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martedì 1 marzo 2016

André SALMON. La jeune peinture française (1912)



Nel 1912 la Imprimerie Bussière di Saint-Amand (Cher) licenzia La jeune peinture française, il libro scritto da André Salmon che ha trovato nella Société des Trente | Aubert Messin | Paris | 19, quai Saint-Michel 19 | il suo editore.
Il volume in -8° (20,5 x 14 cm) consta di 124 pagine, così suddivise: Avant-propos (pp. 1-7); Les Fauves (pp 9-40); Histoire anecdotique du Cubisme (pp 41-61); L’Art vivant (pp 63-100); Una renaissance du paysage français (pp 101-110) e La peinture féminine au XXe siècle (pp 111-121.
Di questo libro sono state stampate 530 copie numerate, così suddivise: 10 esemplari su carta Chine, 20 esemplari su carta Japon e 500 esemplari su vergé d’Arches.
Questa bassa tiratura, riservata ai soci della Société des Trente, ha contribuito fin da subito a rendere introvabile questo volume, il primo testo stampato in cui si narra dell’esistenza di un dipinto di Pablo Picasso - fino ad allora sconosciuto - raffigurante tre prostitute di un bordello della carrer d’Avynió di Barcellona, postribolo a due passi dalla casa in cui si era trasferita la famiglia Picasso nel 1895 e luogo d’iniziazione sessuale (e di rifugio, per un certo periodo) per il quattordicenne Pablo. Partendo da queste conoscenze, i poeti Max Jacob e Guillaume Apollinare - quest’ultimo aveva avuto modo di vedere questa tela il 27 febbraio 1907 - avevano suggerito il nome di Le bourdel philosophique.
Deluso dai commenti dei suoi più intimi amici, Picasso aveva tenuto Le bourdel arrotolato e appoggiato sul pavimento e questo anche dopo il aver lasciato il Bateau-lavoir. Scrive Antonina Vallentin in Vita di Picasso, p. 154: “Raramente riprodotta (la prima volta nel 1925) Les demoiselles d’Avignon passò nella collezione di Jacques Doucet (1923) che la fissò sul muro del vano delle scale di casa sua. Il quadro fu esposto per la prima volta al Petit Palais di Parigi in occasione dell’Esposizione Universale del 1937.”
Come tante affermazioni di questa autrice, anche questa non corrisponde al vero: in realtà è stato André Salmon - ed è questo che Kahnweiler gli invidiava di più - a presentare nel luglio 1916 al Salon d’Antin di Paul Poiret Le bourdel di Picasso, proposto col nome di Les demoiselles d’Avignon. Non erra invece la Vallentin quando scrive a p. 149 del suo libro: “Non sapete fino a che punto mi irrita questo titolo - ha confessato un giorno Picasso, - è stato Salmon ad inventarlo.”
Due anni dopo sarà la Galerie Paul Guillaime di Parigi ad esporre per la seconda volta Les demoiselles nell’ambito di una esibizione da Picasso a Matisse.
Anno 1922, mese di gennaio. Scrive Pierre Assouline ne Il mercante di Picasso, p. 226: “Kahnweiler ha sofferto molto, nel veder andar via, all’inizio dell’anno, Les demoiselles d’Avignon dallo studio di Picasso. Le ha acquistate per 25.000 franchi il sarto-collezionista-mecenate Jacques Doucet, ben consigliato dalla sua cavalleria leggera nel campo artistico, André Breton e Louis Aragon.”
La transazione non è stata del tutto semplice: Doucet offre 20.000 franchi, Picasso chiede di più. L’accordo si trova su 25.000, a questa condizione: Doucet pagherà a Picasso 2000 franchi al mese fino al raggiungimento della somma pattuita, quando Picasso consegnerà la tela. Alla fine - scrive Breton nel 1961 - nelle tasche di Picasso arriveranno 30.000 franchi.
Nei primi giorni di dicembre 1924 Les demoiselles entrano al 46, avenue du Bois di Nearly-sur-Seine, l’indirizzo della nuova lussuosa casa di Doucet, e lì resteranno fino al 1928, l’anno in cui Doucet trasferisce la sua Maison nel nuovo palazzo residenziale al 33, rue Saint-James di Neuilly.
In cuor suo Doucet desidera che dopo la sua morte, avvenuta il 30 ottobre 1929, Les demoiselles fossero destinate ad essere esposte al Louvre. Contattati in merito dagli eredi, i burocrati del Louvre rifiutano per questioni di Regolamento (al Louvre si espongono solo opere di artisti defunti) e quelli del Luxembourg (dove si espongono anche opere di artisti viventi) decidono di non esprimersi: Picasso è un uomo marchiato…
Al contrario, dall’altra parte dell’oceano vi sono uomini con meno scrupoli circa la vita privata degli artisti: A. Conger Goodyear, presidente del Museum of Modern Art (MoMA) di New York, coadiuvato da César M. de Hauke della Seligmann Gallery e con la mediazione del mercante d’arte René Gimpel, giocano le loro carte. Nel 1937 gli eredi del defunto Doucet (che, guarda caso, risiedono in una casa-museo ad Avignon, Francia) vendono Les demoiselles al MoMA in cambio di 24.000 dollari dell’epoca. E lì ci è rimasto.

Maison Paul Doucet
33, rue Saint-James, Neuilly-sur-Seine
photo Pierre Legrain (1933)







giovedì 18 giugno 2015

Balzac e Picasso in Rue des Grands-Augustins



«C’è crisi. Nonostante il suo ottimismo di fondo, Kahnweiler era preparato. Ormai la si deve affrontare. Il 25 ottobre 1929, la borsa di New York crolla secondo uno schema tutto sommato banale, poiché lo riscontriamo nella crisi che ha colpito la Francia nel 1882 e in quella degli Stati Uniti del 1907. Ma questa sarà più lunga e più ampia.
Si prospettano anni di vacche magre. Il cosiddetto commercio del lusso, qual è il mercato dell’arte, come potrà non soffrirne? ... Kahnweiler ha la sgradevole impressione che niente valga più niente. Nessuno compera. ... Tutti sono nella stessa barca. Ogni tanto il morale risale. Si parla di una leggera ripresa. ... Kahnweiler esprime queste opinioni nelle lettere al cognato Michel Leiris che sta percorrendo l’Africa come segretario-archivista della missione Dakar-Gibuti. Anche le opinioni di quest’ultimo sulla crisi, vista da Dakar o da Yaoundé, sono interessanti: “Ho una gran fretta di essere nella savana, lontano dagli europei imbecilli e dai negri truccati. ... Vista da lontano la situazione europea mi sembra più che mai insensata. In ogni caso essa costituisce la prova più schiacciante dell’inutilità della nostra civiltà”.
Alla galleria ci si annoia a morte. È un deserto. ... Fra il 1929 e il 1933 la galleria Simon non organizza neppure una mostra. Anche l’attività editoriale è considerevolmente ridotta: escono solo le poesie di Carl Einstein e L’anus solaire di Georges Bataille. Gli altri aspetteranno. Non si può ingozzare un pubblico restio.»
Pierre Assouline. Il mercante di Picasso
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990, pp 275-277



Certo, sono anni difficili, aiutati dalla vecchia regola della coperta corta: se la massa ha i piedi al freddo è perché pochi hanno le spalle al caldo. Le gallerie d’arte cercano di sopravvivere e le loro attività collaterali, quali l’edizione di libri da collezione, boccheggiano per mancanza d’ossigeno.
È proprio in questo momento storico che un ricco mercante di quadri, Ambroise Vollard, lancia il guanto e sfida il destino - e qui mi fermo per fare un balzo indietro nel tempo di cent’anni, quando il 31 luglio e il 7 agosto 1831 il periodico L’artiste pubblica Le chef-d’œuvre inconnu di Honoré de Balzac,[1] che inizia così:

Vers la fin de l’année 1612, par une froide matinée de décembre, un jeune homme dont le costume était de très-mince apparence, entra dans une maison de la rue des Grands-Augustins, ...&tc. &tc.



Ritorno all’anno 1931. Come detto sopra, la crisi morde i polpacci ai poveri e al ceto medio, ma non sono queste masse ad aver reso ricco Vollard. Il mercato ristagna, è vero, ma lui, che ama il rischio (calcolato), chiede a Picasso se ha dei disegni utili ad illustrare una nuova edizione de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tirata in poche copie e in grande formato. Roba di lusso, per collezionisti ricchi.
Scrive Patrick O’Brian in Picasso (pp. 320-321), una biografia già citata in altri miei post:

Un artista al lavoro, talvolta un pittore, talaltra uno scultore, spesso con una modella, fa ora la sua comparsa tra i personaggi di Picasso: una figura che ritroveremo spesso nei suoi quadri, in varie forme, mai però ispirata a un sentimento di autostima.
Spesso si tratta di un uomo tarchiato, con barba, abbastanza «classico» non fosse per i calzoncini corti, dall’aria sbalordita se non stupida, quale a volte può avere un toro; in una delle prime acqueforti l’uomo è seduto davanti al cavalletto e fissa attentamente la modella o qualcosa attraverso di lei; intanto con la destra traccia una mirabile serie di curve e di piani rettilinei che non sembrano avere molta attinenza con la donna: costei, d’aspetto gradevole, di mezz’età, lavora a maglia in grembiule ed è disegnata, al pari dell’uomo, con il perfetto realismo descrittivo che Picasso, quando voleva, sapeva produrre.
Sarebbe interessante sapere se l’acquaforte fu eseguita prima che Vollard parlasse a Picasso della sua intenzione di realizzare un’edizione illustrata del Chef d’oeuvre inconnu di Balzac, poiché il libro narra di un pittore il cui capolavoro non può essere capito da nessuno se non dal suo stesso autore, ma in proposito gli studiosi hanno pareri contrastanti e anche i ricordi di Vollard sono vaghi. Altrettanto interessante sarebbe sapere se Picasso avesse letto il romanzo o no. Dalla descrizione che ne fece a Geneviève Laporte molti anni più tardi sembrerebbe di no, eppure poche opere gli sarebbero maggiormente piaciute. Molto succintamente la storia, ambientata nel 1612, è questa: il giovane Nicolas Poussin va a trovare il noto pittore Pourbus in Rue des Grands-Augustins e, dopo qualche esitazione, entra nello stesso istante in cui sopraggiunge anche un ricco signore anziano, di nome Frenhofer: Frenhofer critica il lavoro di Pourbus con grande libertà, esprimendo alcune opinioni molto interessanti in fatto di pittura. Poussin, sconosciuto a entrambi, si intromette ed è riconosciuto da ambedue quale un vero artista. Pourbus è gentile con il giovane, lo incita a lavorare, gli dice che Frenhofer era stato allievo di Mabuse e che adesso è pittore dilettante giacché, essendo ricco, non è obbligato a vendere, ma capace al punto che Pourbus ha scambiato i suoi dipinti per quelli di Giorgione. L’amicizia si fa più stretta, grazie anche al fatto che Poussin ha una giovane amante molto bella («una di quelle anime nobili e generose capaci di soffrire accanto a un grand’uomo, condividendone angosce e difficoltà e facendo tutto il possibile per comprenderne gli umori, sopportando l’indigenza e attingendo forza all’amore»), una donna che a Frenhofer piacerebbe avere come modella. Un giorno si trovano tutti nello studio di Frenhofer, dove Poussin vede alcuni quadri di mirabile fattura, che tuttavia Frenhofer giudica di poco conto a paragone del suo capolavoro, un dipinto che egli è estremamente riluttante a mostrare; infine si decide e lo fa vedere agli amici. Poussin non riesce a capire nulla in quel caos di colori, in quelle «gradazioni incerte, in quella specie di bruma informe», tranne «un solo piede, vivo e squisito». Dice però che non riesce a distinguere alcuna figura femminile nel dipinto. Frenhofer piange, per un attimo cerca di confortarsi immaginando che i due siano ladri, ma finisce per bruciare il quadro quella stessa notte, e muore.
Nel 1931, quando finalmente fu pubblicato, il libro conteneva acqueforti e disegni di Picasso puntiformi e cubisti, certamente precedenti all’idea del libro, oltre a qualche acquaforte realizzata per l’occasione; in tutto ottanta illustrazioni.

Sebbene Picasso abbia scelto le incisioni “a naso”, l’unità dell’opera non ne esce alterata. Il successo di critica e di vendita premiano il coraggio dell’editore.



Potrei fermarmi qui, se non fosse che il bello è ancora da venire.
Siamo ai primi giorni di gennaio del 1937 e Picasso, privato del grande studio di Boisgeloup che il tribunale ha assegnato a sua moglie Olga, da cui si è separato, cerca una nuova sistemazione per lavorare. Gli viene incontro Vollard che gli affitta una vecchia casa da lui comperata a Le Tremblay-sur-Mauldre, col granaio trasformato in studio; come abitazione, a Parigi il pittore mantiene i due piani acquistati in Rue La Boëtie, mentre la sua nuova fiamma, Dora Markovich - in arte Dora Maar - vive in un appartamento in Rue de Savoie, vicinissimo al complesso di studi che Picasso ha preso in affitto da alcuni anni, ma che finora ha poco o nulla frequentato.
Lo fa verso la fine di marzo, quando decide di occupare saltuariamente i due piani della vecchia casa del Settecento al n. 7 di Rue des Grands-Augustins, chiamata il “granaio Barrault” dal nome del vecchio inquilino - e il caso vuole che questa fosse proprio la casa in cui Balzac aveva ambientato Le chef-d’œuvre inconnu, una storia che ruota attorno a un pittore ...cubista.
Poche settimane dopo, il 26 aprile, la città di Guernica è distrutta dai bombardieri tedeschi, ma la notizia arriva a Parigi il 28. Nello studio di Rue des Grands-Augustins il primo maggio Picasso esegue i primi cinque schizzi preparatori della tela che a giugno sarà esposta al Padiglione spagnolo dell’Esposizione Internazionale di Parigi, da allora nota col nome della città martire, Guernica.
Ma è solo nel mese di giugno del 1939 che Picasso si insedia definitivamente al numero 7 di Rue des Grands-Augustins, seppur continuando a conservare l’appartamento di Rue de la Boëtie, dove lascia parte delle sue pitture. Per l’occasione, l’artista decide di far mettere il riscaldamento centrale per rendere abitabili i due piani dell’ex granaio Barrault. Decide anche di impiantare in casa un laboratorio d’incisione e fa venire da Boisgeloup il vecchio torchio e tutto il materiale necessario. Verso la fine di giugno ogni lavoro è terminato e Picasso può iniziare la sua ennesima vita, entusiasmando Vollard con i suoi progetti di stampe per edizioni future. Purtroppo il sogno di Vollard è di breve durata: il 21 luglio, a causa di incidente d’auto, muore dopo essere stato colpito alla nuca da una pesante scultura di Maillol che stava trasportando.



Anno 1940, anno di guerra. Picasso continua ad abitare in Rue La Boëtie, ma i tragitti tra la casa e lo studio divengono difficili. Decide così di trasferire la residenza in Rue des Grands-Augustins, installandovi una camera da letto. Per i pasti, capita spesso in un ristorante che porta un nome suggestivo, Le Catalan - 25, Rue des Grands-Augustins. Ed è qui che una sera di maggio del 1942, mentre sta cenando con Dora Maar, Marie-Laure de Noailles e altri amici, nota due giovani belle donne sedute a un tavolo in compagnia di Cuny, un attore allora in auge. Dopo le presentazioni e scambiata qualche battuta Picasso invita le ragazze a fargli visita nella sua casa-studio e molti anni dopo una delle due, Françoise Gilot, scriverà nelle sue acide memorie (pp 12-15):

Il lunedì seguente, verso le undici, Geneviève e io ci arrampicavamo per una buia e stretta scala a chiocciola, nascosta nell’angolo del cortile acciottolato del numero sette di rue des Grands-Augustins, e bussavamo alla porta dell’appartamento di Picasso. Dopo una breve attesa, la porta si aprì di pochi centimetri per rivelare il naso lungo e sottile del suo segretario, Jaime Sabartés. Non l’avevamo mai incontrato prima di allora, ma sapevamo chi era. Avevamo visto riproduzioni dei disegni che Picasso gli aveva fatto e Cuny inoltre ci aveva avvertito che sarebbe stato lui ad accoglierci. Ci guardò con aria sospettosa e chiese: «Avete un appuntamento?» Risposi affermativamente. Ci lasciò entrare. Aveva un aspetto inquieto e ci scrutava dietro le spesse lenti.
Entrammo in un vestibolo pieno di uccelli - c’erano delle tortore e un certo numero di uccelli esotici dentro a gabbie di vimini - e di piante. Le piante non erano belle; verdi e spinose come se ne vede spesso nei vasi di rame delle portinerie. Là invece erano disposte in un modo più attraente, e facevano un bell’effetto di fronte alla finestra spalancata. Avevo visto una di quelle piante un mese prima, in un ritratto recente di Dora Maar, esposto, a dispetto dei nazisti che avevano messo al bando le opere di Picasso, in un angolo della galleria di Louise Leiris, in rue d’Astorg. Era un magnifico ritratto in rosa e grigio. Sul fondo della tela c’era una vetrata a piccoli riquadri, che riconobbi nella vecchia e grande finestra, una gabbia d’uccelli e una di quelle piante verdi.
Seguimmo Sabartés in una seconda stanza, molto lunga. Disposti su vecchi divani e su sedie Luigi XIII si trovavano chitarre, mandolini ed altri strumenti musicali che pensai Picasso avesse usato per i suoi quadri del periodo cubista. Egli mi raccontò più tardi che aveva acquistato quegli strumenti dopo aver dipinto i quadri, non prima, e che li conservava a ricordo degli anni del Cubismo. La stanza era bella e ampia, ma vi regnava un disordine indescrivibile. La lunga tavola che si stendeva fino a noi e due banchi da falegname, uno a prolungamento dell’altro, ridosso alla parete di destra, erano coperti da pile di libri, di riviste, di quotidiani, di fotografie, di cappelli e di oggetti di vario genere. Sopra uno di questi banchi era posato un pezzo di cristallo grezzo d’ametista, grande quanto una testa umana. Al centro di questo blocco c’era una piccola cavità, totalmente chiusa, piena di qualcosa che sembrava acqua. In un ripiano sotto al tavolo si trovavano una pila di vestiti da uomo e tre o quattro paia di scarpe.
Mentre costeggiavamo la grande tavola centrale, notai che Sabartés girava attorno a un oggetto di color bruno scuro, posato sul pavimento, vicino alla porta che dava nella stanza accanto. Quando mi avvicinai, mi accorsi che si trattava di una scultura: un cranio in bronzo.
La stanza successiva era uno studio quasi totalmente stipato di sculture. Vidi così L’uomo col montone, ora fuso in bronzo e collocato nella piazza del mercato di Vallauris, e che, a quel tempo, era semplicemente di gesso. C’erano inoltre numerose grandi teste di donna che Picasso aveva eseguito a Boisgeloup, nel 1932, un ammasso di manubri di bicicletta, rotoli di tele, un Cristo spagnolo di legno policromo del XV secolo, e una bizzarra e affusolata scultura, rappresentante una donna che teneva in una mano una mela e nell’altro braccio qualche cosa che assomigliava a una borsa dell’acqua calda.
La cosa più sorprendente, tuttavia, era costituita da uno squillante Matisse, una natura morta del 1912, che rappresentava una fruttiera piena d’arance posata sopra una tovaglia rosa e contro un fondo oltremare e color rosa di Tiro. Ricordo anche un Vuillard, un Doganiere Rousseau e un Modigliani; ma in quello studio avvolto d’ombra, lo splendore del Matisse squillava fra le sculture. Non potei trattenermi dall’esclamare: «Oh, che bel Matisse!» Sabartés si volse e disse, austero: «Qui non c’è che Picasso!»
Per un’altra scaletta a chiocciola, all’estremità della stanza, salimmo al secondo piano dell’appartamento di Picasso. Là il soffitto era molto più basso. Passammo in un grande studio. Sul fondo, circondato da sette od otto persone, scorsi Picasso. Indossava un vecchio paio di pantaloni che gli stavano larghi e una maglia da marinaio a righe bianche e blu. Quando ci vide il suo volto si illuminò di un sorriso. Lasciò il gruppo e ci venne incontro. Sabartés brontolò qualcosa circa il nostro appuntamento e scomparve.
«Volete vedere lo studio?» chiese Picasso. Rispondemmo di sì. Speravamo che ci mostrasse dei quadri, ma non osavamo chiederlo. Ci ricondusse al piano inferiore, nello studio di scultura.
«Prima che m’installassi qui,» disse, «questo primo piano era il laboratorio di un tessitore, quello di sopra, lo studio di Jean-Louis Barrault. In questa stanza ho dipinto Guernica.» Si era seduto su una tavola Luigi XIII, davanti alle finestre che davano sul cortile interno. «A parte questo, non lavoro quasi mai in questa stanza. Ho scolpito qui L’homme au mouton,» disse indicando il grande gesso dell’uomo che tiene fra le braccia la pecora, «ma dipingo lassù e, di solito, eseguo le sculture in un altro studio che si trova poco più avanti su questa strada. «La scala a chiocciola che avete preso per venir qui è quella che il giovane pittore de Le chef-d’œuvre inconnu di Balzac saliva per andar a trovare il vecchio Pourbus, l’amico di Poussin che dipingeva tele non comprese da nessuno. Oh, tutto il luogo è ricco di fantasmi storici e letterari. Bene, torniamo su.» Scivolò giù dalla tavola e lo seguimmo per la scaletta a chiocciola. Ci condusse attraverso il grande studio, attorno al gruppo dei visitatori, nessuno dei quali alzò la testa al nostro passaggio, fino a una piccola stanza, proprio in fondo.
«Qui lavoro alle mie incisioni,» disse. «Guardate qui.» Si diresse verso l’acquaio e aprì il rubinetto. Dopo un po’ l’acqua prese a fumare. «Meraviglioso, vero? Nonostante la guerra ho l’acqua calda. Del resto,» aggiunse, «potete venire a fare il bagno quando volete.» Ma non era l’acqua calda che ci interessava, nonostante che allora fosse scarsa. Guardando Geneviève pensai: «La smettesse di parlare dell’acqua calda e ci facesse vedere almeno dei quadri!» Invece cominciò a tenerci un piccolo corso sulla tecnica dell’acquaforte e stavo proprio pensando che con tutta probabilità ce ne saremmo dovute andare senza vedere alcuna delle sue opere e che non saremmo mai più ritornate, quando, finalmente, ci condusse nel grande studio e ci mostrò alcuni quadri. Ricordo un gallo, ricco di colore e forte nell’impostazione, che lanciava un vigoroso chicchirichì. Ricordo anche un altro quadro, dello stesso periodo, molto rigoroso e tutto in bianco e nero.
Verso l’una, il gruppo dei visitatori ci lasciò e ciascuno prese congedo.
Ciò che mi colpì in modo curioso fin da quel primo giorno fu il fatto che lo studio sembrava il tempio di una specie di «religione picassiana», e che tutti i presenti apparivano completamente immersi in quel culto - tutti, eccetto quell’uno cui quell’attenzione era rivolta. Egli sembrava prender tutto per scontato, senza dare importanza a nulla in particolare come se volesse mostrarci che non intendeva affatto essere al centro di un culto.
Mentre ci apprestavamo ad andarcene, Picasso ci disse: «Se volete ritornare, fatelo. Ma non come pellegrini che vanno alla Mecca. Venite perché trovate interessante la mia compagnia e perché volete avere con me uno scambio semplice e diretto. Se volete vedere soltanto i miei quadri, potete benissimo andare in un museo.»
Non presi troppo seriamente quest’osservazione. Prima di tutto perché a quel tempo non c’era quasi alcun Picasso nei musei parigini. Secondo, perché egli si trovava nella lista dei pittori proibiti dai nazisti e nessuna delle gallerie private poteva esporre apertamente le sue opere e in una certa quantità. E a un pittore non basta vedere le opere di un altro pittore riprodotte in un libro. Per conoscere meglio i suoi lavori, ed era il mio caso, la cosa più semplice era di recarsi al numero 7 di rue des Grands-Augustins.

Per essere la prima visita, i fin troppo precisi dettagli rendono poco credibile questo racconto. Comunque sia, per alcuni anni i due si frequentano come amici, finché, scrive ancora la Gilot, «una sera sul presto, verso la fine di maggio 1946, mentre mi preparavo a lasciare Rue des Grands Augustins per tornare dalla nonna, Pablo ricominciò a insistere … e rimasi lì, senza dire addio e senza dare una spiegazione a nessuno … Non uscii di casa per un mese intero dal giorno in cui ero andata a vivere con Pablo.»
Risultato: da questa relazione il 15 maggio 1947 nasce un figlio, Claude. Il mese dopo la famiglia si sposta al Sud, a Golfe-Juan, dove abitano la casetta di Louis Fort. Nell’autunno Picasso comincia a lavorare nella fabbrica Madoura di Vallauris condotta dagli amici Ramié: un nuovo amore, una nuova casa è la costante di Picasso.


Françoise Gilot e Pablo Picasso
by Robert Doisneau, 1952

Gran finale. A Milano, sotto i portici di piazza Diaz, una volta al mese si tiene una ricca fiera del libro usato. Domenica scorsa, 14 giugno 2015, vengo attratto da una custodia marroncina, quadrata. La prendo, sfilo il libro e che mi ritrovo tra le mani? La riedizione de Le chef-d’œuvre inconnu curata nel 1966 dalle Éditions L.C.L. Il colophon recita (in francese, qui da me tradotto): Questo volume della collezione «Les Peintres du Livre» composto in carattere Bodoni corpo 18 è stato tirato dallo stampatore Firmin-Didot, Parigi - Mesnil - Ivry su carta Blanchemer delle Papeteries Prioux. La stampa delle illustrazioni è stata curata dall’Imprimerie Genése di Parigi. La rilegatura è stata realizzata da Bonnet-Madin a Dreux. La tiratura è stata limitata a 3000 esemplari numerati da 1 a 3000 e a 50 esemplari fuori commercio marcati H. C. destinati ai fondatori e ai collaboratori della collana.
Questa copia porta il numero 1490. Dentro vi sono le incisioni di Picasso, mentre il Pittore osservato dalla modella nuda è stampato e inserito a parte, su cartoncino bianco, fuori dal libro.
Domando: «Quanto chiede per questo libro?».
«Dieci euro.»
È in casa.

[1] Racconto inserito lo stesso anno 1831 nel terzo tomo dei Romans et contes philosophiques par M. Balzac, Paris, Charles Gosselin Libraire, poi ripubblicato con leggere modifiche nel 1847 col titolo Gillette ne Le provincial à Paris par H. de Balzac, Paris, Gabriel Roux et Cassanet Éditeur.



Atelier di Rue des Grands-Augustins
Guernica, dettaglio, 1937
by Dora Maar


Picasso e la stufa
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1939



Kazbek
Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944

Atelier di Rue des Grands-Augustins
by Brassai, 1944


Pittore osservato dalla modella nuda, 1927






  

mercoledì 7 gennaio 2015

La nascita del "cubismo" secondo Kahnweiler



Pierre ASSOULINE
Il mercante di Picasso. Vita di D. H. Kahnweiler (1884-1979)
Traduzione dal francese di Nanda Torcellan
Garzanti Editore 1990
pp 66-73 e 82-83

I legami con Kahnweiler sono fatti di amicizia e di accordo, di mutuo rispetto e di fiducia. Nei suoi ricordi il 1907 è una data fondamentale perché segna l’apertura della galleria di rue Vignon e l’inizio di “una lotta bella e dura”, condotta di concerto dai due uomini. Da parte sua Kahnweiler parlerà sempre di Wilhelm Uhde con immenso rispetto e con infinita gratitudine. Perché una breve frase di Uhde, solo qualche parola, determineranno nel 1907 tutta la sua esistenza.
È l’inizio dell’estate. Un giorno uno sconosciuto entra nella galleria. È vestito in modo strano, si comporta in modo strano. I suoi capelli sono neri come il giaietto, un nero lucente come lignite fibrosa e dura. Ma il suo sguardo, ugualmente scuro, profondo e misterioso, illumina il viso. Silenzioso, attento, osserva i quadri a uno a uno e poi se ne va. Non ha aperto bocca. Kahnweiler è molto stupito nel vederlo tornare il giorno dopo, stavolta in compagnia. Ma quel grosso signore barbuto è anch’egli muto, si comporta come l’ometto tarchiato, guarda ogni tela e se ne va.
Kahnweiler ha già dimenticato l’episodio quando Uhde gli suggerisce di andare a fare un giro in uno studio di Montmartre e più precisamente in quello di Pablo Picasso: “c’è un quadro, una cosa molto strana, di tipo assiro...”
Due giorni dopo egli si inerpica per gli scalini che portano alla Butte, spinto dalla curiosità e dalla fiducia nel gusto di Uhde. Non sa niente o quasi di Picasso. Ha avuto un saggio del suo lavoro passando davanti alle vetrine di Sagot, Vollard o di Berthe Weill, e non l’aveva straordinariamente colpito. L’aveva considerato un poco sorpassato per l’influsso fauve, troppo trascurato nel trattare il colore.
Finalmente lo studio. L’arredamento è indefinibile, a metà strada fra la miseria e il pittoresco. Sulla porta sono stati infilati in fretta dei pezzi di carta. “Manolo è da Azon”, “È venuto Totote”, “Derain verrà nel pomeriggio”. È molto da artista, questa porta. Il pittore apre. È lui, Picasso? Questo giovane in camicia, col petto scoperto e le gambe nude? Ma è il giovane silenzioso dell’altro giorno, il visitatore misterioso! E l’amico che si era fatto accompagnare in carrozza era Vollard! Finalmente Kahnweiler capisce!
«Sa cosa mi ha detto Vollard uscendo dalla sua galleria? È un giovane a cui la famiglia ha regalato una galleria per la prima comunione... »
Il colpo è duro, perché viene da una persona che gode della sua completa ammirazione. Kahnweiler si guarda intorno. Che confusione, che guazzabuglio di oggetti disparati, di disegni ammucchiati, di tele posate qua e là. E quanta polvere... Manca il gas e l’elettricità in questa “casa del cacciatore di pellicce”, che passerà ai posteri con il nome di Bateau-Lavoir, una specie di vecchio battello ormeggiato sulla Butte, in cui ogni studio di artista sembrava la cabina di una nave ma senza averne il lusso. Per aver acqua bisogna riempire le brocche al primo piano. Per la luce, Picasso, che lavora molto di notte, si serve di una lampada a petrolio.
Il poeta Pierre Mac Orlan che dalla fine del secolo frequenta le strade di Montmartre descrive la “casa del cacciatore di pellicce” come un luogo orrido. Questi ateliers gli sembrano delle pretenziose scatole di fiammiferi, ma con le assi sconnesse. Alcuni usano come materasso copie dell’ “Intransigéant”, perché ha sei pagine più degli altri quotidiani. È la miseria più completa, ma la gente qui non parla mai di denaro.
E questo famoso quadro assiro? Va bene tutte le altre tele, ma “la” tela di cui parla Uhde... Eccola.
È un colpo. Kahnweiler prima è stupito, poi sconvolto. Ha l’impressione che stia accadendo qualcosa di meraviglioso, di straordinario, di inatteso. Questa visione è una vera e propria mazzata. Tanto più forte perché inaspettata, la mente ancora colma dei pregiudizi suscitati dalle tele rosa e blu. Assiro non è la parola giusta. Ammirevole, certo. Folle e mostruoso insieme, e così commovente, è in ogni caso un’opera importante e indubbiamente nuova. A corto di aggettivi e di superlativi, annientato egli si lascia sfuggire: “È indefinibile...”
Come analizzare e giudicare questa novità assoluta? Kahnweiler non può impedirsi di intellettualizzare e concettualizzare subito questa rivelazione. Questo quadro, che passerà alla storia come Les demoiselles d’Avignon, richiede una valutazione che non si basi solo sul gusto. Non basta vederlo. Bisogna approfondire e capire in che cosa il ritmo delle forme entri in contraddizione con la rappresentazione del mondo esterno.
In questo grande quadro di cm. 235 x 245, Kahnweiler distingue due parti. A sinistra due donne dipinte in chiaroscuro, di colore chiaro, che - da questo punto di vista - non sono diverse dalle opere del periodo rosa. Ma diversamente da quanto ha fatto finora, non è un disegno rialzato. Le forme sono molto modellate, quasi squadrate a colpi d’ascia. A destra due donne, una ritta e l’altra accovacciata. Il colore violento è steso a strisce parallele, qui soprattutto sta la rottura, iniziata e annunciata da questo strano quadro. E qui Kahnweiler intuisce lo sconvolgimento, sente che una tradizione è stata rovesciata. I frutti e i parati che circondano queste donne sono meno importanti; il quadro nel complesso gli sembra incompiuto perché non raggiunge un risultato coerente. A sinistra si è ancora nel 1906, le forme vengono create ancora dall’ombra del chiaroscuro, come prima. A destra si è già nel 1907: il disegno e il colore creano la forma con la direzione dei tratti che la compongono. E una forma squadrata in angoli duri. Questo primo abbozzo cambia tutto: il cubismo ha la sua origine nella parte destra delle Demoiselles d’Avignon.
Picasso gli appare follemente audace. Invece di affrontare i problemi della pittura ad uno ad uno, ha scelto di affrontarli nel loro complesso. Non ha fatto una composizione piacevole, ma ha articolato sulla superficie piana una vera e propria struttura. È un quadro duro e angoloso, come gli spigoli che delimitano le teste. Kahnweiler riassume in poche parole questo insuperabile problema che Picasso affronta con un soprassalto disperato e patetico: è la rappresentazione di cose colorate in tre dimensioni su una superficie piana incorporate nell’unità di questa superficie. Certo non tutto è rivoluzionario nelle Demoiselles d’Avignon. Picasso disorienta perché sboccia in un paesaggio agitato dai fauves e per lui la luce è solo un mezzo per valorizzare i corpi. Inoltre l’aver sottoposto le parti al ritmo dell’insieme del quadro crea una deformazione. Ma questo aspetto spettacolare a Kahnweiler non pare la cosa essenziale. Egli ricorda che è stata tentata anche da Cézanne e Seurat, Van Gogh e Gauguin.
Dove sta allora la novità? A destra, ma in che cosa? Nel fatto che il pittore non cerca di imitare il mondo esterno, ma di coglierne il significato. Per Kahnweiler non c’è alcun dubbio che questa nuova scrittura plastica non segna solo la fine del fauvisme. È un passo decisivo nella storia della pittura, una vera rottura. Si capisce come chi ha visto questo quadro l’abbia giudicato una pazzia.
Kahnweiler ne è colpito. Ma è il solo. Quando Picasso ha mostrato il suo quadro straordinario ai suoi amici, ha avuto solo giudizi ironici. Parole che talvolta volevano scoraggiarlo, ma che finivano per essere sarcastiche e offensive. Quando riceve per la prima volta Kahnweiler nel suo studio è completamente solo, abbandonato di fronte alle sue creature. Gli amici gli sono vicini, ma sono preoccupati come davanti a un trapezista che lavori senza rete. «È come se qualcuno bevesse petrolio per sputare fuoco», ha detto Braque.
Derain, che considera l’impresa disperata, dice a Kahnweiler: «Un giorno troveremo Picasso impiccato dietro il suo grande quadro. »
Lo scandalo resta nei limiti della Butte di Montmartre. Picasso è diventato matto. Il suo studio, che il poeta Max Jacob definisce “il laboratorio dell’arte moderna”, prepara mostruose alchimie. Lo stesso Uhde a cui Picasso ha mandato un biglietto disperato per presentargli le sue Demoiselles non ne è stato spaventato come gli altri, ma per lo meno sconcertato. Assiro... Stupito, ma prudente. Gli ci sono volute parecchie settimane di riflessione per capire e accettare.
Tutti costoro non sono però degli imbecilli. Pittori, critici, poeti collezionisti... Li conosce bene, non sono degli accademici, sono degli esperti, aperti e sono degli amici. Essi trovano sulla tela le deformazioni del reale, ecco un braccio, dei seni, ma in quali condizioni! Tutto ciò non può che ispirare un sentimento d’orrore. Più tardi Picasso confiderà a Kahnweiler: «... dicevano che mettevo il naso di traverso... ma bisognava pure che lo mettessi di traverso perché si accorgessero che era un naso!».
In questo momento straordinario il giovane mercante si sente come Vollard, che la prima volta che ha visto un Cézanne ha provato quasi un pugno allo stomaco, o come Durand-Ruel quando ha conosciuto Claude Monet a Londra nel 1870. Le vie della coscienza estetica sono impenetrabili.
Solidarietà. Ecco che cos’è. Ai piedi delle Demoiselles d’Avignon Kahnweiler e Picasso si osservano, si scrutano, si capiscono. Tutto è detto. Non occorrono altri commenti. Picasso sa che d’ora in poi non sarà più solo. Kahnweiler sa che ha fatto bene a non andare in Sudafrica a occuparsi di miniere di diamanti. Farà il mercante di quadri a Parigi. L’incontro con quest’uomo e con questo quadro da un senso alla sua vita. Probabilmente è quella che, nei libri, viene chiamata nascita di una vocazione. Al suo ingresso in questo studio era già un mercante e quando ne esce lo è ancora; ma non è più lo stesso uomo.
Essi si valutano con lo sguardo. Il mercante ha ventitré anni, il pittore ne ha ventisei. Nei giorni che seguono questo duplice choc essi si rivedono. Kahnweiler compera da Picasso qualche guazzo recente e tre piccoli quadri, già eseguiti nello spirito nuovo, nello spirito della parte destra delle Demoiselles che tanto turbano i visitatori. Fra i tanti studi ed abbozzi vi sono numerosi studi preparatori di questo quadro. E il quadro? Picasso non lo vende. «Non è finito», dice.
Kahnweiler non insiste e non perché non lo voglia, ma non osa. Non ha la forza di carattere per affrontare il pittore, che è chiaramente diffidente. Non lo è solo con Kahnweiler, ma con tutti. Ancora di più con i mercanti. Comunque Vollard e Berthe Weill erano già stati sconcertati da alcune sue tele del periodo blu. Non parliamo delle Demoiselles d’Avignon. Picasso è libero. Non conosce questo tedesco ma è colpito dalla sincerità del suo entusiasmo, perché è eccezionale. È uno dei pochi che crede totalmente in lui, in ciò che è più profondo, nel momento in cui Picasso tocca il fondo della sua miseria morale: la solitudine assoluta. Per avere la sua adesione, vincere le sue esitazioni e superare la sua antica diffidenza, Kahnweiler dovrà provare che nonostante la giovane età e l’inesperienza è capace di difendere le sue convinzioni.
D’ora in poi i loro destini sono legati.
Diventando suo amico Kahnweiler entra nella cerchia degli intimi, conosce il poeta Max Jacob e Guillaume Apollinaire, che vive con Marie Laurencin vicino a casa sua ad Auteuil. Spesso essi fanno delle passeggiate insieme, simpatizzano, chiacchierano, nasce una vera amicizia che sarà spesso turbata da grandi tempeste. Infatti fin dai loro primi incontri Kahnweiler è persuaso che Apollinaire è un grande poeta, e lo ammira sinceramente, ma che non è un buon critico d’arte. Ha con la pittura un rapporto sensuale e intellettuale. Si comporta come un amico con i pittori che gli piacciono, attratto soprattutto dalle novità. In breve, Guillaume non è un critico d’arte, checché ne dica, e il mercante non perde occasione per ricordarglielo, cosa che a volte guasta i loro rapporti.
Kahnweiler rivende subito i suoi primi Picasso a Hermann Rupf. Ha appena il tempo di esporli. Ma egli ne vuole altri, e così prende l’abitudine di andare al Bateau-Lavoir a far visita al pittore. Ha imparato a conoscerlo. Kahnweiler capisce che non bisogna svegliarlo presto al mattino perché gli piace lavorare di notte. Chi lo scuote all’ora in cui abitualmente aprono gli uffici avrà in cambio un pessimo umore. C’è un’altra cosa che offusca il suo sguardo: gli dispiace separarsi dalle sue tele, quando vende i suoi quadri è spesso teso perché li vede andar via. Così fin dall’inizio Kahnweiler impara a non essere troppo insistente. Sono due amici quasi coetanei, ma fra di loro c’è una certa distanza, dovuta forse all’ascendente del pittore, alla sua sicurezza, alla fiamma della sua fede. Sono qualità che ha anche Kahnweiler, ma apparentemente con minor forza.
Se si pensa alla sua prudenza... Forse è questo il motivo per cui si abbona all’Argus de la presse, per ricevere tutti i ritagli di giornale in cui sono citati il suo nome, quello della galleria e di alcuni pittori. Il 15 luglio 1907 inaugura un grande quaderno nero in cui incolla sulla prima pagina il suo primo articolo ricevuto: L’invasion espagnole: Picasso di Félicien Fagus, pubblicato su “La Gazette de l’art”.
Ma ora la galleria Kahnweiler è agli inizi, vista dall’esterno sembra così artigianale che molti pensano che il mercante stia improvvisando. Ma è un’impressione falsa, anche se egli impara sul campo, lo fa dopo aver stabilito principi e linee di condotta ben ancorate.
Egli comincia così con Uhde, con Rupf e soprattutto con Dutilleul a costituire un piccolo nucleo di amatori fedeli. Kahnweiler li avverte a ogni nuovo arrivo e quasi sempre essi fanno acquisti. Non potrebbe essere più semplice. E partecipare alle mostre? È inutile, a che serve? Kahnweiler è persuaso che molte persone ci vanno, spesso in gruppo, solo per arrabbiarsi o sghignazzare. Non è necessario andare a esporsi ai loro sarcasmi. Quanto al giudizio della critica, dell’accademia e anche del grande pubblico, gli è del tutto indifferente. La pittura è un’arte d’elite. Su questo non recede. Perché dunque cercare le masse?
Detto questo, quando alla fine di agosto Derain gli raccomanda di esporre le sue tele al Salon d’automne che si tiene nell’ottobre del 1907, si affretta ad accontentarlo. Anche Braque vi espone. Il giovane mercante non è ancora molto conosciuto in quest’ambiente prestigioso, perché i suoi quadri vengono indicati con il nome di Kahmweiler o Kohuweiler, quando non Rahnweiler o peggio. In questo Salon il grande avvenimento è una retrospettiva di Cézanne, a un anno dalla morte. Per arrivarci il visitatore deve passare davanti alle tele di Abel-Truchet, un pittore che con l’astuzia del trattino è riuscito ad avere finalmente il primo posto nel catalogo.
Questa retrospettiva che presenta ben cinquantasette tele è importante. Essa permette a uomini come Kahnweiler, Braque, Picasso di misurare il cammino fatto e quanto resti da fare. Grazie a questa esposizione possono prendere meglio le distanze. Essa si tiene al momento giusto, subito dopo lo choc delle Demoiselles d’Avignon. Parecchi pittori della giovane generazione ne escono impressionati, talvolta sconvolti. Fernand Léger, che allora ha ventisei anni, e che qualche anno prima è stato colpito dalle tele del maestro di Aix, esposte su quelle stesse pareti, non rimpiange di aver distrutto allora la maggior parte dei quadri di influenza fauve o impressionista.
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L’altro critico lo interessa per ragioni del tutto diverse. Louis Vauxcelles è un uomo che conta nell’ambiente, un uomo influente, come si direbbe oggi. Repubblicano e difensore di Dreyfus, Louis Mayer ha assunto lo pseudonimo di Vauxcelles dopo gli studi alla scuola del Louvre e alla Sorbona, quando si è dato al giornalismo. Ha una penna affilata e presto si fa un nome. Il suo giudizio non è particolarmente penetrante, perspicace o rivoluzionario. Al contrario, l’arte moderna lo interessa poco. Ma è un uomo attivissimo, che tiene molte conferenze, scrive molte prefazioni a cataloghi e soprattutto molti articoli in riviste e in giornali. È il più fecondo critico d’arte di Parigi, un vero grafomane, una fortuna insperata per i caporedattori a corto di articoli.
Kahnweiler ha già avuto occasione di leggere le sue cronache, ma quel 14 novembre 1908 ha una ragione particolare per cercare la sua firma sulle colonne del “Gil Blas”, poiché vi è la critica dell’esposizione di Braque in rue Vignon. Infatti, girando una pagina legge: “[Egli] costruisce piccole figure metalliche, distorte e incredibilmente semplificate. Non si cura di modellare la forma e riduce tutto, paesaggi, luoghi, persone e case a diagrammi geometrici e a cubi. Non lo mettiamo in ridicolo perché è in buona fede. E aspettiamo”.
Dei cubi... È la prima volta che questa formula viene usata per indicare questo tipo di pittura. Anche se, a quanto si dice, un membro della giuria del Salon d’automne ha detto ‘‘Braque fa dei piccoli cubi”, è la prima volta che questo termine viene usato a questo scopo. Bene o male, adeguata o inopportuna, la parola è lanciata. Così il cubismo viene battezzato da uno che non lo apprezza. Il termine voleva essere cattivo e ironico, di uso limitato e, in ogni caso, puntuale, entrerà invece nella storia.
Vauxcelles sembra essere predestinato a queste situazioni paradossali, perché è stato lui che, proprio tre anni prima, in un articolo sul “Gil Blas” aveva voluto prendersi gioco dei quadri di Matisse, Vlaminck, Roualt e Derain esposti al Salon d’automne. Notando fra tutte quelle tele una scultura di stile molto “italiano”, aveva scritto: “il candore di questo busto stupisce in mezzo all’orgia dei toni puri: Donatello fra le bestie feroci”.
Così il cubismo, come il fauvisme, avrà per sempre un nome inventato da un detrattore. Cosa che tutto sommato rientra nell’ordine delle cose, perché anche il termine impressionismo è nato in circostanze analoghe. Monet, non sapendo quale titolo dare a una delle tele dipinte dalla sua finestra a Le Havre, aveva detto all’incaricato di preparare il catalogo di una mostra collettiva: «Scrivete: Impressioni». Il titolo fu poi Impression, soleil levant. Ma L. Leroy, cercando di essere aspro, ironico e di farsi beffe di lui (“siccome sono impressionato, qualche impressione dovrà pur esserci là dentro...”), suo malgrado, gli ha dato un’importanza storica, poiché il termine ha avuto la fortuna che ben conosciamo.
Kahnweiler trae una certa filosofia dalla coincidenza nel modo in cui l’impressionismo, il fauvisme e il cubismo sono stati battezzati. Senza saperne spiegare il motivo lo considera di buon auspicio, giungendo a fantasticare che forse potrebbe essere il segno distintivo di un movimento autentico. Per lo stesso motivo egli invita a diffidare “dei movimenti coscienti e organizzati”, che si autodefiniscono, mostrando così un carattere artificioso e il predominio dei capi sul gruppo. È pur vero che dai nabis ai surrealisti, passando attraverso i futuristi e i costruttivisti, i decenni seguenti non saranno avari di movimenti che si autoconsacrano.
Il 1908 sta per finire: non è il momento del bilancio, ma quello delle grandi decisioni. Le condizioni in cui si è svolta l’esposizione di Braque, il suo impatto e i commenti che ha suscitato, hanno dato ragione al mercante. In accordo con i suoi pittori egli decide di non fare più delle personali in rue Vignon e di non mandare più quadri alle mostre. Perché mostrare quadri a persone che non sono in grado di capirli? Li espone nella sua galleria a seconda degli arrivi, e questo può bastare, ma non li mostrerà all’esterno e non farà niente per farsi conoscere attraverso i mezzi deleteri della pubblicità. Questo non gli impedisce di continuare a diffondere le sue fotografie all’estero a richiesta dei collezionisti e delle riviste d’arte.
Così, nel momento in cui il cubismo nasce a Parigi, la capi­tale francese è uno dei luoghi in cui ci sono minori possibilità di vederlo, a parte pochi studi, che naturalmente non sono aperti al pubblico, e una piccola galleria che lo è solo un po’ di più... Per trovare il cubismo a Parigi bisogna proprio cercarlo.