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venerdì 19 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (2)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano
nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955
pp. 171-188

CAPITOLO XIII

Ricordi in libertà. Ancora ospite a Parigi degli amici russi. Serghei, la “Baronne”. Opere di Rousseau. Conosco Degas vecchio e cieco. Jehan Rictus. Visita a Félix Fénéon. Ibels. Un amico di Rosso: Louis Rouart. Diveniamo amici. Lectura Danctis. Eugène Montfort e i suoi “Marges”. Mi ritrovo con Picasso, Apollinaire. Jacob, eccetera. Natura immutata di Picasso. Suo latente arcaismo. Al “Lapin agile”. Vagabondaggi sulla “Butte”. La campagna in Parigi. Prezzolini e moglie in rue de Tournon. Visita a Romain Rolland. Sua figura.

Se volessi narrare con esattezza e per ordine ciò che feci a Parigi, dove anche nella primavera del 1911 fui per qualche mese, occorrerebbe rovistare tra carte e documenti che, un po’ per pigrizia un po’ per noncuranza, lascio dormire raccolti alla rinfusa in pacchi e casse che non apro da anni e anni. Senonché questa non è una cronaca rigorosa dei fatti della mia vita esposti con precisione strettamente cronologica, ma una specie di largo affresco di un genere particolare, illustrante un dato periodo ed ambiente in cui io ho agito e mi son mosso; e nel quale le cose, ossia le figure ond’esso è composto, non debbono essere necessariamente allineate e disposte come in cerimonia, ma con una certa varietà capricciosa di luci, ombre, volumi, colori e sfondi, atti ad animarne l’insieme; ed a questo effetto basta che tali cose e figure, comunque collocate, ci siano e vi appaiano nella loro verità sostanziale. Che se poi l’opera dovesse un giorno assumere un interesse duraturo, ci sarà sempre tempo e modo di compulsar quelle carte e quei documenti, e rimetter tutto a posto.
Dirò intanto che appena giunto a Parigi una bella sorpresa mi attendeva in casa della Baronessa Elena e di Serghei, dei quali anche questa volta ero ospite. Dopo il mio dono dei nove disegni di Henri Rousseau, l’amico russo, che solo negli ultimi tempi s’era allontanato dai suoi primi gusti per l’opera dei pittori ottocenteschi del suo paese - quali Vasnizoff, Vrubel, eccetera - e del francese Paul Laurens, per orientarsi verso un’arte più viva e attuale, aveva preso egli pure contatto col Doganiere, il quale era poi divenuto un assiduo frequentatore dell’hôtel del boulevard Berthier, e tale era rimasto sino alla sua morte, avvenuta poco avanti il tempo di cui parlo.
Ho detto altrove dei comportamenti dell’ingenuo pittore nella casa dei miei amici; di quando in cucina si estasiava davanti all’oleografia di un calendario raffigurante una rosea fanciulla con una ciliegia in mano; di quando, nel posare per un ritratto che volevano fargli, si addormentava come un bambino dopo la poppa; di quando raccontava loro i suoi amori con una vecchia megera che lo pelava; e ne leggeva le lettere ricattatorie e oltraggiose versando lacrime di tenerezza. Essi gli avevan comprato via via più di un dipinto, ed io, che già lo sapevo, li vedevo ora appesi nel salotto, insieme a quel paesaggio con le vacche da lui dipinto per me, e che io avevo regalato alla Baronessa. Ma ecco che insieme ad essi io vedevo anche tutte le opere che avevo sempre visto nel suo studio e che erano tra le sue maggiori. La grande Noce paysanne, il, grande autoritratto dell’artista in riva alla Senna, il poeta Apollinaire e la sua Musa, la Carrettella, e diversi altri quadri di figure, vasi di fiori, paesaggi, assai belli nel loro candore, che non è popolare né primitivo, come comunemente si crede, ma di un genere al tutto particolare.
Anzi a tal proposito debbo dire qualche cosa che non è punto privo d’importanza, e che contrasta con molte notizie date (anche da me in altri momenti) intorno alla natura artistica di codesto pittore. Esistono dunque abbozzi, annotazioni, schizzi presi sul vero dal peintre du dimanche Rousseau, i quali, sia per l’audacia e rapidità dell’esecuzione, sia per la giustezza, finezza, e freschezza naturalistica del colore avevano, per certi lati dell’Utrillo, e per altri magari del Manet. Come poi avvenisse che, partendo da questa sapienza, e scaltrita sensibilità pittorica, il Rousseau arrivasse ai resultati che sappiamo è davvero un arcano.
Poiché Medardo Rosso era già da tempo tornato dall’Italia a Parigi, una delle mie prime visite, dopo aver ripreso contatto con i miei amici russi, fu naturalmente per lui. Andai a trovarlo una mattina nel suo studio, e vi restammo alquanto parlando delle cose di Firenze, dei nostri ultimi casi; ma come la giornata era bella ed egli non aveva nulla da fare, ci parve meglio di uscire e continuar la nostra conversazione passeggiando. Se-nonché, eravamo appena fuori e stavamo per imboccare il boulevard des Batignolles, quando ci trovammo davanti un vecchio signore, che Rosso salutò affabilmente ed al quale mi presentò. Era Degas. Fermo sul marciapiede, tutto vestito di scuro, alto magro, quasi affatto cieco, il grande pittore, ch’io vedevo per la prima volta, volgeva la faccia qua e là, trepidante, inquieto, come in attesa di qualcuno o di qualche cosa. E allorché gli strinsi, commosso la mano secca e tremula:
- Ah, mon dieu, comme vous serrez fort! - esclamò con un lieve gemito - Pourquoi serrez-vous si fort?
Mi scusai mortificato; ma egli già non ci pensava più, continuando, anche mentre s’intratteneva con noi, a guardare a destra e a sinistra. Quando, dopo un breve colloquio, ci fummo congedati da lui per riprender la nostra passeggiata, domandai a Rosso perché mai Degas fosse in tanta agitazione. Mi disse che certamente era lì ad aspettare un omnibus che lo portasse in qualche punto lontano della città; dove, una volta arrivato, sarebbe salito sul­l’imperiale d’un altro per un uguale viaggio, e così via; come faceva ogni giorno.
Era infatti una disperata mania che gli era presa dacché per la sua cecità non aveva potuto più la­vorare; e che gli durò fino alla morte.
Durante quella ripresa del mio fraterno commercio con Rosso ebbi occasione di conoscer per mezzo suo altri suoi valenti amici, e non alla sfuggita come era avvenuto per il povero grande artista Degas. L’uno di essi fu il poeta Jehan Rictus, autore di stupendi poemi popolareschi scritti in un francese misto di molto argot, e vero intenditore di pittura moderna. Le nostre relazioni si fecero in breve amichevoli: fui spesso da lui, in un curioso studio la cui finestra si apriva sul vasto biancore a un tempo malinconico e solenne del cimitero di Montmartre, per udirlo leggermi versi di sua nuova fattura, e ragionar con lui di lettere e d’arte. Rictus era intimo di Félix Fénéon, allora direttore della galleria Bernheim-Jeune, e poiché Rosso gli aveva parlato vantaggiosamente dell’opera mia, un giorno ebbi da lui la promessa che avrebbe parlato al suo amico il quale era anche un eccellente critico, affinchè facesse entrar qualche mio dipinto nella bottega di quel tanto reputato mercante di pittura. Non andò molto che Fénéon venne infatti nello studio del boulevard Gouvion-Saint-Cyr, che Serghei divideva anche quell’anno con me; vide alcuni miei grandi disegni acquerellati, che avevo portato dal Poggio; gli piacquero e me ne prese più d’uno. Come io non son mai stato molto curante dei miei interessi pratici, né entrante, né sollecitante, mi contentai per allora di consegnare i lavori, senza occuparmi della loro sorte. Seppi solo l’anno dopo che non erano stati venduti, e me li riportai in Italia.
Sempre pel tramite di Rosso entrai diretta o indirettamente in rapporto anche con altre persone, la conoscenza delle quali mi riuscì altrettanto gradita, e anche utile, che quella dell’eccellente poeta Jehan Rictus. Intendo Ibels, critico d’arte e autore di un romanzo, L’Arantelle, uno dei cui personaggi,- e anzi mi pare il protagonista, - scultore, era ricalcato sulla figura dello stesso Rosso, e che tra l’altro, conteneva la scena di una fusione in bronzo, cui Ibels aveva probabilmente assistito nello studio-officina del suo amico, scena di una verità impressionante. Era uomo di liberissimo spirito, di carattere ribelle - quindi tenuto in margine della vita letteraria - e d’una lealtà a tutta prova; tanto che, sebbene le nostre relazioni non durassero se non qualche mese, ho serbato di lui il più vivo e grato ricordo.
Un’altra di tali conoscenze, ugualmente profittevole, fu quella che feci del più giovane figlio del pittore e grande collezionista d’arte Henri Rouart, quel medesimo che in gioventù era stato amico e generoso sostenitore dei maggiori maestri impressionisti, dei quali, e specie di Degas, vidi poi in casa sua numerose e sceltissime opere.
Di lui, vecchio inchiodato infermo, sopra una poltrona e della sua ricchissima collezione, che visitai quell’anno assieme a Rosso, scrissi a suo tempo nel mio libro su questo scultore. Louis Rouart, il detto figlio, trentenne estremamente nervoso, rosso di pelo, parlante così in fretta da mangiar mezze le parole, devotissimo di Rosso, che l’aveva visto ragazzo, andando in casa di suo padre per ritrarne magistralmente la figura, e lo trattava come tale, cattolico sfegatato, ma - come diceva ridacchiando - «all’uso rinascimentale», era un buonissimo scrittore, e soprattutto di cose d’arte. Poiché, oltre a questo, egli conosceva ed amava l’Italia, fummo presto amici. Avendo visto nello studio di Rosso un disegno che avevo fatto al Poggio, rappresentante un accattone alla porta di casa mia, lo acquistò senz’altro; e, anche pagandolo - lui molto stretto di borsa - la bella somma di quattrocento franchi.
Egli mi dava con ciò una prima prova non solo di amicizia ma anche di stima: un’altra fu, subito dopo, quella d’introdurmi nella sua famiglia; privilegio eccezionalissimo da parte di un francese della sua classe - molto vicina in questo al costume mussulmano -, specialmente se concesso ad uno straniero. Fu così che frequentando la sua casa dell’aristocratica rue de Chenaleilles, bella distinta casa spirante armoniosa pace e raccoglimento spirituale, io potei vedere e gustare, splendidi dipinti e disegni di Manet, Degas, Cézanne Seurat, e segnatamente - quantunque con qualche interiore riserva - apprezzare la grande tela tahitiana di Gauguin, intitolata, a dir vero con troppa affettazione letteraria, Nave nave mahana; dipinti ond’erano coperte le pareti del salotto dove per l’ordinario sedevamo conversando.
In codesto stesso salotto, illustrato da tanto lume d’arte, fui più tardi invitato dal nuovo amico a leggere, dichiarare e commentare più canti di Dante, poeta ch’egli decifrava alla meglio e che ora lo percoteva di stupore, parendogli, diceva, come non mai per l’innanzi, di una grandezza davvero formidabile e divina.
Eravamo in questa intimità, quando Louis Rouart, che in quel tempo dava di frequente alla rivista Les Marges, diretta dal romanziere Montfort, certe sue acute, sagaci critiche d’arte, volle un giorno che anch’io conoscessi questo suo buon amico. Salimmo assieme a trovarlo su per l’erta di Montmartre fino a rue Chaptal, in un suo quartierino da scapolo, dov’egli viveva solo attendendo alla preparazione dei suoi libri e della sua rivista.
Eugène Montfort era un bell’uomo dall’aspetto di schermidore, simpatico visitatore dell’Italia, di cui conosceva alcun poco la lingua, appassionato soprattutto di Napoli e di quella vita amorosa da lui trattata nel suo romanzo La Chanson de Naples. Ci ricevé in una stanza ch’era piena di ricordi di quella città, tra i quali notevolissima una collezione di Pulcinelli, Covielli ed altre maschere e marionette da teatro dei pupi, nei loro sgargianti costumi guarniti d’oro e d’argento, o con le loro armi e corrusche corazze di latta. Anche con Montfort strinsi ben presto un’amichevole consuetudine. Non molto tempo dopo quel primo incontro egli stampò qualche mio scritto nella sua rivista; della quale anche il mio vecchio amico Apollinaire, era collaboratore, di guisa che inopinatamente veniva così a saldarsi una catena di colleganze poetiche nel cui giro sempre più ampio si svolgeva in quegli anni la mia attività artistica e letteraria.
Mentre tali nuove relazioni procuratemi da Rosso si estendevano e si consolidavano, continuavo a frequentare come gli anni passati, la compagnia dei miei vecchi amici pittori e scrittori. Vedevo sempre Picasso nel suo solito studio, dove lo trovavo ogni volta più impegnato nei vari successivi sviluppi del suo cubismo; lo vedevo al consueto caffè dell’Ermitage assieme alla sua amica Fernanda e a Jacob, del quale andava ornando di belle acqueforti il Saint Matorel, edito splendidamente da Kahnweiler; c’incontravamo nella bottega di quest’ultimo (fattosi, come si vede, anche editore), divenuta ormai il principale luogo d’incontro dei migliori rappresentanti della nuova pittura, nello stesso tempo che la più fortunata esposizione permanente delle loro opere, diciamo così, della giornata.
Il solito bettolino detto il Lapin agile (o, come altri vorrebbero, il Lapin a Gilles), quella baracca affumicata sul pendio della solitaria rue des Saules, posta oltre un breve spazio ombreggiato da alcuni vecchi platani e tenuta da un Frédéric, detto Frédé, barbuto chitarrista, cantastorie, imbonitore, personaggio alquanto losco nonostante la sua rumorosa affettazione di cordialità, era ancora un altro dei nostri ritrovi. Seduti alle rozze tavole sparse fuor della porta, o, secondo il tempo bello o piovoso, a quelle ingombranti l’interno di uno stanzone quasi buio, tappezzato di tele buone e cattive di giovani artisti frequentatori del locale, le nostre conversazioni, talvolta animate da contrasti di gusti e d’idee, talvolta clamorosamente allegrate dall’umor faceto, ironico, paradossale di Max Jacob, dai frizzi e barzellette dell’uno o dell’altro di noi, ed alle quali partecipavano a volte anche amici spagnoli di Picasso, erano, insieme, delle più istruttive e dilettevoli.
Picasso, che pure era, tra tutti noi, quegli che già fin da qualche anno godeva di maggior successo e di una speciosa aura particolarmente atta a stimolare certi naturali impulsi di vanità, non era, invece punto cambiato da quello che avevo sempre conosciuto per l’innanzi. Vestiva ancora alla stessa guisa ordinaria senza alcuna cura né di ricercatezza né di singolarità; i suoi modi e detti restavano semplici, quasi popolareschi; solo improntati alla consueta arguzie polemica e latente furbizia. Aveva bensì piena coscienza del suo grande talento, ma nessuna vanteria né affettazione di superiorità o boria era in lui; parlava come un giovane artista dotato deve parlare tra compagni ed amici; e non nascondeva nemmeno certe tristezze, preoccupazioni e momentanei scoramenti che lo prendevano, come avviene a tutti quanti ci cimentiamo nel lungo e terribile cammino dell’arte. Nulla perciò del filisteo risalito, che trasforma la sua casuale fortuna quasi in un obbligo di fastosità e di spocchia volgare. E nulla neanche del peintre maudit, dell’ubriacone, del finto pazzoide.
A un certo momento, preso anche lui nell’andazzo allora comune di molti letterati ed artisti illusi di fortificare il loro ingegno nei baudelairiani paradisi artificiali delle droghe stupefacenti, aveva avuto la curiosità, dietro l’esempio di taluni suoi amici egualmente disposti -- tra i quali Apollinaire -, di farne una notte la prova. Rinchiusosi con essi e con qualche loro amica in non so quale atelier della Butte, egli aveva ingerito come gli altri la rituale dose di haschisch; ma gli era bastato quell’unica esperienza per non farne più altro.
Raccontandomi un giorno quali fossero stati gli effetti della droga e le sensazioni da lui provate, me li descrisse scherzando, come cose di nessun rilievo. Non si trattava che di sensazioni comuni esageratamente ingrandite da quella specie particolare di ubriachezza. Il suono, per esempio, di una corda di chitarra, produceva la sensazione di, un esercizio musicale; una risata isterica di ragazza quella di un’allegria da baccanale; scendendo uno scalino pareva di calar volando in un abisso. Mi disse che anche Apollinaire era uscito dalla seduta con lo stesso suo sentimento e parimente deciso a non ripeter mai più l’esperienza.
E rideva come di una ridicolezza del comune disinganno.
Picasso era insomma rimasto quale l’avevo conosciuto poco più che adolescente e lo conobbi poi fino a quando, nel 1927, mi trovai con lui l’ultima volta. C’incontrammo per caso in rue La Boétie, dov’egli allora abitava un appartamento, proprio sopra alla Galleria del mercante Rosenberg. Eran più di dieci anni che non ci si vedeva; mi accolse festosamente e m’invitò a salire in casa sua, dove conobbi l’ex-ballerina russa, allora sua moglie ed il loro piccolo figlio Paulo. Parlo di ciò perché fu anche quella per me un’occasione di rivederlo sotto la luce che ho detto.
Il suo appartamento, comecché, in fondo, borghese, presentava per più lati il disordine dei suoi vecchi studi. La tinozza di una elegante stanza da bagno era piena di suoi dipinti, altri stavano ammucchiati sulle altre suppellettili e per terra. Erano tutte opere della sua ultima maniera, e Picasso, tiratene fuori alcune, le poneva a mano a mano sopra un cavalletto per averne il mio parere. Di una specialmente, una natura morta con vasi ed altri oggetti posati sopra un piano, tutto quasi selvaggiamente violentato nelle forme, chiuso in una cupa armonia di rossi, gialli d’ocra, neri, egli sembrava attendere bramoso il mio giudizio. Lodai il dipinto per la sua austera bellezza, aggiungendo ch’esso mi faceva pensare a certe pitture dai toni egualmente gravi, quali se ne vedono in qualche tomba etrusca di Tarquinia e di Orvieto.
- È vero - disse Picasso, soddisfatto e preoccupato ad un tempo. - E non so capire perché, quello che faccio abbia sempre infatti qualche cosa d’antico.
Parlando così candidamente egli non sapeva di riconoscere, senza volerlo, la validità delle riserve che la sua arte suggerisce. Quel «qualche cosa d’antico» non è altro in sostanza che la tendenza a uno stilismo artistico che prima fu dei preraffaelliti, seguita poi dai pittori del liberty e del floreale, poi, in modi diversi, e riferimenti più lontani, da lui, Picasso, e infine, a tutt’oggi, da quanti rifuggono dall’amoroso e profondo studio del reale, di ciò che si dice natura, unico fondamento, ed eterno, dell’arte.
A Montmartre, quando non era la brigata del Lapin agile, erano i ricordi dei miei vent’anni, la nostalgia del luogo, che ora mi ci attiravano. Solo o in compagnia dell’amico Serghei, vi salivo ogni tanto, vagabondando poi a lungo per le vie, viuzze, tortuosi andirivieni e terreni in abbandono dell’antica Butte, che era ancora a quei tempi uno dei siti più bizzarri e attraenti ch’io abbia mai visto. Casipole verminose da una parte della stradetta, tinte d’un color vinaccia, di celeste, di bianco crudo, con persiane sgangherate, o impannate di vetro sporco; un lampione a gas in bilico sul canto della casa crollante di qualche poeta o musicista dell’altro secolo; dall’altro lato vecchie palizzate di legno, di dietro le quali sorgevano da scarpate e smotte precipiti diritti tronchi e chiome di piante gigantesche ; alti muri a retta neri di stillicidi e muffe, sul vecchio intonaco dei quali si leggevano incise col coltello accanto a cuori trafitti da frecce, scritte di amanti notturni e d’apaches. - Gugus aime Lélé; e sotto: Néné est une grue. Mimile. A bas les moeurs! Mort aux vaches, eccetera.
In qualche punto, per una breccia aperta nella muraglia, donde partivano rampe a scalini tagliati nella terra indurita, si poteva raggiungere il sommo della famosa altura. E la meraviglia da cui si era presi una volta arrivati lassù era nuova e grandissima. Era come se, aggirandoci fra le più bieche e inquietanti latebre di popolosa metropoli, fossimo sboccati all’improvviso in aperta campagna. Erano zone di terreno tenuto a orto, chiuse da muretti a secco o da siepi di rovi e sambuchi, con capannucce fatte di assicelle e coperte di bombole da petrolio sventrate, fra manegge di cavoli e zucche, popolate di polli e conigli; altre, brulle come grillaie, oppure allo stato quasi selvaggio, coperto d’erbacce, vilucchi e ciuffi di canne e d’ortica, dove avveniva persino di trovare un asinello intento alla sua magra pastura. Alcuni tratti, più spaziosi ed aperti, avevano invece l’aspetto di luoghi d’osterie suburbane o di ritrovi campestri da innamorati clandestini. In un ampio sterrato cinto di palizzate, nascoste qua e là da folti di rosai salvatici e da gruppi di girasoli fioriti, sorgevano in disparte costruzioncelle rustiche, a guisa di châlets variopinti, fiancheggiate di spalliere a graticola verdi sulle quali serpeggiava la vite americana, con dinanzi archi e pergole di convolvoli, e qualche pianta di robinia e d’acacia all’intorno.
Da quell’altezza ariosa il nostro sguardo signoreggiava da ogni lato Parigi. Dagli edifici più prossimi che coronavan più in basso l’altura, con da una parte la mole biancheggiante del Sacré Coeur, birillo gigantesco di pietrame fatto al tornio, degradando giù giù verso il piano, si spiegava tutt’all’ingiro la sterminata distesa dei tetti grigiastri, azzurrastri, variamente punteggiata dalle masse più scure dei giardini, dei parchi, delle antiche chiese, delle torri, da quelle più chiare dei quartieri nuovi, fino a perdersi sotto il pallido cielo, nel pulviscolo vaporoso dell’orizzonte. Un ronzio cupo incessante, eco dell’immane traffico della gran villa, saliva a noi da quel mostruoso complesso di costruzioni umane e di vita; il quale stimola così potentemente la fantasia degli ambiziosi e degli arrivisti, e suscita invece tanta malinconia e sgomento in colui che sa riflettere sulla precarietà e vanità di tutte le cose.
Sotto una di quelle pergole che faceva da volta a tavole e panche di legno verniciate di verde, ci sedevamo a riposare. Una vispa e graziosa ragazza, o una ridanciana donna d’età, o il suo corpulento marito sbracato in maniche di camicia, sbucava dalla trabacca, come il ragno di fondo alla sua tela, ci serviva una birra, un panino gravido; e noi vi passavamo un’ora conversando tranquilli.
Durante il periodo di cui sto parlando, Prezzolini arrivò a Parigi con la sua Dolores per trattenervisi qualche tempo. Avevano preso alloggio in una cameretta di rue de Tournon, e io andavo quasi ogni giorno ad intrattenermi con loro. Visitammo insieme più luoghi della città ch’essi non conoscevano, spesso parlando l’amico ed io delle cose della Voce, dei miei libri in preparazione, della Libreria che la rivista stava allora per aprire o aveva già aperto; non mi ricordo esattamente. Ciò di cui mi sovvengo invece molto bene è la visita che Prezzolini ed io facemmo in quei giorni a Romain Rolland.
Rolland abitava un quartiere ad un piano assai alto di uno di quei casoni borghesi del boulevard Montparnasse che ne occupano il lato che corre tra l’avenue de l’Observatoire e le rue Campagne-Première, fronteggiando per un tratto la Closerie des Lilas, ed hanno a tergo il bellissimo, silenzioso parco di un convento di monache. La finestra dello studio dove lo scrittore ci ricevé dava però sul boulevard; sì che di lassù egli poteva vedere il celebre caffè con i suoi frequentatori, di tutt’altra specie dalla sua, e, mentre lavorava, udire quello stesso ininterrotto brusio di voci e di traffico cittadino che ora saliva fino a noi.
Né Prezzolini né io avevamo mai visto l’autore del Jean Christophe; ma poiché egli ci aveva dato da lontano più d’una prova di benevolenza e di stima, potevamo già considerarci amici: difatti fu come tali ch’egli ci accolse e ci trattò in quel nostro primo incontro; che almeno per me, fu anche l’ultimo. Tanta umana cordialità e semplicità di tratto, assai rara nei suoi colleghi francesi, ci fece la migliore impressione; ma ciò che ci colpì soprattutto furono la sua figura e la sua tonalità, diciamo così, spirituale.
Romain Rolland era alto, snello di persona, le mani lunghe e fini, da pianista qual’era, gli occhi d’un chiaro azzurro in una faccia emaciata, i capelli tra castagni e biondi, così come i baffi, che portava lunghi e pendenti agli angoli della bocca, molto simili a quelli che si vedono nelle immagini degli antichi guerrieri galli e germanici. E qualcosa di celtico e di nordico c’era difatti in lui; senonché, sia dall’espressione del suo volto, sia dai suoi modi molli, sia dal suo linguaggio misurato, e come abbandonato, traspariva alcunché di evanescente e malinconico, che contrastava al tutto con codesta idea.
Si diceva che non molto tempo innanzi, una disgrazia coniugale, aveva colpito Rolland nei suoi affetti privandolo di una moglie che aveva amato, e senza la quale egli viveva ora solitario in quella casa, con i suoi amari ricordi e le sue pene; e questa era forse la ragione di tutto ciò che scoprivamo in lui di rilasciato e di mesto. Combattente valoroso, e si potrebbe dire anche eroico, egli restava invece nel campo intellettuale, civile e politico, dove dimostrava un coraggio ed una pertinacia degni davvero d’un uomo quale appariva per il suo fisico.
La nostra conversazione si aggirò più che altro intorno alle cose appunto dell’intelligenza e dell’arte, intorno ai lavori suoi e del nostro gruppo vociano, ch’egli conosceva e seguiva simpaticamente; tanto che nel suo celebre romanzo aveva persino inserito una pagina dove ne faceva un elogio singolarmente lusinghiero. Per il resto, per le idee di sapore prettamente tolstoiano che gli avvenne d’esprimere intorno alla vita, ai doveri, ai comportamenti morali e civili degli uomini, debbo dire, quanto a me, ch’io m’ero sempre sentito e mi sentivo in perfetto disaccordo con lui. Il che non toglie che l’impressione da me riportata e conservata di quella visita fosse, e sia poi rimasta molto elevata e gradevole.

ARTICOLI COLLEGATI





















giovedì 18 febbraio 2016

Ardengo Soffici. Parigi 1911 (1)


Ardengo Soffici
Fine di un mondo
Autoritratto d’artista italiano nel quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi editore
Firenze 1955, pp. 131-146

CAPITOLO X

Idea di una mostra d’impressionisti a Firenze. Accetto di occuparmene e vado a Parigi. Ritrovo i vecchi amici artisti e scrittori. Ripresa del nostro commercio ideale. Sviluppo del cubismo, orfismo, eccetera. Al caffè dell’Ermitage. Al circo Medrano. Il clown italiano. Forain. Lavoro nello studio di Serghei. La modella svizzera. Boldini è “trop cochon”. “La grande Jatte”. Duran-Ruel, generoso, presta quadri. Limito per miseria la scelta. Conosco Rosso di persona. Il suo studio-officina. Stringiamo amicizia: esporrà anche lui e verrà a Firenze. Vado a conoscere il “Doganiere”. Dipingerà per me. Gli compro sedici disegni.


Allorché io avevo cominciato a pubblicar nella Voce quei miei articoli sull’Impressionismo, che erano stati la prima ragione, come si ricorderà, dell’invito fattomi da Prezzolini a entrare nella sua rivista, pochissimi in Italia avevano una conoscenza diretta di quella scuola per averne viste le opere, ma il più, anche di quei pochi, solo per averne appreso qualcosa in qualche scritto dimenticato di Diego Martelli e segnatamente, i più informati di essi, in un libro di Vittorio Pica, l’unico fino allora pubblicato da noi intorno a tale argomento, e il più serio e aggiornato. Avendo codesti scritti suscitato tra gli amici della nostra impresa una grande curiosità per quel genere d’arte, curiosità che si era poi propagata in zone sempre più larghe, fino a svegliare nel pubblico un interessamento a mano a mano crescente, venne il momento in cui tanto io che Prezzolini si concluse dal fatto che un’esposizione di quella pittura a Firenze sarebbe stata quanto mai utile e profittevole per il fine culturale della rivista.
Si trattava di ottenere il prestito di un certo numero di opere di quella scuola da parte dei mercanti d’arte parigini. Io che ne conoscevo, come s’è visto, alcuni fra i più indicati all’uopo, potevo tentar l’impresa, e vi ero disposto: mi sarebbe bisognato andare a Parigi, ed anche questo ero pronto a farlo volentieri; molto più che avrei avuto insieme l’occasione, di conoscervi di persona lo scultore Rosso, la cui opera m’era già così favorevolmente nota e a pro del quale avevamo mosso quella nostra battaglia. La più grande difficoltà consisteva nei mezzi occorrenti all’attuazione del bel disegno: Prezzolini, o per meglio dire, la Voce non poteva disporre se non di poche centinaia di lire, offerte, credo, da qualche amico meno povero di noi, «sostenitore», come si chiamano i benemeriti di tali pubblicazioni. Dopo qualche esitazione determinammo di gettare ugualmente il dado; ed io intrapresi il viaggio.
Trovai Parigi come l’avevo lasciata due anni prima; con questo di nuovo, che i miei amici e colleghi pittori e scrittori erano ora impegnatissimi nel dar corpo e sviluppo alle premesse estetiche e alle forme artistiche poste e iniziate tra noi prima della mia partenza da quella città. Ospite di Sergio, che dimorava con la sua parente e del pari amica mia baronessa Elena d’Œttingen, in un piccolo hôtel privato del boulevard Berthier, tornai a vedere Picasso, Braque, Apollinaire, Jacob, e gli altri della vecchia brigata, accresciuta nel frattempo di nuovi aderenti; ad incontrarmi con essi nello studio del primo, nei caffè di Montmartre; a frequentare insieme il «Lapin agile», il circo Médrano, la Closerie des lilas, eccetera.




Picasso, colpito dal fascino esotico di certi feticci negri, genere di scultura barbarica entrata allora in circolazione fra i colleghi parigini, dipingeva adesso nature morte, figure, copriva tele di ardite composizioni, dove già i modi e la tecnica, i toni del cubismo si andavano affermando con sempre maggior rigore. Apollinaire e Jacob stavano disarticolando, sveltendo, dando aria, dirò così, al loro linguaggio poetico, dirompendo sapientemente la sintassi, introducendo nelle loro immagini la magia di rapporti, similitudini, simultaneità di sensi generate da analogie segrete e lontane. Un fervore di ragionamenti, discussioni, polemiche, animava quelle adunanze di creatori di una poetica moderna, alle quali prendevo parte anch’io, con pieno consentimento o con le riserve del caso.
Uno dei caffè più frequentati dal nostro gruppo era l’Ermitage; e poiché Picasso era andato ad abitare nel boulevard de Clichy, proprio di faccia ad esso, ogni volta che io e qualche altro andavamo a trovarlo, quando poi si scendeva dal suo studio assieme a lui, era lì che andavamo a sederci. Vi arrivava poi la sua Fernanda con l’inseparabile sua amica Ève, moglie del caricaturista Marcous; vi capitavano Braque, Jacob, il giovane pittore italiano Ubaldo Oppi; e certe sere anche un altro giovane artista di vero talento, De La Fresnaye, allora nella sua divisa da coscritto; il quale, da soldato, appunto, doveva pochi anni dopo, fallire alle sue grandi promesse morendo in guerra.
Ugualmente vicino allo studio di Picasso era anche il circo Médrano, vecchia baracca ottocentesca, dove spesso finivamo di passare le ultime ore della notte tra un pubblico di popolani ed altra piccola gente, estasiata ed esilarata dalle prodezze dei ginnasti, degli equilibristi, dei cavallerizzi, giocolieri; dalle farse dei clowns americani, inglesi, e dei pagliacci di ogni paese. Uno di questi ultimi, capace di buffoneggiare in un monte di lingue, era un Alexis, più bravo di tutti. Poiché ormai eravamo divenuti come di casa, andavamo talvolta a salutarlo in un certo oscuro e malodorante ambulacro corrente sotto le gradinate del circo, tra gli spogliatoi, i camerini, i depositi d’attrezzi, le stalle, e dove si ritiravano a travestirsi a ritruccarsi dopo ogni «numero», a riposarsi o a passeggiare gli uomini e le donne della compagnia. Durante tali visite seppi da lui ch’egli era italiano ma vissuto quasi sempre all’estero; che quel nome di Alessio non era il suo vero ma un nome di battaglia; che era stato a più riprese ed aveva lavorato nell’America del Nord e in quella del Sud, in Inghilterra, in Ispagna, in Germania, in Russia; paesi di ognuno dei quali aveva appreso la lingua, ciò che gli era poi sempre servito nei circhi di ogni parte del mondo per dare sapore originale alla sua comicità. Anche nell’intrattenersi con noi egli si esprimeva, perciò, mescolando curiosamente le parole di tanti idiomi diversi, cui ora s’aggiungeva il francese. Era minuto di corpo, di misero aspetto, molto timido e tristissimo.
Quanto a noi, non frequentavamo il circo solo per trepidare allo spettacolo dell’equilibrista giapponese che faceva la «bandiera» in cima a un’altissima asta inclinata retta dalle piante dei piedi di un compagno raggomitolato con le spalle in terra; o dell’acrobata muscoloso sospeso coi denti a una corda agganciata a una cèntina metallica del soffitto, mentre un collega vola da un aereo trapezio all’altro; né per divertirci del giucco della cavallerizza in costume di ballerina, in bilico sopra una gamba sulla groppa di un cavallo corrente in giro nella pista, pronta a passare attraverso un cerchio contornato di fiamme; né per ridere dei pagliacci impegnati nell’assurdo e nel grottesco delle loro gesta e avventure. Lo facevamo soprattutto per osservare gli aspetti di quella bizzarra vita artificiale; studiare le forme, i movimenti dei corpi, i colori inattesi, ricchi, fantasiosi delle casacche, delle maglie, brache, cravattoni, parrucche di quegli «artisti» geniali ; nonché le figure, le posizioni, i vari raggruppamenti, la massa dello stesso pubblico sul fondo di luci e d’ombre del singolare teatro. Motivo, dunque più che di svago, di studio. E questo doveva certo essere lo stesso che attirava nello stesso circo anche l’ormai vecchio Forain; il quale vedevamo, spesso seduto tra il comune pubblico, non lontano da noi, tutto vestito di nero, il colletto inamidato, chiuso, i capelli bianchi, e la pallida faccia da attore e da pastore protestante, mesta a un tempo e sarcastica, di continuo protesa e intenta al medesimo gioco di membra, di colori e di chiaroscuri che animava l’arena e la folla delle gradinate.


Rientrato così nel giro, passavo poi gran parte delle mie giornate nell’atelier che Sergio aveva, a parte, nel boulevard Gouvion-Saint-Cyr, verso la porta Maillot. Mi vi servivo degli stessi suoi modelli; tra gli altri di una ragazzona svizzera, bionda e florida che dipinsi nuda, un ginocchio appoggiato a un divano mentre si ravviava i capelli davanti allo specchio, e dalla quale, distesa sul medesimo divano, seduta, o circolante, sempre nuda, qua e là nello studio, trassi molti schizzi e disegni a matita, o avvivati da qualche tocco d’acquerello. Nei momenti di riposo ella ci raccontava, tra l’altro, come un tempo avesse posato anche per Boldini, dimorante, solo e intrattabile, in uno dei tanti hôtels privati del vicino boulevard Berthier; ma che ora non ci voleva più andare. Le chiedemmo il perché. - Parce qu’il est trop cochon - disse -. Quand une femme est seule avec lui, il prétend toujours de faire ça. C’est un vieux satyre.
Per altri disegni servirono a me e all’amico anche due sorelle che vennero un giorno a bussare allo studio; ma eran quasi due bambine, sbiadite, stente, che ritenemmo quasi per compassione; né potemmo far altro che ritrarle nei gonnellini, corpettini e scarpettini da ballerinette, ch’esse avevan portato in una valigetta con loro.
Davanti a codesto studio, dall’altra parte del boulevard, oltre un terrain vague risultato dalla demolizione delle vecchie fortificazioni, si stendeva la pianura, ancora quasi senza case, fino alla Senna non lontana. Nelle ore di svago, e specie la domenica, io e Sergio inforcavamo la bicicletta e ci buttavamo a correre per quella mezza campagna. Conservo ancora l’appunto di una di codeste girate.
«Uscito con Serghei in bicicletta fuori di Parigi» dice l’appunto. «La giornata è superba: sole limpido e ancora caldo. La strada che abbiamo percorsa è spaventosa, ma in pochi minuti arriviamo a un’isoletta che Serghei ha voluto farmi vedere: è l’isola della Grande Jatte, quella stessa che dette il titolo al grande e bel quadro di Seurat, da me tanto ammirato anni fa agli Indipendenti.
Vi si arriva per un ponte gettato sur uno dei rami della Senna che la circonda; e ciò che mi colpisce prima di tutto è il suo aspetto miserando e desolato. Il terreno scosceso dell’alta riva, è calcinoso, roso dall’acqua del fiume grosso che ne scalza gli alberi, alcuni dei quali giacciono arrovesciati, mezzi inghiottiti dalle onde e solo ritenuti dalle radiche fortemente piantate fra i sassi della scarpata. Un po’ più in dentro, da questa parte dell’isola, parecchie stamberghe pericolanti formate di vecchie assi mal conficcate, di pezzi di latta, coperte di lastre o di bandone, imbrattate di colori vivi, voglion parere trattorie ed alberghi. Davanti alle porte, fornelli spenti. Sergio mi dice che le domeniche d’estate vi si friggono le patate e i migliaccini per gli operai che vengono qui in folla a far baldoria. Tavole e sgabelli sgangherati sotto pergole povere, sfrondate. Appiccate al muro, o sul davanzale della finestra di quasi tutte queste casipole, alcune gabbie sudicie racchiudono canarini, fringuelli, calenzoli arruffati, affamati e muti. Una soprattutto di codeste baracche mi ha fatto senso. È bassa, grigia, sganasciata, sporca, circondata da grandi alberi mezzi spogli, e sulla facciata, porta scritto a grosse lettere color vinaccia: À la solitude. Due vecchie spettinate sono davanti all’uscio e aiutano un giovanotto biondo a scaricare da un camioncino una cassa piena di bottiglie di sidro. I soliti uccelli, i soliti tavolini; qualche fiore stento e languente trema sul davanzale. Sotto la pergola un bambino dimenticato si balocca con tre o quattro palline colorate, chiuso in una sediola come in una morsa. In cima alle colonne del cancello d’un giardinetto di fianco alla trabacca, due piccoli mulini a vento, tinti di rosso agitano nell’aria le loro ali bianche.
Intorno alle case, pratelli lebbrosi di un verde infetto che fa pensare al veleno, e per i quali errano cani irsuti, impillaccherati, magri, resi allo stato selvaggio, e che ti guardano sinistramente senza aver però il coraggio di saltarti addosso e addentarti la gola. Dappertutto terreni sommossi circondati da stecconati neri e crollanti.
Nel ritornarcene verso il ponte vediamo un uomo, probabilmente un rivendugliolo d’abiti smessi, vestito d’un paio di calzoni bianchi tutti rincincignati, di una marsina nera consunta e loiosa e con in capo una tuba rossastra posata a sghimbescio. Fuma beatamente, ritto fuor della porta di una capanna guardando di là dal braccio della Senna le estreme propaggini di Parigi. Un po’ più avanti, in un prato dove pochi fiori gialli sopravvivono tra i cocci e i calcinacci, un ciuco dalla testa enorme e il dorso spelacchiato, verdastro, bruca, immoto e in silenzio, un cespo di radicchio selvatico. Una donna quasi elegante va verso una casetta rosea sulla cui facciata sono dipinti d’azzurro un pescatore e un cuoco, scavalcando i fossi, gli steccati, con la sottana tirata sopra il ginocchio.
E tra tanta bruttura, che né il sole né il sereno del cielo valgono ad allegrare, che anzi, per lo stesso contrasto, paion render più desolante, io mi domando dove mai Seurat ha trovato quella luce ed aura di festiva felicità che abbellisce il suo quadro. Vero è che noi non abbiamo percorso che una parte dell’isola e da un solo lato. La parte amena, dolcemente riposata dev’esser dall’altro».
Dopo aver visitato le botteghe dei maggiori mercanti di pittura e argomentato, così al fiuto, dove ci fosse più probabilità di ottener, dunque, il prestito di dipinti per Firenze, mi persuasi che il meglio era di rivolgersi ai Duran-Ruel, dato anche la straordinaria liberalità e cortesia da loro usata altra volta verso di me. Né la faccenda poteva andar meglio. Parlai col gentile vecchietto e parlai col suo altrettanto affabile ministro: dissi loro della nostra rivista, spiegai che cos’era, quali erano i nostri fini, i quali potevano coincidere, in senso lato, con i loro interessi. Palesai, naturalmente, anche le nostre disponibilità finanziarie - piteuses, come vedevano, -; e questo mi pareva dover’essere il massimo ostacolo da superare. Mi ascoltarono con la massima simpatia, dicendo che erano ben lieti di essermi agréables, e che dicessi pure quali fossero, e quante, le opere che avrebbero dovuto mettere, per un tempo, a nostra disposizione.
Intanto il signor Duran-Ruel pregava il suo ministro, o direttore della Galleria, di mostrarmi quel che desideravo vedere, e di prender nota della mia scelta. Saliti dunque nelle sale superiori, zeppe di quadri allineati per terra lungo le pareti, opere dei maggiori pittori impressionisti, ne cominciammo insieme il giro. Io avrei voluto, e potuto, indicar gran parte di quelle che il cortese ministro andava via via rivoltando e mostrandomi; ma c’era di mezzo quella maledetta ristrettezza di mezzi: occorreva tener conto, più che della loro bellezza e importanza, della misura delle tele, e limitarne il numero in considerazione del volume e del peso della cassa da spedire, e quindi della spesa occorrente. Finii col trasceglierne una quindicina fra di Renoir, Pizzarro, Monet, Degas, cui furono aggiunte alcune eccellenti litografie a colori di Renoir.
Duran-Ruel approvò tutto, pronto a consegnarmi le opere all’istante; ma come io esitavo, pensando a chi potessi farle invece ritirare, incassare, eccetera, fu lui, certo intuendo la cagione della mia perplessità, a indicarmi un lor proprio imballatore dimorante in rue Sainte Anne, il quale si sarebbe occupato di tutto a buonissimi patti. Andò più oltre, che non mi chiese né ricevuta né garanzia di sorta, pregandomi solo di ben curare l’imballaggio di ritorno e di fargli avere i ritagli dei giornali o delle riviste dove si parlasse di quella nostra esposizione.
E anche questo è un segno dei tempi, e del costume dei tempi.
Negli stessi giorni andai per conoscere Medardo Rosso. Il suo studio era al pianterreno di un grosso stabile purchessia del boulevard des Batignolles. Vidi in fondo al cortile un largo portone come di officina o rimessa; la portinaia mi aveva detto, alquanto sgarbatamente, di bussare a quello, e lo feci. Per alcuni minuti, sebbene sentissi che dentro qualcuno si moveva, nessuno aprì. E io stavo per ribussare, allorché un battente del portone si schiuse alquanto e per lo spiraglio si sporse cautamente la testa forte e ricciuta d’un uomo d’età avanzata. Avevamo ricevuto, e pubblicato nel mio libro su lui, una fotografia dove Rosso figurava quale un bell’uomo con barba e capelli ben curati, ben vestito e d’aspetto signorile: la testa che ora vedevo era certamente la sua, ma assai differente da quella del ritratto. Quando il battente fu aperto del tutto, mi trovai davanti un uomo grosso, in magliotto grigio, dall’aria negletta di lottatore smesso, o di capo d’officina, il quale dopo avermi squadrato un momento con occhio diffidente, solo quando ebbe udito il mio nome, si rasserenò in volto, e, borbottando qualcosa concernente la portinaia, mi strinse forte la mano. Nel farlo, mi squadrò di nuovo, ma questa volta d’uno sguardo allegro, dicendo:
- Somigli a Baudelaire -. E mi fece avanzar nello studio.
L’idea del capo d’officina m’era balenata solo perché me l’aveva suggerita il largo portone di legno tinto di un giallo sporco simile a quelli, appunto, di tali stabilimenti; ma il curioso si è che, almeno a prima vista, lo studio di Rosso sembrava davvero un’officina. Dopo certi rozzi tendaggi di iuta grezza, mi trovai infatti in un immenso stanzone coperto da una tettoia a vetri sostenuta da vecchie capriate di legno da cui pendevano lunghe scaglie di colla da falegname, le pareti color fango, nude e affumicate, ad una delle quali si vedevano appesi attrezzi da fabbro ferraio, enormi tanaglie, lime, magli, sbarre, secchi, tòzzi, morse ed arnesi del genere. Altri strumenti della stessa specie, quali un lungo banco coperto di lime più piccole, pinzette, bulini, raschiatoi, martelli, un’incudine sul suo ceppo di quercia, ingombravano un angolo; l’angolo opposto era occupato da un enorme mucchio di creta; in un altro grandeggiava, piantato accanto a una buca scavata in terra, un alto forno da fonderia. L’unica cosa delicata in tutto quell’arsenale di ordigni era un mazzolino di fiori in un bicchier d’acqua posato tra gli utensili del massiccio bancone.
Passata la mia sorpresa, Rosso mi fece sedere accanto a sé su un semplice sgabello di legno, e dopo ch’io gli ebbi parlato del mio vecchio articolo dell’Europe artiste, ch’egli aveva letto, del volume di Edmond Claris datomi da Prezzolini, di quello mio su di lui, il resto di quella nostra prima conversazione fu decisivo. C’intendemmo in modo, che, in breve, pareva si fosse amici chi sa da quanto tempo. La sua faccia piena, dai baffi e barbetta di biondo cinquantenne incanutito, specialmente i suoi occhi maliziosi, ora ridenti, avevano qualcosa di ancora estremamente giovanile. Ed egualmente giovanili erano i gesti delle sue mani grassette, e i movimenti della sua persona, ancorché panciuta, sulle sue gambe esili, quando si alzò e andò dietro quegli strani tendaggi per poi uscirne, recando sulle braccia una, poi un’altra, poi un’altra, pesante opera di bronzo, o, tra le palme, una assai lieve di cera. Al vederle posate sulle seggiole, sopra un trespolo, per terra, alcune ne riconobbi che già conoscevo, altre le vedevo per la prima volta; e tutte mi parvero bellissime, o più belle che mai.
Gli parlai allora anche dell’esposizione che Prezzolini ed io intendevamo di fare a Firenze delle pitture degli impressionisti; e magari delle sue sculture - proposi - s’egli avesse voluto mandarcele. Con Prezzolini non se n’era parlato, ma ero sicuro che ne sarebbe stato contentissimo.
Rosso, alle mie parole, fece un poco, come si dice, mente locale; poi mi disse che anche lui era ugualmente contento di farlo. Altre volte aveva fatto di tutto per metter le sue cose accanto a quelle di costoro, a mo’ di confronto e quasi di sfida, e c’era riuscito. Inoltre eran venticinque anni che, per malintesi familiari, mancava dall’Italia; ora che aveva potuto -un poco anche in virtù del mio libro - riabbracciare il suo figliolo, venuto apposta da Milano con la sposa, avrebbe mandato quelle ed altre opere, non solo, ma sarebbe venuto anche lui a Firenze.
Anche da questo lato, la mia missione non poteva, come si vede, finir meglio.
Continuando in quei giorni, prima di ripartir da Parigi, a incontrarmi con i miei amici del caffè dell’Ermitage, del «Lapin Agile» e dello studio di Picasso, dove si parlava spesso, tra il serio e il faceto, del Doganiere Rousseau, la cui ingenua pittura ero stato anch’io fra i primi ad apprezzare per quel tanto che aveva di primitiva spontaneità e poeticità, ebbi l’idea d’andare a trovarlo e conoscerlo di persona. Ho a più riprese e così a lungo parlato di lui, specie nel mio libro Trenta artisti moderni italiani e stranieri, che non ne dirò qui se non qualche cosa in succinto.
Nel suo umile studio di rue Perrel, dietro il Cimitero di Montparnasse, trovai dunque un ometto d’una sessantina d’anni dall’aspetto d’artigiano, nel suo camiciotto bianco da lavoro, non alto di statura, piuttosto magro, un po’ curvo, dai baffi bianchi sul labbro pendente, l’occhio spento; alquanto somigliante, in complesso, al nostro generalissimo Cadorna. Udendo che ero italiano, mi mostrò con orgoglio un articolo della Tribuna, ch’egli considerava molto lusinghiero per lui: era invece tutto un basso dileggio da gazzettiere volgare del candido artista, scritto e mandato a quel giornale da un certo Sarti, allora suo corrispondente da Parigi.
Sebbene indignato della cosa, non disillusi il povero vecchio. Gli domandai piuttosto se volesse dipinger per me una natura morta a suo piacimento, prima del mio prossimo ritorno in Italia; intanto gli avrei subito comprato i sedici disegni di piccole e piccolissime dimensioni, ch’egli mi aveva fatto vedere. Rousseau accolse bonariamente e con gioia l’una e l’altra proposta. Mi dette senz’altro per la somma di venti franchi i disegni e mi promise di consegnarmi il quadretto di lì a pochi giorni. La replica di un altro da me visto anni prima, rappresentante un paesaggio con vacche pascolanti, e che gli ordinai ugualmente in quell’occasione, me l’avrebbe spedita, disse, un poco più tardi.
Al tempo fissato ebbi la mia natura morta - che fu quella oggi ben nota agli intendenti, con un lume, un bricco, pere e limoni posati sul piano di una tavola coperta di un tappeto rosso, sopra un fondo verde bottiglia.
Dei sedici disegni ne regalai la metà al mio amico Serghei; della replica feci dono più tardi all’amica baronessa.

ARTICOLI COLLEGATI
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Montmartre, 5 novembre 2015

















giovedì 26 giugno 2014

Hemingway a Parigi





«Le sparatorie continuarono per parecchio tempo in rue de l’Odéon, e cominciavamo a esserne proprio stufe quando un bel giorno una fila di jeep venne su per la strada e si fermò di fronte alla mia casa. Udii una vociona profonda gridare “Sylvia!” e tutti nella strada ripresero il grido.
“È Hemingway! È Hemingway!” gridò Adrienne. Volai giù per le scale, e finii addosso a Hemingway che mi tirò su prendendomi sotto le ascelle, mi fece girare in aria e mi baciò fra gli applausi della gente per strada e alle finestre.
Salimmo in casa di Adrienne e facemmo sedere Hemingway: aveva addosso la divisa con cui aveva combattuto, sporca e insanguinata. Chiese a Adrienne un pezzo di sapone, e lei gli diede il suo ultimo dolce.
Domandò se poteva fare qualcosa per noi, e noi lo pregammo di liberarci dai franchi tiratori nazisti che si nascondevano sui tetti delle case della nostra strada, specialmente sul tetto di Adrienne. Hemingway fece scendere i suoi uomini dalle jeep e li guidò sul tetto; udimmo dei colpi, per l’ultima volta in rue de l’Odéon. Poi Hemingway e i suoi uomini ridiscesero e si allontanarono sulle loro jeep, “per liberare”, così disse Hemingway, “la cantina del Ritz”.»

Con queste parole Sylvia Beach mette la parola fine al suo libro Shakespeare and Company, consolidando (consciamente) il mito pubblico di Ernest Hemingway, ampiamente utilizzato - vero o falso che sia - per far cassa dai signori dell’informazione.

* * * * *

Anno 1920. Dopo aver accudito per tre mesi la madre morente, Hadley Richardson lascia St. Louis per una vacanza a Chicago, invitata da una vecchia compagna di scuola che le trova alloggio in una casa-pensione. Qui conosce Ernest, un giovane ufficiale in congedo, gravemente ferito sul fronte italiano e due volte decorato al valor militare. Tre settimane dopo lo invita a visitare St. Louis. Invito raccolto.

Al liceo Ernest se l’è cavata bene scrivendo per il giornale scolastico e il giornalismo è nel suo mirino. Quando a dicembre è assunto dal Cooperative Commonwealth di Chicago, il giovane cronista si precipita a St. Louis e festeggia con Hadley il suo primo stipendio. Lei gli rende la visita nel marzo 1921, un mese fortunato per Ernest: dopo aver vissuto a Parigi, Sherwood Anderson, un mostro sacro della letteratura americana di quei tempi, proprio in quel mese ha preso casa a due passi dall’appartamento che Hemingway condivide con altri aspiranti scrittori e i colloqui tra i due s’infittiscono.

Nel frattempo il ragazzo ha dell’altro a cui pensare: sabato 3 settembre 1921, alle ore 16, nella First Presbyterian Church di Horton Bay, Ernest Miller Hemingway, di anni 22, sposa Elizabeth Hadley Richardson, di anni 30. Oltre ai lunghi capelli ramati[1] lei porta in dote delle obbligazioni che le rendono fra i due e i tremila dollari l’anno, cifra su cui gli sposi contano per “andare nel paese dei mangiaspaghetti in novembre”.

A cambiare le carte in tavola sono i racconti di Anderson, che convince gli Hemingway ad accantonare il loro viaggio in Italia per migrare a Parigi, dove l’ambiente artistico è più vivo che mai e il cambio libero del franco favorisce il dollaro. Il 28 novembre Anderson scrive al suo amico Lewis Galantière di trovare una stanza agli Hemingway, prossimi a salpare per l’Europa. Il 3 dicembre lo stesso scrive altre tre lettere di presentazione indirizzate a Gertrude Stein, Ezra Pound e Sylvia Beach. Con questo viatico - e in tasca un contratto del The Toronto Star Weekly - l’8 dicembre i coniugi Hemingway salpano da New York e già il 23 dicembre Ernest può informare Sherwood che lui e Hadley alloggiano all’Hôtel Jacob e d’Angleterre, 44 rue Jacob (camera 14) e che il Restaurant Pré aux Clercs all’angolo di rue Bonaparte è la loro mensa.

Il 9 gennaio 1922 gli Hemingway si trasferiscono nella loro prima casa parigina, un piccolo appartamento al 74 di rue du cardinal Lemoine, quarto piano (e non terzo, come malamente scritto sulla lapide), latrina sulle scale. Il quartiere è povero e malfamato, la strada lastricata di sassi, ma per i due innamorati “un cuore e una capanna” è già più che sufficiente, come lo stesso Hemingway (in veste di Harry) “fotograferà” in una vignetta inserita in The Snows of Kilimanjaro, pubblicato su Esquire nel 1936:

«non potresti mai dettare qualcosa su Place Contrescarpe, dove i fiorai coloravano i loro fiori per la strada e il colore scorreva sul selciato fino al capolinea dell’autobus; e i vecchi e le donne erano sempre ubriachi di vino e di liquori cattivi; e i bambini con la goccia al naso per il freddo; l’odore di sporcizia e di sudore, di miseria e d’ubriachezza al Café des Amateurs e le puttane del Bal Musette che abitavano al piano di sopra. La portinaia che nella guardiola intratteneva il soldato della Garde Républicaine, con l’elmo con la coda di cavallo sulla sedia. La locataire nella stanza di fronte, col marito corridore ciclista, e la sua gioia quel mattino alla Crémerie quando aveva aperto «L’Auto» e visto che lui si era piazzato terzo nella Paris-Tours, la sua prima corsa importante. Era diventata rossa e ridendo e gridando aveva salito le scale agitando i fogli gialli del giornale sportivo. Il marito della tenitrice del Bal Musette faceva il tassista e quando lui, Harry, doveva partire in aereo la mattina presto, il tassista bussava alla porta per svegliarlo e prima di partire bevevano insieme un bicchiere di vino bianco al banco di zinco del bar. A quel tempo Harry conosceva tutti i suoi vicini, perché erano tutti poveri.
Nella zona della piazza ce n’erano di due tipi: gli ubriaconi e gli sportivi. Gli ubriaconi ammazzavano così la miseria; gli sportivi se ne liberavano con l’esercizio fisico. Erano i discendenti dei comunardi e non si faceva fatica a capire le loro idee politiche. Sapevano chi aveva fucilato i loro padri, i loro parenti, i loro fratelli e i loro amici, quando le truppe di Versailles occuparono la città dopo la Comune e avevano giustiziato chiunque aveva le mani callose, o portava il berretto, o mostrava da altri segni di essere un lavoratore. E tra quella miseria, in quel quartiere, tra una boucherie chevaline e una cooperativa vinicola, lui aveva cominciato a scrivere. Nessun’altra parte di Parigi lui aveva mai amato così, gli alberi dall’ampia chioma, le vecchie case intonacate di bianco con la striscia marrone in basso, il verde allungato degli autobus nella piazza rotonda, la tintura rossa dei fiori sul selciato, la ripida discesa della rue Cardinal Lemoine fino al fiume, e dall’altra parte il piccolo mondo affollato di rue Mouffetard. La strada che saliva al Panthéon e l’altra che lui faceva sempre in bicicletta, l’unica strada asfaltata di tutto il quartiere, liscia sotto le gomme, con le case alte e strette e il misero albergo dov’era morto Verlaine. L’appartamento dove abitavano aveva solo due stanze e all’ultimo piano di quell’albergo lui aveva una stanza, che pagava sessanta franchi al mese, dove scriveva, e di là poteva vedere i tetti e i comignoli e tutte le colline di Parigi.
Dall’appartamento si vedeva solo la bottega del rivenditore di legna e di carbone. Vendeva anche vino, vino cattivo. La testa di cavallo dorata davanti alla boucherie chevaline dove le carcasse rosse e giallicce erano appese nella vetrina senza vetri, e la cooperativa dipinta di verde dove compravano il vino: vino buono e a poco prezzo. Il resto erano muri intonati e le finestre dei vicini. I vicini che di notte, quando qualcuno giaceva in strada ubriaco, lamentandosi e borbottando in quella tipica ivresse[2] francese che a dar retta alla propaganda non esisteva, aprivano le finestre e allora si udiva il brusio delle loro conversazioni.»

A dire il vero, Ernest abiterà poco questa casa, sia per i frequenti viaggi richiesti dal Toronto Star, sia per le lunghe vacanze estive e invernali; e poi, a ben vedere, non è che gli ambienti “artistici” parigini più in auge piacciano così tanto allo “scrittore” Hemingway: basti leggere American Bohemians in Paris a Weird Lot, l’articolo pubblicato sul Toronto Star del 25 marzo per capire il suo punto di vista sui “falsi artisti” che frequentano il Café de la Rotonde. Le opinioni di Hemingway sono chiare: ovunque ci sono luoghi chiassosi utili per apparire e luoghi tranquilli utili per lavorare. Lui preferisce questi ultimi, e di giorno la Brasserie Lipp o la Closerie des Lilas meglio si adattano alle sue esigenze.









Ho scritto che Hemingway ha poco goduto il suo primo appartamento. L’8 aprile 1922 John Bone, il direttore del giornale, gli chiede di lasciare Parigi per andare in Russia quale corrispondente del Toronto Star; Ernest rifiuta. Rimasto in Francia, già il 13 aprile il Toronto Star pubblica Picked Sharpshooters Patrol Genoa Streets, il primo articolo scritto da Hemingway in veste di inviato alla Conferenza di Genova. Seguono altre corrispondenze dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Grecia e dalla Turchia (ricordo che tutti gli scritti giornalistici di EH sono riuniti in By-line, uscito in Italia col titolo Dal nostro inviato Ernest Hemingway).

Profetico è un suo articolo inviato da Losanna, pubblicato il 27 gennaio 1923 col titolo Mussolini, Europe’s Prize Bluffer, More Like Bottomley Than Napoleon, scritto che è all’origine del futuro ostracismo del Duce verso i libri di Hemingway. Per la cronaca, i suoi primi racconti pubblicati in Italia si trovano in Americana, una Raccolta di narratori dalle origini ai nostri giorni curata dal censurato Elio Vittorini (Bompiani 1943 anno XXI; riedizione 1968). Uno spiraglio, questo, che dà coraggio alla Jandi Sapi, l’Editrice che nel 1944 mette in vendita L’invincibile, seguito l’anno dopo dal proibitissimo Un addio alle armi e da Chi ha e chi non ha (E il sole sorge ancora e Verdi colline d’Africa seguiranno nel 1946). Perché Einaudi e Mondadori non sono stati i suoi primi editori...

L’albero dell’amore produce i suoi frutti. Il 17 agosto 1923 i coniugi Hemingway disdettano l’appartamento di Parigi e s’imbarcano per Toronto, dove il 10 ottobre Hadley dà alla luce John Hadley Nicanor (Bumby). Rispetto a Parigi la vita in Canada è molto costosa; si aggiunga che il nuovo direttore del Toronto Star - che vede in Hemingway un possibile rivale, ora non più all’estero e con un libro già messo nel carniere: Three Stories and Ten Poems, edito in 300 copie da Contact Publishing Company, Paris - gli toglie la firma. Inevitabile conseguenza, il 6 novembre Hemingway chiede a Silvya Beach di trovar loro un nuovo appartamento a Parigi.

Il 27 dicembre Hemingway si licenzia dal Toronto Star e il 29 gennaio 1924 la famiglia rimette piede in Europa; pochi giorni in albergo e il 10 febbraio Hemingway può scrivere ad Ezra Pound d’aver trovato un semi ammobiliato al 113 di rue Notre Dame des Champs, proprio sopra la segheria di Pierre Chautard, il padrone di casa. Pound non è lontano, abitando al 70bis.
Ernest ha lasciato il giornalismo e adesso per vivere la famiglia può contare solo sulla rendita prodotta dalle obbligazioni di Hadley. Hemingway si mette d’impegno e già lo stesso anno esce in our time (iniziali minuscole, 170 copie), una serie di racconti pubblicati dalla Three Mountains Press di Parigi. Il passo successivo è la firma del contratto con la Boni and Liveright di New York per la pubblicazione di In Our Time (iniziali maiuscole) in cambio di 200 dollari. Il contratto prevede la pubblicazione di tre libri ma con una clausola precisa: se l’editore dovesse rifiutare il secondo libro, l’autore si può ritenere libero da ogni impegno assunto.

Il 20 agosto 1925 Hemingway scrive al padre: «Ho lavorato giorno e notte e completato circa 60.000 parole di un romanzo [The Sun Also Rises]. Devo farne ancora 15.000». Ernest ha ben chiaro in mente che “diventare scrittore” non è la stessa cosa che scrivere articoli per un giornale e che per crearsi un futuro redditizio deve liberarsi del suo editore di New York, troppo provinciale. Il piano da lui messo in atto è chirurgico: deve fare in modo che sia Liveright a rifiutare il suo secondo libro, sciogliendo il contratto. Accantona The Sun Also Rises e in poco tempo scrive un libretto in cui ridicolizza l’ultimo lavoro di Sherwood Anderson, lo scrittore di punta della Boni and Liveright. Il 7 dicembre Hemingway scrive a Liveright: «le spedisco sul Mauretania di domani il manoscritto del mio nuovo libro The Torrents of Springs» e chiede un anticipo di 500$. Come previsto, Liveright si rifiuta di pubblicare un libro in cui si canzona il suo asso vincente e già il 31 dicembre Hemingway può comunicare a Scott Fitzgerald di essersi liberato dalla Boni and Liveright. L’inedito The Sun Also Rises può adesso ambire a un mercato internazionale.
Nel frattempo, per riposarsi e per fuggire dall’umido inverno parigino, Hemingway disdetta l’affitto dell’appartamento sopra la segheria e porta la famiglia a sciare in Austria, a Schruns, qui raggiunti da Pauline Pfeiffer, una ereditiera che a Parigi si è fatta amica di Hadley.[3] Quando tornano, in primavera, gli Hemingway prendono alloggio all’Hôtel Vénétia in boulevard de Montparnasse; Pauline ha un suo appartamento in rue Picot.

Il 9 febbraio 1926 Ernest sbarca dal Mauretania e a New York prende una stanza all’Hotel Brevoort. Subito dopo va negli uffici della Boni & Liveright, 61 West 48th Street, per formalizzare la scissione del contratto. Il giorno seguente l’editore Scribner, con uffici sulla Fifth Avenue, gli offre 1.500$ d’anticipo per Torrents e The Sun Also Rises. Il 25 febbraio Hemingway sale sul Roosevelt e torna a Parigi, mentre la moglie e il figlio sono in vacanza a Schruns. Ma Pauline non è con loro. Lei è rimasta a Parigi...

Il 14 maggio Hemingway si reca a Madrid, Pensione Anguilar e dopo tre settimane raggiunge Hadley, ospite dei Fitzgerald a Villa Paquita di Juan-les-Pins. La tempesta ha già prodotto i suoi danni: il 21 maggio Hemingway scrive a Sherwood Anderson: «veniamo negli States in autunno per stare a Piggott, Ark.»: è l’indirizzo della casa di famiglia di Pauline Pfeiffer.
In agosto, tornati dal mare, Hemingway e Hadley decidono di separarsi; lui va a vivere in uno studio offerto da Gerald Murphy al quinto piano di 69 rue Froidevaux, Hadley prende una camera all’Hôtel Beauvoir, di fronte alla Closerie des Lilas - ma dopo il 22 novembre Hadley e Bumby si trasferiscono al 35 di rue de Fleurus. Nel frattempo, in ottobre, è uscito The Sun Also Rises. Hemingway scrive una lettera al suo editore, dichiarando Hadley “erede” di tutti i proventi attuali e futuri di questo libro. L’annuncio del divorzio (27 gennaio 1927) raggiunge Ernest a Gstaad, dov’è andato a sciare con Pauline.

Il 16 aprile Hadley e Bumby lasciano Parigi per gli USA. Il 10 maggio, con rito cattolico come richiesto dalla sposa, nella chiesa di Passy Ernest porta all’altare Pauline Pfeiffer. Lei è 4 anni più vecchia dello sposo e porta in dote una grossa cifra in denaro (più tardi il milionario zio Gustav Pfeiffer le regalerà una casa a Key West, comperata per 8.000$, e sborserà l’enorme cifra di 23.000$ necessaria per il loro safari in Africa, cifra comprensiva dell’acquisto dei fucili fabbricati su misura). La nuova coppia si trasferisce al 6 di rue Férou, vicino alla chiesa di Saint-Sulpice; sarà il lucernario del bagno di quest’appartamento a precipitare in testa ad Ernest (marzo 1928), danno provvisoriamente risolto con alcuni punti di sutura.

Il 14 ottobre 1927 esce Man Without Women, raccolta di racconti pubblicati sullo Scribner’s Magazine e sull’Atlantic Montly; a questa data The Sun Also Rises (ribattezzato Fiesta in Inghilterra) ha già venduto oltre 23.000 copie. A fine ottobre Hadley e Bumby tornano a Parigi.

Marzo 1928. Ernest e Pauline s’imbarcano a La Rochelle per l’Avana, un viaggio di 18 giorni. Da qui con un battello a vapore i due proseguono per Key West dove prendono alloggio nel condominio Trevor and Morris, in Simonton Street. A fine maggio la coppia si trasferisce a Piggott, Arkansas e il 28 giugno, a Kansas City, nasce il loro figlio Patrick.

Di fatto, il divorzio da Hadley - peraltro rimasta sempre in affettuoso rapporto con Ernest, anche dopo essersi risposata (luglio 1933) con Paul Scott Mowrer - e le nozze con Pauline hanno messo la parola fine al periodo “povero e felice” del giovane Ernest. Negli anni a venire Hemingway tornerà molte altre volte a Parigi, albergando al Ritz. Ma questa è un altro capitolo della sua storia - e poi, come recita il motto di Ernest Hemingway, «Dans la vie il faut (d’abord) durer», nella vita bisogna (soprattutto) resistere.



[1] Tra le carte di Hemingway vi sono alcune pagine dedicate alla “massa setosa rosso-dorata” di Hadley, annotazioni che Seán Hemingway - il curatore di Festa mobile. Edizione restaurata (Oscar Mondadori 2009) - ha inserito tra gli “otto capitoli inediti” col titolo Piaceri segreti.
[2] In argot, il dialetto dei parigini, ivresse sta per euforia.
[3] Dopo la morte di Hemingway, frugando tra i suoi manoscritti inediti e inconclusi, un nipote ha pensato di rendere pubbliche le pagine sull’avvento di Pauline Pfeiffer nella vita del nonno, introducendole nell’edizione “restaurata” di Festa mobile. Titolo originale dell’inserto: The Pilot Fish and the Rich, manoscritto conservato presso la Hemingway Collection, item 123, edito per la prima volta in A Moveable Feast. The Restored Edition. @ by Hemingway Foreign Right Trust. - Edizione italiana: Festa mobile. Edizione restaurata. A cura e con introduzione di Seán Hemingway. Traduzione di Luigi Lunari. Prima edizione Oscar scrittori moderni giugno 2011. Arnoldo Mondadori Editore, pp. 170-176.


© Testo e foto di Giancarlo Mauri


74, rue du cardinal Lemoine
74, rue du cardinal Lemoine
Rue du cardinal Lemoine dalla finestra
della cucina di Hemingway, 1923 circa
Place de la Contrescarpe
Place de la Contrescarpe
La boucherie
Rue Mouffetard
Rue Mouffetard
Rue Mouffetard
La Closerie des Lilas
Rue Notre Dame des Champs
Rue Notre Dame des Champs
113, rue Notre Dame des Champs
113, rue Notre Dame des Champs
113, rue Notre Dame des Champs
Americana, prima edizione, 1943
L'Invincibile, 1944
Un addio alle armi, prima edizione italiana, 1945