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domenica 24 novembre 2019

Un giorno a Parigi - Le nozze di Apollinaire


Parigi, 4 novembre 2015. Dopo tanta pioggia caduta nella notte al mattino non c’è da aspettarsi un granché e uno sguardo dalle finestre certifica che il cielo è grigio elefante con nuances grigio topo. Meglio dedicarsi a una ricca colazione a base di baguettes e croissants calde di forno, marmellata e tanto café-au-lait, poi si vedrà.


Nel racchiuso spazio denominato Square Laurent-Prache - all’interno dell’area di competenza della chiesa dell’abbazia di Saint-Germaine-des-Prés - sopra una stele marmorea su cui è inciso A GUILLAUME APOLLINAIRE vi è la mozzata testa di Dora Maar, un bronzo di Pablo Picasso - e per la storia della realizzazione di questo tributo mi affido alle annotazioni estratte dai miei archivi.

1927. Picasso esegue una serie di disegni che propone al comitato per il monumento a Guillaume Apollinaire, non approvati.
1928. In autunno Picasso si trasferisce nel laboratorio dello scultore Juli Gonzáles, rue de Médéah, dove si dedica al monumento in onore di Apollinaire.
Nel 1942 Picasso modella la grande testa di Dora Maar, poi utilizzata per il monumento in onore ad Apollinaire in square Laurent-Prache, a lato della chiesa di Saint-Germain-des-Prés.
1958. A Parigi s’inaugura il Monument à Apollinaire.

Una brutta storia questa del monumento, come si evince dalle date, sinonimo di continui ripensamenti (di convenienza politica) da parte delle autorità che governano Parigi, poco interessati a rendere omaggio a colui che più di altri ha saputo rinnovare la sopita poesia francese del suo tempo. Tiremm innanz.





Sul lato opposto della place il Prometheus di Ossip Zadkine è un punto fermo, sempre lì, implacabilmente eretto sul suo piedistallo.





Poco oltre, le fauci de Les Deux Magots e del Café de Flore sono pronte a inghiottire il viandante in cerca di un ristoro.
Parlando di Picasso, così scrive Brassaï:

[1935] La vita di bohème riprendeva il sopravvento. Provato e ferito dai contrasti coniugali, addirittura disgustato della pittura, rimasto solo nei suoi due appartamenti, aveva fatto appello al grande amico d’infanzia Jaime Sabartés che, dopo essere stato a Montevideo, si era trasferito da molto tempo negli Stati Uniti con sua moglie. Picasso gli chiese di ritornare in Europa e di venire ad abitare a casa sua, con lui… Era una specie di grido di disperazione… Era la crisi più grave della sua vita. Sabartés arrivò a novembre e andò ad abitare dal suo amico in rue La Boétie; incominciò a riordinargli le carte, i libri, a decifrarne le poesie e a batterle a macchina… Da allora, come il viaggiatore e la sua ombra, quello con gli occhi più acuti accompagnato da quello più miope, li si incontrava quasi sempre assieme da Lipp, ai Deux-Magots, al Café de Flore, i tre centri d’attrazione di Saint-Germain-des-Prés, che incominciava allora a soppiantare Montparnasse.



1936. Ai Deux Magots una sera Picasso, gli Éluard e altri amici restano affascinati da un insolito spettacolo: una giovane donna gioca a conficcare velocemente la lama di un coltello tra le dita, ferendosi. È questo il primo incontro con Henriette Theodora Marković, in arte Dora Maar, in seguito compagna di Pablo Picasso nonché la modella della testa poi finita sul monumento ad Apollinaire.
Dopo l’edicola vi è l’Ecume des Pages, la libreria che ha preso il posto lasciato vacante da La Hune, un luogo dove a suo tempo - anni Ottanta, quando avevo un ufficio a Parigi - amavo trascorrere le ore tra il dopocena e l’ora chiusura della libreria consultando (e acquistando) tanti libri introvabili in Italia. Vecchi ricordi mai sopiti.


La pioggia cade a livello accettabile. Al numero 202 del boulevard Saint-Germain, angolo rue Saint-Guillaume - strana coincidenza - una lapide ricorda che dal gennaio 1913 al 9 novembre 1918 qui è vissuto e morto l’autore di Alcools e di Le Poète assassiné. Purtroppo, i punti geografici raramente corrispondono alla realtà storica. Il palazzo di oggi poco o nulla a che vedere con quello abitato da Apollinaire, che aveva preso in affitto un piccolo appartamento all’ultimo piano con accesso dalla corte interna.






Scrive Cecily Mackworth in Vita cubista, pagine varie da me raggruppate:

Due giorni dopo, il 17 marzo [1916], in una trincea del Bois des Buttes vicino a Berry au Bac, Apollinaire fu ferito da una scheggia di granata che gli passò l’elmetto e penetrò nel cranio, sopra la tempia destra. Dopo una sommaria operazione nell’ambulanza fu inviato a Château-Thierry, infine all’ospedale militare di Val-de-Grâce a Parigi. Il referto medico informava che avrebbe dovuto essere trapanato immediatamente, ma non si sa per quale ragione, l’operazione fu rimandata e Apollinaire fu trasferito all’ospedale italiano, in cui l’amico Férat era medico ordinario. Qui fu curato da parecchie belle ragazze della nobiltà italiana, che riuscirono ad infondergli coraggio. In quel periodo corresse le bozze di un volume di racconti che prese il titolo da Le poète assassiné. Aveva inoltre una buona ragione per essere soddisfatto. Due anni prima, seguendo le istruzioni di Toussaint Luca, si era dato da fare per essere naturalizzato; gli era stato assicurato che dopo essere stato accettato come volontario nell’esercito francese, gli avrebbero concesso la cittadinanza. Sfortunatamente c’era l’affare delle statuette e una ricca (e spesso tendenziosa) documentazione negli archivi della polizia. Anche il suo legame con il cubismo non lo aveva aiutato affatto e la sua domanda, per un’obbiezione o l’altra, era sempre stata archiviata. Finalmente venne portata a termine una lunga inchiesta la quale concludeva che “dal punto di vista nazionale non si può obbiettare niente che possa farlo apparire sospetto”. La naturalizzazione gli fu concessa proprio nel momento in cui il suo reggimento tornava al fronte, pochi giorni prima cioè che venisse ferito. Così, solo molto tempo dopo, Apollinaire seppe che si era realizzato uno dei più ardenti desideri della sua vita.
La ferita, però, che si pensava dovesse guarire perfettamente, aveva invece intaccato qualche punto vitale del centro nervoso, tanto che una paralisi progressiva gli colpì il braccio sinistro, accompagnata da una forte depressione nervosa.
Alla fine risultò chiaro che il paziente poteva essere salvato solo mediante la trapanazione. L’operazione a quei tempi era una delle più terribili, ma Apollinaire la sopportò con coraggio e buon umore tanto da stupire medici e infermiere.
La paralisi fu arrestata e subito scomparve: ora era convalescente. Non appena gli tornarono le forze, cominciò di nuovo a lavorare furiosamente, inspiegabilmente, come se la parola destino, che aveva sempre avuto per lui un significato profondo e misterioso, contenesse una nuova e più precisa minaccia.
Dopo l’operazione Apollinaire non fu mai più l’uomo di prima. All’ospedale era diventato più grosso che mai, sotto la testa bendata gli occhi avevano un’espressione di selvaggia ansietà che non lo avrebbe mai più abbandonato. Soggiaceva a crisi d’irritabilità, si accrebbe la vanità infantile che era stata sempre particolare del suo carattere e con l’accrescersi di questa divenne sempre più suscettibile.
Quando Apollinaire uscì dall’ospedale con la testa fasciata e la divisa quasi nuova da ufficiale, divenuta un po’ troppo stretta per lui, si trovò in una città completamente diversa. Era l’agosto del 1916, la terribile ed estenuante battaglia di Verdun continuava ancora e l’esito era incerto. La carneficina, lungo tutto il fronte occidentale, non sembrava voler diminuire e la maggior parte dei suoi amici ufficiali erano stati feriti o uccisi. Ma egli talvolta rimpiangeva di aver abbandonato l’esercito. Dopo il forte spirito cameratesco del reggimento, a lui, convalescente, sembrava che i civili, a casa, non sapessero nulla della guerra, se ne interessassero poco e vivessero avviluppati nel loro egoismo. Ovunque era diffuso lo spirito di speculazione e si speculava su ogni tipo di merce, anche la più inimmaginabile.
La posizione di Apollinaire era incerta. La Francia era disperatamente a corto di uomini e specialmente di ufficiali esperti. I feriti venivano ricoverati, curati e rinviati quanto prima possibile in trincea. Dalize, Mac Orlan, Vildrac erano stati tutti feriti nei primi giorni della guerra e adesso erano di nuovo in servizio attivo, così Georges Braque, che aveva avuto una ferita gravissima alla testa ed era stato trapanato come Apollinaire. Questi non era stato ancora congedato e la licenza di due mesi per convalescenza stava per finire. Finalmente André Billy, che aveva amici influenti in molti settori, ottenne per lui un posto nella sezione stampa della censura. Là Apollinaire cominciò un nuovo servizio come funzionario civile, per quanto dipendesse ancora dall’esercito e fosse sempre in uniforme; era obbligato a presentarsi tutt’i giorni, e puntualmente, in ufficio. Il suo compito era quello di eliminare dalle pagine dei quotidiani e delle riviste tutto ciò che poteva essere considerato utile al nemico, o di spirito disfattista. Così egli stesso contribuiva a molti degli articoli che passarono nelle sue mani e spesso ebbe il piacere di pubblicare qualche suo scritto “approvato dal censore” apponendovi le proprie iniziali.
Durante i primi anni della guerra qualsiasi attività artistica che non avesse un carattere decisamente patriottico era sembrata un po’ sospetta. Ora la guerra era divenuta una cosa quasi normale e Parigi stava riprendendo, anche se in modo piuttosto timido e sporadico, la sua vita intellettuale. L’appartamento di Louise Faure-Favier in quai Bourbon era uno dei luoghi più in vista, dove potevano incontrarsi scrittori e artisti in licenza, quasi stupiti di ritrovarsi ancora vivi, e in quelle poche e brevi ore cercavano di rivivere lo spirito pieno di allegria del 1914. In quel mondo alieno in cui ora viveva, Apollinaire trovava qui uno dei pochi luoghi che ancora lo facessero sentire a casa.
Apollinaire, a trentasette anni, era molto diverso dall’uomo di dieci anni prima o forse aveva visto, sentito, indovinato troppe cose.
La Jolie Rousse era stato un addio alla vecchia vita e aveva rivelato un insolito arretramento, un’esitazione di fronte al futuro. Aveva segnato la scelta per l’ordine, ma una scelta che sembra fatta con riserva, con la coscienza inquieta. Anche il titolo ha un significato, sebbene non appaia a prima vista. Apollinaire aveva avuto molte delusioni, per tutta la vita era stato privato di quella tenerezza che aveva sempre desiderato. Ora, infine, aveva conosciuto una giovane con i capelli di un rosso fiammeggiante, dai riflessi dorati, che rappresentava per lui esattamente quell’ardente “ragione” che era giunto a identificare con la verità. Jacqueline Kolb seppe calmare la sua ansia, sorvegliare la sua salute, togliergli i timori e le apprensioni che tanto spesso l’assalivano. Ella era il sostegno; riuscì talvolta a fargli ritrovare la vecchia capacità di tanta allegria, che riconosceva come il dono più prezioso e che temeva tanto di perdere.
Apollinaire e Jacqueline Kolb si sposarono nella chiesa di Saint-Thomas d’Aquin il 2 maggio del 1918, Picasso, Ambroise Vollard, Lucien Descaves e Gabrielle Picabia furono i testimoni. Misero su casa in un appartamento del boulevard Saint- Germain e la vita continuò con lo stesso ritmo eccitante. Apollinaire si alzava presto, faceva il caffè, mentre canterellava le cinque o sei note al ritmo delle quali, invariabilmente, componeva le poesie. Poi cominciava la giornata di lavoro al ministero, intervallato dalla tormentosa attività giornalistica, da cui proveniva la maggior parte delle sue entrate. Si stava sforzando a scrivere un romanzo, dietro urgente richiesta dei suoi editori, e a comporre il libretto per un’opera che aveva immaginata durante una conversazione con Diaghilev. La pubblicazione di Calligrammes aveva accresciuto la sua celebrità, gli aveva portato nuovi obblighi e lo spingeva a fronteggiare nuovi attacchi.
L’eccessivo lavoro gli aveva sottratto molte forze, poco prima del matrimonio era stato ricoverato all’ospedale italiano con una polmonite. Jacqueline, trasformata in infermiera, era rimasta al suo fianco; con l’aiuto dei medici, il conforto di Jacqueline e la robusta costituzione, era riuscito a trionfare sulla malattia. Ora in quell’autunno del 1918, mentre il mondo era in un’aspettativa piena di tensione per la fine della guerra, proruppe l’epidemia mortale di spagnola che ben presto infuriò in tutta la Francia. Apollinaire ne fu colpito, lottò per alcuni giorni, poi, quando tutti lo credevano fuori pericolo, ebbe una ricaduta. In guerra non aveva mai temuto la morte, e ora combatté per la vita con disperata energia, ma il 9 novembre era già chiaro che non c’era più niente da fare. Proprio in quel giorno era stato stipulato l’armistizio e se ne attendeva l’annuncio di minuto in minuto. Durante tutto il giorno Apollinaire aveva sentito la folla per la strada sotto la finestra, che cantava “Abbasso Guglielmo! Abbasso Guglielmo!” e nel delirio gli era sembrato che tutta Parigi si fosse levata in una dimostrazione di ostilità contro di lui... Mais riez riez de moi... Ayez pitie de moi... Morì alle sei del pomeriggio, stringendo la mano del dottore e implorandolo: “Mi salvi, dottore, ho ancora tanto da dire!” Aveva appena trentott’anni.

Continuo a seguire le tracce lasciate da Guil Apollinare. Più avanti, a destra, prendo per rue du Bac e subito mi si para di fronte la facciata della chiesa di Saint Thomas d’Acquin, la stessa dove si è sposato Apollinaire e dove, non molto tempo dopo, si sono celebrati i suoi funerali.

Estraggo da Picasso/Apollinaire. Correspondance, pp. 164-165:

Monsieur Pablo Picasso 20 24 ou 28 rue Victor Hugo Montrouge Seine
[30 avril 1918]
Cher Pablo
Je me marie jeudi - tu es mon témoin - sois à la mairie du 7e arr. rue de Grenelle - C’est près de la rue Bellechasse - à 10 ½ précises - salle des mariages - mais réponds si c’est entendu - nous t’attendons avec ta fiancée - nous déjeunerons tous ensemble après la cérémonie religieuse qui aura lieu à St Thomas d’Acquin
Ton ami
Guil Apollinaire

Questa carte-lettre non segnala il posto scelto per il pranzo. Rimedio: Chez Poccardi, Boulevard des Italiens.







Entro. La chiesa è vuota ma i miei occhi “vedono” sia gli sposi - Guillaume Apollinaire ed Amélie Kolby detta Jacqueline - che i testimoni - Pablo Picasso in prima linea - raggruppati di fronte all’altare e intenti ad eseguire quanto il rito prevede: in piedi, in ginocchio, di nuovo in piedi, seduti…
Dietro all’altare vi sono delle sedie. Passando per un’apertura laterale le raggiungo. Da qui, dalla posizione del sacerdote, quanto sopra mi appare più chiaro e non riesco a trattenere un sorriso: quanto avrei voluto esserci quel giorno!
La porta della sacrestia si apre e un giovane sacerdote mi raggiunge. Ci sorridiamo e alla maniera francese ci diamo la mano augurandoci un reciproco bonjour monsieur. Dico: in questa chiesa si è sposato Guillaume Apollinaire con Picasso testimone… Lui annuisce ma non risponde. Ho capito che non sa. Mi saluta e così come è arrivato così sparisce dietro la porta.
Mi siedo e mi prendo il mio tempo.
Quando esco la pioggia è ormai del tutto cessata.