Ardengo Soffici
Fine
di un mondo
Autoritratto
d’artista italiano
nel
quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi
editore
Firenze 1955
pp. 171-188
CAPITOLO XIII
Ricordi in libertà. Ancora ospite a Parigi degli
amici russi. Serghei, la “Baronne”. Opere di Rousseau. Conosco Degas vecchio e
cieco. Jehan Rictus. Visita a Félix Fénéon. Ibels. Un amico di Rosso: Louis
Rouart. Diveniamo amici. Lectura Danctis. Eugène Montfort e i suoi “Marges”. Mi
ritrovo con Picasso, Apollinaire. Jacob, eccetera. Natura immutata di Picasso.
Suo latente arcaismo. Al “Lapin agile”. Vagabondaggi sulla “Butte”. La campagna
in Parigi. Prezzolini e moglie in rue de Tournon. Visita a Romain Rolland. Sua
figura.
Se
volessi narrare con esattezza e per ordine ciò che feci a Parigi, dove anche
nella primavera del 1911 fui per qualche mese, occorrerebbe rovistare tra carte
e documenti che, un po’ per pigrizia un po’ per noncuranza, lascio dormire
raccolti alla rinfusa in pacchi e casse che non apro da anni e anni. Senonché
questa non è una cronaca rigorosa dei fatti della mia vita esposti con
precisione strettamente cronologica, ma una specie di largo affresco di un
genere particolare, illustrante un dato periodo ed ambiente in cui io ho agito
e mi son mosso; e nel quale le cose, ossia le figure ond’esso è composto, non
debbono essere necessariamente allineate e disposte come in cerimonia, ma con
una certa varietà capricciosa di luci, ombre, volumi, colori e sfondi, atti ad
animarne l’insieme; ed a questo effetto basta che tali cose e figure, comunque
collocate, ci siano e vi appaiano nella loro verità sostanziale. Che se poi l’opera
dovesse un giorno assumere un interesse duraturo, ci sarà sempre tempo e modo
di compulsar quelle carte e quei documenti, e rimetter tutto a posto.
Dirò
intanto che appena giunto a Parigi una bella sorpresa mi attendeva in casa
della Baronessa Elena e di Serghei, dei quali anche questa volta ero ospite.
Dopo il mio dono dei nove disegni di Henri Rousseau, l’amico russo, che solo
negli ultimi tempi s’era allontanato dai suoi primi gusti per l’opera dei
pittori ottocenteschi del suo paese - quali Vasnizoff, Vrubel, eccetera - e del
francese Paul Laurens, per orientarsi verso un’arte più viva e attuale, aveva
preso egli pure contatto col Doganiere, il quale era poi divenuto un assiduo
frequentatore dell’hôtel del
boulevard Berthier, e tale era rimasto sino alla sua morte, avvenuta poco
avanti il tempo di cui parlo.
Ho
detto altrove dei comportamenti dell’ingenuo pittore nella casa dei miei amici;
di quando in cucina si estasiava davanti all’oleografia di un calendario
raffigurante una rosea fanciulla con una ciliegia in mano; di quando, nel
posare per un ritratto che volevano fargli, si addormentava come un bambino
dopo la poppa; di quando raccontava loro i suoi amori con una vecchia megera
che lo pelava; e ne leggeva le lettere ricattatorie e oltraggiose versando
lacrime di tenerezza. Essi gli avevan comprato via via più di un dipinto, ed
io, che già lo sapevo, li vedevo ora appesi nel salotto, insieme a quel paesaggio
con le vacche da lui dipinto per me, e che io avevo regalato alla Baronessa. Ma
ecco che insieme ad essi io vedevo anche tutte le opere che avevo sempre visto
nel suo studio e che erano tra le sue maggiori. La grande Noce paysanne, il, grande autoritratto dell’artista in riva alla
Senna, il poeta Apollinaire e la sua Musa,
la Carrettella, e diversi altri
quadri di figure, vasi di fiori, paesaggi, assai belli nel loro candore, che
non è popolare né primitivo, come comunemente si crede, ma di un genere al
tutto particolare.
Anzi
a tal proposito debbo dire qualche cosa che non è punto privo d’importanza, e
che contrasta con molte notizie date (anche da me in altri momenti) intorno
alla natura artistica di codesto pittore. Esistono dunque abbozzi, annotazioni,
schizzi presi sul vero dal peintre du dimanche
Rousseau, i quali, sia per l’audacia e rapidità dell’esecuzione, sia per la
giustezza, finezza, e freschezza naturalistica del colore avevano, per certi
lati dell’Utrillo, e per altri magari del Manet. Come poi avvenisse che,
partendo da questa sapienza, e scaltrita sensibilità pittorica, il Rousseau
arrivasse ai resultati che sappiamo è davvero un arcano.
Poiché
Medardo Rosso era già da tempo tornato dall’Italia a Parigi, una delle mie
prime visite, dopo aver ripreso contatto con i miei amici russi, fu
naturalmente per lui. Andai a trovarlo una mattina nel suo studio, e vi
restammo alquanto parlando delle cose di Firenze, dei nostri ultimi casi; ma
come la giornata era bella ed egli non aveva nulla da fare, ci parve meglio di
uscire e continuar la nostra conversazione passeggiando. Se-nonché, eravamo
appena fuori e stavamo per imboccare il boulevard des Batignolles, quando ci
trovammo davanti un vecchio signore, che Rosso salutò affabilmente ed al quale
mi presentò. Era Degas. Fermo sul marciapiede, tutto vestito di scuro, alto
magro, quasi affatto cieco, il grande pittore, ch’io vedevo per la prima volta,
volgeva la faccia qua e là, trepidante, inquieto, come in attesa di qualcuno o
di qualche cosa. E allorché gli strinsi, commosso la mano secca e tremula:
- Ah, mon dieu,
comme vous serrez fort! - esclamò con un lieve gemito - Pourquoi serrez-vous si fort?
Mi
scusai mortificato; ma egli già non ci pensava più, continuando, anche mentre s’intratteneva
con noi, a guardare a destra e a sinistra. Quando, dopo un breve colloquio, ci
fummo congedati da lui per riprender la nostra passeggiata, domandai a Rosso
perché mai Degas fosse in tanta agitazione. Mi disse che certamente era lì ad
aspettare un omnibus che lo portasse in qualche punto lontano della città;
dove, una volta arrivato, sarebbe salito sull’imperiale d’un altro per un
uguale viaggio, e così via; come faceva ogni giorno.
Era
infatti una disperata mania che gli era presa dacché per la sua cecità non
aveva potuto più lavorare; e che gli durò fino alla morte.
Durante
quella ripresa del mio fraterno commercio con Rosso ebbi occasione di conoscer
per mezzo suo altri suoi valenti amici, e non alla sfuggita come era avvenuto
per il povero grande artista Degas. L’uno di essi fu il poeta Jehan Rictus,
autore di stupendi poemi popolareschi scritti in un francese misto di molto argot, e vero intenditore di pittura
moderna. Le nostre relazioni si fecero in breve amichevoli: fui spesso da lui,
in un curioso studio la cui finestra si apriva sul vasto biancore a un tempo
malinconico e solenne del cimitero di Montmartre, per udirlo leggermi versi di
sua nuova fattura, e ragionar con lui di lettere e d’arte. Rictus era intimo di
Félix Fénéon, allora direttore della galleria Bernheim-Jeune, e poiché Rosso
gli aveva parlato vantaggiosamente dell’opera mia, un giorno ebbi da lui la
promessa che avrebbe parlato al suo amico il quale era anche un eccellente
critico, affinchè facesse entrar qualche mio dipinto nella bottega di quel
tanto reputato mercante di pittura. Non andò molto che Fénéon venne infatti
nello studio del boulevard Gouvion-Saint-Cyr, che Serghei divideva anche quell’anno
con me; vide alcuni miei grandi disegni acquerellati, che avevo portato dal
Poggio; gli piacquero e me ne prese più d’uno. Come io non son mai stato molto
curante dei miei interessi pratici, né entrante, né sollecitante, mi contentai
per allora di consegnare i lavori, senza occuparmi della loro sorte. Seppi solo
l’anno dopo che non erano stati venduti, e me li riportai in Italia.
Sempre
pel tramite di Rosso entrai diretta o indirettamente in rapporto anche con
altre persone, la conoscenza delle quali mi riuscì altrettanto gradita, e anche
utile, che quella dell’eccellente poeta Jehan Rictus. Intendo Ibels, critico d’arte
e autore di un romanzo, L’Arantelle,
uno dei cui personaggi,- e anzi mi pare il protagonista, - scultore, era
ricalcato sulla figura dello stesso Rosso, e che tra l’altro, conteneva la
scena di una fusione in bronzo, cui Ibels aveva probabilmente assistito nello
studio-officina del suo amico, scena di una verità impressionante. Era uomo di
liberissimo spirito, di carattere ribelle - quindi tenuto in margine della vita
letteraria - e d’una lealtà a tutta prova; tanto che, sebbene le nostre
relazioni non durassero se non qualche mese, ho serbato di lui il più vivo e
grato ricordo.
Un’altra
di tali conoscenze, ugualmente profittevole, fu quella che feci del più giovane
figlio del pittore e grande collezionista d’arte Henri Rouart, quel medesimo
che in gioventù era stato amico e generoso sostenitore dei maggiori maestri
impressionisti, dei quali, e specie di Degas, vidi poi in casa sua numerose e
sceltissime opere.
Di
lui, vecchio inchiodato infermo, sopra una poltrona e della sua ricchissima
collezione, che visitai quell’anno assieme a Rosso, scrissi a suo tempo nel mio
libro su questo scultore. Louis Rouart, il detto figlio, trentenne estremamente
nervoso, rosso di pelo, parlante così in fretta da mangiar mezze le parole,
devotissimo di Rosso, che l’aveva visto ragazzo, andando in casa di suo padre
per ritrarne magistralmente la figura, e lo trattava come tale, cattolico
sfegatato, ma - come diceva ridacchiando - «all’uso rinascimentale», era un
buonissimo scrittore, e soprattutto di cose d’arte. Poiché, oltre a questo,
egli conosceva ed amava l’Italia, fummo presto amici. Avendo visto nello studio
di Rosso un disegno che avevo fatto al Poggio, rappresentante un accattone alla
porta di casa mia, lo acquistò senz’altro; e, anche pagandolo - lui molto
stretto di borsa - la bella somma di quattrocento franchi.
Egli
mi dava con ciò una prima prova non solo di amicizia ma anche di stima: un’altra
fu, subito dopo, quella d’introdurmi nella sua famiglia; privilegio
eccezionalissimo da parte di un francese della sua classe - molto vicina in
questo al costume mussulmano -, specialmente se concesso ad uno straniero. Fu
così che frequentando la sua casa dell’aristocratica rue de Chenaleilles, bella
distinta casa spirante armoniosa pace e raccoglimento spirituale, io potei
vedere e gustare, splendidi dipinti e disegni di Manet, Degas, Cézanne Seurat,
e segnatamente - quantunque con qualche interiore riserva - apprezzare la
grande tela tahitiana di Gauguin, intitolata, a dir vero con troppa
affettazione letteraria, Nave nave mahana;
dipinti ond’erano coperte le pareti del salotto dove per l’ordinario sedevamo
conversando.
In
codesto stesso salotto, illustrato da tanto lume d’arte, fui più tardi invitato
dal nuovo amico a leggere, dichiarare e commentare più canti di Dante, poeta ch’egli
decifrava alla meglio e che ora lo percoteva di stupore, parendogli, diceva,
come non mai per l’innanzi, di una grandezza davvero formidabile e divina.
Eravamo
in questa intimità, quando Louis Rouart, che in quel tempo dava di frequente
alla rivista Les Marges, diretta dal
romanziere Montfort, certe sue acute, sagaci critiche d’arte, volle un giorno
che anch’io conoscessi questo suo buon amico. Salimmo assieme a trovarlo su per
l’erta di Montmartre fino a rue Chaptal, in un suo quartierino da scapolo, dov’egli
viveva solo attendendo alla preparazione dei suoi libri e della sua rivista.
Eugène
Montfort era un bell’uomo dall’aspetto di schermidore, simpatico visitatore
dell’Italia, di cui conosceva alcun poco la lingua, appassionato soprattutto di
Napoli e di quella vita amorosa da lui trattata nel suo romanzo La Chanson de Naples. Ci ricevé in una
stanza ch’era piena di ricordi di quella città, tra i quali notevolissima una
collezione di Pulcinelli, Covielli ed altre maschere e marionette da teatro dei
pupi, nei loro sgargianti costumi guarniti d’oro e d’argento, o con le loro
armi e corrusche corazze di latta. Anche con Montfort strinsi ben presto un’amichevole
consuetudine. Non molto tempo dopo quel primo incontro egli stampò qualche mio
scritto nella sua rivista; della quale anche il mio vecchio amico Apollinaire,
era collaboratore, di guisa che inopinatamente veniva così a saldarsi una
catena di colleganze poetiche nel cui giro sempre più ampio si svolgeva in
quegli anni la mia attività artistica e letteraria.
Mentre
tali nuove relazioni procuratemi da Rosso si estendevano e si consolidavano,
continuavo a frequentare come gli anni passati, la compagnia dei miei vecchi
amici pittori e scrittori. Vedevo sempre Picasso nel suo solito studio, dove lo
trovavo ogni volta più impegnato nei vari successivi sviluppi del suo cubismo;
lo vedevo al consueto caffè dell’Ermitage assieme alla sua amica Fernanda e a
Jacob, del quale andava ornando di belle acqueforti il Saint Matorel, edito splendidamente da Kahnweiler; c’incontravamo
nella bottega di quest’ultimo (fattosi, come si vede, anche editore), divenuta
ormai il principale luogo d’incontro dei migliori rappresentanti della nuova
pittura, nello stesso tempo che la più fortunata esposizione permanente delle
loro opere, diciamo così, della giornata.
Il
solito bettolino detto il Lapin agile (o, come altri vorrebbero, il Lapin a
Gilles), quella baracca affumicata sul pendio della solitaria rue des Saules,
posta oltre un breve spazio ombreggiato da alcuni vecchi platani e tenuta da un
Frédéric, detto Frédé, barbuto chitarrista, cantastorie, imbonitore,
personaggio alquanto losco nonostante la sua rumorosa affettazione di
cordialità, era ancora un altro dei nostri ritrovi. Seduti alle rozze tavole
sparse fuor della porta, o, secondo il tempo bello o piovoso, a quelle
ingombranti l’interno di uno stanzone quasi buio, tappezzato di tele buone e
cattive di giovani artisti frequentatori del locale, le nostre conversazioni,
talvolta animate da contrasti di gusti e d’idee, talvolta clamorosamente
allegrate dall’umor faceto, ironico, paradossale di Max Jacob, dai frizzi e
barzellette dell’uno o dell’altro di noi, ed alle quali partecipavano a volte
anche amici spagnoli di Picasso, erano, insieme, delle più istruttive e
dilettevoli.
Picasso,
che pure era, tra tutti noi, quegli che già fin da qualche anno godeva di
maggior successo e di una speciosa aura particolarmente atta a stimolare certi
naturali impulsi di vanità, non era, invece punto cambiato da quello che avevo
sempre conosciuto per l’innanzi. Vestiva ancora alla stessa guisa ordinaria
senza alcuna cura né di ricercatezza né di singolarità; i suoi modi e detti
restavano semplici, quasi popolareschi; solo improntati alla consueta arguzie
polemica e latente furbizia. Aveva bensì piena coscienza del suo grande
talento, ma nessuna vanteria né affettazione di superiorità o boria era in lui;
parlava come un giovane artista dotato deve parlare tra compagni ed amici; e
non nascondeva nemmeno certe tristezze, preoccupazioni e momentanei scoramenti
che lo prendevano, come avviene a tutti quanti ci cimentiamo nel lungo e
terribile cammino dell’arte. Nulla perciò del filisteo risalito, che trasforma
la sua casuale fortuna quasi in un obbligo di fastosità e di spocchia volgare.
E nulla neanche del peintre maudit,
dell’ubriacone, del finto pazzoide.
A
un certo momento, preso anche lui nell’andazzo allora comune di molti letterati
ed artisti illusi di fortificare il loro ingegno nei baudelairiani paradisi
artificiali delle droghe stupefacenti, aveva avuto la curiosità, dietro l’esempio
di taluni suoi amici egualmente disposti -- tra i quali Apollinaire -, di farne
una notte la prova. Rinchiusosi con essi e con qualche loro amica in non so
quale atelier della Butte, egli aveva ingerito come gli
altri la rituale dose di haschisch;
ma gli era bastato quell’unica esperienza per non farne più altro.
Raccontandomi
un giorno quali fossero stati gli effetti della droga e le sensazioni da lui
provate, me li descrisse scherzando, come cose di nessun rilievo. Non si
trattava che di sensazioni comuni esageratamente ingrandite da quella specie
particolare di ubriachezza. Il suono, per esempio, di una corda di chitarra,
produceva la sensazione di, un esercizio musicale; una risata isterica di
ragazza quella di un’allegria da baccanale; scendendo uno scalino pareva di
calar volando in un abisso. Mi disse che anche Apollinaire era uscito dalla
seduta con lo stesso suo sentimento e parimente deciso a non ripeter mai più l’esperienza.
E
rideva come di una ridicolezza del comune disinganno.
Picasso
era insomma rimasto quale l’avevo conosciuto poco più che adolescente e lo
conobbi poi fino a quando, nel 1927, mi trovai con lui l’ultima volta. C’incontrammo
per caso in rue La Boétie, dov’egli allora abitava un appartamento, proprio
sopra alla Galleria del mercante Rosenberg. Eran più di dieci anni che non ci
si vedeva; mi accolse festosamente e m’invitò a salire in casa sua, dove
conobbi l’ex-ballerina russa, allora sua moglie ed il loro piccolo figlio
Paulo. Parlo di ciò perché fu anche quella per me un’occasione di rivederlo sotto
la luce che ho detto.
Il
suo appartamento, comecché, in fondo, borghese, presentava per più lati il
disordine dei suoi vecchi studi. La tinozza di una elegante stanza da bagno era
piena di suoi dipinti, altri stavano ammucchiati sulle altre suppellettili e
per terra. Erano tutte opere della sua ultima maniera, e Picasso, tiratene
fuori alcune, le poneva a mano a mano sopra un cavalletto per averne il mio
parere. Di una specialmente, una natura morta con vasi ed altri oggetti posati
sopra un piano, tutto quasi selvaggiamente violentato nelle forme, chiuso in
una cupa armonia di rossi, gialli d’ocra, neri, egli sembrava attendere bramoso
il mio giudizio. Lodai il dipinto per la sua austera bellezza, aggiungendo ch’esso
mi faceva pensare a certe pitture dai toni egualmente gravi, quali se ne vedono
in qualche tomba etrusca di Tarquinia e di Orvieto.
-
È vero - disse Picasso, soddisfatto e preoccupato ad un tempo. - E non so
capire perché, quello che faccio abbia sempre infatti qualche cosa d’antico.
Parlando
così candidamente egli non sapeva di riconoscere, senza volerlo, la validità
delle riserve che la sua arte suggerisce. Quel «qualche cosa d’antico» non è
altro in sostanza che la tendenza a uno stilismo artistico che prima fu dei
preraffaelliti, seguita poi dai pittori del liberty e del floreale, poi, in
modi diversi, e riferimenti più lontani, da lui, Picasso, e infine, a tutt’oggi,
da quanti rifuggono dall’amoroso e profondo studio del reale, di ciò che si
dice natura, unico fondamento, ed eterno, dell’arte.
A
Montmartre, quando non era la brigata del Lapin agile, erano i ricordi dei miei
vent’anni, la nostalgia del luogo, che ora mi ci attiravano. Solo o in
compagnia dell’amico Serghei, vi salivo ogni tanto, vagabondando poi a lungo
per le vie, viuzze, tortuosi andirivieni e terreni in abbandono dell’antica
Butte, che era ancora a quei tempi uno dei siti più bizzarri e attraenti ch’io
abbia mai visto. Casipole verminose da una parte della stradetta, tinte d’un
color vinaccia, di celeste, di bianco crudo, con persiane sgangherate, o
impannate di vetro sporco; un lampione a gas in bilico sul canto della casa
crollante di qualche poeta o musicista dell’altro secolo; dall’altro lato
vecchie palizzate di legno, di dietro le quali sorgevano da scarpate e smotte precipiti
diritti tronchi e chiome di piante gigantesche ; alti muri a retta neri di
stillicidi e muffe, sul vecchio intonaco dei quali si leggevano incise col
coltello accanto a cuori trafitti da frecce, scritte di amanti notturni e d’apaches. - Gugus aime Lélé; e sotto: Néné
est une grue. Mimile. A bas les moeurs! Mort aux vaches, eccetera.
In
qualche punto, per una breccia aperta nella muraglia, donde partivano rampe a
scalini tagliati nella terra indurita, si poteva raggiungere il sommo della
famosa altura. E la meraviglia da cui si era presi una volta arrivati lassù era
nuova e grandissima. Era come se, aggirandoci fra le più bieche e inquietanti
latebre di popolosa metropoli, fossimo sboccati all’improvviso in aperta
campagna. Erano zone di terreno tenuto a orto, chiuse da muretti a secco o da
siepi di rovi e sambuchi, con capannucce fatte di assicelle e coperte di
bombole da petrolio sventrate, fra manegge di cavoli e zucche, popolate di
polli e conigli; altre, brulle come grillaie, oppure allo stato quasi
selvaggio, coperto d’erbacce, vilucchi e ciuffi di canne e d’ortica, dove
avveniva persino di trovare un asinello intento alla sua magra pastura. Alcuni
tratti, più spaziosi ed aperti, avevano invece l’aspetto di luoghi d’osterie
suburbane o di ritrovi campestri da innamorati clandestini. In un ampio
sterrato cinto di palizzate, nascoste qua e là da folti di rosai salvatici e da
gruppi di girasoli fioriti, sorgevano in disparte costruzioncelle rustiche, a
guisa di châlets variopinti, fiancheggiate di spalliere
a graticola verdi sulle quali serpeggiava la vite americana, con dinanzi archi
e pergole di convolvoli, e qualche pianta di robinia e d’acacia all’intorno.
Da
quell’altezza ariosa il nostro sguardo signoreggiava da ogni lato Parigi. Dagli
edifici più prossimi che coronavan più in basso l’altura, con da una parte la
mole biancheggiante del Sacré Coeur, birillo gigantesco di pietrame fatto al
tornio, degradando giù giù verso il piano, si spiegava tutt’all’ingiro la
sterminata distesa dei tetti grigiastri, azzurrastri, variamente punteggiata
dalle masse più scure dei giardini, dei parchi, delle antiche chiese, delle
torri, da quelle più chiare dei quartieri nuovi, fino a perdersi sotto il
pallido cielo, nel pulviscolo vaporoso dell’orizzonte. Un ronzio cupo
incessante, eco dell’immane traffico della gran villa, saliva a noi da quel
mostruoso complesso di costruzioni umane e di vita; il quale stimola così
potentemente la fantasia degli ambiziosi e degli arrivisti, e suscita invece
tanta malinconia e sgomento in colui che sa riflettere sulla precarietà e
vanità di tutte le cose.
Sotto
una di quelle pergole che faceva da volta a tavole e panche di legno verniciate
di verde, ci sedevamo a riposare. Una vispa e graziosa ragazza, o una
ridanciana donna d’età, o il suo corpulento marito sbracato in maniche di
camicia, sbucava dalla trabacca, come il ragno di fondo alla sua tela, ci
serviva una birra, un panino gravido; e noi vi passavamo un’ora conversando
tranquilli.
Durante
il periodo di cui sto parlando, Prezzolini arrivò a Parigi con la sua Dolores
per trattenervisi qualche tempo. Avevano preso alloggio in una cameretta di rue
de Tournon, e io andavo quasi ogni giorno ad intrattenermi con loro. Visitammo
insieme più luoghi della città ch’essi non conoscevano, spesso parlando l’amico
ed io delle cose della Voce, dei miei
libri in preparazione, della Libreria che la rivista stava allora per aprire o
aveva già aperto; non mi ricordo esattamente. Ciò di cui mi sovvengo invece
molto bene è la visita che Prezzolini ed io facemmo in quei giorni a Romain
Rolland.
Rolland
abitava un quartiere ad un piano assai alto di uno di quei casoni borghesi del
boulevard Montparnasse che ne occupano il lato che corre tra l’avenue de l’Observatoire
e le rue Campagne-Première, fronteggiando per un tratto la Closerie des Lilas,
ed hanno a tergo il bellissimo, silenzioso parco di un convento di monache. La
finestra dello studio dove lo scrittore ci ricevé dava però sul boulevard; sì
che di lassù egli poteva vedere il celebre caffè con i suoi frequentatori, di
tutt’altra specie dalla sua, e, mentre lavorava, udire quello stesso
ininterrotto brusio di voci e di traffico cittadino che ora saliva fino a noi.
Né
Prezzolini né io avevamo mai visto l’autore del Jean Christophe; ma poiché egli ci aveva dato da lontano più d’una
prova di benevolenza e di stima, potevamo già considerarci amici: difatti fu
come tali ch’egli ci accolse e ci trattò in quel nostro primo incontro; che
almeno per me, fu anche l’ultimo. Tanta umana cordialità e semplicità di
tratto, assai rara nei suoi colleghi francesi, ci fece la migliore impressione;
ma ciò che ci colpì soprattutto furono la sua figura e la sua tonalità, diciamo
così, spirituale.
Romain
Rolland era alto, snello di persona, le mani lunghe e fini, da pianista qual’era,
gli occhi d’un chiaro azzurro in una faccia emaciata, i capelli tra castagni e
biondi, così come i baffi, che portava lunghi e pendenti agli angoli della
bocca, molto simili a quelli che si vedono nelle immagini degli antichi
guerrieri galli e germanici. E qualcosa di celtico e di nordico c’era difatti
in lui; senonché, sia dall’espressione del suo volto, sia dai suoi modi molli,
sia dal suo linguaggio misurato, e come abbandonato, traspariva alcunché di
evanescente e malinconico, che contrastava al tutto con codesta idea.
Si
diceva che non molto tempo innanzi, una disgrazia coniugale, aveva colpito
Rolland nei suoi affetti privandolo di una moglie che aveva amato, e senza la
quale egli viveva ora solitario in quella casa, con i suoi amari ricordi e le
sue pene; e questa era forse la ragione di tutto ciò che scoprivamo in lui di
rilasciato e di mesto. Combattente valoroso, e si potrebbe dire anche eroico, egli
restava invece nel campo intellettuale, civile e politico, dove dimostrava un coraggio
ed una pertinacia degni davvero d’un uomo quale appariva per il suo fisico.
La
nostra conversazione si aggirò più che altro intorno alle cose appunto dell’intelligenza
e dell’arte, intorno ai lavori suoi e del nostro gruppo vociano, ch’egli conosceva
e seguiva simpaticamente; tanto che nel suo celebre romanzo aveva persino
inserito una pagina dove ne faceva un elogio singolarmente lusinghiero. Per il
resto, per le idee di sapore prettamente tolstoiano che gli avvenne d’esprimere
intorno alla vita, ai doveri, ai comportamenti morali e civili degli uomini,
debbo dire, quanto a me, ch’io m’ero sempre sentito e mi sentivo in perfetto
disaccordo con lui. Il che non toglie che l’impressione da me riportata e
conservata di quella visita fosse, e sia poi rimasta molto elevata e gradevole.
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