitudine infittisce intorno a quelli che
restano.
Le notti di Parigi sono
sconvolte dai bombardamenti alleati, sempre più frequenti. Un giorno bombe
lanciate da aerei inglesi provocano danni rilevanti nei paraggi della Gare du
Nord: un quadro di Picasso, che si trovava allora presso lo stampatore
Lacourrière, viene colpito da schegge di vetro. È la Nature morte à la lanterne chinoise, dipinta agli inizi dell’anno,
col suo frammento di cielo stellato, il cielo pauroso dei bombardamenti.
Picasso è particolarmente attratto da questa Parigi minacciata e la fissa in
termini durevoli rappresentando il paesaggio che ha davanti agli occhi, cioè i
lungosenna, come il Greco dipingeva Toledo, facendovi convergere motivi sparsi
che gli sono cari. Pare vagheggi, secondo Sydney Janis, una grande opera, una
versione della Grande Jatte nel gusto
del nostro tempo. Al pari di tanti stranieri che hanno terribilmente sofferto
della disfatta della Francia, si esalta dei fremiti d’eroismo che la scuotono,
dei suoi eroi anonimi. Dipinge così, il 14 luglio, due quadri con la veduta di
Notre-Dame. Il primo anno del suo soggiorno parigino aveva dipinto la festa
popolare con l’allegria di quel fuoco d’artificio che era allora la sua
tavolozza. Gli occupanti hanno proibito di celebrare le feste nazionali, ma la
Francia ha dato prova di saper ancora prendere delle Bastiglie. Forse Picasso
non si è mai sentito tanto francese come questo 14 luglio, quando dipinge la
Parigi eterna.
Ai primi d’agosto gli
eserciti alleati avanzano. Picasso indugia alla finestra dello studio. In un
vaso cresce una pianta di pomodoro. La pianta vigorosa solleva l’arabesco dei
suoi rametti contro un fondo di muri grigi verso il cielo sereno. I frutti sono
per lo più ancora verdi. Picasso sembra meravigliato della tenacia di questa
pianta prigioniera. Ogni giorno ne esamina i frutti, li vede colorirsi di un
rosso scarlatto e, tra il 3 e il 10 agosto, dipinge quattro quadri sullo stesso
soggetto: Tomates.
La guerra s’avvicina.
La fucileria scoppia per le strade. Si diffonde la voce che i tedeschi, prima
di abbandonare Parigi, la faranno saltare. Nessuno più è sicuro di sopravvivere
alla grande distruzione. Il 21 e il 22 agosto Picasso dipinge due ritratti
della figlia Maia: sono due ritratti realistici, condotti all’acquarello, di
quelli che si fanno con particolare cura per lasciarli ai posteri.
Il 24 agosto la
battaglia infuria per le strade. Tedeschi e miliziani si sono asserragliati al
Luxembourg. La prefettura, vicina com’è alla Senna, è diventata il quartier
generale della Resistenza. Giovanotti, per lo più ancora ragazzi, muniti di
fucile e di bracciale, montano la guardia agli incroci. Domani Parigi sarà
punteggiata di steli commoventi applicate ai muri delle case con la scritta
laconica: «Qui è morto per la Francia...» I giovani che muoiono in queste ore
estreme non avevano ancora raggiunto, per lo più, l’età adulta.
I carri armati passano
su e giù. La fucileria crepita fitta sul Boulevard Saint-Michel. Nello studio
di Picasso i vetri tremano. Egli deve spezzare questa tensione troppo forte,
riempire questa attesa, fare qualche cosa d’altro, qualcosa di così diverso che
non possa in nessun modo riportarsi all’angoscia dell’ora.
Tra il 24 e il 29
agosto rifà, secondo i principi della sua visione, il Baccanale di Poussin. Un giorno dice a Kahnweiler: «Prenda Poussin,
quando dipinge l’Orfeo, ecco, è
raccontato. Tutto, anche la più piccola foglia, racconta il mito». Sono
affinità segrete quelle che spingono Picasso a curvarsi su un’opera d’arte,
come per carpirne il segreto. «I capolavori, sono quelli degli altri», ha detto
una volta a Malraux. Nel gran quadro di Poussin è la frenesia del movimento che
sembra averlo sedotto, e quell’ossessione della voluttà che è tipica di chi
sfiora la morte da vicino. «Non omettendo quasi nulla dell’opera di Poussin,
cambia quasi tutto», scrive John Lucas. Il Baccanale,
ridotto a un quarto del suo formato, eseguito ad acquarello e non a olio, è
diventato una pagina tipica dell’erotismo di Picasso, dei suoi sogni e dei suoi
incubi. La coppia centrale è rappresentata qui da una di quelle coppie che sono
consuete a Picasso: il fauno barbuto e una ninfa più vicina a Goya che all’Antico,
col suo profilo aguzzo e il collo segnato da rughe, con le anche immense e i
suoi seni serrati. Il capro al suo fianco ha due occhi segnati da una profonda
tristezza umana. Il quadro presenta esempi di quasi tutti gli stili di Picasso.
La donna col canestro di frutta dal profilo classico, le baccanti con la testa
a forma di minuscola sfera, un nudo a sfaccettature cubiste, giù giù fino ai
mostri con la testa di Giano. Dai grovigli dei corpi escono piedi smisurati,
enormi seni gonfi, mani a paletta. Uno strano turbine antropomorfo percorre il
quadro, nel quale gli alberi si torcono come corpi inarcati dal desiderio e le
membra umane si trasformano in alberi e foglie.
Picasso dipinge
febbrilmente durante la battaglia di Parigi: dipinge in un frastuono di
finestre sbattute, di carri armati che passano con rombo di tuono, tra il
fragore del cannone e della fucileria vicinissima, delle pallottole che
rimbalzano da una casa vicina. A chi più tardi si meraviglierà che abbia potuto
essere così presente al suo lavoro, così assorbito in esso, risponderà: «Era un
esercizio di disciplina».
Le truppe alleate
entrano in Parigi liberata. Si era sparsa la voce che Picasso era stato
arrestato, che era morto in prigione o in un campo di concentramento. I
corrispondenti dei giornali americani che fanno il bilancio delle rovine della
Francia vogliono controllare la notizia; i giornali sono immediatamente
informati: «Picasso è sano e salvo!» E la notizia di colpo appare molto
importante anche a coloro che hanno solo un’idea molto vaga della sua opera.
© per le foto di Giancarlo Mauri
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