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venerdì 19 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (2)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano
nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955
pp. 171-188

CAPITOLO XIII

Ricordi in libertà. Ancora ospite a Parigi degli amici russi. Serghei, la “Baronne”. Opere di Rousseau. Conosco Degas vecchio e cieco. Jehan Rictus. Visita a Félix Fénéon. Ibels. Un amico di Rosso: Louis Rouart. Diveniamo amici. Lectura Danctis. Eugène Montfort e i suoi “Marges”. Mi ritrovo con Picasso, Apollinaire. Jacob, eccetera. Natura immutata di Picasso. Suo latente arcaismo. Al “Lapin agile”. Vagabondaggi sulla “Butte”. La campagna in Parigi. Prezzolini e moglie in rue de Tournon. Visita a Romain Rolland. Sua figura.

Se volessi narrare con esattezza e per ordine ciò che feci a Parigi, dove anche nella primavera del 1911 fui per qualche mese, occorrerebbe rovistare tra carte e documenti che, un po’ per pigrizia un po’ per noncuranza, lascio dormire raccolti alla rinfusa in pacchi e casse che non apro da anni e anni. Senonché questa non è una cronaca rigorosa dei fatti della mia vita esposti con precisione strettamente cronologica, ma una specie di largo affresco di un genere particolare, illustrante un dato periodo ed ambiente in cui io ho agito e mi son mosso; e nel quale le cose, ossia le figure ond’esso è composto, non debbono essere necessariamente allineate e disposte come in cerimonia, ma con una certa varietà capricciosa di luci, ombre, volumi, colori e sfondi, atti ad animarne l’insieme; ed a questo effetto basta che tali cose e figure, comunque collocate, ci siano e vi appaiano nella loro verità sostanziale. Che se poi l’opera dovesse un giorno assumere un interesse duraturo, ci sarà sempre tempo e modo di compulsar quelle carte e quei documenti, e rimetter tutto a posto.
Dirò intanto che appena giunto a Parigi una bella sorpresa mi attendeva in casa della Baronessa Elena e di Serghei, dei quali anche questa volta ero ospite. Dopo il mio dono dei nove disegni di Henri Rousseau, l’amico russo, che solo negli ultimi tempi s’era allontanato dai suoi primi gusti per l’opera dei pittori ottocenteschi del suo paese - quali Vasnizoff, Vrubel, eccetera - e del francese Paul Laurens, per orientarsi verso un’arte più viva e attuale, aveva preso egli pure contatto col Doganiere, il quale era poi divenuto un assiduo frequentatore dell’hôtel del boulevard Berthier, e tale era rimasto sino alla sua morte, avvenuta poco avanti il tempo di cui parlo.
Ho detto altrove dei comportamenti dell’ingenuo pittore nella casa dei miei amici; di quando in cucina si estasiava davanti all’oleografia di un calendario raffigurante una rosea fanciulla con una ciliegia in mano; di quando, nel posare per un ritratto che volevano fargli, si addormentava come un bambino dopo la poppa; di quando raccontava loro i suoi amori con una vecchia megera che lo pelava; e ne leggeva le lettere ricattatorie e oltraggiose versando lacrime di tenerezza. Essi gli avevan comprato via via più di un dipinto, ed io, che già lo sapevo, li vedevo ora appesi nel salotto, insieme a quel paesaggio con le vacche da lui dipinto per me, e che io avevo regalato alla Baronessa. Ma ecco che insieme ad essi io vedevo anche tutte le opere che avevo sempre visto nel suo studio e che erano tra le sue maggiori. La grande Noce paysanne, il, grande autoritratto dell’artista in riva alla Senna, il poeta Apollinaire e la sua Musa, la Carrettella, e diversi altri quadri di figure, vasi di fiori, paesaggi, assai belli nel loro candore, che non è popolare né primitivo, come comunemente si crede, ma di un genere al tutto particolare.
Anzi a tal proposito debbo dire qualche cosa che non è punto privo d’importanza, e che contrasta con molte notizie date (anche da me in altri momenti) intorno alla natura artistica di codesto pittore. Esistono dunque abbozzi, annotazioni, schizzi presi sul vero dal peintre du dimanche Rousseau, i quali, sia per l’audacia e rapidità dell’esecuzione, sia per la giustezza, finezza, e freschezza naturalistica del colore avevano, per certi lati dell’Utrillo, e per altri magari del Manet. Come poi avvenisse che, partendo da questa sapienza, e scaltrita sensibilità pittorica, il Rousseau arrivasse ai resultati che sappiamo è davvero un arcano.
Poiché Medardo Rosso era già da tempo tornato dall’Italia a Parigi, una delle mie prime visite, dopo aver ripreso contatto con i miei amici russi, fu naturalmente per lui. Andai a trovarlo una mattina nel suo studio, e vi restammo alquanto parlando delle cose di Firenze, dei nostri ultimi casi; ma come la giornata era bella ed egli non aveva nulla da fare, ci parve meglio di uscire e continuar la nostra conversazione passeggiando. Se-nonché, eravamo appena fuori e stavamo per imboccare il boulevard des Batignolles, quando ci trovammo davanti un vecchio signore, che Rosso salutò affabilmente ed al quale mi presentò. Era Degas. Fermo sul marciapiede, tutto vestito di scuro, alto magro, quasi affatto cieco, il grande pittore, ch’io vedevo per la prima volta, volgeva la faccia qua e là, trepidante, inquieto, come in attesa di qualcuno o di qualche cosa. E allorché gli strinsi, commosso la mano secca e tremula:
- Ah, mon dieu, comme vous serrez fort! - esclamò con un lieve gemito - Pourquoi serrez-vous si fort?
Mi scusai mortificato; ma egli già non ci pensava più, continuando, anche mentre s’intratteneva con noi, a guardare a destra e a sinistra. Quando, dopo un breve colloquio, ci fummo congedati da lui per riprender la nostra passeggiata, domandai a Rosso perché mai Degas fosse in tanta agitazione. Mi disse che certamente era lì ad aspettare un omnibus che lo portasse in qualche punto lontano della città; dove, una volta arrivato, sarebbe salito sul­l’imperiale d’un altro per un uguale viaggio, e così via; come faceva ogni giorno.
Era infatti una disperata mania che gli era presa dacché per la sua cecità non aveva potuto più la­vorare; e che gli durò fino alla morte.
Durante quella ripresa del mio fraterno commercio con Rosso ebbi occasione di conoscer per mezzo suo altri suoi valenti amici, e non alla sfuggita come era avvenuto per il povero grande artista Degas. L’uno di essi fu il poeta Jehan Rictus, autore di stupendi poemi popolareschi scritti in un francese misto di molto argot, e vero intenditore di pittura moderna. Le nostre relazioni si fecero in breve amichevoli: fui spesso da lui, in un curioso studio la cui finestra si apriva sul vasto biancore a un tempo malinconico e solenne del cimitero di Montmartre, per udirlo leggermi versi di sua nuova fattura, e ragionar con lui di lettere e d’arte. Rictus era intimo di Félix Fénéon, allora direttore della galleria Bernheim-Jeune, e poiché Rosso gli aveva parlato vantaggiosamente dell’opera mia, un giorno ebbi da lui la promessa che avrebbe parlato al suo amico il quale era anche un eccellente critico, affinchè facesse entrar qualche mio dipinto nella bottega di quel tanto reputato mercante di pittura. Non andò molto che Fénéon venne infatti nello studio del boulevard Gouvion-Saint-Cyr, che Serghei divideva anche quell’anno con me; vide alcuni miei grandi disegni acquerellati, che avevo portato dal Poggio; gli piacquero e me ne prese più d’uno. Come io non son mai stato molto curante dei miei interessi pratici, né entrante, né sollecitante, mi contentai per allora di consegnare i lavori, senza occuparmi della loro sorte. Seppi solo l’anno dopo che non erano stati venduti, e me li riportai in Italia.
Sempre pel tramite di Rosso entrai diretta o indirettamente in rapporto anche con altre persone, la conoscenza delle quali mi riuscì altrettanto gradita, e anche utile, che quella dell’eccellente poeta Jehan Rictus. Intendo Ibels, critico d’arte e autore di un romanzo, L’Arantelle, uno dei cui personaggi,- e anzi mi pare il protagonista, - scultore, era ricalcato sulla figura dello stesso Rosso, e che tra l’altro, conteneva la scena di una fusione in bronzo, cui Ibels aveva probabilmente assistito nello studio-officina del suo amico, scena di una verità impressionante. Era uomo di liberissimo spirito, di carattere ribelle - quindi tenuto in margine della vita letteraria - e d’una lealtà a tutta prova; tanto che, sebbene le nostre relazioni non durassero se non qualche mese, ho serbato di lui il più vivo e grato ricordo.
Un’altra di tali conoscenze, ugualmente profittevole, fu quella che feci del più giovane figlio del pittore e grande collezionista d’arte Henri Rouart, quel medesimo che in gioventù era stato amico e generoso sostenitore dei maggiori maestri impressionisti, dei quali, e specie di Degas, vidi poi in casa sua numerose e sceltissime opere.
Di lui, vecchio inchiodato infermo, sopra una poltrona e della sua ricchissima collezione, che visitai quell’anno assieme a Rosso, scrissi a suo tempo nel mio libro su questo scultore. Louis Rouart, il detto figlio, trentenne estremamente nervoso, rosso di pelo, parlante così in fretta da mangiar mezze le parole, devotissimo di Rosso, che l’aveva visto ragazzo, andando in casa di suo padre per ritrarne magistralmente la figura, e lo trattava come tale, cattolico sfegatato, ma - come diceva ridacchiando - «all’uso rinascimentale», era un buonissimo scrittore, e soprattutto di cose d’arte. Poiché, oltre a questo, egli conosceva ed amava l’Italia, fummo presto amici. Avendo visto nello studio di Rosso un disegno che avevo fatto al Poggio, rappresentante un accattone alla porta di casa mia, lo acquistò senz’altro; e, anche pagandolo - lui molto stretto di borsa - la bella somma di quattrocento franchi.
Egli mi dava con ciò una prima prova non solo di amicizia ma anche di stima: un’altra fu, subito dopo, quella d’introdurmi nella sua famiglia; privilegio eccezionalissimo da parte di un francese della sua classe - molto vicina in questo al costume mussulmano -, specialmente se concesso ad uno straniero. Fu così che frequentando la sua casa dell’aristocratica rue de Chenaleilles, bella distinta casa spirante armoniosa pace e raccoglimento spirituale, io potei vedere e gustare, splendidi dipinti e disegni di Manet, Degas, Cézanne Seurat, e segnatamente - quantunque con qualche interiore riserva - apprezzare la grande tela tahitiana di Gauguin, intitolata, a dir vero con troppa affettazione letteraria, Nave nave mahana; dipinti ond’erano coperte le pareti del salotto dove per l’ordinario sedevamo conversando.
In codesto stesso salotto, illustrato da tanto lume d’arte, fui più tardi invitato dal nuovo amico a leggere, dichiarare e commentare più canti di Dante, poeta ch’egli decifrava alla meglio e che ora lo percoteva di stupore, parendogli, diceva, come non mai per l’innanzi, di una grandezza davvero formidabile e divina.
Eravamo in questa intimità, quando Louis Rouart, che in quel tempo dava di frequente alla rivista Les Marges, diretta dal romanziere Montfort, certe sue acute, sagaci critiche d’arte, volle un giorno che anch’io conoscessi questo suo buon amico. Salimmo assieme a trovarlo su per l’erta di Montmartre fino a rue Chaptal, in un suo quartierino da scapolo, dov’egli viveva solo attendendo alla preparazione dei suoi libri e della sua rivista.
Eugène Montfort era un bell’uomo dall’aspetto di schermidore, simpatico visitatore dell’Italia, di cui conosceva alcun poco la lingua, appassionato soprattutto di Napoli e di quella vita amorosa da lui trattata nel suo romanzo La Chanson de Naples. Ci ricevé in una stanza ch’era piena di ricordi di quella città, tra i quali notevolissima una collezione di Pulcinelli, Covielli ed altre maschere e marionette da teatro dei pupi, nei loro sgargianti costumi guarniti d’oro e d’argento, o con le loro armi e corrusche corazze di latta. Anche con Montfort strinsi ben presto un’amichevole consuetudine. Non molto tempo dopo quel primo incontro egli stampò qualche mio scritto nella sua rivista; della quale anche il mio vecchio amico Apollinaire, era collaboratore, di guisa che inopinatamente veniva così a saldarsi una catena di colleganze poetiche nel cui giro sempre più ampio si svolgeva in quegli anni la mia attività artistica e letteraria.
Mentre tali nuove relazioni procuratemi da Rosso si estendevano e si consolidavano, continuavo a frequentare come gli anni passati, la compagnia dei miei vecchi amici pittori e scrittori. Vedevo sempre Picasso nel suo solito studio, dove lo trovavo ogni volta più impegnato nei vari successivi sviluppi del suo cubismo; lo vedevo al consueto caffè dell’Ermitage assieme alla sua amica Fernanda e a Jacob, del quale andava ornando di belle acqueforti il Saint Matorel, edito splendidamente da Kahnweiler; c’incontravamo nella bottega di quest’ultimo (fattosi, come si vede, anche editore), divenuta ormai il principale luogo d’incontro dei migliori rappresentanti della nuova pittura, nello stesso tempo che la più fortunata esposizione permanente delle loro opere, diciamo così, della giornata.
Il solito bettolino detto il Lapin agile (o, come altri vorrebbero, il Lapin a Gilles), quella baracca affumicata sul pendio della solitaria rue des Saules, posta oltre un breve spazio ombreggiato da alcuni vecchi platani e tenuta da un Frédéric, detto Frédé, barbuto chitarrista, cantastorie, imbonitore, personaggio alquanto losco nonostante la sua rumorosa affettazione di cordialità, era ancora un altro dei nostri ritrovi. Seduti alle rozze tavole sparse fuor della porta, o, secondo il tempo bello o piovoso, a quelle ingombranti l’interno di uno stanzone quasi buio, tappezzato di tele buone e cattive di giovani artisti frequentatori del locale, le nostre conversazioni, talvolta animate da contrasti di gusti e d’idee, talvolta clamorosamente allegrate dall’umor faceto, ironico, paradossale di Max Jacob, dai frizzi e barzellette dell’uno o dell’altro di noi, ed alle quali partecipavano a volte anche amici spagnoli di Picasso, erano, insieme, delle più istruttive e dilettevoli.
Picasso, che pure era, tra tutti noi, quegli che già fin da qualche anno godeva di maggior successo e di una speciosa aura particolarmente atta a stimolare certi naturali impulsi di vanità, non era, invece punto cambiato da quello che avevo sempre conosciuto per l’innanzi. Vestiva ancora alla stessa guisa ordinaria senza alcuna cura né di ricercatezza né di singolarità; i suoi modi e detti restavano semplici, quasi popolareschi; solo improntati alla consueta arguzie polemica e latente furbizia. Aveva bensì piena coscienza del suo grande talento, ma nessuna vanteria né affettazione di superiorità o boria era in lui; parlava come un giovane artista dotato deve parlare tra compagni ed amici; e non nascondeva nemmeno certe tristezze, preoccupazioni e momentanei scoramenti che lo prendevano, come avviene a tutti quanti ci cimentiamo nel lungo e terribile cammino dell’arte. Nulla perciò del filisteo risalito, che trasforma la sua casuale fortuna quasi in un obbligo di fastosità e di spocchia volgare. E nulla neanche del peintre maudit, dell’ubriacone, del finto pazzoide.
A un certo momento, preso anche lui nell’andazzo allora comune di molti letterati ed artisti illusi di fortificare il loro ingegno nei baudelairiani paradisi artificiali delle droghe stupefacenti, aveva avuto la curiosità, dietro l’esempio di taluni suoi amici egualmente disposti -- tra i quali Apollinaire -, di farne una notte la prova. Rinchiusosi con essi e con qualche loro amica in non so quale atelier della Butte, egli aveva ingerito come gli altri la rituale dose di haschisch; ma gli era bastato quell’unica esperienza per non farne più altro.
Raccontandomi un giorno quali fossero stati gli effetti della droga e le sensazioni da lui provate, me li descrisse scherzando, come cose di nessun rilievo. Non si trattava che di sensazioni comuni esageratamente ingrandite da quella specie particolare di ubriachezza. Il suono, per esempio, di una corda di chitarra, produceva la sensazione di, un esercizio musicale; una risata isterica di ragazza quella di un’allegria da baccanale; scendendo uno scalino pareva di calar volando in un abisso. Mi disse che anche Apollinaire era uscito dalla seduta con lo stesso suo sentimento e parimente deciso a non ripeter mai più l’esperienza.
E rideva come di una ridicolezza del comune disinganno.
Picasso era insomma rimasto quale l’avevo conosciuto poco più che adolescente e lo conobbi poi fino a quando, nel 1927, mi trovai con lui l’ultima volta. C’incontrammo per caso in rue La Boétie, dov’egli allora abitava un appartamento, proprio sopra alla Galleria del mercante Rosenberg. Eran più di dieci anni che non ci si vedeva; mi accolse festosamente e m’invitò a salire in casa sua, dove conobbi l’ex-ballerina russa, allora sua moglie ed il loro piccolo figlio Paulo. Parlo di ciò perché fu anche quella per me un’occasione di rivederlo sotto la luce che ho detto.
Il suo appartamento, comecché, in fondo, borghese, presentava per più lati il disordine dei suoi vecchi studi. La tinozza di una elegante stanza da bagno era piena di suoi dipinti, altri stavano ammucchiati sulle altre suppellettili e per terra. Erano tutte opere della sua ultima maniera, e Picasso, tiratene fuori alcune, le poneva a mano a mano sopra un cavalletto per averne il mio parere. Di una specialmente, una natura morta con vasi ed altri oggetti posati sopra un piano, tutto quasi selvaggiamente violentato nelle forme, chiuso in una cupa armonia di rossi, gialli d’ocra, neri, egli sembrava attendere bramoso il mio giudizio. Lodai il dipinto per la sua austera bellezza, aggiungendo ch’esso mi faceva pensare a certe pitture dai toni egualmente gravi, quali se ne vedono in qualche tomba etrusca di Tarquinia e di Orvieto.
- È vero - disse Picasso, soddisfatto e preoccupato ad un tempo. - E non so capire perché, quello che faccio abbia sempre infatti qualche cosa d’antico.
Parlando così candidamente egli non sapeva di riconoscere, senza volerlo, la validità delle riserve che la sua arte suggerisce. Quel «qualche cosa d’antico» non è altro in sostanza che la tendenza a uno stilismo artistico che prima fu dei preraffaelliti, seguita poi dai pittori del liberty e del floreale, poi, in modi diversi, e riferimenti più lontani, da lui, Picasso, e infine, a tutt’oggi, da quanti rifuggono dall’amoroso e profondo studio del reale, di ciò che si dice natura, unico fondamento, ed eterno, dell’arte.
A Montmartre, quando non era la brigata del Lapin agile, erano i ricordi dei miei vent’anni, la nostalgia del luogo, che ora mi ci attiravano. Solo o in compagnia dell’amico Serghei, vi salivo ogni tanto, vagabondando poi a lungo per le vie, viuzze, tortuosi andirivieni e terreni in abbandono dell’antica Butte, che era ancora a quei tempi uno dei siti più bizzarri e attraenti ch’io abbia mai visto. Casipole verminose da una parte della stradetta, tinte d’un color vinaccia, di celeste, di bianco crudo, con persiane sgangherate, o impannate di vetro sporco; un lampione a gas in bilico sul canto della casa crollante di qualche poeta o musicista dell’altro secolo; dall’altro lato vecchie palizzate di legno, di dietro le quali sorgevano da scarpate e smotte precipiti diritti tronchi e chiome di piante gigantesche ; alti muri a retta neri di stillicidi e muffe, sul vecchio intonaco dei quali si leggevano incise col coltello accanto a cuori trafitti da frecce, scritte di amanti notturni e d’apaches. - Gugus aime Lélé; e sotto: Néné est une grue. Mimile. A bas les moeurs! Mort aux vaches, eccetera.
In qualche punto, per una breccia aperta nella muraglia, donde partivano rampe a scalini tagliati nella terra indurita, si poteva raggiungere il sommo della famosa altura. E la meraviglia da cui si era presi una volta arrivati lassù era nuova e grandissima. Era come se, aggirandoci fra le più bieche e inquietanti latebre di popolosa metropoli, fossimo sboccati all’improvviso in aperta campagna. Erano zone di terreno tenuto a orto, chiuse da muretti a secco o da siepi di rovi e sambuchi, con capannucce fatte di assicelle e coperte di bombole da petrolio sventrate, fra manegge di cavoli e zucche, popolate di polli e conigli; altre, brulle come grillaie, oppure allo stato quasi selvaggio, coperto d’erbacce, vilucchi e ciuffi di canne e d’ortica, dove avveniva persino di trovare un asinello intento alla sua magra pastura. Alcuni tratti, più spaziosi ed aperti, avevano invece l’aspetto di luoghi d’osterie suburbane o di ritrovi campestri da innamorati clandestini. In un ampio sterrato cinto di palizzate, nascoste qua e là da folti di rosai salvatici e da gruppi di girasoli fioriti, sorgevano in disparte costruzioncelle rustiche, a guisa di châlets variopinti, fiancheggiate di spalliere a graticola verdi sulle quali serpeggiava la vite americana, con dinanzi archi e pergole di convolvoli, e qualche pianta di robinia e d’acacia all’intorno.
Da quell’altezza ariosa il nostro sguardo signoreggiava da ogni lato Parigi. Dagli edifici più prossimi che coronavan più in basso l’altura, con da una parte la mole biancheggiante del Sacré Coeur, birillo gigantesco di pietrame fatto al tornio, degradando giù giù verso il piano, si spiegava tutt’all’ingiro la sterminata distesa dei tetti grigiastri, azzurrastri, variamente punteggiata dalle masse più scure dei giardini, dei parchi, delle antiche chiese, delle torri, da quelle più chiare dei quartieri nuovi, fino a perdersi sotto il pallido cielo, nel pulviscolo vaporoso dell’orizzonte. Un ronzio cupo incessante, eco dell’immane traffico della gran villa, saliva a noi da quel mostruoso complesso di costruzioni umane e di vita; il quale stimola così potentemente la fantasia degli ambiziosi e degli arrivisti, e suscita invece tanta malinconia e sgomento in colui che sa riflettere sulla precarietà e vanità di tutte le cose.
Sotto una di quelle pergole che faceva da volta a tavole e panche di legno verniciate di verde, ci sedevamo a riposare. Una vispa e graziosa ragazza, o una ridanciana donna d’età, o il suo corpulento marito sbracato in maniche di camicia, sbucava dalla trabacca, come il ragno di fondo alla sua tela, ci serviva una birra, un panino gravido; e noi vi passavamo un’ora conversando tranquilli.
Durante il periodo di cui sto parlando, Prezzolini arrivò a Parigi con la sua Dolores per trattenervisi qualche tempo. Avevano preso alloggio in una cameretta di rue de Tournon, e io andavo quasi ogni giorno ad intrattenermi con loro. Visitammo insieme più luoghi della città ch’essi non conoscevano, spesso parlando l’amico ed io delle cose della Voce, dei miei libri in preparazione, della Libreria che la rivista stava allora per aprire o aveva già aperto; non mi ricordo esattamente. Ciò di cui mi sovvengo invece molto bene è la visita che Prezzolini ed io facemmo in quei giorni a Romain Rolland.
Rolland abitava un quartiere ad un piano assai alto di uno di quei casoni borghesi del boulevard Montparnasse che ne occupano il lato che corre tra l’avenue de l’Observatoire e le rue Campagne-Première, fronteggiando per un tratto la Closerie des Lilas, ed hanno a tergo il bellissimo, silenzioso parco di un convento di monache. La finestra dello studio dove lo scrittore ci ricevé dava però sul boulevard; sì che di lassù egli poteva vedere il celebre caffè con i suoi frequentatori, di tutt’altra specie dalla sua, e, mentre lavorava, udire quello stesso ininterrotto brusio di voci e di traffico cittadino che ora saliva fino a noi.
Né Prezzolini né io avevamo mai visto l’autore del Jean Christophe; ma poiché egli ci aveva dato da lontano più d’una prova di benevolenza e di stima, potevamo già considerarci amici: difatti fu come tali ch’egli ci accolse e ci trattò in quel nostro primo incontro; che almeno per me, fu anche l’ultimo. Tanta umana cordialità e semplicità di tratto, assai rara nei suoi colleghi francesi, ci fece la migliore impressione; ma ciò che ci colpì soprattutto furono la sua figura e la sua tonalità, diciamo così, spirituale.
Romain Rolland era alto, snello di persona, le mani lunghe e fini, da pianista qual’era, gli occhi d’un chiaro azzurro in una faccia emaciata, i capelli tra castagni e biondi, così come i baffi, che portava lunghi e pendenti agli angoli della bocca, molto simili a quelli che si vedono nelle immagini degli antichi guerrieri galli e germanici. E qualcosa di celtico e di nordico c’era difatti in lui; senonché, sia dall’espressione del suo volto, sia dai suoi modi molli, sia dal suo linguaggio misurato, e come abbandonato, traspariva alcunché di evanescente e malinconico, che contrastava al tutto con codesta idea.
Si diceva che non molto tempo innanzi, una disgrazia coniugale, aveva colpito Rolland nei suoi affetti privandolo di una moglie che aveva amato, e senza la quale egli viveva ora solitario in quella casa, con i suoi amari ricordi e le sue pene; e questa era forse la ragione di tutto ciò che scoprivamo in lui di rilasciato e di mesto. Combattente valoroso, e si potrebbe dire anche eroico, egli restava invece nel campo intellettuale, civile e politico, dove dimostrava un coraggio ed una pertinacia degni davvero d’un uomo quale appariva per il suo fisico.
La nostra conversazione si aggirò più che altro intorno alle cose appunto dell’intelligenza e dell’arte, intorno ai lavori suoi e del nostro gruppo vociano, ch’egli conosceva e seguiva simpaticamente; tanto che nel suo celebre romanzo aveva persino inserito una pagina dove ne faceva un elogio singolarmente lusinghiero. Per il resto, per le idee di sapore prettamente tolstoiano che gli avvenne d’esprimere intorno alla vita, ai doveri, ai comportamenti morali e civili degli uomini, debbo dire, quanto a me, ch’io m’ero sempre sentito e mi sentivo in perfetto disaccordo con lui. Il che non toglie che l’impressione da me riportata e conservata di quella visita fosse, e sia poi rimasta molto elevata e gradevole.

ARTICOLI COLLEGATI





















giovedì 18 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (1)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955, pp. 131-146

CAPITOLO X

Idea di una mostra d’impressionisti a Firenze. Accetto di occuparmene e vado a Parigi. Ritrovo i vecchi amici artisti e scrittori. Ripresa del nostro commercio ideale. Sviluppo del cubismo, orfismo, eccetera. Al caffè dell’Ermitage. Al circo Medrano. Il clown italiano. Forain. Lavoro nello studio di Serghei. La modella svizzera. Boldini è “trop cochon”. “La grande Jatte”. Duran-Ruel, generoso, presta quadri. Limito per miseria la scelta. Conosco Rosso di persona. Il suo studio-officina. Stringiamo amicizia: esporrà anche lui e verrà a Firenze. Vado a conoscere il “Doganiere”. Dipingerà per me. Gli compro sedici disegni.


Allorché io avevo cominciato a pubblicar nella Voce quei miei articoli sull’Impressionismo, che erano stati la prima ragione, come si ricorderà, dell’invito fattomi da Prezzolini a entrare nella sua rivista, pochissimi in Italia avevano una conoscenza diretta di quella scuola per averne viste le opere, ma il più, anche di quei pochi, solo per averne appreso qualcosa in qualche scritto dimenticato di Diego Martelli e segnatamente, i più informati di essi, in un libro di Vittorio Pica, l’unico fino allora pubblicato da noi intorno a tale argomento, e il più serio e aggiornato. Avendo codesti scritti suscitato tra gli amici della nostra impresa una grande curiosità per quel genere d’arte, curiosità che si era poi propagata in zone sempre più larghe, fino a svegliare nel pubblico un interessamento a mano a mano crescente, venne il momento in cui tanto io che Prezzolini si concluse dal fatto che un’esposizione di quella pittura a Firenze sarebbe stata quanto mai utile e profittevole per il fine culturale della rivista.
Si trattava di ottenere il prestito di un certo numero di opere di quella scuola da parte dei mercanti d’arte parigini. Io che ne conoscevo, come s’è visto, alcuni fra i più indicati all’uopo, potevo tentar l’impresa, e vi ero disposto: mi sarebbe bisognato andare a Parigi, ed anche questo ero pronto a farlo volentieri; molto più che avrei avuto insieme l’occasione, di conoscervi di persona lo scultore Rosso, la cui opera m’era già così favorevolmente nota e a pro del quale avevamo mosso quella nostra battaglia. La più grande difficoltà consisteva nei mezzi occorrenti all’attuazione del bel disegno: Prezzolini, o per meglio dire, la Voce non poteva disporre se non di poche centinaia di lire, offerte, credo, da qualche amico meno povero di noi, «sostenitore», come si chiamano i benemeriti di tali pubblicazioni. Dopo qualche esitazione determinammo di gettare ugualmente il dado; ed io intrapresi il viaggio.
Trovai Parigi come l’avevo lasciata due anni prima; con questo di nuovo, che i miei amici e colleghi pittori e scrittori erano ora impegnatissimi nel dar corpo e sviluppo alle premesse estetiche e alle forme artistiche poste e iniziate tra noi prima della mia partenza da quella città. Ospite di Sergio, che dimorava con la sua parente e del pari amica mia baronessa Elena d’Œttingen, in un piccolo hôtel privato del boulevard Berthier, tornai a vedere Picasso, Braque, Apollinaire, Jacob, e gli altri della vecchia brigata, accresciuta nel frattempo di nuovi aderenti; ad incontrarmi con essi nello studio del primo, nei caffè di Montmartre; a frequentare insieme il «Lapin agile», il circo Médrano, la Closerie des lilas, eccetera.




Picasso, colpito dal fascino esotico di certi feticci negri, genere di scultura barbarica entrata allora in circolazione fra i colleghi parigini, dipingeva adesso nature morte, figure, copriva tele di ardite composizioni, dove già i modi e la tecnica, i toni del cubismo si andavano affermando con sempre maggior rigore. Apollinaire e Jacob stavano disarticolando, sveltendo, dando aria, dirò così, al loro linguaggio poetico, dirompendo sapientemente la sintassi, introducendo nelle loro immagini la magia di rapporti, similitudini, simultaneità di sensi generate da analogie segrete e lontane. Un fervore di ragionamenti, discussioni, polemiche, animava quelle adunanze di creatori di una poetica moderna, alle quali prendevo parte anch’io, con pieno consentimento o con le riserve del caso.
Uno dei caffè più frequentati dal nostro gruppo era l’Ermitage; e poiché Picasso era andato ad abitare nel boulevard de Clichy, proprio di faccia ad esso, ogni volta che io e qualche altro andavamo a trovarlo, quando poi si scendeva dal suo studio assieme a lui, era lì che andavamo a sederci. Vi arrivava poi la sua Fernanda con l’inseparabile sua amica Ève, moglie del caricaturista Marcous; vi capitavano Braque, Jacob, il giovane pittore italiano Ubaldo Oppi; e certe sere anche un altro giovane artista di vero talento, De La Fresnaye, allora nella sua divisa da coscritto; il quale, da soldato, appunto, doveva pochi anni dopo, fallire alle sue grandi promesse morendo in guerra.
Ugualmente vicino allo studio di Picasso era anche il circo Médrano, vecchia baracca ottocentesca, dove spesso finivamo di passare le ultime ore della notte tra un pubblico di popolani ed altra piccola gente, estasiata ed esilarata dalle prodezze dei ginnasti, degli equilibristi, dei cavallerizzi, giocolieri; dalle farse dei clowns americani, inglesi, e dei pagliacci di ogni paese. Uno di questi ultimi, capace di buffoneggiare in un monte di lingue, era un Alexis, più bravo di tutti. Poiché ormai eravamo divenuti come di casa, andavamo talvolta a salutarlo in un certo oscuro e malodorante ambulacro corrente sotto le gradinate del circo, tra gli spogliatoi, i camerini, i depositi d’attrezzi, le stalle, e dove si ritiravano a travestirsi a ritruccarsi dopo ogni «numero», a riposarsi o a passeggiare gli uomini e le donne della compagnia. Durante tali visite seppi da lui ch’egli era italiano ma vissuto quasi sempre all’estero; che quel nome di Alessio non era il suo vero ma un nome di battaglia; che era stato a più riprese ed aveva lavorato nell’America del Nord e in quella del Sud, in Inghilterra, in Ispagna, in Germania, in Russia; paesi di ognuno dei quali aveva appreso la lingua, ciò che gli era poi sempre servito nei circhi di ogni parte del mondo per dare sapore originale alla sua comicità. Anche nell’intrattenersi con noi egli si esprimeva, perciò, mescolando curiosamente le parole di tanti idiomi diversi, cui ora s’aggiungeva il francese. Era minuto di corpo, di misero aspetto, molto timido e tristissimo.
Quanto a noi, non frequentavamo il circo solo per trepidare allo spettacolo dell’equilibrista giapponese che faceva la «bandiera» in cima a un’altissima asta inclinata retta dalle piante dei piedi di un compagno raggomitolato con le spalle in terra; o dell’acrobata muscoloso sospeso coi denti a una corda agganciata a una cèntina metallica del soffitto, mentre un collega vola da un aereo trapezio all’altro; né per divertirci del giucco della cavallerizza in costume di ballerina, in bilico sopra una gamba sulla groppa di un cavallo corrente in giro nella pista, pronta a passare attraverso un cerchio contornato di fiamme; né per ridere dei pagliacci impegnati nell’assurdo e nel grottesco delle loro gesta e avventure. Lo facevamo soprattutto per osservare gli aspetti di quella bizzarra vita artificiale; studiare le forme, i movimenti dei corpi, i colori inattesi, ricchi, fantasiosi delle casacche, delle maglie, brache, cravattoni, parrucche di quegli «artisti» geniali ; nonché le figure, le posizioni, i vari raggruppamenti, la massa dello stesso pubblico sul fondo di luci e d’ombre del singolare teatro. Motivo, dunque più che di svago, di studio. E questo doveva certo essere lo stesso che attirava nello stesso circo anche l’ormai vecchio Forain; il quale vedevamo, spesso seduto tra il comune pubblico, non lontano da noi, tutto vestito di nero, il colletto inamidato, chiuso, i capelli bianchi, e la pallida faccia da attore e da pastore protestante, mesta a un tempo e sarcastica, di continuo protesa e intenta al medesimo gioco di membra, di colori e di chiaroscuri che animava l’arena e la folla delle gradinate.


Rientrato così nel giro, passavo poi gran parte delle mie giornate nell’atelier che Sergio aveva, a parte, nel boulevard Gouvion-Saint-Cyr, verso la porta Maillot. Mi vi servivo degli stessi suoi modelli; tra gli altri di una ragazzona svizzera, bionda e florida che dipinsi nuda, un ginocchio appoggiato a un divano mentre si ravviava i capelli davanti allo specchio, e dalla quale, distesa sul medesimo divano, seduta, o circolante, sempre nuda, qua e là nello studio, trassi molti schizzi e disegni a matita, o avvivati da qualche tocco d’acquerello. Nei momenti di riposo ella ci raccontava, tra l’altro, come un tempo avesse posato anche per Boldini, dimorante, solo e intrattabile, in uno dei tanti hôtels privati del vicino boulevard Berthier; ma che ora non ci voleva più andare. Le chiedemmo il perché. - Parce qu’il est trop cochon - disse -. Quand une femme est seule avec lui, il prétend toujours de faire ça. C’est un vieux satyre.
Per altri disegni servirono a me e all’amico anche due sorelle che vennero un giorno a bussare allo studio; ma eran quasi due bambine, sbiadite, stente, che ritenemmo quasi per compassione; né potemmo far altro che ritrarle nei gonnellini, corpettini e scarpettini da ballerinette, ch’esse avevan portato in una valigetta con loro.
Davanti a codesto studio, dall’altra parte del boulevard, oltre un terrain vague risultato dalla demolizione delle vecchie fortificazioni, si stendeva la pianura, ancora quasi senza case, fino alla Senna non lontana. Nelle ore di svago, e specie la domenica, io e Sergio inforcavamo la bicicletta e ci buttavamo a correre per quella mezza campagna. Conservo ancora l’appunto di una di codeste girate.
«Uscito con Serghei in bicicletta fuori di Parigi» dice l’appunto. «La giornata è superba: sole limpido e ancora caldo. La strada che abbiamo percorsa è spaventosa, ma in pochi minuti arriviamo a un’isoletta che Serghei ha voluto farmi vedere: è l’isola della Grande Jatte, quella stessa che dette il titolo al grande e bel quadro di Seurat, da me tanto ammirato anni fa agli Indipendenti.
Vi si arriva per un ponte gettato sur uno dei rami della Senna che la circonda; e ciò che mi colpisce prima di tutto è il suo aspetto miserando e desolato. Il terreno scosceso dell’alta riva, è calcinoso, roso dall’acqua del fiume grosso che ne scalza gli alberi, alcuni dei quali giacciono arrovesciati, mezzi inghiottiti dalle onde e solo ritenuti dalle radiche fortemente piantate fra i sassi della scarpata. Un po’ più in dentro, da questa parte dell’isola, parecchie stamberghe pericolanti formate di vecchie assi mal conficcate, di pezzi di latta, coperte di lastre o di bandone, imbrattate di colori vivi, voglion parere trattorie ed alberghi. Davanti alle porte, fornelli spenti. Sergio mi dice che le domeniche d’estate vi si friggono le patate e i migliaccini per gli operai che vengono qui in folla a far baldoria. Tavole e sgabelli sgangherati sotto pergole povere, sfrondate. Appiccate al muro, o sul davanzale della finestra di quasi tutte queste casipole, alcune gabbie sudicie racchiudono canarini, fringuelli, calenzoli arruffati, affamati e muti. Una soprattutto di codeste baracche mi ha fatto senso. È bassa, grigia, sganasciata, sporca, circondata da grandi alberi mezzi spogli, e sulla facciata, porta scritto a grosse lettere color vinaccia: À la solitude. Due vecchie spettinate sono davanti all’uscio e aiutano un giovanotto biondo a scaricare da un camioncino una cassa piena di bottiglie di sidro. I soliti uccelli, i soliti tavolini; qualche fiore stento e languente trema sul davanzale. Sotto la pergola un bambino dimenticato si balocca con tre o quattro palline colorate, chiuso in una sediola come in una morsa. In cima alle colonne del cancello d’un giardinetto di fianco alla trabacca, due piccoli mulini a vento, tinti di rosso agitano nell’aria le loro ali bianche.
Intorno alle case, pratelli lebbrosi di un verde infetto che fa pensare al veleno, e per i quali errano cani irsuti, impillaccherati, magri, resi allo stato selvaggio, e che ti guardano sinistramente senza aver però il coraggio di saltarti addosso e addentarti la gola. Dappertutto terreni sommossi circondati da stecconati neri e crollanti.
Nel ritornarcene verso il ponte vediamo un uomo, probabilmente un rivendugliolo d’abiti smessi, vestito d’un paio di calzoni bianchi tutti rincincignati, di una marsina nera consunta e loiosa e con in capo una tuba rossastra posata a sghimbescio. Fuma beatamente, ritto fuor della porta di una capanna guardando di là dal braccio della Senna le estreme propaggini di Parigi. Un po’ più avanti, in un prato dove pochi fiori gialli sopravvivono tra i cocci e i calcinacci, un ciuco dalla testa enorme e il dorso spelacchiato, verdastro, bruca, immoto e in silenzio, un cespo di radicchio selvatico. Una donna quasi elegante va verso una casetta rosea sulla cui facciata sono dipinti d’azzurro un pescatore e un cuoco, scavalcando i fossi, gli steccati, con la sottana tirata sopra il ginocchio.
E tra tanta bruttura, che né il sole né il sereno del cielo valgono ad allegrare, che anzi, per lo stesso contrasto, paion render più desolante, io mi domando dove mai Seurat ha trovato quella luce ed aura di festiva felicità che abbellisce il suo quadro. Vero è che noi non abbiamo percorso che una parte dell’isola e da un solo lato. La parte amena, dolcemente riposata dev’esser dall’altro».
Dopo aver visitato le botteghe dei maggiori mercanti di pittura e argomentato, così al fiuto, dove ci fosse più probabilità di ottener, dunque, il prestito di dipinti per Firenze, mi persuasi che il meglio era di rivolgersi ai Duran-Ruel, dato anche la straordinaria liberalità e cortesia da loro usata altra volta verso di me. Né la faccenda poteva andar meglio. Parlai col gentile vecchietto e parlai col suo altrettanto affabile ministro: dissi loro della nostra rivista, spiegai che cos’era, quali erano i nostri fini, i quali potevano coincidere, in senso lato, con i loro interessi. Palesai, naturalmente, anche le nostre disponibilità finanziarie - piteuses, come vedevano, -; e questo mi pareva dover’essere il massimo ostacolo da superare. Mi ascoltarono con la massima simpatia, dicendo che erano ben lieti di essermi agréables, e che dicessi pure quali fossero, e quante, le opere che avrebbero dovuto mettere, per un tempo, a nostra disposizione.
Intanto il signor Duran-Ruel pregava il suo ministro, o direttore della Galleria, di mostrarmi quel che desideravo vedere, e di prender nota della mia scelta. Saliti dunque nelle sale superiori, zeppe di quadri allineati per terra lungo le pareti, opere dei maggiori pittori impressionisti, ne cominciammo insieme il giro. Io avrei voluto, e potuto, indicar gran parte di quelle che il cortese ministro andava via via rivoltando e mostrandomi; ma c’era di mezzo quella maledetta ristrettezza di mezzi: occorreva tener conto, più che della loro bellezza e importanza, della misura delle tele, e limitarne il numero in considerazione del volume e del peso della cassa da spedire, e quindi della spesa occorrente. Finii col trasceglierne una quindicina fra di Renoir, Pizzarro, Monet, Degas, cui furono aggiunte alcune eccellenti litografie a colori di Renoir.
Duran-Ruel approvò tutto, pronto a consegnarmi le opere all’istante; ma come io esitavo, pensando a chi potessi farle invece ritirare, incassare, eccetera, fu lui, certo intuendo la cagione della mia perplessità, a indicarmi un lor proprio imballatore dimorante in rue Sainte Anne, il quale si sarebbe occupato di tutto a buonissimi patti. Andò più oltre, che non mi chiese né ricevuta né garanzia di sorta, pregandomi solo di ben curare l’imballaggio di ritorno e di fargli avere i ritagli dei giornali o delle riviste dove si parlasse di quella nostra esposizione.
E anche questo è un segno dei tempi, e del costume dei tempi.
Negli stessi giorni andai per conoscere Medardo Rosso. Il suo studio era al pianterreno di un grosso stabile purchessia del boulevard des Batignolles. Vidi in fondo al cortile un largo portone come di officina o rimessa; la portinaia mi aveva detto, alquanto sgarbatamente, di bussare a quello, e lo feci. Per alcuni minuti, sebbene sentissi che dentro qualcuno si moveva, nessuno aprì. E io stavo per ribussare, allorché un battente del portone si schiuse alquanto e per lo spiraglio si sporse cautamente la testa forte e ricciuta d’un uomo d’età avanzata. Avevamo ricevuto, e pubblicato nel mio libro su lui, una fotografia dove Rosso figurava quale un bell’uomo con barba e capelli ben curati, ben vestito e d’aspetto signorile: la testa che ora vedevo era certamente la sua, ma assai differente da quella del ritratto. Quando il battente fu aperto del tutto, mi trovai davanti un uomo grosso, in magliotto grigio, dall’aria negletta di lottatore smesso, o di capo d’officina, il quale dopo avermi squadrato un momento con occhio diffidente, solo quando ebbe udito il mio nome, si rasserenò in volto, e, borbottando qualcosa concernente la portinaia, mi strinse forte la mano. Nel farlo, mi squadrò di nuovo, ma questa volta d’uno sguardo allegro, dicendo:
- Somigli a Baudelaire -. E mi fece avanzar nello studio.
L’idea del capo d’officina m’era balenata solo perché me l’aveva suggerita il largo portone di legno tinto di un giallo sporco simile a quelli, appunto, di tali stabilimenti; ma il curioso si è che, almeno a prima vista, lo studio di Rosso sembrava davvero un’officina. Dopo certi rozzi tendaggi di iuta grezza, mi trovai infatti in un immenso stanzone coperto da una tettoia a vetri sostenuta da vecchie capriate di legno da cui pendevano lunghe scaglie di colla da falegname, le pareti color fango, nude e affumicate, ad una delle quali si vedevano appesi attrezzi da fabbro ferraio, enormi tanaglie, lime, magli, sbarre, secchi, tòzzi, morse ed arnesi del genere. Altri strumenti della stessa specie, quali un lungo banco coperto di lime più piccole, pinzette, bulini, raschiatoi, martelli, un’incudine sul suo ceppo di quercia, ingombravano un angolo; l’angolo opposto era occupato da un enorme mucchio di creta; in un altro grandeggiava, piantato accanto a una buca scavata in terra, un alto forno da fonderia. L’unica cosa delicata in tutto quell’arsenale di ordigni era un mazzolino di fiori in un bicchier d’acqua posato tra gli utensili del massiccio bancone.
Passata la mia sorpresa, Rosso mi fece sedere accanto a sé su un semplice sgabello di legno, e dopo ch’io gli ebbi parlato del mio vecchio articolo dell’Europe artiste, ch’egli aveva letto, del volume di Edmond Claris datomi da Prezzolini, di quello mio su di lui, il resto di quella nostra prima conversazione fu decisivo. C’intendemmo in modo, che, in breve, pareva si fosse amici chi sa da quanto tempo. La sua faccia piena, dai baffi e barbetta di biondo cinquantenne incanutito, specialmente i suoi occhi maliziosi, ora ridenti, avevano qualcosa di ancora estremamente giovanile. Ed egualmente giovanili erano i gesti delle sue mani grassette, e i movimenti della sua persona, ancorché panciuta, sulle sue gambe esili, quando si alzò e andò dietro quegli strani tendaggi per poi uscirne, recando sulle braccia una, poi un’altra, poi un’altra, pesante opera di bronzo, o, tra le palme, una assai lieve di cera. Al vederle posate sulle seggiole, sopra un trespolo, per terra, alcune ne riconobbi che già conoscevo, altre le vedevo per la prima volta; e tutte mi parvero bellissime, o più belle che mai.
Gli parlai allora anche dell’esposizione che Prezzolini ed io intendevamo di fare a Firenze delle pitture degli impressionisti; e magari delle sue sculture - proposi - s’egli avesse voluto mandarcele. Con Prezzolini non se n’era parlato, ma ero sicuro che ne sarebbe stato contentissimo.
Rosso, alle mie parole, fece un poco, come si dice, mente locale; poi mi disse che anche lui era ugualmente contento di farlo. Altre volte aveva fatto di tutto per metter le sue cose accanto a quelle di costoro, a mo’ di confronto e quasi di sfida, e c’era riuscito. Inoltre eran venticinque anni che, per malintesi familiari, mancava dall’Italia; ora che aveva potuto -un poco anche in virtù del mio libro - riabbracciare il suo figliolo, venuto apposta da Milano con la sposa, avrebbe mandato quelle ed altre opere, non solo, ma sarebbe venuto anche lui a Firenze.
Anche da questo lato, la mia missione non poteva, come si vede, finir meglio.
Continuando in quei giorni, prima di ripartir da Parigi, a incontrarmi con i miei amici del caffè dell’Ermitage, del «Lapin Agile» e dello studio di Picasso, dove si parlava spesso, tra il serio e il faceto, del Doganiere Rousseau, la cui ingenua pittura ero stato anch’io fra i primi ad apprezzare per quel tanto che aveva di primitiva spontaneità e poeticità, ebbi l’idea d’andare a trovarlo e conoscerlo di persona. Ho a più riprese e così a lungo parlato di lui, specie nel mio libro Trenta artisti moderni italiani e stranieri, che non ne dirò qui se non qualche cosa in succinto.
Nel suo umile studio di rue Perrel, dietro il Cimitero di Montparnasse, trovai dunque un ometto d’una sessantina d’anni dall’aspetto d’artigiano, nel suo camiciotto bianco da lavoro, non alto di statura, piuttosto magro, un po’ curvo, dai baffi bianchi sul labbro pendente, l’occhio spento; alquanto somigliante, in complesso, al nostro generalissimo Cadorna. Udendo che ero italiano, mi mostrò con orgoglio un articolo della Tribuna, ch’egli considerava molto lusinghiero per lui: era invece tutto un basso dileggio da gazzettiere volgare del candido artista, scritto e mandato a quel giornale da un certo Sarti, allora suo corrispondente da Parigi.
Sebbene indignato della cosa, non disillusi il povero vecchio. Gli domandai piuttosto se volesse dipinger per me una natura morta a suo piacimento, prima del mio prossimo ritorno in Italia; intanto gli avrei subito comprato i sedici disegni di piccole e piccolissime dimensioni, ch’egli mi aveva fatto vedere. Rousseau accolse bonariamente e con gioia l’una e l’altra proposta. Mi dette senz’altro per la somma di venti franchi i disegni e mi promise di consegnarmi il quadretto di lì a pochi giorni. La replica di un altro da me visto anni prima, rappresentante un paesaggio con vacche pascolanti, e che gli ordinai ugualmente in quell’occasione, me l’avrebbe spedita, disse, un poco più tardi.
Al tempo fissato ebbi la mia natura morta - che fu quella oggi ben nota agli intendenti, con un lume, un bricco, pere e limoni posati sul piano di una tavola coperta di un tappeto rosso, sopra un fondo verde bottiglia.
Dei sedici disegni ne regalai la metà al mio amico Serghei; della replica feci dono più tardi all’amica baronessa.

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GIANCARLO MAURI
Montmartre, 5 novembre 2015