Ardengo Soffici
Fine
di un mondo
Autoritratto
d’artista italiano nel
quadro del suo tempo
Volume IV. Virilità
Vallecchi
editore
Firenze 1955, pp. 131-146
CAPITOLO X
Idea di una mostra d’impressionisti a Firenze.
Accetto di occuparmene e vado a Parigi. Ritrovo i vecchi amici artisti e
scrittori. Ripresa del nostro commercio ideale. Sviluppo del cubismo, orfismo,
eccetera. Al caffè dell’Ermitage. Al circo Medrano. Il clown italiano. Forain.
Lavoro nello studio di Serghei. La modella svizzera. Boldini è “trop cochon”. “La
grande Jatte”. Duran-Ruel, generoso, presta quadri. Limito per miseria la
scelta. Conosco Rosso di persona. Il suo studio-officina. Stringiamo amicizia:
esporrà anche lui e verrà a Firenze. Vado a conoscere il “Doganiere”. Dipingerà
per me. Gli compro sedici disegni.
Allorché
io avevo cominciato a pubblicar nella Voce
quei miei articoli sull’Impressionismo, che erano stati la prima ragione, come
si ricorderà, dell’invito fattomi da Prezzolini a entrare nella sua rivista,
pochissimi in Italia avevano una conoscenza diretta di quella scuola per averne
viste le opere, ma il più, anche di quei pochi, solo per averne appreso
qualcosa in qualche scritto dimenticato di Diego Martelli e segnatamente, i più
informati di essi, in un libro di Vittorio Pica, l’unico fino allora pubblicato
da noi intorno a tale argomento, e il più serio e aggiornato. Avendo codesti
scritti suscitato tra gli amici della nostra impresa una grande curiosità per
quel genere d’arte, curiosità che si era poi propagata in zone sempre più
larghe, fino a svegliare nel pubblico un interessamento a mano a mano
crescente, venne il momento in cui tanto io che Prezzolini si concluse dal
fatto che un’esposizione di quella pittura a Firenze sarebbe stata quanto mai
utile e profittevole per il fine culturale della rivista.
Si
trattava di ottenere il prestito di un certo numero di opere di quella scuola
da parte dei mercanti d’arte parigini. Io che ne conoscevo, come s’è visto,
alcuni fra i più indicati all’uopo, potevo tentar l’impresa, e vi ero disposto:
mi sarebbe bisognato andare a Parigi, ed anche questo ero pronto a farlo
volentieri; molto più che avrei avuto insieme l’occasione, di conoscervi di
persona lo scultore Rosso, la cui opera m’era già così favorevolmente nota e a
pro del quale avevamo mosso quella nostra battaglia. La più grande difficoltà
consisteva nei mezzi occorrenti all’attuazione del bel disegno: Prezzolini, o
per meglio dire, la Voce non poteva
disporre se non di poche centinaia di lire, offerte, credo, da qualche amico
meno povero di noi, «sostenitore», come si chiamano i benemeriti di tali
pubblicazioni. Dopo qualche esitazione determinammo di gettare ugualmente il
dado; ed io intrapresi il viaggio.
Trovai
Parigi come l’avevo lasciata due anni prima; con questo di nuovo, che i miei
amici e colleghi pittori e scrittori erano ora impegnatissimi nel dar corpo e
sviluppo alle premesse estetiche e alle forme artistiche poste e iniziate tra
noi prima della mia partenza da quella città. Ospite di Sergio, che dimorava
con la sua parente e del pari amica mia baronessa Elena d’Œttingen,
in un piccolo hôtel privato del boulevard Berthier, tornai a vedere Picasso,
Braque, Apollinaire, Jacob, e gli altri della vecchia brigata, accresciuta nel
frattempo di nuovi aderenti; ad incontrarmi con essi nello studio del primo,
nei caffè di Montmartre; a frequentare insieme il «Lapin agile», il circo
Médrano, la Closerie des lilas, eccetera.
Picasso,
colpito dal fascino esotico di certi feticci negri, genere di scultura
barbarica entrata allora in circolazione fra i colleghi parigini, dipingeva
adesso nature morte, figure, copriva tele di ardite composizioni, dove già i
modi e la tecnica, i toni del cubismo si andavano affermando con sempre maggior
rigore. Apollinaire e Jacob stavano disarticolando, sveltendo, dando aria, dirò
così, al loro linguaggio poetico, dirompendo sapientemente la sintassi,
introducendo nelle loro immagini la magia di rapporti, similitudini,
simultaneità di sensi generate da analogie segrete e lontane. Un fervore di ragionamenti,
discussioni, polemiche, animava quelle adunanze di creatori di una poetica
moderna, alle quali prendevo parte anch’io, con pieno consentimento o con le
riserve del caso.
Uno
dei caffè più frequentati dal nostro gruppo era l’Ermitage; e poiché Picasso
era andato ad abitare nel boulevard de Clichy, proprio di faccia ad esso, ogni
volta che io e qualche altro andavamo a trovarlo, quando poi si scendeva dal
suo studio assieme a lui, era lì che andavamo a sederci. Vi arrivava poi la sua
Fernanda con l’inseparabile sua amica Ève, moglie del caricaturista Marcous; vi
capitavano Braque, Jacob, il giovane pittore italiano Ubaldo Oppi; e certe sere
anche un altro giovane artista di vero talento, De La Fresnaye, allora nella
sua divisa da coscritto; il quale, da soldato, appunto, doveva pochi anni dopo,
fallire alle sue grandi promesse morendo in guerra.
Ugualmente vicino allo studio di Picasso era anche il circo Médrano, vecchia baracca ottocentesca, dove spesso finivamo di passare le ultime ore della notte tra un pubblico di popolani ed altra piccola gente, estasiata ed esilarata dalle prodezze dei ginnasti, degli equilibristi, dei cavallerizzi, giocolieri; dalle farse dei clowns americani, inglesi, e dei pagliacci di ogni paese. Uno di questi ultimi, capace di buffoneggiare in un monte di lingue, era un Alexis, più bravo di tutti. Poiché ormai eravamo divenuti come di casa, andavamo talvolta a salutarlo in un certo oscuro e malodorante ambulacro corrente sotto le gradinate del circo, tra gli spogliatoi, i camerini, i depositi d’attrezzi, le stalle, e dove si ritiravano a travestirsi a ritruccarsi dopo ogni «numero», a riposarsi o a passeggiare gli uomini e le donne della compagnia. Durante tali visite seppi da lui ch’egli era italiano ma vissuto quasi sempre all’estero; che quel nome di Alessio non era il suo vero ma un nome di battaglia; che era stato a più riprese ed aveva lavorato nell’America del Nord e in quella del Sud, in Inghilterra, in Ispagna, in Germania, in Russia; paesi di ognuno dei quali aveva appreso la lingua, ciò che gli era poi sempre servito nei circhi di ogni parte del mondo per dare sapore originale alla sua comicità. Anche nell’intrattenersi con noi egli si esprimeva, perciò, mescolando curiosamente le parole di tanti idiomi diversi, cui ora s’aggiungeva il francese. Era minuto di corpo, di misero aspetto, molto timido e tristissimo.
Quanto a noi, non frequentavamo il circo solo per trepidare allo spettacolo dell’equilibrista giapponese che faceva la «bandiera» in cima a un’altissima asta inclinata retta dalle piante dei piedi di un compagno raggomitolato con le spalle in terra; o dell’acrobata muscoloso sospeso coi denti a una corda agganciata a una cèntina metallica del soffitto, mentre un collega vola da un aereo trapezio all’altro; né per divertirci del giucco della cavallerizza in costume di ballerina, in bilico sopra una gamba sulla groppa di un cavallo corrente in giro nella pista, pronta a passare attraverso un cerchio contornato di fiamme; né per ridere dei pagliacci impegnati nell’assurdo e nel grottesco delle loro gesta e avventure. Lo facevamo soprattutto per osservare gli aspetti di quella bizzarra vita artificiale; studiare le forme, i movimenti dei corpi, i colori inattesi, ricchi, fantasiosi delle casacche, delle maglie, brache, cravattoni, parrucche di quegli «artisti» geniali ; nonché le figure, le posizioni, i vari raggruppamenti, la massa dello stesso pubblico sul fondo di luci e d’ombre del singolare teatro. Motivo, dunque più che di svago, di studio. E questo doveva certo essere lo stesso che attirava nello stesso circo anche l’ormai vecchio Forain; il quale vedevamo, spesso seduto tra il comune pubblico, non lontano da noi, tutto vestito di nero, il colletto inamidato, chiuso, i capelli bianchi, e la pallida faccia da attore e da pastore protestante, mesta a un tempo e sarcastica, di continuo protesa e intenta al medesimo gioco di membra, di colori e di chiaroscuri che animava l’arena e la folla delle gradinate.
Ugualmente vicino allo studio di Picasso era anche il circo Médrano, vecchia baracca ottocentesca, dove spesso finivamo di passare le ultime ore della notte tra un pubblico di popolani ed altra piccola gente, estasiata ed esilarata dalle prodezze dei ginnasti, degli equilibristi, dei cavallerizzi, giocolieri; dalle farse dei clowns americani, inglesi, e dei pagliacci di ogni paese. Uno di questi ultimi, capace di buffoneggiare in un monte di lingue, era un Alexis, più bravo di tutti. Poiché ormai eravamo divenuti come di casa, andavamo talvolta a salutarlo in un certo oscuro e malodorante ambulacro corrente sotto le gradinate del circo, tra gli spogliatoi, i camerini, i depositi d’attrezzi, le stalle, e dove si ritiravano a travestirsi a ritruccarsi dopo ogni «numero», a riposarsi o a passeggiare gli uomini e le donne della compagnia. Durante tali visite seppi da lui ch’egli era italiano ma vissuto quasi sempre all’estero; che quel nome di Alessio non era il suo vero ma un nome di battaglia; che era stato a più riprese ed aveva lavorato nell’America del Nord e in quella del Sud, in Inghilterra, in Ispagna, in Germania, in Russia; paesi di ognuno dei quali aveva appreso la lingua, ciò che gli era poi sempre servito nei circhi di ogni parte del mondo per dare sapore originale alla sua comicità. Anche nell’intrattenersi con noi egli si esprimeva, perciò, mescolando curiosamente le parole di tanti idiomi diversi, cui ora s’aggiungeva il francese. Era minuto di corpo, di misero aspetto, molto timido e tristissimo.
Quanto a noi, non frequentavamo il circo solo per trepidare allo spettacolo dell’equilibrista giapponese che faceva la «bandiera» in cima a un’altissima asta inclinata retta dalle piante dei piedi di un compagno raggomitolato con le spalle in terra; o dell’acrobata muscoloso sospeso coi denti a una corda agganciata a una cèntina metallica del soffitto, mentre un collega vola da un aereo trapezio all’altro; né per divertirci del giucco della cavallerizza in costume di ballerina, in bilico sopra una gamba sulla groppa di un cavallo corrente in giro nella pista, pronta a passare attraverso un cerchio contornato di fiamme; né per ridere dei pagliacci impegnati nell’assurdo e nel grottesco delle loro gesta e avventure. Lo facevamo soprattutto per osservare gli aspetti di quella bizzarra vita artificiale; studiare le forme, i movimenti dei corpi, i colori inattesi, ricchi, fantasiosi delle casacche, delle maglie, brache, cravattoni, parrucche di quegli «artisti» geniali ; nonché le figure, le posizioni, i vari raggruppamenti, la massa dello stesso pubblico sul fondo di luci e d’ombre del singolare teatro. Motivo, dunque più che di svago, di studio. E questo doveva certo essere lo stesso che attirava nello stesso circo anche l’ormai vecchio Forain; il quale vedevamo, spesso seduto tra il comune pubblico, non lontano da noi, tutto vestito di nero, il colletto inamidato, chiuso, i capelli bianchi, e la pallida faccia da attore e da pastore protestante, mesta a un tempo e sarcastica, di continuo protesa e intenta al medesimo gioco di membra, di colori e di chiaroscuri che animava l’arena e la folla delle gradinate.
Per
altri disegni servirono a me e all’amico anche due sorelle che vennero un
giorno a bussare allo studio; ma eran quasi due bambine, sbiadite, stente, che
ritenemmo quasi per compassione; né potemmo far altro che ritrarle nei gonnellini,
corpettini e scarpettini da ballerinette, ch’esse avevan portato in una
valigetta con loro.
Davanti
a codesto studio, dall’altra parte del boulevard,
oltre un terrain vague risultato
dalla demolizione delle vecchie fortificazioni, si stendeva la pianura, ancora
quasi senza case, fino alla Senna non lontana. Nelle ore di svago, e specie la
domenica, io e Sergio inforcavamo la bicicletta e ci buttavamo a correre per
quella mezza campagna. Conservo ancora l’appunto di una di codeste girate.
«Uscito
con Serghei in bicicletta fuori di Parigi» dice l’appunto. «La giornata è
superba: sole limpido e ancora caldo. La strada che abbiamo percorsa è
spaventosa, ma in pochi minuti arriviamo a un’isoletta che Serghei ha voluto
farmi vedere: è l’isola della Grande Jatte, quella stessa che dette il titolo
al grande e bel quadro di Seurat, da me tanto ammirato anni fa agli
Indipendenti.
Vi
si arriva per un ponte gettato sur uno dei rami della Senna che la circonda; e
ciò che mi colpisce prima di tutto è il suo aspetto miserando e desolato. Il
terreno scosceso dell’alta riva, è calcinoso, roso dall’acqua del fiume grosso
che ne scalza gli alberi, alcuni dei quali giacciono arrovesciati, mezzi
inghiottiti dalle onde e solo ritenuti dalle radiche fortemente piantate fra i
sassi della scarpata. Un po’ più in dentro, da questa parte dell’isola,
parecchie stamberghe pericolanti formate di vecchie assi mal conficcate, di
pezzi di latta, coperte di lastre o di bandone, imbrattate di colori vivi,
voglion parere trattorie ed alberghi. Davanti alle porte, fornelli spenti.
Sergio mi dice che le domeniche d’estate vi si friggono le patate e i
migliaccini per gli operai che vengono qui in folla a far baldoria. Tavole e
sgabelli sgangherati sotto pergole povere, sfrondate. Appiccate al muro, o sul
davanzale della finestra di quasi tutte queste casipole, alcune gabbie sudicie
racchiudono canarini, fringuelli, calenzoli arruffati, affamati e muti. Una
soprattutto di codeste baracche mi ha fatto senso. È bassa, grigia,
sganasciata, sporca, circondata da grandi alberi mezzi spogli, e sulla
facciata, porta scritto a grosse lettere color vinaccia: À la solitude. Due vecchie spettinate sono davanti all’uscio e
aiutano un giovanotto biondo a scaricare da un camioncino una cassa piena di
bottiglie di sidro. I soliti uccelli, i soliti tavolini; qualche fiore stento e
languente trema sul davanzale. Sotto la pergola un bambino dimenticato si
balocca con tre o quattro palline colorate, chiuso in una sediola come in una
morsa. In cima alle colonne del cancello d’un giardinetto di fianco alla
trabacca, due piccoli mulini a vento, tinti di rosso agitano nell’aria le loro
ali bianche.
Intorno
alle case, pratelli lebbrosi di un verde infetto che fa pensare al veleno, e
per i quali errano cani irsuti, impillaccherati, magri, resi allo stato
selvaggio, e che ti guardano sinistramente senza aver però il coraggio di
saltarti addosso e addentarti la gola. Dappertutto terreni sommossi circondati
da stecconati neri e crollanti.
Nel
ritornarcene verso il ponte vediamo un uomo, probabilmente un rivendugliolo d’abiti
smessi, vestito d’un paio di calzoni bianchi tutti rincincignati, di una
marsina nera consunta e loiosa e con in capo una tuba rossastra posata a
sghimbescio. Fuma beatamente, ritto fuor della porta di una capanna guardando
di là dal braccio della Senna le estreme propaggini di Parigi. Un po’ più
avanti, in un prato dove pochi fiori gialli sopravvivono tra i cocci e i
calcinacci, un ciuco dalla testa enorme e il dorso spelacchiato, verdastro,
bruca, immoto e in silenzio, un cespo di radicchio selvatico. Una donna quasi
elegante va verso una casetta rosea sulla cui facciata sono dipinti d’azzurro
un pescatore e un cuoco, scavalcando i fossi, gli steccati, con la sottana
tirata sopra il ginocchio.
E
tra tanta bruttura, che né il sole né il sereno del cielo valgono ad allegrare,
che anzi, per lo stesso contrasto, paion render più desolante, io mi domando
dove mai Seurat ha trovato quella luce ed aura di festiva felicità che
abbellisce il suo quadro. Vero è che noi non abbiamo percorso che una parte
dell’isola e da un solo lato. La parte amena, dolcemente riposata dev’esser
dall’altro».
Dopo
aver visitato le botteghe dei maggiori mercanti di pittura e argomentato, così
al fiuto, dove ci fosse più probabilità di ottener, dunque, il prestito di
dipinti per Firenze, mi persuasi che il meglio era di rivolgersi ai Duran-Ruel,
dato anche la straordinaria liberalità e cortesia da loro usata altra volta
verso di me. Né la faccenda poteva andar meglio. Parlai col gentile vecchietto
e parlai col suo altrettanto affabile ministro: dissi loro della nostra
rivista, spiegai che cos’era, quali erano i nostri fini, i quali potevano
coincidere, in senso lato, con i loro interessi. Palesai, naturalmente, anche
le nostre disponibilità finanziarie - piteuses,
come vedevano, -; e questo mi pareva dover’essere il massimo ostacolo da
superare. Mi ascoltarono con la massima simpatia, dicendo che erano ben lieti
di essermi agréables, e che dicessi
pure quali fossero, e quante, le opere che avrebbero dovuto mettere, per un
tempo, a nostra disposizione.
Intanto
il signor Duran-Ruel pregava il suo ministro, o direttore della Galleria, di
mostrarmi quel che desideravo vedere, e di prender nota della mia scelta.
Saliti dunque nelle sale superiori, zeppe di quadri allineati per terra lungo
le pareti, opere dei maggiori pittori impressionisti, ne cominciammo insieme il
giro. Io avrei voluto, e potuto, indicar gran parte di quelle che il cortese
ministro andava via via rivoltando e mostrandomi; ma c’era di mezzo quella
maledetta ristrettezza di mezzi: occorreva tener conto, più che della loro
bellezza e importanza, della misura delle tele, e limitarne il numero in
considerazione del volume e del peso della cassa da spedire, e quindi della
spesa occorrente. Finii col trasceglierne una quindicina fra di Renoir,
Pizzarro, Monet, Degas, cui furono aggiunte alcune eccellenti litografie a
colori di Renoir.
Duran-Ruel
approvò tutto, pronto a consegnarmi le opere all’istante; ma come io esitavo,
pensando a chi potessi farle invece ritirare, incassare, eccetera, fu lui,
certo intuendo la cagione della mia perplessità, a indicarmi un lor proprio
imballatore dimorante in rue Sainte Anne, il quale si sarebbe occupato di tutto
a buonissimi patti. Andò più oltre, che non mi chiese né ricevuta né garanzia
di sorta, pregandomi solo di ben curare l’imballaggio di ritorno e di fargli
avere i ritagli dei giornali o delle riviste dove si parlasse di quella nostra
esposizione.
E
anche questo è un segno dei tempi, e del costume dei tempi.
Negli
stessi giorni andai per conoscere Medardo Rosso. Il suo studio era al
pianterreno di un grosso stabile purchessia del boulevard des Batignolles. Vidi
in fondo al cortile un largo portone come di officina o rimessa; la portinaia
mi aveva detto, alquanto sgarbatamente, di bussare a quello, e lo feci. Per
alcuni minuti, sebbene sentissi che dentro qualcuno si moveva, nessuno aprì. E
io stavo per ribussare, allorché un battente del portone si schiuse alquanto e
per lo spiraglio si sporse cautamente la testa forte e ricciuta d’un uomo d’età
avanzata. Avevamo ricevuto, e pubblicato nel mio libro su lui, una fotografia
dove Rosso figurava quale un bell’uomo con barba e capelli ben curati, ben
vestito e d’aspetto signorile: la testa che ora vedevo era certamente la sua,
ma assai differente da quella del ritratto. Quando il battente fu aperto del
tutto, mi trovai davanti un uomo grosso, in magliotto grigio, dall’aria
negletta di lottatore smesso, o di capo d’officina, il quale dopo avermi
squadrato un momento con occhio diffidente, solo quando ebbe udito il mio nome,
si rasserenò in volto, e, borbottando qualcosa concernente la portinaia, mi
strinse forte la mano. Nel farlo, mi squadrò di nuovo, ma questa volta d’uno
sguardo allegro, dicendo:
-
Somigli a Baudelaire -. E mi fece avanzar nello studio.
L’idea
del capo d’officina m’era balenata solo perché me l’aveva suggerita il largo
portone di legno tinto di un giallo sporco simile a quelli, appunto, di tali
stabilimenti; ma il curioso si è che, almeno a prima vista, lo studio di Rosso
sembrava davvero un’officina. Dopo certi rozzi tendaggi di iuta grezza, mi
trovai infatti in un immenso stanzone coperto da una tettoia a vetri sostenuta
da vecchie capriate di legno da cui pendevano lunghe scaglie di colla da
falegname, le pareti color fango, nude e affumicate, ad una delle quali si
vedevano appesi attrezzi da fabbro ferraio, enormi tanaglie, lime, magli,
sbarre, secchi, tòzzi, morse ed arnesi del genere. Altri strumenti della stessa
specie, quali un lungo banco coperto di lime più piccole, pinzette, bulini,
raschiatoi, martelli, un’incudine sul suo ceppo di quercia, ingombravano un
angolo; l’angolo opposto era occupato da un enorme mucchio di creta; in un
altro grandeggiava, piantato accanto a una buca scavata in terra, un alto forno
da fonderia. L’unica cosa delicata in tutto quell’arsenale di ordigni era un
mazzolino di fiori in un bicchier d’acqua posato tra gli utensili del massiccio
bancone.
Passata
la mia sorpresa, Rosso mi fece sedere accanto a sé su un semplice sgabello di
legno, e dopo ch’io gli ebbi parlato del mio vecchio articolo dell’Europe artiste, ch’egli aveva letto, del
volume di Edmond Claris datomi da Prezzolini, di quello mio su di lui, il resto
di quella nostra prima conversazione fu decisivo. C’intendemmo in modo, che, in
breve, pareva si fosse amici chi sa da quanto tempo. La sua faccia piena, dai
baffi e barbetta di biondo cinquantenne incanutito, specialmente i suoi occhi
maliziosi, ora ridenti, avevano qualcosa di ancora estremamente giovanile. Ed
egualmente giovanili erano i gesti delle sue mani grassette, e i movimenti
della sua persona, ancorché panciuta, sulle sue gambe esili, quando si alzò e
andò dietro quegli strani tendaggi per poi uscirne, recando sulle braccia una,
poi un’altra, poi un’altra, pesante opera di bronzo, o, tra le palme, una assai
lieve di cera. Al vederle posate sulle seggiole, sopra un trespolo, per terra,
alcune ne riconobbi che già conoscevo, altre le vedevo per la prima volta; e
tutte mi parvero bellissime, o più belle che mai.
Gli
parlai allora anche dell’esposizione che Prezzolini ed io intendevamo di fare a
Firenze delle pitture degli impressionisti; e magari delle sue sculture -
proposi - s’egli avesse voluto mandarcele. Con Prezzolini non se n’era parlato,
ma ero sicuro che ne sarebbe stato contentissimo.
Rosso,
alle mie parole, fece un poco, come si dice, mente locale; poi mi disse che
anche lui era ugualmente contento di farlo. Altre volte aveva fatto di tutto
per metter le sue cose accanto a quelle di costoro, a mo’ di confronto e quasi
di sfida, e c’era riuscito. Inoltre eran venticinque anni che, per malintesi
familiari, mancava dall’Italia; ora che aveva potuto -un poco anche in virtù
del mio libro - riabbracciare il suo figliolo, venuto apposta da Milano con la
sposa, avrebbe mandato quelle ed altre opere, non solo, ma sarebbe venuto anche
lui a Firenze.
Anche
da questo lato, la mia missione non poteva, come si vede, finir meglio.
Continuando
in quei giorni, prima di ripartir da Parigi, a incontrarmi con i miei amici del
caffè dell’Ermitage, del «Lapin Agile» e dello studio di Picasso, dove si
parlava spesso, tra il serio e il faceto, del Doganiere Rousseau, la cui
ingenua pittura ero stato anch’io fra i primi ad apprezzare per quel tanto che
aveva di primitiva spontaneità e poeticità, ebbi l’idea d’andare a trovarlo e
conoscerlo di persona. Ho a più riprese e così a lungo parlato di lui, specie
nel mio libro Trenta artisti moderni
italiani e stranieri, che non ne dirò qui se non qualche cosa in succinto.
Nel
suo umile studio di rue Perrel, dietro il Cimitero di Montparnasse, trovai
dunque un ometto d’una sessantina d’anni dall’aspetto d’artigiano, nel suo
camiciotto bianco da lavoro, non alto di statura, piuttosto magro, un po’
curvo, dai baffi bianchi sul labbro pendente, l’occhio spento; alquanto
somigliante, in complesso, al nostro generalissimo Cadorna. Udendo che ero
italiano, mi mostrò con orgoglio un articolo della Tribuna, ch’egli considerava molto lusinghiero per lui: era invece
tutto un basso dileggio da gazzettiere volgare del candido artista, scritto e
mandato a quel giornale da un certo Sarti, allora suo corrispondente da Parigi.
Sebbene
indignato della cosa, non disillusi il povero vecchio. Gli domandai piuttosto
se volesse dipinger per me una natura morta a suo piacimento, prima del mio
prossimo ritorno in Italia; intanto gli avrei subito comprato i sedici disegni
di piccole e piccolissime dimensioni, ch’egli mi aveva fatto vedere. Rousseau
accolse bonariamente e con gioia l’una e l’altra proposta. Mi dette senz’altro
per la somma di venti franchi i disegni e mi promise di consegnarmi il
quadretto di lì a pochi giorni. La replica di un altro da me visto anni prima,
rappresentante un paesaggio con vacche pascolanti, e che gli ordinai ugualmente
in quell’occasione, me l’avrebbe spedita, disse, un poco più tardi.
Al
tempo fissato ebbi la mia natura morta - che fu quella oggi ben nota agli
intendenti, con un lume, un bricco, pere e limoni posati sul piano di una
tavola coperta di un tappeto rosso, sopra un fondo verde bottiglia.
Dei
sedici disegni ne regalai la metà al mio amico Serghei; della replica feci dono
più tardi all’amica baronessa.
ARTICOLI COLLEGATI
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Montmartre, 5 novembre 2015