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sabato 19 novembre 2016

Sogno e menzogna di Franco, di Pablo Picasso (1937)


Vicino alla Statale di Milano numerosi bar offrono cibi e bevande a prezzo “da studente universitario”, ma uno di questi offre qualcosa in più: al piano sotterraneo si possono acquistare libri usati a buon prezzo, in gran parte testi dismessi, ma non solo. Qui, pochi giorni fa mi è venuta incontro una cartella contenente 4 disegni di Picasso e 5 di André Masson sul tema “Guerra di Spagna”.
Come sempre, amo condividere il mio con quante più persone possibili, quindi ho passato i disegni allo scanner, ho riaperto alcune biografie e da queste ho estrapolato le pagine da proporre sul tema Sogno e menzogna di FrancoHo poi inserito alcune pagine dei quotidiani che per la prima volta rendevano noto al mondo il crimine tutto cristiano di Guernica, confezionando un “pacchetto” storico, punto di partenza per altre, personali, esplorazioni, invitandovi - come sempre - a procurarvi i libri da me citati e leggerli per intero ...che è meglio.
PS: il tutto cristiano di cui sopra rinvia al poco o nulla reclamizzato fatto storico che vide la Santa Sede governata da Pio XII nominare il Cristianissimo Francisco Franco “Cavaliere dell’Ordine Supremo del Cristo”, la più alta onorificenza pontificia esistente.

Pablo Picasso
Sueño y mentira de Franco
pamphlet poetico scritto tra l'8 e il 9 gennaio del 1937

Fandango de lechuzas escabeche de espadas de pulpos de mal agüero estropajo de pelos de coronillas de pie en medio de la sartén en pelotas puesto sobre el cucurucho del sorbete de bacalao frito en la sarna de su corazón de cabestro - la boca llena de la jalea de chinches de sus palabras - cascabeles del plato de caracoles trenzando tripas - meñique en erección ni uva ni breva - comedia del arte de mal tejer y teñir nubes - productos de belleza del carro de la basura - rapto de la meninas en lágrimas y en lagrimones - al hombro el ataúd relleno de chorizos y de bocas la rabia retorciendo el dibujo de la sombra que le azota los dientes clavados en la arena y el caballo abierto de par en par al sol que lo lee a las moscas que hilvanan a los nudos de la red llena de boquerones el cohete de azucenas farol de piojos donde está en perro nudo de ratas y escondrijo del palacio de trapos viejos - las banderas que fríen en la sartén se retuercen en el negro de la salsa de la tinta derramada en las gotas de sangre que lo fusilan - la calle sube a las nubes atada por los pies al mar de cera que pudre sus entrañas y el velo que la cubre canta y baila loco de pena - el vuelo de cañas de pescar y alhigui alhigui del entierro de primera del carro de mudanza - las alas rotas rodando sobre la tela de araña del pan seco y agua clara de la paella de azúcar y terciopelo que pinta el latigazo en sus mejillas - la luz se tapa los ojos delante del espejo que hace el mono y el trozo de turrón de las llamas se muerde los labios de la herida - gritos de niños gritos de mujeres gritos de pájaros gritos de flores gritos de maderas y de piedras gritos de ladrillos gritos de muebles de camas de sillas de cortinas de cazuelas de gatos y de papeles gritos de olores que se arañan gritos de humo picando en el morrillo de los gritos que cuecen en el caldero y de la lluvia de pájaros que inunda el mar que roe el hueso y se rompe los dientes mordiendo el algodón que el sol rebaña en el plato que el bolsín y la bolsa esconden en la huella que el pie déjà en la roca.


Purtroppo la traduzione italiana non rende il tragico peso delle parole, così come cadenzate in lingua originale.

Fandango di civette salamoia di spade di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un tegame a coglioni nudi - posto sul cono del gelato di merluzzo fritto della rogna del suo cuore di bue - la bocca piena della gelatina di cimici delle sue parole - sonagli del piatto di lumache che intrecciano budelle mignolo in erezione né carne né pesce - commedia dell’arte di mal tessere e tingere le nuvole prodotti di bellezza del carretto delle immondizie - ratto di fanciulle in lacrime e singhiozzi sulla spalla la bara colma di salsicce e di bocche - la rabbia torcendo il disegno dell’ombra che lo frusta i denti inchiodati nella sabbia e il cavallo aperto da parte a parte al sole che lo legge alle mosche che imbastiscono ai nodi della rete piena di acciughe un razzo di gigli - torcia di pidocchi dove si trova il cane nodo di topi e nascondiglio del palazzo di vecchi stracci - le bandiere che friggono nel tegame si contorcono nel nero della salsa d’inchiostro sparsa nelle gocce di sangue che lo fucilano - la strada sale sino alle nuvole attaccata per i piedi al mare di cera che imputridisce le sue viscere e il velo che la copre canta e danza folle di dolore - il volo di canne da pesca e alhiguí ahliguí del funerale di prima classe del furgone di sgombero - le ali spezzate rotolano sulla tela di ragno del pane secco e dell’acqua chiara della zuppa di zucchero e velluto che dipinge il colpo di frusta sulle sue guance - la luce si nasconde gli occhi davanti allo specchio che le fa il verso e il pezzo di torrone delle fiamme si morde le labbra - gridi di bambini gridi di donne gridi di uccelli di fiori di travature e di pietre gridi di mattoni gridi di mobili di letti di seggiole di tendine di pentole di gatti e di carte gridi di odori che si graffiano gridi di fumo che pongono alla gola i gridi che cuociono nella caldaia i gridi della pioggia d’uccelli che inondano il mare che rode l’osso e si rompe i denti mordendo il cotone che il sole intinge nel piatto che il borsellino e la borsa nascondono nell’impronta che il piede lascia sulla roccia.

Gravures de Pablo Picasso 





Patrick O’Brian. Pablo Ruiz Picasso. A Biography
Harper Collins Publishers Limited 1976
Edizione italiana: Picasso. Traduzione di Paola Merla
Longanesi & C. 1989, pp. 367-370

La guerra in Spagna volgeva al peggio; sebbene l’attacco a Madrid fosse stato respinto dopo un terribile corpo a corpo per le strade e nell’università, era ormai chiaro che la neutralità delle grandi potenze era una crudele farsa; la Francia e l’Inghilterra agirono probabilmente in buona fede, pur con idee molto confuse, ma si perdettero in un mare di parole mentre Hitler e Mussolini facevano affluire rinforzi in aiuto di Franco. C’erano ormai circa diecimila tedeschi e quarantamila italiani schierati a fianco delle truppe nazionaliste, per non parlare dei nordafricani, mentre Hugh Thomas calcola che il numero totale dei russi fosse di circa cinquecento, anche se naturalmente l’Unione Sovietica inviò anche aeroplani, armi e carri armati, in parte usati dai volontari delle Brigate internazionali. Le truppe tedesche e italiane erano forze regolari e addestrate e tra i tedeschi si contavano molti comandanti e piloti della Luftwaffe, ansiosi di migliorare il proprio rendimento e di sperimentare tecniche e armi su bersagli veri, in vista della più grande guerra che si andava preparando.
Con slancio appassionato Picasso scrisse una poesia, Sogno e menzogna di Franco, un poema surrealista in cui parole rabbiose si affastellano l’una sull’altra raggiungendo quasi quel delirio ritenuto un tempo da Eluard come l’espressione della ragione all’apice della sua purezza: «fandango de lechuzas escabeche de espadas de pulpos de mal aguero estropajo de pelos de coronillas de pie en medio de la sartén en pelotas - puesto sobre el cucurucho del sorbete de bacalao frito en la sarna de su corazon de cabe-stro - la boca llena de la jalea de chinches de sus palabras». Una traduzione letterale di questo frammento «Fandango di civette salamoia di spade di polpi di malaugurio strofinaccio di peli di tonsure ritto nel centro di un tegame a coglioni nudi posto sul cono del gelato di merluzzo fritto nella rogna del suo cuore di bue la bocca piena della gelatina di cimici delle sue parole» non rende la sonorità violenta e gli echi dell’originale spagnolo: la poesia era però rivolta a un pubblico di spagnoli ed era accompagnata da illustrazioni secondo la tradizione spagnola e catalana, come fosse un’aleluya o un’auca, ossia da una serie di piccoli quadri, ognuno in sé conchiuso ma tutti collegati fra loro. Sono acqueforti, qualcuna con scene ispirate agli orrori della guerra - donne uccise, case incendiate, l’innocenza violata - altre relative a Franco, rappresentato di volta in volta come un essere amorfo e ributtante, una sorta di ascidia piena di protuberanze setolute, ma umana quel tanto che basta a farla riconoscere come tale, in procinto di distruggere con un piccone un busto di marmo; o come un fallo con gli stivali che cammina sulla fune sventolando un vessillo sacro; o ancora, circondato da filo spinato, in preghiera davanti a un ostensorio sul quale è scritto «1 duro» (cinque pesetas: simbolo del denaro); nell’atto di uccidere Pegaso o come una specie di meschino centauro sventrato da un toro. La figura del toro com­pare tre volte, due volte mentre attacca il Caudillo e un’altra nell’atto di spaventarlo. Inizialmente le scene erano quattordici, ma in giugno Picasso ne aggiunse altre quattro: donne urlanti, bambini massacrati, una ragazza uccisa.
La sequenza non è chiara, ma non è necessario che lo sia: il complesso di incisioni accompagnate dalla poesia esprime il caos mostruoso, la follia, l’assurda crudeltà della guerra e il rifiuto assoluto da parte di Picasso non soltanto della guerra ma anche dei valori della destra. È forse significativo che non vi compaia la croce.
Il Sogno e menzogna di Franco fu l’enunciazione più chiara dell’atteggiamento di Picasso in un momento in cui correvano voci sul suo scarso appoggio alla causa repubblicana, a favore della quale ora si schierava senza incertezze e senza possibilità di ripensamenti; e dal momento che il 1937 avrebbe dovuto essere l’anno di un’altra grande esposizione internazionale a Parigi, il governo iberico gli chiese di contribuire dipingendo un’intera parete del padiglione spagnolo.
Picasso accettò, certo; ma in Spagna ciò significa molto spesso il contrario ed è probabile che i funzionari che gli avevano trasmesso la richiesta, anche se ignari della riluttanza di Picasso ad accettare ordini e commissioni che inevitabilmente lo avrebbero condizionato, se ne ripartissero in preda a un certo sconforto.
In effetti Picasso si dedicò ad altre opere: un ritratto di Marie-Thérèse, con una ghirlanda di fiori sul grazioso capo, altre nature morte, una Marie-Thérèse seduta sul pavimento con le gambe ripiegate sotto di sé, la schiena rivolta a una finestra che si apre su un balcone, uno specchio semiaperto a lato e un vaso da fiori di fronte. L’incisivo ritratto di Dora Maar risale anch’esso all’incirca allo stesso periodo, anche se il mese non è noto con sicurezza: il colore è assai più carico e l’atmosfera emotiva completamente diversa, ma anche qui ritroviamo gli occhi (uno azzurro chiaro, uno arancione) sullo stesso lato del viso, visto di fronte e di profilo, e anche qui la figura è seduta in una piccola poltrona, all’interno di uno spazio compresso e indicato con precisione da linee verticali e orizzontali.
Dopo l’innaturale e prolungato periodo di riposo Picasso stava lavorando a ritmo accelerato; ancora nature morte e un gruppo di dipinti molto curiosi. Dei quattro o cinque della serie quello riprodotto più frequentemente è la Baignade, che a prima vista sembra dipinto nello stesso periodo della terribile bagnante dalla testa di mantide del 1929. Il vasto spazio di mare e di cielo è lo stesso e le grandi forme di legno levigato dall’apparenza quasi ossea presentano un ovvio richiamo a quel mostro, ma lo spirito è del tutto diverso e le figure - in questo caso due fanciulle dalla struttura architettonica con facce appena accennate, ventre a forma di uovo, seni ovali e appuntiti, intente a giocare con una barchetta sulla riva, sono miti, innocue; e persino la prodigiosa testa che si fa loro incontro all’orizzonte e le guarda ha soltanto un’espressione di benevola curiosità. La calma non cela la minaccia, l’incubo si è allontanato.
Eppure, proprio in quei giorni Málaga si trovava sotto l’incubo più terribile della sua lunga storia di assedi, assalti, incendi, massacri. Fin dai primi giorni della guerra, Málaga e il territorio circostante erano stati un’isola repubblicana in zona nazionalista, unita al resto della Spagna quasi solo dalla strada costiera. A metà gennaio del 1937 l’attacco ebbe inizio: ai primi di febbraio i fascisti, inclusi nove battaglioni di italiani con automezzi blindati e carri armati, entrarono nella città, semidistrutta dai cannoni e dai bombardamenti. Immediatamente ebbe luogo un’epurazione feroce e la morte avanzò lungo la strada di Almeria, dove mezzi corazzati e aerei inseguirono e raggiunsero gli innumerevoli fuggitivi.
La caduta di Málaga coincise quasi esattamente con una delle più serene fra le nuove tele «ossee», una donna seduta sulla spiaggia che si toglie una spina di riccio dal piede, e con il quadro di Marie-Thérèse accanto allo specchio. Non c’è dubbio che le notizie raggiungevano Parigi in ritardo, incomplete e poco sicure, ma comunque arrivavano. In un primo momento mi era sembrato che l’assenza di una reazione immediata da parte di Picasso stesse a indicare il suo distacco dalla città natale e il suo identificarsi con la Catalogna; ma, riflettendoci, credo di aver capito che il furore covava già, si gonfiava man mano che giungevano le notizie, incapace però, per alcune settimane, di trovare espressione, finché un’altra tragedia agì da catalizzatore, liberando le emozioni in un’esplosione che abbracciò non soltanto quell’avvenimento, ma la guerra civile spagnola intera.

Dessins d'André Masson






Roland Penrose. Picasso. His Life and Work
Gollancz, London 1958
Edizione italiana: Picasso. L’uomo e l’artista
Pgreco Edizioni 2012, pp. 351-354

«Sogno e menzogna di Franco».
A Le Tremblay Picasso viveva felicemente staccato dalle inquietanti preoccupazioni di Parigi. Le sue brevi visite gli consentivano di gustare qualcosa di simile alla vita familiare; ma quando tornava nella capitale si lasciava di nuovo prendere dalle ansie crescenti dei suoi amici. Le notizie che giungevano dalla Spagna erano cattive, e, come in tutte le guerre civili, nelle quali persino i fratelli possono trovarsi l’uno contro l’altro, la situazione era dolorosamente aggravata dal doppio gioco, dal sospetto, dall’odio. Da Barcellona sua madre lo informava dell’incendio di un convento a pochi passi dalla casa ov’ella viveva, con la figlia vedova e i cinque nipoti. Per intere settimane le stanze erano state invase dal tanfo, e i suoi penetranti occhi neri, modello di quelli del figlio, lacrimavano per il fumo.
Per il gruppo di giovani poeti, pittori e architetti che avevano di recente organizzato le mostre dell’opera di Picasso, la difesa delle libertà democratiche era diventata una questione di vita o di morte. Molti di loro avevano precipitosamente impugnato le armi ed erano partiti per il fronte. Altri, per controbattere la propaganda fascista, la quale asseriva che i tesori d’arte della Spagna erano saccheggiati ed incendiati da turbolente folle di anarchici, si misero a studiare antichi monumenti trascurati e ad organizzare nuovi musei. Anche a Parigi si era costituita una notevole unità tra gli intellettuali a sostegno della Spagna repubblicana, unità che, come fa notare il Soby, non aveva avuto l’eguale dai giorni della guerra per l’indipendenza greca, cent’anni addietro.
Era proprio quello l’anno scelto dal governo francese per una grande mostra internazionale, e per i repubblicani di Spagna era di grande importanza che il loro governo fosse ben rappresentato. Un giovane architetto, già membro attivo del gruppo adlan, José Luis Sert, fu incaricato di organizzare la propaganda ed ebbe il compito, insieme a Luis Lacasa, di progettare il padiglione spagnolo. Picasso si era già impegnato a collaborare in qualche modo, così da render note a tutti le sue simpatie, e si faceva un gran parlare di quale forma ciò avrebbe assunto.
Fin da gennaio egli aveva incominciato a incidere due grandi lastre divise in nove scomparti, ciascuna delle dimensioni di una cartolina. Secondo l’intenzione originaria, le stampe avrebbero dovuto vendersi separatamente a beneficio degli spagnoli che si trovavano in difficoltà. Ma quando l’opera fu compiuta, il 7 giugno, i fogli delle incisioni ombreggiate con l’acquatinta erano di sì grande effetto nel loro insieme, che fu deciso di venderli interi con l’aggiunta di un altro foglio che era il facsimile del manoscritto di un lungo e violento componimento poetico di Picasso. A questi tre fogli furono aggiunte le traduzioni in francese e in inglese dei versi, e una copertina disegnata da Picasso, con su il titolo della cartella Sogno e menzogna di Franco.
La storia della violenza e della miseria provocate dall’arrogante capo della rivolta militare si legge di disegno in disegno, come in un racconto a fumetti o come nelle popolari «Alleluias» spagnole che Picasso aveva conosciuto da bambino. A personificare il dittatore egli inventò una figura grottesca e ripugnante, con un’acconciatura a mo’ di corona simboleggiante il suo atteggiarsi a eroe della cristianità, salvatore della tradizione spagnola e amico dei mori. Il grottesco personaggio impugna uno stendardo in cui la Beata Vergine assume la forma di un pidocchio. Assale con una scure il nobile profilo di un busto classico. Protetto da un filo spinato s’inginocchia di fronte a un ostensorio in cui è esposta una moneta. In groppa a un porco giostra con il sole. Il cavallo che egli monta pomposamente trascina al suolo le viscere, e poi, massacrato dalle sue stesse mani, giace contorcendosi ai suoi piedi. Donne giacciono senza vita nei campi, o fuggono con i bambini dalle case in preda alle fiamme, o alzano le braccia in gesti disperati. Una sola creatura riesce a tenere in scacco il male, il toro, che nella sua forza pura sbudella il mostro con le corna.
«... Grida di bimbi grida di donne grida d’uccelli grida di fiori grida di travi e di pietre grida di mattoni grida di mobili di letti di sedie di tende di pentole di gatti e di carte grida di odori che s’afferrano l’un l’altro grida di fumo che punge la spalla delle grida che cuociono nel calderone e della pioggia di uccelli che inonda il mare che rosicchia l’osso e si spezza i denti mordendo il cotone grezzo che il sole asciuga dal piatto che la borsa e la tasca nascondono nell’impronta che il piede lascia sulla roccia » - con questo torrente d’immagini verbali Picasso termina il suo componimento poetico, che è come la premessa del resoconto visivo sulle calamità di cui Franco fu autore.
La guerra di Spagna fu sentita da Picasso in modo così acuto, che egli non poté evitare di venire personalmente coinvolto. L’odiosa figura inventata per Franco derivava dall’immagine, così come egli se l’era immaginata, di un mostro che sentiva latente dentro di sé. Non molto tempo dopo che aveva finito la serie, gli chiesi di firmare la copia che avevo acquistata. Egli lo fece, ma dopo aver scritto il mio nome iniziando con una P minuscola, vidi con stupore che la lettera maiuscola con la quale incominciava la sua propria firma aveva fondamentalmente la stessa forma della testa contorta e grottesca da lui inventata per l’uomo che più odiava. La forza che egli impresse all’immagine, ripresa subcoscientemente da una fonte così intima, indicava fino a qual punto si sentisse coinvolto di persona. Il desiderio di compromettere se stesso per mezzo della sua iniziale non poteva essere più convincente. Proprio come un tempo aveva basato spesso su di un autoritratto idealizzato l’immagine dell’eroe, Arlecchino, così altrettanto personale era adesso, in una prospettiva rovesciata, l’origine subconscia della forma attribuita all’uo­mo che più odiava.






 Picasso illustratore. A cura di Elena Pontiggia
Skira editore 2007, pag. 72
Sueño y Mentira de Franco
Paris 1937, mm 572 x 385
2 acqueforti e acquetinte

Come già fece Mirò con il pochoir intitolato Aidez l’Espagne, nel quale si vede un contadino catalano che indossa il tradizionale berretto rosso e mostra il pugno chiuso, anche Picasso, nel 1937, decise di creare un’opera grafica che venisse venduta per finanziare la Repubblica spagnola, impegnata nella sanguinosa guerra civile contro le milizie fasciste di Franco. Ideò un’elegante cartella che chiamò Sueño y Mentira de Franco, ossia Sogno e menzogna di Franco. La cartella, curata in ogni dettaglio, compresa la copertina disegnata dall’artista, conteneva due incisioni e una poesia surrealista di visionaria verbosità, composta da Picasso. Il breve poema venne riprodotto in forma di manoscritto, ma anche con la trascrizione a stampa in spagnolo e le traduzioni in francese e in inglese. L’autore, pur senza trascurare l’aspetto estetico, era preoccupato di comunicare nel migliore dei modi il suo messaggio e perciò, in questo lavoro, ricerca stilistica e contenuti politici si intrecciano e si sovrappongono in maniera esemplare. Le due lastre vennero acciaiate per consentire un’alta tiratura, che raggiunse gli 890 esemplari, e una maggiore diffusione dell’opera. Le diciotto scene raffigurate in altrettanti riquadri, nove per ciascuna lastra, in un primo momento vennero pensate per divenire cartoline postali ed essere vendute singolarmente a prezzi popolari, ma fortunatamente solo pochi fogli vennero effettivamente tagliati.
Picasso eseguì le incisioni di getto, in soli due giorni, tra l’8 e il 9 gennaio 1937, portando però a termine unicamente la prima lastra, mentre realizzò solo cinque scene della seconda, lasciando il lavoro incompiuto. Alla tecnica dell’acquaforte, utilizzata per tratteggiare i contorni delle figure, si aggiungono le delicate lumeggiature all’acquatinta. La composizione si struttura come un racconto a fumetti, per il quale il pittore si ispirò alle stampe popolari spagnole. Scelse di adottare un registro linguistico che oscilla tra il caricaturale e il grottesco, dove Franco venne raffigurato come un essere mostruoso e ripugnante, impegnato in una serie di azioni laide e disdicevoli: lo si vede cavalcare un porco, reggere con il suo membro uno stendardo, pregare inginocchiato davanti a una moneta e distruggere una statua classica. In due riquadri il Caudillo viene atterrato da un toro bello e possente, che simboleggia il popolo spagnolo e la Spagna repubblicana. Picasso, in queste scene, attaccò violentemente il futuro dittatore con una satira incisiva e graffiante.
Per mesi Picasso abbandonò le due lastre, che furono portate a termine nel maggio del 1937; ma prima che l’artista riprendesse il suo lavoro accadde un drammatico episodio che diede una svolta radicale alla genesi dell’opera. Il 26 aprile, poco prima delle cinque del pomeriggio, la legione Condor dell’aviazione tedesca, che appoggiava l’esercito franchista, si levò in volo e bombardò il centro abitato di Guernica per più di tre ore. Nel corso della terribile aggressione gli aerei lanciarono bombe incendiarie da cinque quintali e, volando a bassa quota, spararono con le mitragliatrici sui civili che cercavano riparo scappando verso le campagne. Alla fine della rappresaglia rimasero al suolo 1654 vittime e 889 persone rimasero ferite; la cittadina, quasi completamente rasa al suolo, era in preda alle fiamme. Il paese, che oggi conta circa quindicimila abitanti ed è nominato “città della pace”, nel 1937 ne aveva solo settemila e non era certo un obiettivo di importanza strategica. Guernica fu la prima città nella storia a venire distrutta dall’aviazione e si può dire che i nazisti fecero le prove generali per la seconda guerra mondiale.
All’indomani del bombardamento, sebbene nazisti e franchisti tentassero di negare tutto, lo scandalo scoppiò a livello internazionale. I giornalisti del “Times”, del “Daily Telegraph”, di “Ce Soir” e della “Reuter” pubblicarono fotografie e reportage che impressionarono l’opinione pubblica. Anche Picasso rimase profondamente turbato e decise di dedicare allo sconvolgente evento il dipinto che intitolò semplicemente Guernica. Nel mese di maggio, mentre lavorava alla grande tela che avrebbe esposto all’Esposizione universale di Parigi, portò a termine anche la seconda lastra di Sueño y Mentira de Franco, utilizzando gli stessi disegni preparatori creati per il dipinto. Per questo motivo, alcune figure del secondo foglio sono molto simili a quelle che si vedono nel quadro. Le ultime quattro scene incise dall’artista sono molto diverse da quelle eseguite in gennaio: la caricatura e la parodia, per quanto feroci, sono ormai inadeguate alla drammaticità degli eventi e lasciano il posto a immagini tragiche che esprimono dolore e disperazione. Le morbidezze dell’acquatinta scompaiono completamente e vengono sostituite da intensi segni neri.
Mentre Guernica è un dipinto con una valenza simbolica e universale che lo slega dall’episodio da cui è nato e lo fa diventare un messaggio imperituro per la pace, la dignità e la libertà di tutti gli uomini del mondo, Sueño y Mentira de Franco, invece, è visceralmente e indissolubilmente legato alla storia ed è il fulgido manifesto antifranchista di Picasso.


Caterina Bon Valsassina
Guernica di Picasso
Mondadori Electa 2007, pp. 7-9

“La visione di Picasso, quella veramente sua, è una visione diretta” (Stein)
“... tutti gli altri vedevano con i loro occhi il Novecento, ma vedevano la realtà dell’Ottocento. Picasso era l’unico, nella pittura, a vedere il Novecento con i suoi occhi, a vedere la sua realtà.... perciò fu il solo pittore ad avere il problema di rappresentare non le verità che vedono tutti, ma le verità che può vedere lui solo; e quello non è il mondo che il mondo riconosce come il mondo”.
Le parole di Gertrude Stein, la grande amica, protettrice e biografa del pittore, sono a mio avviso l’introduzione più intelligente e utile, la bussola per orientarci (e non perderci) nel caos apparente della complessità di Picasso e di Guernica, il grande murale commissionato nel 1937 dal governo repubblicano di Spagna per il Padiglione Spagnolo all’“Exposition Internationale des Arts et des Techniques dans la Vie Moderne” di Parigi (olio su tela, cm 349,3 x 776,6; Madrid, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia).
Il 26 aprile del 1937 il mondo aveva “visto” il primo esempio in Europa di un’azione militare di annientamento contro civili inermi, sperimentato nel corso della guerra civile spagnola (1936-1939) su Gernika, città simbolo dell’identità basca, distrutta dalle bombe dell’aviazione tedesca e italiana alleate delle forze antirepubblicane guidate dal generale Franco.
Le “verità che vedevano tutti”, in quei giorni, diffuse dai reportages fotografici e dagli articoli della stampa quotidiana internazionale, erano edifici in fiamme, sventrati, crollati, cumuli di macerie, l’esodo forzato di abitanti e animali. Ma la visione di Picasso del bombardamento di Gernika era “come lo vedeva lui”, non poteva corrispondere a quella dei suoi contemporanei, a qualunque parte politica appartenessero, ed era, come afferma giustamente la Stein, “una visione diretta”, che “andava oltre” l’apparenza di cose, persone, fatti, una visione capace di cogliere simultaneamente più punti di vista, addirittura di prefigurarne lo sviluppo nel tempo.
In Guernica, infatti, Picasso “vede” la realtà del bombardamento di civili inermi nella città basca e la trasforma, estraendone direttamente il “principio attivo”, la causa che lo ha provocato: lo “spaventoso bisogno del[lo] psichismo [umano]... strano fino alla mostruosità ... [di] annientare l’esistenza dei propri simili senza l’ombra di un motivo plausibile”.
Non risultano collegamenti diretti fra il testo allegorico di Gurdjieff sull’“orrore della situazione” dell’uomo (noto a una ristretta cerchia di adepti) e la celeberrima tela di Picasso, salvo il fatto che entrambi vivessero a Parigi negli stessi anni. Eppure, essi hanno in comune una visione della condizione umana antiretorica e spietatamente esatta, tanto che parole scritte e immagine dipinta sembrano potenziarsi a vicenda. A distanza di settant’anni dal fatto storico dal quale ha preso nome il dipinto, il messaggio che Picasso ha voluto trasmettere al mondo con Guernica sembra aver mantenuto intatta nel tempo la sua forza originaria proprio grazie all’esattezza brutale della verità, certamente sgradevole, raffigurata sulla tela.
“Le immagini sono più potenti dei discorsi” o, per usare le parole stesse di Picasso, “Io non faccio discorsi... Io parlo con la pittura” e la potenza “oltre il tempo” di Guernica lo dimostra senza equivoci. Le “parole” utilizzate dal pittore spagnolo per “penetrare nel cuore del popolo, per esprimerne i sentimenti, per incitarlo alla lotta”, dando sfogo così allo shock provocato da un atto di aggressione e brutalità proprio nella sua terra natale, sono segni, forme, colori (gli strumenti del linguaggio della pittura), “organizzati” sulla tela in modo da mettere in evidenza la sua “visione diretta” dell’episodio.
Guernica è la prima opera di Picasso realizzata su commissione. L’unica ragione per cui l’artista accettò l’incarico propostogli da una delegazione di politici e funzionari spagnoli, nel gennaio 1937, “non fu la natura degli eventi che stavano accadendo in Spagna ... ma il fatto che accadessero in Spagna”. Questa circostanza avrebbe giocato un ruolo fondamentale, condizionando fortemente l’“agenda” dell’artista in relazione alla futura “intenzione” del quadro. L’incarico di Picasso per il Padiglione Spagnolo si configura come una committenza anomala: all’inizio, prima del bombardamento di Gernika, il pittore sceglie un tema decisamente apolitico, Il pittore e la modella, per il quale produce solo pochi schizzi; dopo la catastrofe della città basca, decide, in accordo con la committenza, di modificare radicalmente il soggetto in una denuncia politica del crimine franchista; si mette al lavoro e in cinque settimane lo conclude, devolvendo successivamente il compenso di 150.000 franchi, pattuito come rimborso per le spese vive, a favore di un fondo per i repubblicani spagnoli in esilio.






giovedì 18 settembre 2014

Picasso visto da Man Ray

Testa di toro, 1942

Man Ray [Emmanuel Radnitzsky]
Autoritratto
1963 Man Ray
1975 Gabriele Mazzotta editore
Traduzione dall’inglese di Maura Pizzorno
pp. 182-189

Picasso mi dava l’impressione di un uomo consapevole di tutto ciò che accadeva intorno a lui e nel mondo in generale, un uomo che reagiva violentemente a tutte le avversità, ma aveva un solo strumento per esprimere i suoi sentimenti: la pittura. Le brevi frasi epigrammatiche o enigmatiche che di tanto in tanto pronunciava evidenziavano solo la sua impazienza di fronte agli altri mezzi espressivi. E queste poche parole, quasi esclusivamente relative alla pittura, esprimevano chiaramente, a rifletterci un poco, la sua filosofia e il suo atteggiamento verso la vita.
La prima volta che m’incontrai con lui fu per fotografare le sue ultime opere, agli inizi degli anni Venti. Come sempre quando avevo una lastra in più, la utilizzai per il ritratto dell’artista. La fotografia in sé non era niente di speciale, ma colpiva per lo sguardo intenso e intransigente di quell’uomo, per quegli occhi neri che ti soppesavano. Era basso di statura e piuttosto tarchiato, non praticava in genere esercizi fisici, ma amava nuotare e passeggiare con il cane. In città lo si incontrava soltanto subito dopo pranzo, quando usciva per la sua passeggiata. Evitava con la massima cura gli appuntamenti precisi, fissati per un’ora stabilita.
Venni invitato a colazione, e portai la macchina per fotografare la moglie Olga, un’ex ballerina russa, e il figlioletto Paul. Quando il loro matrimonio fallì, smise di lavorare in quella casa, che rimase chiusa, coi sigilli alle porte, per tutta la durata della causa di divorzio. I suoi avvocati erano disperati perché non tentava neanche di aiutarli a ottenere la separazione legale. Per un paio d’anni dovette rinunciare a dipingere giacché, fino a quando il procedimento legale era in corso e non si raggiungeva un accordo, era previsto il sequestro di ogni suo nuovo quadro. Per lui fu una privazione tremenda. Si mise a scrivere, riempiendo pagine e pagine d’incoerenti frasi in spagnolo, con una scrittura che sembrava aggredire la carta e somigliava al suo modo di disegnare. Anche lo scritto, come qualsiasi sua produzione, apparve immediatamente su una rivista d’arte, insieme a uno degli ultimi ritratti eseguiti da me. Quando il direttore di una grande rivista americana chiese l’autorizzazione a pubblicare parte del manoscritto, a qualsiasi prezzo, rifiutò. Mi pregarono di intercedere presso di lui, e alla fine acconsentì, ma solo a condizione che venisse pubblicato anche il ritratto che gli avevo fatto, e per il quale dovevo poi ricevere un lauto compenso; lui soldi non ne voleva. Dopo qualche tempo apparve la mia foto, ma non il manoscritto. Mi dissero poi che l’avevano fatto tradurre in inglese, ma era così pieno di oscenità che era impossibile pubblicarlo.
Picasso promise di farmi un ritratto a penna per il mio album di ritratti, ormai in via di pubblicazione. Andai a posare da lui in una stanza priva di riscaldamento - era gennaio - e mi tenni il cappotto.
Lui stava accovacciato su uno sgabellino, con una bottiglia d’inchiostro sul pavimento e un album sulle ginocchia. Immergeva la penna nell’inchiostro, incurante delle macchie sulle dita, e il pennino strideva sulla carta. Lavorò per circa un’ora con fare maldestro, come uno studente per la prima volta alle prese con un disegno. Conoscendo la sicurezza e la rapidità con cui sapeva lavorare, ero veramente stupito. A un certo punto mise album e penna da parte, si alzò e cominciò a prepararsi una sigaretta; mi disse intanto di riposarmi. Si rimise al lavoro con la stessa aria incerta, borbottando ogni tanto tra sé. Si inumidì il dito con la lingua e lo strofinò sul disegno, ripetendo più volte l’operazione: alla fine lingua, labbra e dita erano tutte macchiate d’inchiostro. Dopo un ultimo tocco borbottò che non sapeva se avrei potuto servirmi di quel disegno; per lui, potevo anche buttarlo via. Protestai: l’avrei dato al tipografo senza neanche guardarlo; la sua firma mi bastava; se non aveva obiezioni alla pubblicazione, non ne avevo nemmeno io. A volerlo giudicare in base a criteri accademici, quel disegno era un vero pasticcio. E dire che sapeva disegnare meravigliosamente con un solo tratto di penna. Ma quel disegno lo aveva fatto faticare, e l’idea mi piaceva molto. Inoltre dentro c’era molto, moltissimo di me, colto lì in piedi col mio cappotto addosso, e qualsiasi occhio inesperto se ne sarebbe accorto, soprattutto un occhio inesperto. Presi dunque il disegno, che apparve sul frontespizio del mio album, con la stessa accettazione acritica con cui Picasso accettava la mia persona e il mio lavoro. Non si discute la firma su un assegno se il firmatario ha un solido conto in banca, pensavo, e così non si discute la reputazione di Picasso. Alcuni anni dopo, avendo bisogno di denaro, vendetti quel disegno a un collezionista. Sono convinto che lo comprò per la firma; e forse anche, oso sperare, perché era il mio ritratto.
Durante gli anni Trenta conobbi la bellissima Dora Maar, un’abilissima fotografa che in certi lavori dava prova di molta originalità e di un approccio un po’ surrealista. Picasso se ne era innamorato. Un giorno vide nel mio studio un suo ritratto e mi supplicò di darglielo, promettendomi qualcosa in cambio. Lusingato dall’interesse che manifestava per quella foto, gliela regalai e dimenticai l’episodio. Un mese dopo arrivò con un rotolo sotto il braccio: era una delle prime copie numerate della sua acquaforte, Tauromachia, con dedica autografa. Picasso non dimenticava mai nulla.
A quel tempo lavorava nel solaio di un vecchio convento sulle rive della Senna. In Spagna infuriava la guerra civile. Quando ci giunse la notizia del bombardamento di Guernica, Picasso ne fu sconvolto. Dai tempi della prima guerra mondiale, mai fino a quel momento aveva reagito con tanta violenza agli avvenimenti del mondo esterno. Ordinò una grande tela e cominciò a dipingere la sua versione della strage di Guernica. Lavorava febbrilmente tutti i giorni, usando solo il nero, il grigio e il bianco: troppo grande era la sua collera per curarsi di finezze cromatiche o di problemi di armonia e di composizione. Ogni giorno ritornava sulle zone già dipinte non per migliorarle, ma per esprimere una nuova idea su quell’unica tela. Quando ebbe sfogato in parte la sua rabbia e considerò terminato il dipinto, continuò a fare disegni brutali: volti di donne in lacrime, teste di animali agonizzanti. Alcuni anni dopo, quando Guernica fu esposta in un museo, provai una sofferenza quasi fisica a sentire un professore di storia dell’arte che con tutta calma spiegava agli alunni come una certa verticale fosse compensata da una certa orizzontale. E i disegni furono esposti come studi per la tela, mentre in realtà il rapporto era stato capovolto. Picasso non accettava nessuna regola fissa.

Nei tre anni che precedettero l’ultima guerra, d’estate ci riunivamo sempre sulle spiaggie del sud della Francia, come una famiglia felice: io e la mia amica Adrienne, il poeta Paul Eluard e la moglie Nusch, Roland Penrose e la futura moglie Lee Miller, Picasso con Dora Maar e il suo afgano Kasbech. Alloggiavamo tutti alla pensione Vastes Horizons, nella campagna del Mougins sopra Antibes. Dopo la mattinata al mare e la lenta piacevole colazione consumata all’ombra di un pergolato d’uva, ci ritiravamo nelle nostre stanze per riposare o magari fare all’amore. Ma non trascuravamo il lavoro. Alla sera Eluard ci leggeva la sua ultima composizione, Picasso ci mostrava un ritratto di Dora con gli occhi stellati, io ero impegnato in una serie di disegni stravaganti ma realisti, raccolti poi, con le poesie di Paul Eluard, in un volume intitolato Les Mains Libres. Dora, che a Parigi aveva fotografato Picasso mentre dipingeva Guernica, aveva abbandonato la fotografia per la pittura, facendo cioè esattamente il contrario di quanto raccontò poi un biografo di Picasso, secondo il quale un pittore, dopo aver visto l’opera di Picasso, aveva abbandonato i pennelli e si era dato alla fotografia.
Il disegno e la pittura erano una sorta di pausa rispetto alla fotografia, a cui non avevo tuttavia intenzione di sostituirli. È stato sempre irritante per me sentirmi chiedere, secondo l’attività del momento, se avevo deciso di abbandonare l’una per dedicarmi all’altra. Non esisteva nessun conflitto tra le due attività: perché la gente non riesce a capire che una persona può impegnarsi in due attività nel corso della sua esistenza, alternativamente o simultaneamente? Ciò che c’è sotto è indubbiamente il giudizio che la fotografia non è allo stesso livello della pittura, non è un’arte. È un argomento controverso dai tempi dell’invenzione della fotografia, e la questione mi lasciava del tutto indifferente. Per evitare discussioni, avevo apertamente dichiarato che la fotografia non è arte, e avevo pubblicato un opuscolo con questa dichiarazione per titolo, tra la costernazione e la riprovazione dei fotografi. Quando più di recente mi hanno chiesto se ero ancora dello stesso parere, ho dichiarato che avevo leggermente modificato la mia posizione: secondo me, l’arte non è fotografia.
Non mi piaceva dipingere in un luogo estraneo, e per questo presi ad Antibes un appartamentino con una bella terrazza, ove potevo rifugiarmi a dipingere quando il mio lavoro di fotografo a Parigi mi lasciava un po’ di respiro. Le nostre estati idilliche non durarono a lungo. Si andavano addensando le nuvole della guerra. Con toni sempre più arroganti Mussolini minacciava d’invadere il sud della Francia e di riprendersi un territorio che secondo lui spettava di diritto all’Italia. Poi gli accordi di Monaco rimandarono di un anno lo scoppio della guerra. Intanto mi ero comprato una casetta in campagna, nei pressi di Parigi, per evitare di trascurare il lavoro con assenze troppo prolungate dallo studio. Poiché l’avvenire era così incerto, rinunciai al progetto di passare gran parte del mio tempo nel sud, e Picasso, quando glielo dissi, si offerse di subentrare nel mio appartamento di Antibes. Gli girai il mio contratto e imballai le mie cose, compresi tele e colori. Stavo per staccare dal muro una composizione di carta gualcita e ripiegata, sugheri e pezzi di spago, quando Picasso mi chiese di lasciargliela, se potevo, perché gli piaceva molto. Proprio nulla di quel che faccio va perduto, pensai, c’è sempre almeno una persona al mondo cui interessa. Per conservare una testimonianza di quella composizione, prima di partire ne feci una copia esatta, a olio, che intitolai Trompe-l’oeil.
Pochi giorni dopo andai a salutare Picasso, che si era sistemato nell’appartamento mentre io mi ero trasferito in una camera d’albergo. Si era già messo al lavoro. Tutti i mobili della stanza più spaziosa erano scomparsi, e una grande tela era fissata alla parete. L’aveva divisa in una ventina di quadrati, come una scacchiera, e in ognuno di essi dipingeva una natura morta, variazioni d’uno stesso tema. Arrivò intanto anche il gallerista di Parigi, per gli ultimi accordi sulla prossima mostra. Guardò le nature morte, osservò i vasetti di colore, ciascuno con un pennello dentro, e alla fine domandò se erano resistenti - chiaramente non erano colori di marca, li aveva acquistati nel negozietto più vicino. Picasso si strinse nelle spalle e disse che non era affar suo; riguardava semmai i collezionisti e quelli che investivano denaro in opere d’arte. Non era una posa. Una volta gli vidi comprare in un negozio l’intera gamma dei colori migliori e più costosi. Per lui era soltanto una questione di disponibilità, di non perdere tempo quando era posseduto dal desiderio di dipingere.

[...]

Non rividi Picasso che dopo il mio ritorno in Francia, negli anni Cinquanta. Era rimasto nel sud mentre io ero a Parigi, occupato dal mio lavoro, finché, quando la Francia fu invasa, me ne tornai negli Stati Uniti. Quindici anni dopo andai a trovarlo nella nuova villa nei dintorni di Cannes. Gli telefonai il mattino stesso del mio arrivo, e mi chiese di raggiungerlo senza perdere un minuto, perché doveva recarsi subito a Nizza, dove giravano un film su di lui. Risalii la collina e suonai al cancello della villa. Mi abbracciò affettuosamente, come se non fossero passati tutti quegli anni: nulla era cambiato. La casa era immensa, costruita da un pretenzioso commerciante di vini, che aveva fatto fortuna. Il giardino, tenuto con molta cura, era costellato dei bronzi più provocatori di Picasso, che sembravano schernire il gusto barocco del vecchio proprietario. L’interno era tutto dipinto di bianco, così da nascondere i pesanti elementi decorativi. Dappertutto casse ancora chiuse, tele voltate contro la parete, alla quale era appeso un unico dipinto senza cornice: un ritratto di Jacqueline, la nuova moglie di Picasso. Vicino alla porta che dava sul giardino c’era un vecchio divano e, al centro della stanza, una poltrona a dondolo di legno, gli unici sedili disponibili. Una collezione di sculture africane era ammassata alla rinfusa sopra un grande tavolo. In quel museo d’arte primitiva Picasso riuscì a scovare un piccolo pastello, un nudo disteso, racchiuso in una cornice dorata, e mi chiese se me ne ricordavo. Gli dissi di no, e lui mi spiegò che l’avevo lasciato nella casa di Antibes prima della guerra. Quel pastello l’avevo fatto in un momento di ozio, senza attribuirgli alcuna importanza. Decisamente Picasso non dimenticava mai nulla. (A questo punto credo che sarebbe conforme alle buone maniere scusarmi della mia apparente immodestia. Devo tuttavia ricordare che sto facendo un autoritratto, e gli autoritratti, ad esclusione di rari esemplari impressionisti, sono sempre lusinghieri.)
Durante il breve soggiorno a Cannes Picasso mi invitò a pranzo insieme a mia moglie Juliet. Alla fine del pasto, semplice e casalingo, tirò fuori una bottiglia di vodka e qualcuna di champagne. Non beveva mai, ma prese una coppa di champagne per brindare all’avvenimento, mentre Juliet dava fondo alla vodka. Maya, una bionda adolescente, figlia di Picasso e di una sua antica amante, mise un disco di musica da ballo, e Juliet prese a danzare da sola, miniando e mettendo in caricatura le movenze di una ballerina classica. Picasso, sprofondato nella sua poltrona in muta contemplazione, mi rammentava una delle sue prime acquaforti, con il re Erode che ammira la danza di Salomé. Passammo con Picasso un altro pomeriggio, in giardino, insieme a Maya e a un vecchio amico, un torero a riposo. Scattai delle foto di gruppo, poi tornammo a Parigi

Ormai Picasso non viene più a Parigi. L’ho rivisto durante uno dei miei recenti viaggi nel sud, in occasione di una corrida in suo onore, a Vallauris. Ci siamo stretti la mano. Era attorniato da personalità e da fotografi, ma il suo sguardo penetrante sembrava dire: arrivederci al nostro prossimo incontro, in un momento più tranquillo. Sembra non invecchiare mai; il tempo può ancora aspettare finché non avremo occasione d’incontrarci di nuovo. Contrariamente a molti altri che l’hanno avvicinato, e lui si è sempre mostrato generoso, io non gli ho mai chiesto un piacere, né lui l’ha mai chiesto a me; se tra noi c’era anche solo il sospetto di un favore ricevuto, si cercava subito di ricambiare. Io, forse, mi sdebitavo per orgoglio, Picasso per la sua grande umiltà.

Ballo da Etienne de Beaumont
Picasso e Olga Khokhlova, 1924 ca
Picasso, by Man Ray (1932)
Picasso e Kazbek, 1935
Ady Fidelin, Myriam e Paul Cuttoli, Picasso e Dora Maar
davanti: Man Ray - Antibes, 1937

foto di Man Ray

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