Man Ray [Emmanuel Radnitzsky]
Autoritratto
1963 Man Ray
1975
Gabriele Mazzotta editore
Traduzione dall’inglese di Maura Pizzorno
pp.
182-189
Picasso mi dava l’impressione
di un uomo consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui e nel mondo in generale,
un uomo che reagiva violentemente a tutte le avversità, ma aveva un solo
strumento per esprimere i suoi sentimenti: la pittura. Le brevi frasi
epigrammatiche o enigmatiche che di tanto in tanto pronunciava evidenziavano
solo la sua impazienza di fronte agli altri mezzi espressivi. E queste poche
parole, quasi esclusivamente relative alla pittura, esprimevano chiaramente, a
rifletterci un poco, la sua filosofia e il suo atteggiamento verso la vita.
La prima volta che m’incontrai
con lui fu per fotografare le sue ultime opere, agli inizi degli anni Venti.
Come sempre quando avevo una lastra in più, la utilizzai per il ritratto dell’artista.
La fotografia in sé non era niente di speciale, ma colpiva per lo sguardo
intenso e intransigente di quell’uomo, per quegli occhi neri che ti
soppesavano. Era basso di statura e piuttosto tarchiato, non praticava in
genere esercizi fisici, ma amava nuotare e passeggiare con il cane. In città lo
si incontrava soltanto subito dopo pranzo, quando usciva per la sua passeggiata.
Evitava con la massima cura gli appuntamenti precisi, fissati per un’ora
stabilita.
Venni invitato a
colazione, e portai la macchina per fotografare la moglie Olga, un’ex ballerina
russa, e il figlioletto Paul. Quando il loro matrimonio fallì, smise di
lavorare in quella casa, che rimase chiusa, coi sigilli alle porte, per tutta
la durata della causa di divorzio. I suoi avvocati erano disperati perché non
tentava neanche di aiutarli a ottenere la separazione legale. Per un paio d’anni
dovette rinunciare a dipingere giacché, fino a quando il procedimento legale
era in corso e non si raggiungeva un accordo, era previsto il sequestro di ogni
suo nuovo quadro. Per lui fu una privazione tremenda. Si mise a scrivere,
riempiendo pagine e pagine d’incoerenti frasi in spagnolo, con una scrittura
che sembrava aggredire la carta e somigliava al suo modo di disegnare. Anche lo
scritto, come qualsiasi sua produzione, apparve immediatamente su una rivista d’arte,
insieme a uno degli ultimi ritratti eseguiti da me. Quando il direttore di una
grande rivista americana chiese l’autorizzazione a pubblicare parte del
manoscritto, a qualsiasi prezzo, rifiutò. Mi pregarono di intercedere presso di
lui, e alla fine acconsentì, ma solo a condizione che venisse pubblicato anche
il ritratto che gli avevo fatto, e per il quale dovevo poi ricevere un lauto
compenso; lui soldi non ne voleva. Dopo qualche tempo apparve la mia foto, ma
non il manoscritto. Mi dissero poi che l’avevano fatto tradurre in inglese, ma
era così pieno di oscenità che era impossibile pubblicarlo.
Picasso promise di
farmi un ritratto a penna per il mio album di ritratti, ormai in via di
pubblicazione. Andai a posare da lui in una stanza priva di riscaldamento - era
gennaio - e mi tenni il cappotto.
Lui stava accovacciato
su uno sgabellino, con una bottiglia d’inchiostro sul pavimento e un album
sulle ginocchia. Immergeva la penna nell’inchiostro, incurante delle macchie
sulle dita, e il pennino strideva sulla carta. Lavorò per circa un’ora con fare
maldestro, come uno studente per la prima volta alle prese con un disegno.
Conoscendo la sicurezza e la rapidità con cui sapeva lavorare, ero veramente
stupito. A un certo punto mise album e penna da parte, si alzò e cominciò a
prepararsi una sigaretta; mi disse intanto di riposarmi. Si rimise al lavoro
con la stessa aria incerta, borbottando ogni tanto tra sé. Si inumidì il dito
con la lingua e lo strofinò sul disegno, ripetendo più volte l’operazione: alla
fine lingua, labbra e dita erano tutte macchiate d’inchiostro. Dopo un ultimo
tocco borbottò che non sapeva se avrei potuto servirmi di quel disegno; per
lui, potevo anche buttarlo via. Protestai: l’avrei dato al tipografo senza
neanche guardarlo; la sua firma mi bastava; se non aveva obiezioni alla
pubblicazione, non ne avevo nemmeno io. A volerlo giudicare in base a criteri
accademici, quel disegno era un vero pasticcio. E dire che sapeva disegnare
meravigliosamente con un solo tratto di penna. Ma quel disegno lo aveva fatto
faticare, e l’idea mi piaceva molto. Inoltre dentro c’era molto, moltissimo di
me, colto lì in piedi col mio cappotto addosso, e qualsiasi occhio inesperto se
ne sarebbe accorto, soprattutto un occhio inesperto. Presi dunque il disegno,
che apparve sul frontespizio del mio album, con la stessa accettazione acritica
con cui Picasso accettava la mia persona e il mio lavoro. Non si discute la
firma su un assegno se il firmatario ha un solido conto in banca, pensavo, e
così non si discute la reputazione di Picasso. Alcuni anni dopo, avendo bisogno
di denaro, vendetti quel disegno a un collezionista. Sono convinto che lo
comprò per la firma; e forse anche, oso sperare, perché era il mio ritratto.
Durante gli anni Trenta
conobbi la bellissima Dora Maar, un’abilissima fotografa che in certi lavori
dava prova di molta originalità e di un approccio un po’ surrealista. Picasso
se ne era innamorato. Un giorno vide nel mio studio un suo ritratto e mi
supplicò di darglielo, promettendomi qualcosa in cambio. Lusingato dall’interesse
che manifestava per quella foto, gliela regalai e dimenticai l’episodio. Un
mese dopo arrivò con un rotolo sotto il braccio: era una delle prime copie
numerate della sua acquaforte, Tauromachia,
con dedica autografa. Picasso non dimenticava mai nulla.
A quel tempo lavorava
nel solaio di un vecchio convento sulle rive della Senna. In Spagna infuriava
la guerra civile. Quando ci giunse la notizia del bombardamento di Guernica,
Picasso ne fu sconvolto. Dai tempi della prima guerra mondiale, mai fino a quel
momento aveva reagito con tanta violenza agli avvenimenti del mondo esterno.
Ordinò una grande tela e cominciò a dipingere la sua versione della strage di
Guernica. Lavorava febbrilmente tutti i giorni, usando solo il nero, il grigio
e il bianco: troppo grande era la sua collera per curarsi di finezze cromatiche
o di problemi di armonia e di composizione. Ogni giorno ritornava sulle zone
già dipinte non per migliorarle, ma per esprimere una nuova idea su quell’unica
tela. Quando ebbe sfogato in parte la sua rabbia e considerò terminato il
dipinto, continuò a fare disegni brutali: volti di donne in lacrime, teste di
animali agonizzanti. Alcuni anni dopo, quando Guernica fu esposta in un museo,
provai una sofferenza quasi fisica a sentire un professore di storia dell’arte
che con tutta calma spiegava agli alunni come una certa verticale fosse
compensata da una certa orizzontale. E i disegni furono esposti come studi per
la tela, mentre in realtà il rapporto era stato capovolto. Picasso non
accettava nessuna regola fissa.
Nei tre anni che precedettero
l’ultima guerra, d’estate ci riunivamo sempre sulle spiaggie del sud della
Francia, come una famiglia felice: io e la mia amica Adrienne, il poeta Paul
Eluard e la moglie Nusch, Roland Penrose e la futura moglie Lee Miller, Picasso
con Dora Maar e il suo afgano Kasbech. Alloggiavamo tutti alla pensione Vastes
Horizons, nella campagna del Mougins sopra Antibes. Dopo la mattinata al mare e
la lenta piacevole colazione consumata all’ombra di un pergolato d’uva, ci
ritiravamo nelle nostre stanze per riposare o magari fare all’amore. Ma non
trascuravamo il lavoro. Alla sera Eluard ci leggeva la sua ultima composizione,
Picasso ci mostrava un ritratto di Dora con gli occhi stellati, io ero
impegnato in una serie di disegni stravaganti ma realisti, raccolti poi, con le
poesie di Paul Eluard, in un volume intitolato Les Mains Libres. Dora, che a Parigi aveva fotografato Picasso
mentre dipingeva Guernica, aveva
abbandonato la fotografia per la pittura, facendo cioè esattamente il contrario
di quanto raccontò poi un biografo di Picasso, secondo il quale un pittore,
dopo aver visto l’opera di Picasso, aveva abbandonato i pennelli e si era dato
alla fotografia.
Il disegno e la pittura
erano una sorta di pausa rispetto alla fotografia, a cui non avevo tuttavia
intenzione di sostituirli. È stato sempre irritante per me sentirmi chiedere,
secondo l’attività del momento, se avevo deciso di abbandonare l’una per
dedicarmi all’altra. Non esisteva nessun conflitto tra le due attività: perché
la gente non riesce a capire che una persona può impegnarsi in due attività nel
corso della sua esistenza, alternativamente o simultaneamente? Ciò che c’è sotto
è indubbiamente il giudizio che la fotografia non è allo stesso livello della
pittura, non è un’arte. È un argomento controverso dai tempi dell’invenzione
della fotografia, e la questione mi lasciava del tutto indifferente. Per
evitare discussioni, avevo apertamente dichiarato che la fotografia non è arte,
e avevo pubblicato un opuscolo con questa dichiarazione per titolo, tra la
costernazione e la riprovazione dei fotografi. Quando più di recente mi hanno
chiesto se ero ancora dello stesso parere, ho dichiarato che avevo leggermente
modificato la mia posizione: secondo me, l’arte non è fotografia.
Non mi piaceva
dipingere in un luogo estraneo, e per questo presi ad Antibes un appartamentino
con una bella terrazza, ove potevo rifugiarmi a dipingere quando il mio lavoro
di fotografo a Parigi mi lasciava un po’ di respiro. Le nostre estati idilliche
non durarono a lungo. Si andavano addensando le nuvole della guerra. Con toni
sempre più arroganti Mussolini minacciava d’invadere il sud della Francia e di
riprendersi un territorio che secondo lui spettava di diritto all’Italia. Poi
gli accordi di Monaco rimandarono di un anno lo scoppio della guerra. Intanto
mi ero comprato una casetta in campagna, nei pressi di Parigi, per evitare di
trascurare il lavoro con assenze troppo prolungate dallo studio. Poiché l’avvenire
era così incerto, rinunciai al progetto di passare gran parte del mio tempo nel
sud, e Picasso, quando glielo dissi, si offerse di subentrare nel mio
appartamento di Antibes. Gli girai il mio contratto e imballai le mie cose,
compresi tele e colori. Stavo per staccare dal muro una composizione di carta
gualcita e ripiegata, sugheri e pezzi di spago, quando Picasso mi chiese di
lasciargliela, se potevo, perché gli piaceva molto. Proprio nulla di quel che
faccio va perduto, pensai, c’è sempre almeno una persona al mondo cui
interessa. Per conservare una testimonianza di quella composizione, prima di
partire ne feci una copia esatta, a olio, che intitolai Trompe-l’oeil.
Pochi giorni dopo andai
a salutare Picasso, che si era sistemato nell’appartamento mentre io mi ero
trasferito in una camera d’albergo. Si era già messo al lavoro. Tutti i mobili
della stanza più spaziosa erano scomparsi, e una grande tela era fissata alla
parete. L’aveva divisa in una ventina di quadrati, come una scacchiera, e in
ognuno di essi dipingeva una natura morta, variazioni d’uno stesso tema. Arrivò
intanto anche il gallerista di Parigi, per gli ultimi accordi sulla prossima
mostra. Guardò le nature morte, osservò i vasetti di colore, ciascuno con un
pennello dentro, e alla fine domandò se erano resistenti - chiaramente non
erano colori di marca, li aveva acquistati nel negozietto più vicino. Picasso
si strinse nelle spalle e disse che non era affar suo; riguardava semmai i collezionisti
e quelli che investivano denaro in opere d’arte. Non era una posa. Una volta
gli vidi comprare in un negozio l’intera gamma dei colori migliori e più
costosi. Per lui era soltanto una questione di disponibilità, di non perdere
tempo quando era posseduto dal desiderio di dipingere.
[...]
Non rividi Picasso che
dopo il mio ritorno in Francia, negli anni Cinquanta. Era rimasto nel sud
mentre io ero a Parigi, occupato dal mio lavoro, finché, quando la Francia fu
invasa, me ne tornai negli Stati Uniti. Quindici anni dopo andai a trovarlo nella
nuova villa nei dintorni di Cannes. Gli telefonai il mattino stesso del mio
arrivo, e mi chiese di raggiungerlo senza perdere un minuto, perché doveva
recarsi subito a Nizza, dove giravano un film su di lui. Risalii la collina e
suonai al cancello della villa. Mi abbracciò affettuosamente, come se non
fossero passati tutti quegli anni: nulla era cambiato. La casa era immensa,
costruita da un pretenzioso commerciante di vini, che aveva fatto fortuna. Il
giardino, tenuto con molta cura, era costellato dei bronzi più provocatori di
Picasso, che sembravano schernire il gusto barocco del vecchio proprietario. L’interno
era tutto dipinto di bianco, così da nascondere i pesanti elementi decorativi.
Dappertutto casse ancora chiuse, tele voltate contro la parete, alla quale era
appeso un unico dipinto senza cornice: un ritratto di Jacqueline, la nuova
moglie di Picasso. Vicino alla porta che dava sul giardino c’era un vecchio
divano e, al centro della stanza, una poltrona a dondolo di legno, gli unici
sedili disponibili. Una collezione di sculture africane era ammassata alla
rinfusa sopra un grande tavolo. In quel museo d’arte primitiva Picasso riuscì a
scovare un piccolo pastello, un nudo disteso, racchiuso in una cornice dorata,
e mi chiese se me ne ricordavo. Gli dissi di no, e lui mi spiegò che l’avevo
lasciato nella casa di Antibes prima della guerra. Quel pastello l’avevo fatto
in un momento di ozio, senza attribuirgli alcuna importanza. Decisamente
Picasso non dimenticava mai nulla. (A questo punto credo che sarebbe conforme
alle buone maniere scusarmi della mia apparente immodestia. Devo tuttavia
ricordare che sto facendo un autoritratto, e gli autoritratti, ad esclusione di
rari esemplari impressionisti, sono sempre lusinghieri.)
Durante il breve
soggiorno a Cannes Picasso mi invitò a pranzo insieme a mia moglie Juliet. Alla
fine del pasto, semplice e casalingo, tirò fuori una bottiglia di vodka e
qualcuna di champagne. Non beveva mai, ma prese una coppa di champagne per
brindare all’avvenimento, mentre Juliet dava fondo alla vodka. Maya, una bionda
adolescente, figlia di Picasso e di una sua antica amante, mise un disco di
musica da ballo, e Juliet prese a danzare da sola, miniando e mettendo in
caricatura le movenze di una ballerina classica. Picasso, sprofondato nella sua
poltrona in muta contemplazione, mi rammentava una delle sue prime acquaforti,
con il re Erode che ammira la danza di Salomé. Passammo con Picasso un altro
pomeriggio, in giardino, insieme a Maya e a un vecchio amico, un torero a
riposo. Scattai delle foto di gruppo, poi tornammo a Parigi
Ormai Picasso non viene
più a Parigi. L’ho rivisto durante uno dei miei recenti viaggi nel sud, in
occasione di una corrida in suo onore, a Vallauris. Ci siamo stretti la mano.
Era attorniato da personalità e da fotografi, ma il suo sguardo penetrante
sembrava dire: arrivederci al nostro prossimo incontro, in un momento più
tranquillo. Sembra non invecchiare mai; il tempo può ancora aspettare finché
non avremo occasione d’incontrarci di nuovo. Contrariamente a molti altri che l’hanno
avvicinato, e lui si è sempre mostrato generoso, io non gli ho mai chiesto un
piacere, né lui l’ha mai chiesto a me; se tra noi c’era anche solo il sospetto
di un favore ricevuto, si cercava subito di ricambiare. Io, forse, mi sdebitavo
per orgoglio, Picasso per la sua grande umiltà.
Ballo da Etienne de Beaumont Picasso e Olga Khokhlova, 1924 ca |
Picasso, by Man Ray (1932) |
Picasso e Kazbek, 1935 |
Ady Fidelin, Myriam e Paul Cuttoli, Picasso e Dora Maar davanti: Man Ray - Antibes, 1937 |
foto di Man Ray |
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