Dopo Napoli, la mostra Picasso. Tra Cubismo e Classicismo: 1915-1925 è approdata a Roma, suddivisa
tra le Scuderie del Quirinale e Palazzo Barberini. Nelle Scuderie si possono
ammirare dipinti, disegni e articoli di contorno riferentesi alla permanenza di
Picasso e Cocteau a Roma - dove avevano raggiunto il gruppo dei Ballets Russes
di Diaghilev - , nel Salone delle parate di Palazzo Barberini è “calato” il
sipario di Parade, un dipinto di 172
metri quadrati.
A mio avviso, il miglior testo che racconta il
periodo di vita artistico e privato di Picasso immediatamente successivo alla
morte di Eva (dicembre 1915) resta Picasso
e il teatro di Douglas Cooper (1967), dove le pagine da 7 a 34 sono
interamente dedicate all’approccio e alla successiva realizzazione di Parade.
In questo blog di non-recensioni ho optato per un altro scritto estratto da Parigi
era viva. La capitale dell’arte nel ventesimo secolo di Gualtieri di San
Lazzaro, Arnoldo Mondadori Editore 1966, al cui termine trovate i miei scatti
romani.
pp. 286-291
Pio XII avrebbe voluto un suo quadro per il Museo Vaticano e
un comitato s’era formato a Roma per acquistarlo e regalarlo al Pontefice, il
quale aveva fatto sapere che avrebbe gradito il ritratto d’una ragazza, con i
capelli annodati sulla nuca e ricadenti sulle spalle, come una coda di cavallo;
Sua Santità doveva averne visto la riproduzione in qualche rivista.
Di quella ragazza, Picasso aveva fatto diversi ritratti.
Silvio, cui il comitato romano si era rivolto, credette opportuno di parlarne
con Kahnweiler. «Picasso ne ha infatti conservato uno» gli disse il vecchio
mercante «ma vorrà cederlo al Vaticano? Tentate di parlargliene alla prima
occasione, ma non dimenticate ch’egli è più ricco di voi e di me. D’altra
parte, sapendo di ritrovarsi, nella stessa sala, con pittori di cui non ha
nessuna stima, è difficile presentargli la cosa come se potesse procurargli un
particolare onore.»
Silvio era persuaso che Picasso avrebbe volentieri ceduto al
capriccio del Papa. Non, evidentemente, per quella diecina di milioni che il
comitato gli avrebbe versato. Ch’egli fosse più ricco di Silvio e di
Kahnweiler, non c’era dubbio, e Silvio a stento aveva trattenuto le risa,
quando il mercante aveva cortesemente accoppiato il suo nome al proprio. Ricco?
Uno degli uomini più ricchi del mondo, era senza dubbio Picasso. Non era, però,
la sua, la ricchezza dei ricchi, ma quella conquistata pazientemente da un
povero. Per i ricchi, la fortuna è un mezzo di dominazione e di godimento, per
i poveri è soltanto un fine, un tabù miracoloso, magico, il quale non osano
toccare, temendo di vederselo sfumare nelle mani. Nonostante la sua immensa fortuna,
Picasso viveva poveramente. In tasca non aveva mai un soldo, e la borsetta
della signora Picasso era anch’essa disperatamente vuota. Purtroppo la morte
del Papa impedì a Silvio di mettere il grande artista alla prova.
No, non era ricco Picasso. Persino Silvio, non si sentiva
più povero del creso Picasso: le sigarette che gli capitava di offrire,
costavano di più, se non altro, delle gauloises
di Picasso. E aveva senza dubbio, nella sua vita, regalato più libri e
litografie e numeri della rivista ad artisti e conoscenti, che Picasso non
avesse distribuito fra gli amici tele e disegni, salvo le cinque o sei persone,
come Dora Maar, André Verdet e il sarto Sapone, per i quali era stato più che
un amico, la provvidenza.
Silvio notò, girando l’occhio intorno, che tutti quei nasi
di cartone e i cappelli da cow-boy (anche lui gli aveva regalato qualche anno
prima un cappello di paglia che un amico aveva portato dalla Cina), tutta la
messa in scena burlesca d’una volta era scomparsa. Picasso non vedeva più di frequente
nemmeno il sarto Sapone, che una volta riusciva a metterlo di buon umore. Forse
non aveva rinunziato a provarsi di essere ancora giovane; di avere sempre
quattordici anni, ma il sentimento tragico ch’era di lui, come in tutti gli
uomini del Mediterraneo, ora aveva il sopravvento.
Non aveva mai osato esplorare, come Mirò, il proprio
inconscio, per tema di scoprirvi degli abissi paurosi. S’era imposto dei
limiti, per non perdere la ragione, violando le frontiere della propria natura.
Silvio pensò che i collezionisti da alcuni anni non dicevano più: «È il più
vivo dei giovani pittori». Dicevano, piuttosto: «Lascerà alcune migliaia di
tele. Che fine faranno?». Alle sculture - che erano le sue opere più
sbalorditive - non pensava nessuno.
Il discorso intanto s’era spostato sulla ceramica. «Ho
potuto, come dicono, rinnovare la ceramica» diceva Picasso «perché non era il
mio mestiere. Non ho avuto bisogno, come per la pittura, di dimenticare tutto
quello che avevo imparato nelle accademie. Impara l’arte e mettila da parte,
dicevano gli antichi. È quello che gli artigiani non hanno mai il coraggio di
fare: imparano l’arte, ma non la mettono da parte. La spendono subito,
provocando l’inflazione e quindi la miseria generale.»
“Avesse soltanto rinnovato la ceramica” pensava Silvio. “Ha tutto
sconvolto e ricreato; ha distrutto e ricostruito l’oggetto, è riuscito a fare
amare le sue figure a quattro nasi e a sei bocche. Kahnweiler aveva ragione di
dirmi che è molto più facile per il pubblico accettare l’arte astratta che non
le deformazioni imposte da Picasso alla figura umana. Quanto alla sua adesione
al comunismo, sarebbe più giusto considerarla un’alleanza, senza chiedersi chi,
dei due, ha più ricevuto che dato. Nulla è mai riuscito ad abbatterlo.” E
Silvio ricordava il loro primo incontro, durante l’occupazione: “Io,
personalmente, non posso considerarmi un vinto. Non sono un uomo d’arme, ma un
artista. Sono pronto a sfidare tutti gli artisti tedeschi, e a stravincerli.”
Parlava davvero, allora, come un fanciullo di quattordici anni.
«Naturalmente, non mi sono mai detto: voglio rinnovare la
ceramica. Era fatale che ciò accadesse perché non ero un vero ceramista» diceva
Picasso.
«Se Cristoforo Colombo fosse stato un vero ammiraglio» disse
Silvio «non avrebbe scoperto l’America. Sarebbe arrivato nelle Indie facendo,
come Vasco de Gama, il periplo dell’Africa.»
Tutti risero, di nuovo. Poi Picasso disse, lentamente: «E
per la Spagna sarebbe stata una vera fortuna. Perché della scoperta dell’America,
la Spagna non si è ancora rimessa. Che cosa succederà ora, alla morte di
Franco?» «Scapperanno tutti, intendo quelli che dividono il potere con lui. Non
assisteranno nemmeno ai suoi funerali. I preti, però, resteranno» disse ancora
Silvio, che due mesi prima era stato a Barcellona, dove aveva esposto il libro
di Mirò e di Ionesco: Quelques fleurs
pour des amis. Solo Picasso, questa volta, non rise.
Sulla soglia, Silvio chiese al maestro quando e come avrebbe
potuto fare fotografare i quadri ch’egli aveva ritrovato. «Per ora» disse
Picasso, freddamente «non desidero pubblicarli.»
Non era il caso d’insistere, anche perché, tutto sommato,
nulla quelle tele, senza dubbio interessanti, avrebbero aggiunto alla sua
gloria o a quella di Silvio.
Alla gloria di Picasso, ora, bastava il fotografo Quinn, che
durante la breve visita avevano visto aggirarsi intorno alla villa, come un’ombra
alla ricerca del proprio corpo. Silvio l’aveva trovato, qualche anno prima,
alla Californie, quando, dalla
Russia, dove era stato autorizzato a fotografare le opere dei musei, era giunto
a Cannes e s’era presentato a Picasso, ch’era rimasto impressionato dalla sua
grande automobile americana, non indegna di un miliardario, e un poco forse
anche dalla sua prestanza fisica, di giovane atleta.
Due o tre volte aveva interrotto, allora, il discorso, per
dire:
«Avete visto la macchina di Quinn? Sembra un vascello.»
(Anche Picasso aveva ricevuto in dono dall’America in quei giorni una Chrysler che il figlio Paolo doveva andare
a sdoganare a Le Havre e quell’avvenimento aveva provocato alla Californie l’agitazione dei giorni
felici.) Silvio pensò che Jean Dubuffet, il fotografo Edward Quinn, nonostante
la sua macchina vascello e la sua indiscutibile perizia professionale, non l’avrebbe
tollerato più di sei mesi. Picasso l’aveva invece adottato come un figlio. Il
più grande artista del mondo da dieci anni posava per il fotografo Quinn,
volontariamente o a sua insaputa, spiato, studiato, analizzato e perseguitato
come un animale raro, come l’ultimo, insostituibile esemplare di una razza di
cui l’umanità desiderava conservare un ricordo imperituro. Il grande Picasso - si
disse ancora Silvio - è più fiero di lasciare ai posteri il ricordo del proprio
torace, inverosimilmente giovanile - nonostante l’età veneranda - che non la
propria opera.
Cardazzo, dieci anni prima, aveva ritrovato, a Milano, il
sipario di Parade, dodici metri di
altezza per sei o sette di larghezza, di cui il proprietario, un argentino, si
proponeva di ritagliare e di conservare solo il pannello centrale, non avendo
nessuna intenzione di costruire un palazzo per poterlo esporre intero. Silvio s’era
affrettato ad avvertire Kahnweiler. Pensava che Picasso sarebbe stato contento
di riaverlo, in cambio di una tela di modeste proporzioni, che l’argentino non avrebbe
certo rifiutata. Ma il Kahnweiler, ancora una volta, fu di parer contrario:
«Picasso se ne frega» disse «voi lo conoscete...» Se Silvio l’avesse conosciuto
come lo conosceva il suo mercante, quell’idea, evidentemente, l’avrebbe subito scartata.
Picasso poteva fregarsene, ma Silvio sentiva il dovere di salvare dalla distruzione
uno dei più gloriosi cimeli dei Balletti russi. Di Parade, il balletto immaginato da Jean Cocteau per la musica di
Erik Satie, rappresentato a Roma, al teatro dell’Argentina, nel 1917, e al
teatro dello Chatelet a Parigi, lo stesso anno, al pubblico non era piaciuto
che il sipario di Picasso. L’argentino, intanto, al quale Cardazzo aveva
scritto, aveva fatto sapere di essere disposto a venderlo per una somma che, pur
non essendo eccessiva, era tuttavia troppo alta per i poveri musei di Francia.
Silvio, che non s’era ancora rimesso dell’ultima tremenda operazione, era,
allora, da sei mesi, degente in una clinica della riviera ligure. Si mise in
contatto con il signor Lloyd, acquirente, allora, di opere d’arte per i musei del
Regno Unito e del Commonwealth britannico; il signor Lloyd venne a Milano, vide
il sipario, ma con profondo rincrescimento, sostenne che non esisteva una
galleria pubblica abbastanza grande per esporto. Disperato, come se si
trattasse di salvare una vita umana, Silvio scrisse a Pierre Courthion
pregandolo di esporre la situazione al conservatore Jean Cassou. Qualche tempo
dopo, a Milano, una fredda e nevosa mattina di marzo, Silvio s’incontrava con
Bernard Dorival. Cardazzo ottenne dalla “Scala”, per la seconda volta, il
favore di issare il sipario sulla scena del grande teatro milanese, per poterlo
mostrare al giovane conservatore del museo nazionale di Parigi. Il giorno dopo,
l’immenso telone veniva spedito in Francia per essere sottoposto alla
commissione del Louvre. Era già arrivato, quando un telegramma di Rockfeller, dall’America,
lo chiedeva, a qualsiasi prezzo, per il Modern Art Museum di New York.
Ai primi di giugno, Silvio poté finalmente rientrare a
Parigi.
«Dove pensate di metterlo?» chiese a un funzionario del
museo, che incontrò alla vernice d’una mostra. «L’essenziale» disse il
funzionario «è di averlo assicurato alla Francia. Jean Cassou si propone del
resto di ringraziarvi “ufficialmente” per la vostra tempestiva segnalazione.»
Anni dopo, Silvio rivide il sipario di Parade
a Londra, alla grande retrospettiva di Picasso ordinata da Roland Penrose alla
Tate Gallery. E ricordò il rammarico, apparentemente sincero, del signor Lloyd,
quando aveva affermato che non c’era nel Regno Unito e nel Commonwealth un
museo abbastanza grande per esporlo.
Ma di tutto ciò, con Picasso, che se ne fregava, non aveva
mai parlato.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI