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giovedì 18 settembre 2014

Picasso visto da Man Ray

Testa di toro, 1942

Man Ray [Emmanuel Radnitzsky]
Autoritratto
1963 Man Ray
1975 Gabriele Mazzotta editore
Traduzione dall’inglese di Maura Pizzorno
pp. 182-189

Picasso mi dava l’impressione di un uomo consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui e nel mondo in generale, un uomo che reagiva violentemente a tutte le avversità, ma aveva un solo strumento per esprimere i suoi sentimenti: la pittura. Le brevi frasi epigrammatiche o enigmatiche che di tanto in tanto pronunciava evidenziavano solo la sua impazienza di fronte agli altri mezzi espressivi. E queste poche parole, quasi esclusivamente relative alla pittura, esprimevano chiaramente, a rifletterci un poco, la sua filosofia e il suo atteggiamento verso la vita.
La prima volta che m’incontrai con lui fu per fotografare le sue ultime opere, agli inizi degli anni Venti. Come sempre quando avevo una lastra in più, la utilizzai per il ritratto dell’artista. La fotografia in sé non era niente di speciale, ma colpiva per lo sguardo intenso e intransigente di quell’uomo, per quegli occhi neri che ti soppesavano. Era basso di statura e piuttosto tarchiato, non praticava in genere esercizi fisici, ma amava nuotare e passeggiare con il cane. In città lo si incontrava soltanto subito dopo pranzo, quando usciva per la sua passeggiata. Evitava con la massima cura gli appuntamenti precisi, fissati per un’ora stabilita.
Venni invitato a colazione, e portai la macchina per fotografare la moglie Olga, un’ex ballerina russa, e il figlioletto Paul. Quando il loro matrimonio fallì, smise di lavorare in quella casa, che rimase chiusa, coi sigilli alle porte, per tutta la durata della causa di divorzio. I suoi avvocati erano disperati perché non tentava neanche di aiutarli a ottenere la separazione legale. Per un paio d’anni dovette rinunciare a dipingere giacché, fino a quando il procedimento legale era in corso e non si raggiungeva un accordo, era previsto il sequestro di ogni suo nuovo quadro. Per lui fu una privazione tremenda. Si mise a scrivere, riempiendo pagine e pagine d’incoerenti frasi in spagnolo, con una scrittura che sembrava aggredire la carta e somigliava al suo modo di disegnare. Anche lo scritto, come qualsiasi sua produzione, apparve immediatamente su una rivista d’arte, insieme a uno degli ultimi ritratti eseguiti da me. Quando il direttore di una grande rivista americana chiese l’autorizzazione a pubblicare parte del manoscritto, a qualsiasi prezzo, rifiutò. Mi pregarono di intercedere presso di lui, e alla fine acconsentì, ma solo a condizione che venisse pubblicato anche il ritratto che gli avevo fatto, e per il quale dovevo poi ricevere un lauto compenso; lui soldi non ne voleva. Dopo qualche tempo apparve la mia foto, ma non il manoscritto. Mi dissero poi che l’avevano fatto tradurre in inglese, ma era così pieno di oscenità che era impossibile pubblicarlo.
Picasso promise di farmi un ritratto a penna per il mio album di ritratti, ormai in via di pubblicazione. Andai a posare da lui in una stanza priva di riscaldamento - era gennaio - e mi tenni il cappotto.
Lui stava accovacciato su uno sgabellino, con una bottiglia d’inchiostro sul pavimento e un album sulle ginocchia. Immergeva la penna nell’inchiostro, incurante delle macchie sulle dita, e il pennino strideva sulla carta. Lavorò per circa un’ora con fare maldestro, come uno studente per la prima volta alle prese con un disegno. Conoscendo la sicurezza e la rapidità con cui sapeva lavorare, ero veramente stupito. A un certo punto mise album e penna da parte, si alzò e cominciò a prepararsi una sigaretta; mi disse intanto di riposarmi. Si rimise al lavoro con la stessa aria incerta, borbottando ogni tanto tra sé. Si inumidì il dito con la lingua e lo strofinò sul disegno, ripetendo più volte l’operazione: alla fine lingua, labbra e dita erano tutte macchiate d’inchiostro. Dopo un ultimo tocco borbottò che non sapeva se avrei potuto servirmi di quel disegno; per lui, potevo anche buttarlo via. Protestai: l’avrei dato al tipografo senza neanche guardarlo; la sua firma mi bastava; se non aveva obiezioni alla pubblicazione, non ne avevo nemmeno io. A volerlo giudicare in base a criteri accademici, quel disegno era un vero pasticcio. E dire che sapeva disegnare meravigliosamente con un solo tratto di penna. Ma quel disegno lo aveva fatto faticare, e l’idea mi piaceva molto. Inoltre dentro c’era molto, moltissimo di me, colto lì in piedi col mio cappotto addosso, e qualsiasi occhio inesperto se ne sarebbe accorto, soprattutto un occhio inesperto. Presi dunque il disegno, che apparve sul frontespizio del mio album, con la stessa accettazione acritica con cui Picasso accettava la mia persona e il mio lavoro. Non si discute la firma su un assegno se il firmatario ha un solido conto in banca, pensavo, e così non si discute la reputazione di Picasso. Alcuni anni dopo, avendo bisogno di denaro, vendetti quel disegno a un collezionista. Sono convinto che lo comprò per la firma; e forse anche, oso sperare, perché era il mio ritratto.
Durante gli anni Trenta conobbi la bellissima Dora Maar, un’abilissima fotografa che in certi lavori dava prova di molta originalità e di un approccio un po’ surrealista. Picasso se ne era innamorato. Un giorno vide nel mio studio un suo ritratto e mi supplicò di darglielo, promettendomi qualcosa in cambio. Lusingato dall’interesse che manifestava per quella foto, gliela regalai e dimenticai l’episodio. Un mese dopo arrivò con un rotolo sotto il braccio: era una delle prime copie numerate della sua acquaforte, Tauromachia, con dedica autografa. Picasso non dimenticava mai nulla.
A quel tempo lavorava nel solaio di un vecchio convento sulle rive della Senna. In Spagna infuriava la guerra civile. Quando ci giunse la notizia del bombardamento di Guernica, Picasso ne fu sconvolto. Dai tempi della prima guerra mondiale, mai fino a quel momento aveva reagito con tanta violenza agli avvenimenti del mondo esterno. Ordinò una grande tela e cominciò a dipingere la sua versione della strage di Guernica. Lavorava febbrilmente tutti i giorni, usando solo il nero, il grigio e il bianco: troppo grande era la sua collera per curarsi di finezze cromatiche o di problemi di armonia e di composizione. Ogni giorno ritornava sulle zone già dipinte non per migliorarle, ma per esprimere una nuova idea su quell’unica tela. Quando ebbe sfogato in parte la sua rabbia e considerò terminato il dipinto, continuò a fare disegni brutali: volti di donne in lacrime, teste di animali agonizzanti. Alcuni anni dopo, quando Guernica fu esposta in un museo, provai una sofferenza quasi fisica a sentire un professore di storia dell’arte che con tutta calma spiegava agli alunni come una certa verticale fosse compensata da una certa orizzontale. E i disegni furono esposti come studi per la tela, mentre in realtà il rapporto era stato capovolto. Picasso non accettava nessuna regola fissa.

Nei tre anni che precedettero l’ultima guerra, d’estate ci riunivamo sempre sulle spiaggie del sud della Francia, come una famiglia felice: io e la mia amica Adrienne, il poeta Paul Eluard e la moglie Nusch, Roland Penrose e la futura moglie Lee Miller, Picasso con Dora Maar e il suo afgano Kasbech. Alloggiavamo tutti alla pensione Vastes Horizons, nella campagna del Mougins sopra Antibes. Dopo la mattinata al mare e la lenta piacevole colazione consumata all’ombra di un pergolato d’uva, ci ritiravamo nelle nostre stanze per riposare o magari fare all’amore. Ma non trascuravamo il lavoro. Alla sera Eluard ci leggeva la sua ultima composizione, Picasso ci mostrava un ritratto di Dora con gli occhi stellati, io ero impegnato in una serie di disegni stravaganti ma realisti, raccolti poi, con le poesie di Paul Eluard, in un volume intitolato Les Mains Libres. Dora, che a Parigi aveva fotografato Picasso mentre dipingeva Guernica, aveva abbandonato la fotografia per la pittura, facendo cioè esattamente il contrario di quanto raccontò poi un biografo di Picasso, secondo il quale un pittore, dopo aver visto l’opera di Picasso, aveva abbandonato i pennelli e si era dato alla fotografia.
Il disegno e la pittura erano una sorta di pausa rispetto alla fotografia, a cui non avevo tuttavia intenzione di sostituirli. È stato sempre irritante per me sentirmi chiedere, secondo l’attività del momento, se avevo deciso di abbandonare l’una per dedicarmi all’altra. Non esisteva nessun conflitto tra le due attività: perché la gente non riesce a capire che una persona può impegnarsi in due attività nel corso della sua esistenza, alternativamente o simultaneamente? Ciò che c’è sotto è indubbiamente il giudizio che la fotografia non è allo stesso livello della pittura, non è un’arte. È un argomento controverso dai tempi dell’invenzione della fotografia, e la questione mi lasciava del tutto indifferente. Per evitare discussioni, avevo apertamente dichiarato che la fotografia non è arte, e avevo pubblicato un opuscolo con questa dichiarazione per titolo, tra la costernazione e la riprovazione dei fotografi. Quando più di recente mi hanno chiesto se ero ancora dello stesso parere, ho dichiarato che avevo leggermente modificato la mia posizione: secondo me, l’arte non è fotografia.
Non mi piaceva dipingere in un luogo estraneo, e per questo presi ad Antibes un appartamentino con una bella terrazza, ove potevo rifugiarmi a dipingere quando il mio lavoro di fotografo a Parigi mi lasciava un po’ di respiro. Le nostre estati idilliche non durarono a lungo. Si andavano addensando le nuvole della guerra. Con toni sempre più arroganti Mussolini minacciava d’invadere il sud della Francia e di riprendersi un territorio che secondo lui spettava di diritto all’Italia. Poi gli accordi di Monaco rimandarono di un anno lo scoppio della guerra. Intanto mi ero comprato una casetta in campagna, nei pressi di Parigi, per evitare di trascurare il lavoro con assenze troppo prolungate dallo studio. Poiché l’avvenire era così incerto, rinunciai al progetto di passare gran parte del mio tempo nel sud, e Picasso, quando glielo dissi, si offerse di subentrare nel mio appartamento di Antibes. Gli girai il mio contratto e imballai le mie cose, compresi tele e colori. Stavo per staccare dal muro una composizione di carta gualcita e ripiegata, sugheri e pezzi di spago, quando Picasso mi chiese di lasciargliela, se potevo, perché gli piaceva molto. Proprio nulla di quel che faccio va perduto, pensai, c’è sempre almeno una persona al mondo cui interessa. Per conservare una testimonianza di quella composizione, prima di partire ne feci una copia esatta, a olio, che intitolai Trompe-l’oeil.
Pochi giorni dopo andai a salutare Picasso, che si era sistemato nell’appartamento mentre io mi ero trasferito in una camera d’albergo. Si era già messo al lavoro. Tutti i mobili della stanza più spaziosa erano scomparsi, e una grande tela era fissata alla parete. L’aveva divisa in una ventina di quadrati, come una scacchiera, e in ognuno di essi dipingeva una natura morta, variazioni d’uno stesso tema. Arrivò intanto anche il gallerista di Parigi, per gli ultimi accordi sulla prossima mostra. Guardò le nature morte, osservò i vasetti di colore, ciascuno con un pennello dentro, e alla fine domandò se erano resistenti - chiaramente non erano colori di marca, li aveva acquistati nel negozietto più vicino. Picasso si strinse nelle spalle e disse che non era affar suo; riguardava semmai i collezionisti e quelli che investivano denaro in opere d’arte. Non era una posa. Una volta gli vidi comprare in un negozio l’intera gamma dei colori migliori e più costosi. Per lui era soltanto una questione di disponibilità, di non perdere tempo quando era posseduto dal desiderio di dipingere.

[...]

Non rividi Picasso che dopo il mio ritorno in Francia, negli anni Cinquanta. Era rimasto nel sud mentre io ero a Parigi, occupato dal mio lavoro, finché, quando la Francia fu invasa, me ne tornai negli Stati Uniti. Quindici anni dopo andai a trovarlo nella nuova villa nei dintorni di Cannes. Gli telefonai il mattino stesso del mio arrivo, e mi chiese di raggiungerlo senza perdere un minuto, perché doveva recarsi subito a Nizza, dove giravano un film su di lui. Risalii la collina e suonai al cancello della villa. Mi abbracciò affettuosamente, come se non fossero passati tutti quegli anni: nulla era cambiato. La casa era immensa, costruita da un pretenzioso commerciante di vini, che aveva fatto fortuna. Il giardino, tenuto con molta cura, era costellato dei bronzi più provocatori di Picasso, che sembravano schernire il gusto barocco del vecchio proprietario. L’interno era tutto dipinto di bianco, così da nascondere i pesanti elementi decorativi. Dappertutto casse ancora chiuse, tele voltate contro la parete, alla quale era appeso un unico dipinto senza cornice: un ritratto di Jacqueline, la nuova moglie di Picasso. Vicino alla porta che dava sul giardino c’era un vecchio divano e, al centro della stanza, una poltrona a dondolo di legno, gli unici sedili disponibili. Una collezione di sculture africane era ammassata alla rinfusa sopra un grande tavolo. In quel museo d’arte primitiva Picasso riuscì a scovare un piccolo pastello, un nudo disteso, racchiuso in una cornice dorata, e mi chiese se me ne ricordavo. Gli dissi di no, e lui mi spiegò che l’avevo lasciato nella casa di Antibes prima della guerra. Quel pastello l’avevo fatto in un momento di ozio, senza attribuirgli alcuna importanza. Decisamente Picasso non dimenticava mai nulla. (A questo punto credo che sarebbe conforme alle buone maniere scusarmi della mia apparente immodestia. Devo tuttavia ricordare che sto facendo un autoritratto, e gli autoritratti, ad esclusione di rari esemplari impressionisti, sono sempre lusinghieri.)
Durante il breve soggiorno a Cannes Picasso mi invitò a pranzo insieme a mia moglie Juliet. Alla fine del pasto, semplice e casalingo, tirò fuori una bottiglia di vodka e qualcuna di champagne. Non beveva mai, ma prese una coppa di champagne per brindare all’avvenimento, mentre Juliet dava fondo alla vodka. Maya, una bionda adolescente, figlia di Picasso e di una sua antica amante, mise un disco di musica da ballo, e Juliet prese a danzare da sola, miniando e mettendo in caricatura le movenze di una ballerina classica. Picasso, sprofondato nella sua poltrona in muta contemplazione, mi rammentava una delle sue prime acquaforti, con il re Erode che ammira la danza di Salomé. Passammo con Picasso un altro pomeriggio, in giardino, insieme a Maya e a un vecchio amico, un torero a riposo. Scattai delle foto di gruppo, poi tornammo a Parigi

Ormai Picasso non viene più a Parigi. L’ho rivisto durante uno dei miei recenti viaggi nel sud, in occasione di una corrida in suo onore, a Vallauris. Ci siamo stretti la mano. Era attorniato da personalità e da fotografi, ma il suo sguardo penetrante sembrava dire: arrivederci al nostro prossimo incontro, in un momento più tranquillo. Sembra non invecchiare mai; il tempo può ancora aspettare finché non avremo occasione d’incontrarci di nuovo. Contrariamente a molti altri che l’hanno avvicinato, e lui si è sempre mostrato generoso, io non gli ho mai chiesto un piacere, né lui l’ha mai chiesto a me; se tra noi c’era anche solo il sospetto di un favore ricevuto, si cercava subito di ricambiare. Io, forse, mi sdebitavo per orgoglio, Picasso per la sua grande umiltà.

Ballo da Etienne de Beaumont
Picasso e Olga Khokhlova, 1924 ca
Picasso, by Man Ray (1932)
Picasso e Kazbek, 1935
Ady Fidelin, Myriam e Paul Cuttoli, Picasso e Dora Maar
davanti: Man Ray - Antibes, 1937

foto di Man Ray

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venerdì 29 agosto 2014

Prurito da confessionale


da Internet


Nell’anno domini 1824 il teologo Jean-Baptiste Bouvier licenzia la sua Dissertatio in sextum decalogi præceptum, un testo voluto e impostato per essere diffuso soltanto tra i confessori, aiutandoli nell’indagare sui reati (ooops: peccati) legati alla “debolezza” della carne altrui.
Ho in casa la successiva ristampa: dopo il Monitum iniziale, il libro inizia col capitolo Dissertatio in sextum decalogi præceptum e a pagina 215, dopo INDICIS FINIS si legge: APPROBATIO. Imprimatur. Mechlinæ 16 Augusti 1837. J. P. Pawles, Vic. Gen. e da queste note evinco che Santa Romana Chiesa sia d’accordo sul come il pruriginoso tema sia stato manipolato dall’autore.
Alla fine del trattato vero e proprio inizia un Abrégé d’Embryologie, dove sotto forma di domanda e risposta (modello dottrinetta di giovanile memoria) si discetta su quesiti quali: “A che età si comincia ad avere l’anima?” - e qui il recensore ricorda che San Tommaso e “folle” di teologi a lui succeduti insegnano che l’anima si unisce al corpo maschile 40 giorni dopo la nascita, periodo che raddoppia “verso 80 o 90 giorni” per le femmine – e altre questioni inerenti gli aborti, il taglio cesareo, la morte della partoriente e altre dotte amenità.

Nato nel 1773 a Saint-Charles-de-la-Forêt - e vescovo di Le Mans dal 1834 - J. B. Bouvier si era fatto un nome grazie alle polemiche che avevano accompagnato le sue Institutiones theologicae, sei volumi (editi a partire dal 1817) largamente diffusi sebbene (o forse per questo?) ferocemente attaccati dai critici che in essi ritrovavano troppi spunti “cartesiani” caratteristici della Chiesa gallicana. In seguito, il vescovo Bouvier accetterà che una commissione episcopale ne rivedesse il testo, riportandolo nell’alveo “cattolico romano”.
Tra le altre sue controverse opere teologiche ricordo le Institutiones Philosophicae (1824), Dissertatio in sextum decalogi praeceptum (1824) e il Cathéchisme à l’usage du diocèse du Mans (1838). Malgrado tutto ciò, nel 1854 il papa, impegnato nella definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, lo convoca a Roma. Lui arriva …e muore.
In seguito, tradotta dal latino originario, la Dissertatio in sextun decalogi præceptum uscirà dal ristretto mondo del confessionale e con titolazioni differenti vivrà (e vive ancora) un discreto successo editoriale per l’attrazione esercitata dalle argomentazioni “pruriginose”, tanto da finire – udite udite - nelle collezioni dei libri “erotici”, come conferma una vendita all’asta effettuata di Christie’s a Parigi, 14-15 dicembre 2006: Les mystères du confessionnal par monseigneur Bouvier évêque du Mans. Bruxelles: E. J. Carlier [circa 1875?]. Copia proveniente dalla Bibliothéque erotique Gérard Nordmann. Prezzo stimato: € 300-400 - Prezzo realizzato: € 264.
Oggidì la premiata ditta Charbonnel di Bar-le-Duc ne propone una copia intitolata Les mystères du confessionnal, La clé d’or, le livre des confesseurs, Traité de chasteté, J. E. Carlier imprimeur éditeur Bruxelles sans date (1875), attraendo il collezionista con questa immaginifica presentazione:

Très rare ouvrage, à l’époque vendu “sous bande discrète”. Il s’agit là d’un ouvrage culte! dont on ne trouve généralement que la réédition des années 1960, présenté par son premier éditeur comme “le livre classique du Clergé catholique tenu secret jusqu’à ce jour. En raison de sa nature, cet ouvrage sulfureux qui détaille, à l’usage des confesseurs, toutes les pratiques sexuelles possibles et imaginables, ne doit pas être remis entre toutes les mains” prévenait alors l’éditeur, spécialisé dans les publications anticléricales et spirites! Un ouvrage mis à l’index dès sa parution. Le manuel des confesseurs ou Les Diaconales qui ouvre cet ouvrage est également appelé “Dissertations sur le sixième commandement”, avec son supplément au traité du mariage. Il est signé de JB Bouvier, évêque du Mans, “savant théologien” et fut à l’origine écrit en latin. L’ouvrage qui est ici traduit pour la première fois en français, propose également le texte latin. Voici ce qu’en disait à l’époque l’éditeur, dans une magnifique envolée propre à susciter l’envie de lecture! “par respect pour le lecteur, et pour les bonnes moeurs, longtemps nous avons reculé devant la vulgarisation de l’ouvrage le plus froidement obscène que nous connaissons. Les abominations étalées dans ce livre dépassent les obscénités des soupers de la Régence sous le Duc d’Orléans, à faire rougir les plus éhontées messalines, à faire bouillir le sang du plus austère des anachorètes.” L’ouvrage, destiné uniquement aux prêtres et aux diacres, s’appuie sur certains passages des livres saints. L’avertissement du Clergé est clair: “Nous avons essayé de recueillir ce que les prêtres ne peuvent ignorer, sans danger, au confessionnal et ce qui ne peut être ni développé dans les cours publics des séminaires ni confié décemment et indistinctement aux jeunes élèves”. Un cours des plus explicites relatif à la “lubrique matière” et qui plonge le lecteur au coeur de la luxure vue par l’Eglise du XIXème siècle. On y trouve à la suite le supplément au traité du mariage, un “abrégé d’embryologie ou solution de quelques difficultés touchant le baptême des enfants nés avant le terme ou qui ne peuvent naître naturellement”, Les origines de la confession, les Confesseurs et congréganistes devant la justice (où l’on retrouvera quelques faits divers de l’époque), mais aussi un chapitre intitulé Abesses Confesseuses, les colombes de Lesbos, un “Catéchisme à l’usage des Jésuites”, “Le guide des âmes” ou taxe de la chancellerie romaine pour tous les péchés, “Le sceau de la confession”, les drames du confessionnal et quelques autres textes anti-cléricaux. Un document et une curiosité bibliophilique!

È probabile che a Bar-le-Duc la quantità di punti esclamativi indichi una plusvalenza a me sconosciuta (oppure che lo zolfo sia più caro che nel resto d’Europa), fatto sta che il venditore librario chiede per questa copia la bellezza di 520 Euro. - Chiedere è da furbi, pagare è da pirla - è uno dei motti da me “cogniati” (ed esenti da ogni diritto d’autore).
Se proprio il “prurito” si manifesta in tutta la sua virulenza, sempre in Francia, a Saint Etienne de Boulogne, la Librairie Ancienne du Vivarais offre per “soli” 100 euro una copia de Les Mystères du confessionel. Manuel des confesseurs ou les Diaconales. Dissertation sur le sixième commandement (luxure) & supplément au traité du mariage. Bruxelles, Carlier, s.d. (vers 1864). - Curiosamente, lo stesso titolo appare sulle copie uscite nel 1877 per i tipi dell’editore Satanas (un nome, un programma).




La prima traduzione integrale in lingua italiana porta il titolo I misteri del confessionale. Manuale segreto dei confessori. Casa Editrice Il Crogiulo, Roma 1969.




Tutta questa manfrina per arrivare al punto dove volevo arrivare: qui sotto propongo la lettura di Pericolo di polluzione, la recensione di Max Ernst al libro di monsignor Bouvier, pubblicata su «Le Surréalisme au service de la révolution» (n. 3, Parigi, dicembre 1931), qui nella traduzione ripresa da Max Ernst. Scritture, con centoventi illustrazioni ricavate dall’opera dell’autore. Traduzione di Ippolito Simonis e Gian Renzo Morteo. Rizzoli Editore 1972, pp. 174-185 - scritto che si legge anche in Max Ernst sculture, Edizioni Charta 1996, pp. 17-22.
Max Ernst è lo stesso che nel 1959 avrà modo di scrivere: “Vi è più saggezza nella nudità della donna che nell’insegnamento del filosofo”. Temo abbia ragione (e, en passant, ve la immaginate oggi – in tempi di servili marchette - una recensione come questa?).

PERICOLO DI POLLUZIONE

La lussuria naturale consumata, la lussuria naturale non consumata, la fornicazione semplice, la fornicazione qualificata, lo stupro, il ratto, la prostituzione, il dovere coniugale richiesto e reso, l’impedimento per impotenza, i baci su parti del corpo inusitate, i baci su parti del corpo decenti, i baci alla maniera delle colombe, i baci scambiati senza cattive intenzioni, i baci in segno di urbanità, l’effusione di materia seminale, la masturbazione semplice e qualificata, la dilettazione morosa, la castità, la polluzione volontaria o la polluzione volontaria dal punto di vista casuale, la polluzione notturna, il pericolo di polluzione, la sodomia, la bestialità, i contatti impudichi, le carezze tra sposi, il vaso naturale della donna, il vaso davanti, il vaso di dietro, i vasi consacrati, gli spettacoli, le danze, i movimenti disordinati, l’equitazione, la distillazione, il seme imperfetto, gli spiriti genitali, il demone, l’incontinenza, lo sprone della carne, la procreazione della specie, l’embriologia sacra e tutta la merda dei dottori della Chiesa.
Conosciamo il valore delle parole e il pericolo di polluzione è per noi una così vecchia abitudine, che vi indulgiamo con fierezza «in segno di urbanità». I dottori della Chiesa si sono preoccupati di tracciare sul corpo delle donne, con precisione abominevole, delle frontiere che dividono le parti decenti da quelle vergognose. Queste frontiere possono scomparire di tanto in tanto per effetto di una passione grandiosa, per fare poi la loro ricomparsa con nauseante esattezza, fino al giorno benedetto in cui uno stupendo massacro libererà per sempre la terra dalla crapula clericale.
L’amore è il grande nemico della morale cristiana.
Introducendosi nella coscienza e nel subconscio degli uomini attraverso l’effrazione chiamata sacramento della penitenza, o confessione, la Chiesa ha trovato lo strumento più sicuro per distruggere sul posto e senza difficoltà tutto ciò che tende verso l’amore. Per rendere più efficace il suo sabotaggio, approfitta in modo scandaloso di tutti gli strumenti della giustizia: le condanne temporanee o eterne ai supplizi della coscienza, al fuoco perpetuo, il beneficio della condizionale, i casi riservati, l’assoluzione nella sua misericordiosa indulgenza.

I casisti hanno tracciato, con nauseabonda precisione, i limiti che separano le zone erotiche proibite, semi-proibite, tollerate e meritorie. I casi sono innumerevoli e i Padri se la godono un mondo. Si può ridurre la casistica a certi casi tipo, per esempio: l’effusione della materia seminale nel vaso davanti (linguaggio ecclesiastico!) della donna può comportare un peccato mortale o un peccato veniale: può essere esente da peccato o meritoria, secondo le circostanze. Peccato mortale in caso di fornicazione o di adulterio; peccato veniale se il vaso davanti appartiene alla sposa del paziente, ma il coito è praticato per passione; esente da peccato il coito coniugale destinato alla procreazione; peccato mortale quando gli sposi cominciano il coito nel vaso «che non gli è proprio» per terminarlo poi nel «vaso naturale». Gli sposi commettono un peccato veniale e sono severamente da disapprovare se l’uomo, per aumentare il suo piacere, prende la sua donna da dietro «a guisa dei cani» oppure giace sotto di essa. Ma quando è assolutamente impossibile praticare il coito in altra maniera, per esempio durante la gravidanza, non vi è peccato. L’effusione della materia seminale nel «vaso di dietro» (linguaggio clericale!) implica sempre un peccato mortale. L’effusione della stessa materia in un vaso consacrato dalla Chiesa e destinato agli uffici religiosi, è considerata delitto orrendo e rappresenta un «caso riservato» in ogni diocesi. L’atto coniugale tra sposi può diventare meritorio, quando è eseguito per mantenere la fede promessa davanti a Dio al proprio sposo, oppure a scopo religioso per avere dei figli che servano Dio fedelmente o per simboleggiare l’unione di Cristo con la Chiesa. (I dottori della Chiesa evitano, evidentemente per decenza, di precisare che cosa nella pratica del coito coniugale, simboleggia Cristo e che cosa la Chiesa, e di ragguagliarci se la fornicazione, la sodomia, la bestialità, la polluzione notturna ecc. ecc., possono anche esse diventare meritorie attraverso un analogo simboleggiare!)
La Chiesa ha innalzato, davanti al peccato Amore, servendosene come strumenti di potere, un meschino sacramento e una virtù altrettanto meschina: il matrimonio e la castità (il dovere coniugale e la lussuria non consumata allo stato cronico!).
La lussuria! la lussuria naturale consumata, la lussuria non consumata, la fornica... ecc. ecc. (vedi sopra la merda dei dottori della Chiesa).

LE DIACONALI O MANUALE SEGRETO DEL CONFESSORE, di Mons. Bouvier, vescovo di Mans, è un libro spesso e di grande formato. L’amore, che non compare mai nelle sue pagine, vi è condannato a morte in contumacia. Questo libro tratta dapprima del sesto comandamento, in seguito dei doveri coniugali e quindi dell’embriologia sacra.
Come una donna deve celare le sue «parti vergognose», così la Chiesa deve nascondere la sua letteratura oscena. L’opera è scritta in latino e riservata ai preti e ai diaconi. La Libreria Anticlericale ha avuto il merito di pubblicare in francese, cinquant’anni fa, questa inqualificabile salsa teologica, rigurgitante di tutta la cafonaggine, di tutto l’abominio della morale cristiana.
Mons. Bouvier, vescovo di Mans, per aver partorito questo letamaio, è stato nominato conte romano da Sua Santità Pio IX e addetto alla persona del papa come prelato intimo, assistente al trono pontificio.

Eccone alcuni esempi:

... così chi è tanto debole da non sapersi trattenere dal masturbarsi per aver guardato amorosamente le parti decenti di una donna, oppure toccandole le mani o giocherellando con le sue dita o baciandola in modo decente benché senza motivo, deve astenersi da queste cose per evitare un peccato mortale...
... non mortale ci parrebbe il peccato se ci si accontentasse di toccare leggermente gli abiti di una donna, perché tale atto non è di tale natura che possa portare ad atti erotici in maniera diretta.
Le carezze tra sposi che hanno lo scopo di giungere all’atto carnale legittimo sono indubbiamente lecite, a condizione che non comportino pericolo di polluzione; esse sono, infatti, accessorie all’atto. Se però avessero lo scopo di produrre maggior piacere si avrebbe un peccato veniale, sebbene si riferisca all’atto carnale. Mortale invece sarebbe il peccato, se le carezze, pur in vista dell’atto carnale, ripugnassero gravemente al buon senso, come l’avvicinare le parti genitali ad altro vaso che non quello naturale, per esempio se i coniugi accostassero reciprocamente la bocca alle parti sessuali per leccarle come fanno i cani.
I discorsi osceni tra marito e moglie non sono peccati mortali, salvo se producono grave rischio di polluzione, cosa rara: non occorre che i confessori se ne preoccupino troppo...
... non è permesso rifiutare di rendere il dovere coniugale per timore di avere un numero eccessivo di figli: gli sposi cristiani devono confidare in Dio che dà la pastura agli animali e ai loro piccoli quando l’invocano; nel benedire la fecondità spesso benedice pure i beni temporali e spirituali, permettendo che tra i figli ne nasca uno che porti in casa il benessere e faccia la felicità di tutta la famiglia...
... Ma peccato mortale è servirsi del belletto per piacere agli uomini, senza un legittimo scopo di matrimonio...
Si domanda. - È valido il matrimonio quando la donna afflitta da strettezza è stata allargata da commercio con altro uomo?
R. - L’opinione più comune è che il matrimonio sia valido, perché... ecc.
Gli sposi peccano mortalmente se mentre compiono l’atto coniugale provano desideri adulteri, per esempio se si figurano che la persona presente sia un’altra e volontariamente si compiacciono pensando che il commercio abbia luogo con quella persona... Nel caso che l’uomo richieda o renda il dovere coniugale col desiderio che la moglie perisca durante le doglie del parto.
L’atto carnale è un peccato mortale quando viene compiuto in un luogo santo, sia pure in tempo di guerra... (sic).
Si domanda. - È giusto tollerare le meretrici?
R. - A questo proposito i teologi si sono espressi in due modi differenti. La maggior parte sostiene che la cosa è permessa al fine di evitare peccati molto più gravi come: sodomia, bestialità, masturbazione e seduzione delle donne oneste: «Fate scomparire le cortigiane e tutto sarà invaso dalla torbida dissolutezza» dice Sant’Agostino... ecc.
Ecco il modo di scoprire senza pericolo se il penitente pratica abitualmente la masturbazione: interrogare anzitutto il penitente sui suoi pensieri, parole indecenti, nudità davanti ad altri, palpeggiamenti su di sé o su altri o che abbia permesso ad altri di fargli. Se non ha ancora raggiunto l’età pubere, non lo si deve interrogare sulla masturbazione perché è probabile che alla sua età non l’abbia ancora praticata, a meno che non appaia molto corrotto. Ma se è pubere, e che abbia praticato palpeggiamenti impudichi con altre persone e soprattutto se è andato a letto con ragazzi più anziani di lui, è praticamente certo che vi è stata emissione di seme e che la masturbazione ha avuto luogo. Tuttavia il confessore dovrà agire prudentemente. Domanderà: hai provato impulsi del corpo, brividi della carne? Hai provato un gradevole diletto nelle parti segrete, dopodiché quegli impulsi si sono calmati? Il penitente risponde sì: è ragionevole pensare che la masturbazione abbia avuto luogo, perché gli impulsi violenti seguiti dal piacere indicano chiaramente che lo sperma è colato; poco importa che si tratti di un ragazzo o di una ragazza, il risultato è lo stesso...
... Poco importa in quale vaso, i maschi tra loro e le femmine pure, praticano il coito; che sia quello davanti o quello di dietro o un’altra parte del corpo, la malizia della sodomia resta la stessa, ecc.
... La natura è ancora più oltraggiata quando la donna diventa agente e l’uomo paziente... ecc.
... Non dimentichiamo, soprattutto, quell’altra specie di sodomia che consiste nell’unione carnale tra persone di sesso differente, ma fuori dal vaso naturale. Per esempio, mettere il membro virile nella bocca, tra i seni, le gambe o le cosce ecc., del paziente o della paziente.
Si domanda. - È permesso alle persone sposate o vedove di compiacersi al pensiero dell’atto carnale futuro o passato?
R. - È probabile che pecchino mortalmente le persone fidanzate o vedove che acconsentono alla dilettazione carnale che produce in loro la previsione del coito futuro o il ricordo del coito passato.
Lo sposo che, durante l’assenza della moglie, si compiace al pensiero dell’atto carnale come se lo stesse compiendo nel momento stesso in cui lo pensa, commette un peccato mortale, soprattutto se gli spiriti genitali vengono fortemente agitati, e questo peraltro non perché si compiace di gioire in modo fittizio di qualcosa che gli è proibito, ma perché normalmente si espone a un grave pericolo di polluzione.
...il prete che, mentre somministra i sacramenti o celebra la messa, o rivestito dai paramenti sacri per celebrarla o anche nello scendere dall’altare, si abbandona volontariamente alla masturbazione, non ha scuse al suo doppio sacrilegio.

Prego, un attimo di silenzio e di raccoglimento!
Chiudo, con quest’ultima, le citazioni dalle Diaconali, e godo volontariamente al pensiero che il simpatico lettore o la gentile lettrice si concedano qualche minuto di «dilettazione morosa», nell’immagine grandiosa del prete che, rivestito dai paramenti sacerdotali e dopo aver tenuto in mano l’agnello immacolato, si masturbi maestosamente scendendo i gradini dell’altare. In quanto a bellezza, quest’immagine può essere seconda soltanto a quella di due preti che, rivestiti dei paramenti sacerdotali e dopo aver tenuto in mano l’agnello immacolato, si abbandonino a una reciproca masturbazione scendendo maestosamente i gradini dell’altare e che, arrivati all’ultimo gradino (in tutti i sensi), si diano reciprocamente l’assoluzione del loro quadruplo sacrilegio.
È strano constatare come nessun cane abbia mai alzato la voce in segno di protesta contro gli insulti fatti alla sua razza da quella dei preti, e contro il significato peggiorativo che, nell’argomentare ecclesiastico, si dà generalmente alla parola cane, soprattutto nell’espressione: a guisa dei cani. A queste offese, i cani han sempre risposto con il più completo disprezzo e con l’arma del silenzio. Difatti, non si è mai visto un cane entrare in un confessionale per asserire, nell’intento di umiliare il prete, di aver praticato il coito a guisa dei cristiani (per avere dei figli che servano Dio fedelmente). Non si è nemmeno mai visto un cane sforzarsi di placare la giustizia divina con lacrime, elemosine, preghiere e digiuni, dopo essersi intrattenuto in argomentazioni voluttuose con una cagnetta di sua conoscenza, in qualche posticino appartato, e dopo averle parlato del coito e delle delizie di far l’amore in differenti maniere. E mai si son visti due cani dello stesso sesso o di sesso diverso darsi reciprocamente l’assoluzione dal loro comune peccato a guisa dei preti, dopo essersi abbandonati insieme ad azioni vergognose, a contatti impudichi o a baci libidinosi. (D’altronde appare molto probabile che in un simile caso l’assoluzione non sarebbe ritenuta valida, nemmeno in tempo di giubileo, e che, contro i cani che osassero quanto sopra, scatterebbe la scomunica maggiore, quella inflitta dalla Santa Sede.) Nella nostra diocesi, ogni cane degno di questo nome evita accuratamente ogni commercio, sia carnale che spirituale, con preti e monache, non tanto per rispetto verso la santa religione, quanto perché immagina ragionevolmente che, dopo tale sozzeria, nessuna cagnetta vorrebbe più saperne di lui, nemmeno quelle di facili costumi.
La razza umana invece, più fiduciosa e meno orgogliosa di quella canina, non si è rifiutata di entrare nei confessionali. Mi hanno perfino garantito che esistono ancor oggi rappresentanti di questa razza che vi mettono piede. Tuttavia, non vi è sulla terra nulla di più clamorosamente simile a una trappola di un confessionale, sotto ogni sua possibile forma; non vi è nulla dall’aspetto meno rassicurante di un confessore intento alle sue nefandezze, secondo i precetti di Sant’Agostino, San Tommaso d’Aquino, Sant’Alfonso de’ Liguori e di Mons. Bouvier, osceno vescovo di Mans e conte romano. A giudicare dall’aspetto fisico e dalla miseria morale degli uomini dei giorni nostri, bisogna riconoscere che i buoni confessori hanno lavorato bene: gli uomini sono diventati schifosi e pericolosi a forza di un costante esercizio, durato secoli, della pratica che è la madre di tutti i vizi: la confessione. La loro digestione si è guastata a forza d’inghiottire il corpo anemico del Signore, il loro sesso si è indebolito a forza di uccidere il piacere e di moltiplicare la specie, come si è indebolita la loro passione a forza di pregare una Vergine: la loro intelligenza è precipitata nelle tenebre della meditazione. La virtù dell’orgoglio, che era la bellezza dell’uomo, ha ceduto il posto al vizio dell’umiltà cristiana, che ne è la bruttezza. E l’amore, che deve dare un senso alla vita, è sorvegliato a vista dalla polizia clericale.
L’avvilente dovere coniugale, inventato per mettere in moto il meccanismo della riproduzione, per fornire alla Chiesa anime da istupidire e alla patria individui atti alle esigenze della produzione e del servizio militare, l’avvilente dovere coniugale quale i dottori della Chiesa permettono a coloro che vogliono unirsi nell’amore, non è che una copia assai simile dell’atto d’amore. Gli amanti sono derubati dalla Chiesa. L’amore deve essere riinventato, Rimbaud l’ha detto.
L’amore non deve rinascere dagli sforzi isolati di uomini isolati; l’amore, rinascendo, trarrà le sue origini da un subconscio collettivo e dovrà, tramite le scoperte e gli sforzi di tutti, salire alla superficie della coscienza collettiva. Ciò non è possibile sotto il regno della polizia clericale e capitalista.

L’amore deve essere fatto da tutti, non da uno. Lautréamont l’ha detto, o quasi detto.

© Per il testo e le fotografie di Giancarlo Mauri

Ristampa 1837

Edizione 1972

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Edizioni Charta 1996