Max Jacob, by Pablo Picasso (1907) |
MISIA
di Misia Sert
Titolo
originale: Misia
1952 Librairie
Gallimard
Traduzione di
Nancy Marotta
Adelphi
Edizioni 1981
pp. 227-238
[…] Sì,
proprio per un eccesso d’amore Reverdy si allontanava da un mondo dai molti
spigoli che rischiavano di ferirlo a morte.
E tuttavia,
degli amici, delle pietre e della luce di Parigi l’artista che egli era aveva
bisogno come ogni altro. Di Picasso, per esempio, non poteva fare a meno. Fin
da giovane gli aveva dedicato un fervore che nessuna tempesta poté offuscare.
Il caso di
Picasso, ora che la sua vita, come la mia, è entrata nel suo ultimo ciclo, mi
appare un esempio ben tipico dell’equivoco a cui è improntata la vita artistica
dopo la guerra del 1914. Lo snobismo di coloro che parlando di lui si
contentano di alzare le spalle definendolo un «grosso bluff» mi esaspera, se
possibile, anche più di quello dell’orda dei sedicenti iniziati che fanno di
Picasso un Dio Indiscutibile, la cui minima stupidaggine scarabocchiata su uno
straccetto sarà costosamente incorniciata e troneggerà al posto d’onore nell’appartamento
del fortunato possessore. Ambedue gli atteggiamenti sono ridicoli, ma, ahimè!,
col tempo sono divenuti egualmente pericolosi. Perché la vastità della fama di
Picasso, probabilmente unica nella storia, trattandosi d’un artista vivente -
visto che dall’Australia all’Oklahoma non c’è essere umano che sappia leggere
che non conosca il suo nome -, comporta una responsabilità altrettanto ponderosa.
Si rende egli veramente conto delle proporzioni di questa responsabilità,
soprattutto nei confronti dei giovani? Questa gioventù sconvolta, straziata,
cresciuta davanti allo spettacolo del crollo di tutto quello che le si era
insegnato a rispettare... Una gioventù che non crede più a niente, perché ha
visto scalzare i valori reputati indiscutibili, calpestare la morale più
elementare -ma pur sempre assetata di ideali e di bellezza come lo saranno
tutti i giovani di ogni epoca finché ci sarà il mondo...
Che lui lo
voglia o no, Picasso è uno dei rarissimi astri che sono passati attraverso lo
sconquasso e le macerie di questo mezzo secolo senza che la sua capacità di
attrazione abbia cessato di crescere. Anzi. Per centinaia di migliaia di
intellettuali sparsi in ogni parte del globo, oggi il suo nome non evoca solo
un genere di pittura, ma piuttosto una scuola, una posizione spirituale o
morale - perfino una certa visione dell’esistenza - un atteggiamento che va molto al di là dell’estetica e sconfina con la
filosofia e addirittura con la politica. Per quanto possa sembrare
inverosimile, parlate con dei ragazzi di vent’anni e vedrete che essere per Picasso non vuol certo dire
limitarsi a preferire il cubismo a un’altra corrente e, in genere, la pittura
di Picasso a quella di un altro artista. Vi renderete subito conto che ciò
implica ogni sorta di diverse posizioni relative a un mucchio di problemi.
Posizioni molto spesso negative e quasi sempre vaghe, nel senso che l’adepto
avrebbe una grande difficoltà a definirle.
Ai tempi della
mia giovinezza eravamo un gruppetto di qualche decina di persone ad amare un
quadro di Bonnard, una poesia di Mallarmé o un balletto di Stravinsky. Oggi,
troverete non migliaia, ma milioni di essere umani pronti a dichiararvi che adorano Picasso. Tra queste il vostro
calzolaio, il muratore all’angolo della strada o il signore che viene a
riparare lo scarico del lavandino.
Nell’universalità
di una simile religione, in sé e per sé non vedo niente di male. Ciò che mi
sconvolge, e insieme mi terrorizza, è l’idea di un dio del quale gli
appassionati adepti ignorano completamente i precetti - dato che lui stesso non
ha mai cercato di stabilirli. Egli è stato trasportato da una marea montante
che l’ha deposto su una sommità fittizia dove chiunque può raffigurarselo
attraverso la luce d’un prisma moltiplicato all’infinito, che permette a ognuno
di vederlo secondo l’angolazione scelta.
Eppure l’uomo,
sotto questa inverosimile ondata di gloria, non ha cessato di essere la tenera
argilla di cui è plasmato ogni artista: ed è questo che mi mantiene
profondamente legata a lui. Non posso credere che egli non abbia mai dubitato -
e anche in certi momenti, disperato. Tuttavia, il pubblico s’impadronisce
avidamente di qualunque cosa di Picasso senza che mai si sia levata la voce del
bambino del racconto di Andersen che, malgrado la cieca ammirazione delle folle
prosternate, gridò nella sua innocenza: «Ma il re è nudo!». Lui, Picasso, in
molti casi lo sapeva. Non si fanno 365 capolavori all’anno... e a Picasso è
capitato di dipingere diverse tele al giorno...
Ho troppo
amato e apprezzato le sue qualità profonde e costanti per fargli il torto di
credere che lui per primo possa essere pienamente soddisfatto di alcune delle
innumerevoli opere che la gente si è accaparrata come fossero obbligazioni del
Canale di Suez.
Picasso è un
tenero, e il suo gusto è così perfetto da avere del miracoloso. Per giudicarlo,
guardate la casa che si è scelto in rue des Grands-Augustins. Ne conosco poche
così sobriamente belle e nobili.
... Ma quest’uomo
la cui influenza è sopravvissuta a tutti gli sconvolgimenti è, per un certo
verso, di una fragilità smisurata: niente, ai suoi occhi, ha mai valso la pena
di sopportare cinque minuti di imposizione, di sforzo e, soprattutto, di noia.
La sua giovinezza, intrecciata con quella di Apollinaire in un’epoca in cui era
così poco grave dire con la massima serietà: «sinistra e destra, bene e male,
nero e bianco, non presentano che differenze apparenti ma puramente
convenzionali...», non solo l’ha segnato profondamente, ma gli ha fatto
prendere una strada che si è immediatamente rivelata quella d’un favoloso
successo. Come si può biasimarlo?
Pure, a
rischio di sembrare più realista del re, mi sento obbligata a dire: «Picasso ha
in sé infinitamente più di quanto ha dato».
Forse farò
sorridere i suoi zelanti ammiratori. «Che cosa si può chiedere di più che
essere il sommo tra i più illustri?» mi si dirà.
Il fatto è
che, avendolo conosciuto così giovane, credo che meritasse molto di più di
quella vita - per quanto gloriosa -, nel corso della quale non credo che Picasso uomo abbia realizzato tutto
quello che aveva in sé.
Certamente i
mercanti e coloro che si sono autoconsacrati sacerdoti della sua religione gli
hanno fatto un grandissimo torto (un po’ come i proustiani hanno fatto venire a
molta gente la nausea di Marcel Proust). Quando parlo di mercanti lascio da
parte Rosenberg; quando egli, alla fine, partì per l’America, lasciò Picasso
libero di occuparsi della divulgazione della propria pittura, abbandonandolo
inerme nelle mani di quella specie di amici che vi fanno fare solo importanti e
gravi sciocchezze...
Rosenberg avrà
anche ammucchiato dei Picasso nelle sue cantine in attesa che i prezzi
decuplicassero, tirandoli fuori solo col contagocce. Ma almeno seppe scegliere
con un fiuto meraviglioso i quadri migliori, ed ebbe l’abilità di esperii a
ragion veduta. Le sue mostre offrivano al pubblico qualche decina di tele
abilmente selezionate e messe splendidamente in risalto dalle cornici, dalla
disposizione e dal colore dello sfondo, che donavano loro quell’aspetto raro e
prezioso di cui questa pittura (malgrado i prezzi richiesti) aveva un assoluto
bisogno. Almeno la percezione dell’importanza dell’opera di Picasso era ancora
circoscritta a un nucleo di collezionisti che era perfettamente plausibile
provassero interesse per lui. Ahimè! poco dopo la guerra andai a una di quelle
grandi esposizioni ufficiali al Museo d’Arte Moderna, quai de Tokio: ai quadri
di Picasso era riservata un’immensa sala dai muri nudi e freddi; erano appesi a
chiodi e ganci senza alcuna cornice e come a casaccio, secondo le dimensioni o
l’ordine d’arrivo.
Ero appena
entrata in quella sala che una vera e propria angoscia mi strinse il cuore. Una
folla di perdigiorno, di macellai e di erbivendoli vagava là dentro
sganasciandosi dalle risate davanti all’una o all’altra di quelle povere tele
consegnate tutte nude alla pubblica idiozia... Avevo il senso d’un sacrilegio.
Lacrime che ero incapace di controllare colavano scioccamente dai miei occhi
increduli davanti a un tale massacro... Un guardiano, stile Courteline, mi batté
gentilmente sulla spalla per dirmi: «Su, su, signora mia, non bisogna
prendersela... Che direste allora se, come me, foste obbligata a star qui tutto
il giorno!».
L’uomo del
sipario di Parade, della scenografia
di Tricorne, l’amico di cui seguivo
da più di trent’anni la battaglia che ingaggiava continuamente con se stesso,
aveva acconsentito a tutto questo...! (All’improvviso mi ricordai di una sua
minuscola tela, una tauromachia di un verde ideale, per la quale avevo trovato
una cornice talmente perfetta che per anni quei pochi centimetri di pittura mi
erano sembrati l’oggetto più prezioso del mondo...).
Sipario per Parade, by Pablo Picasso (1917) |
Poco dopo aver
visitato quella sinistra Esposizione provai il bisogno di andare a trovare
Picasso nel suo studio in rue des Grands-Augustins. Sentivo il bisogno di
trovarmi faccia a faccia con l’uomo, l’amico che m’aveva scelta come testimone
alle sue nozze, come madrina del suo primo figlio. Attraversai il grande
cortile lastricato del palazzo povero e sontuoso che gli si addiceva tanto e
salii i gradini di una delle più belle scale di Parigi per accedere al
pianerottolo dove lavorava. Mi mostrò le alte stanze dai soffitti sostenuti da
travi enormi, gli angoli - il suo tesoro che accoglieva statuette d’arte negra,
oggetti semplici scolpiti in materiali levigati dai secoli - e più in là, con
una gioia infantile, la vasca da bagno e i lavabi nei quali, appena ebbe girato
i rubinetti, scese un’acqua così bollente che ci trovammo istantaneamente in un
bagno di vapore! (Di quest’ultimo dettaglio era particolarmente orgoglioso... e
a ragione, se ci si raffronta a un periodo in cui il carbone e il riscaldamento
rappresentavano il colmo del lusso!).
Con le sue
mani commoventi, staccò dal muro i quadri per metterli alla portata della mia
vista indebolita. Ce n’erano decine e decine... Come mi sarebbe piaciuto
potergli dire che li adoravo! Come sarebbe stato felice di vedermene portare
via uno!... Ahimè! Di tutto ciò che faceva in quel periodo non c’era una sola
tela di fronte alla quale avrei potuto vivere. L’amavo infinitamente troppo per
essere capace di barare con lui sui miei sentimenti. Quando mi riaccompagnò
alla porta e mi abbracciò, vidi i suoi grandi occhi limpidi velarsi di
lacrime... cosa non avrei dato per potergli dire: «Adoro quella tela la...».
Mi ritrovai in
macchina; piangevo senza ritegno per tutto ciò che non era stato...
La mostra dei
quadri senza cornici corrispondeva pressappoco all’epoca in cui Picasso s’era
iscritto al partito comunista. Aveva finito per farlo probabilmente per
stanchezza, a forza d’essere sollecitato dalla gente che gli stava intorno.
Forse fu lui il più sorpreso di tutti nel vedere, un bel mattino, la sua fotografia
e il suo nome campeggiare più o meno su tutta la prima pagina dell’«Humanité».
Si vede che, un giorno che era in vena di firme (cosa che gli succedeva il meno
possibile, data la sua ripugnanza per ogni decisione...), ne avevano
approfittato per fargli firmare una scheda d’adesione!
Picasso
comunista, che bandiera per i Soviet! E cosa poteva esserci di più logico da
parte loro che sfruttare al massimo un nome tanto prestigioso?... Ma qui
cominciava il pericolo. Picasso era da tempo la bandiera di se stesso. Perché
limitarsi a un partito e diventare il suo migliore strumento di propaganda? Che
Picasso sia «a sinistra», anzi completamente di sinistra, ringraziamo Iddio!
Ma, è forse questo, per un artista, motivo valido per farsi prigioniero della
più rigida delle dottrine? Picasso se ne è reso conto molto presto: tuttavia
l’enorme peso che lui rappresentava era già stato buttato sulla bilancia.
Che
responsabilità spaventosa! Quante migliaia di intellettuali, di giovani ansiosi
di rendersi utili avevano già seguito senza la minima esitazione colui che
ammiravano con ardore?... Forse, la sua decisione egli l’ha revocata con la
stessa facilità con cui l’aveva presa... ma gli altri, hanno potuto permettersi
un gesto del genere?
Questa
sensazionale adesione ha ricordato a molti nostri amici quella di Gide. Conosco
André Gide fin dall’infanzia. Una prolungata - e quanto penosa! - crisi di
coscienza l’aveva portato a vedere la verità (o quello che lui credeva le fosse
più vicino) nel comunismo. Dopo il suo viaggio in URSS aveva aperto gli occhi.
Resosi conto della portata e delle dimensioni del suo errore, attraversò ancora
una volta un’atroce crisi spirituale e si sentì in dovere di pubblicare subito
un libro la cui stesura dovette essere un vero e proprio calvario. Sebbene per
me sia sempre stato un amico, io non mi sento vicina a Gide: il suo rigido
protestantesimo, le sue lunghe dispute con se stesso sono l’opposto di quanto
mi attrae. L’amore, secondo me, è una rivelazione accecante che si impone in
maniera talmente evidente che non c’è più ragione di discuterne. Ma Gide è uno
scrittore, un filosofo. Mi reputerei molto sciocca se non riconoscessi tutta l’importanza
della sua opera e, per di più, ho una particolare stima di lui per la sincerità
che ha dimostrato in tutto.
In un secolo
in cui non si parla che di persone ‘impegnate’, probabilmente era necessario
che un pensatore della statura di André Gide definisse la propria posizione
riguardo una dottrina che sta sconvolgendo il mondo. Ma Picasso?... Che andava
a fare in quella galera? Nessuno può obbligare un pittore a impugnare una
bandiera politica...
So benissimo
che oggi la regola è che i musicisti facciano dell’architettura, i pittori
della letteratura, gli scrittori della scultura, ecc... Per quanto mi riguarda,
ho orrore dei pasticci. Non che non mi piaccia scherzare, ma ho sempre trovato
giusto che ci siano dei limiti. Credo che, a forza di estenderli, e col povero
pretesto di fare scalpore, si è spesso arrivati sull’orlo del baratro. Se
Picasso si diverte a dire a qualche amico: «Anch’io posso scrivere un lavoro
teatrale» e a scrivere una farsa in cinque atti intitolata Le désir attrapé par la queue, non ci vedo niente di male, e
probabilmente se fossi stata presente l’avrei anche trovato molto divertente.
Che ci sia un editore così balordo da pubblicare questa ingenua farsa
goliardica e farne un’edizione su carta di lusso speculando sul nome
dell’autore, questo mi sembra molto stupido (a maggior ragione se si tiene
conto che Picasso aveva superato l’età per questi divertimenti). Ma che poi si
arrivi a spingere il «perché non autore drammatico?... perché non ceramista?...
perché non... ecc. » fino al «perché non comunista?» ... a questo punto mi
rifiuto di stare al gioco. Un uomo della sua levatura ha, di fronte alle nuove
generazioni, una responsabilità che è funzione diretta della sua fama.
Non bisogna
credere, con questo, che a causa della sua celebrità io neghi a Picasso il
diritto di fare quel che gli pare e di distrarsi come più gli piace. Nessuno
più di me sarà mai per l’assoluta libertà in ogni campo.
Nello stesso
tempo ho sempre pensato che un grande destino comporti enormi doveri. Perché
coloro che diventano un polo di attrazione trascinano inevitabilmente nella
loro scia una quantità di uomini. Intorno a quelli che, come Picasso, hanno
avuto in dono alla nascita un po’ di luce, si riuniscono un’infinità di giovani
che cercano, lontano dallo spirito dei partiti che li hanno sempre ingannati,
di trovare qualcosa in cui credere. La fede (non uso affatto questo termine nel
suo significato religioso) è un bisogno essenziale. Che incubo sarebbe un mondo
in cui non ci fossero che disincantati! E come non capire, stando così le cose,
che la libertà di alcuni privilegiati deve arrestarsi là dove comincerebbe a distruggere
il pensiero di quelli che credono in loro?
Per quanto
strano possa sembrare, Picasso ha sempre avuto ai miei occhi il colore della
tenerezza, e la sua tavolozza aveva tutte le sfumature essenziali per esprimere
l’amore.
Certe cose non
si perdonano solo a chi si ama più profondamente. Forse è quanto succede a me
nei riguardi di Picasso. I suoi veri amici sono stati anche i miei. Non posso
parlare di lui se non con loro. Non sopporto più né i suoi detrattori né i suoi
sedicenti ‘difensori’. Ci sarà della gente che vi dirà: «Misia trova ridicoli i
piatti di Picasso». Non è assolutamente vero. Anzi, alcuni mi piacciono molto.
E penso che avrebbe fatto malissimo a non farli, se ne aveva voglia. In
compenso, sono convintissima che mentre li faceva non pensava di venderli a
trecentomila franchi. Credo anche che se ci avessimo mangiato, tête-à-tête, del
manzo lesso e il cameriere ne avesse rotti un paio, Picasso si sarebbe fatto
una gran risata. Ma queste sono cose che non provo neanche a spiegare ai ‘picassisti’...
come molte altre.
Oltre a
Reverdy, Max Jacob è stato uno dei pochissimi che l’hanno realmente conosciuto
e amato. Povero Max Jacob! Nello spaventoso disordine delle poche carte che il
caso ha lasciato nei miei cassetti, di lui ritrovo soltanto - a parte quelle
quartine che mi aveva scritto per Marcelle Meyer - una lettera terrificante, l’ultima,
datata 1944. In miseria, braccato nel suo villaggio di Saint-Benoît, viveva là i suoi ultimi giorni prima dell’orrenda morte a Drancy:
«Nella mia
angoscia, chiedo aiuto... l’amicizia che mi avete tanto spesso dimostrato mi
torna abbastanza forte alla memoria perché io abbia l’audacia di rattristarvi
con lo spettacolo del mio dolore... la casa di famiglia saccheggiata, distrutta
con tutti i ricordi della mia infanzia. La mia sorella più grande è morta di
dolore. Mio cognato morto in un campo di concentramento. Mio fratello portato
in prigione... Ho sopportato tutto, rassegnato alla maledizione della mia
povera razza! Ma ora il colmo dell’orrore: la mia sorella più giovane, la mia
preferita, quella che chiamavo “piccola mia” è stata arrestata senza una
ragione, portata prima al carcere provvisorio e poi a Drancy. È per lei che
chiedo il vostro intervento, prima che venga deportata in Germania e che ci
muoia in qualche cella... La poveretta non ha conosciuto che disgrazie, il suo
unico figlio è in un manicomio.
«Cara amica,
permettetemi di baciarvi le mani, l’orlo del vestito... Vi supplico, fate
qualcosa...».
Mi ricordo che
nel trovare questa povera lettera mi salirono agli occhi lacrime di
indignazione e di pietà. La sola consolazione che ebbi nel dolore che provavo
per quell’uomo così buono sul quale si accanivano tutto l’orrore e la crudeltà
degli uomini fu di constatare che il cuore di Sert non era invecchiato di un
solo anno nei quaranta che lo conoscevo. Appena l’ebbi messo a parte della
lettera, senza pensare neanche per un istante a tutte le noie che poteva
attirarsi intervenendo in favore di un ebreo sotto il terrore tedesco, mise
immediatamente in moto tutte le persone influenti che era in grado di
manovrare. Ahimè! Il povero Max fu trascinato a Drancy e l’ordine di
liberazione che Sert riuscì a ottenere arrivò troppo tardi.
Non una sola
volta, nel corso di quei quattro anni di dure prove, ho visto Sert rimanere
insensibile davanti a una disgrazia o a un’ingiustizia, qualunque fossero la
nazionalità, la razza o il partito di chi le subiva. Come a vent’anni, era
rimasto uno di quegli uomini per i quali contano soltanto il valore individuale
e la creatura umana.
Reverdy non si
era ingannato quando, trent’anni prima, mi scriveva di lui: «... Io so che vita
è la sua e voi dovete pensare, vista quella che ho scelto io, fino a che punto
io possa apprezzarla. Quella nobiltà d’atteggiamento, quell’ardore paziente e
discreto durante il lavoro e la grandezza di questo lavoro fanno della sua vita
una bella linea senza fratture... Il tempo che passa, cara Misia, non è niente
in confronto a quello che perdura...».
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