Visualizzazione post con etichetta Antico Testamento. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Antico Testamento. Mostra tutti i post

mercoledì 21 maggio 2014

Il mozarabico (2)


È venendo da nord, uscendo di nuovo alla luce del sole dopo il lungo e selvaggio orrido scavato dal rio Deva, che più si apprezza questo gioiello dell’arte mozarábica del X secolo: Santa María di Lebeña, regno apparente del numero quattro.

[NOTA. Anche ai tempi di Roma antica questo numero appariva come fondamento e base dell’ordine del mondo, nei quattro elementi, nelle quattro stagioni, o addirittura nelle quattro parti del mondo (secondo l’opinione geografica del tempo); non senza motivo, al termine di quattro anni veniva a cadere il “lustro”; perfino sulla volta del cielo una quadriga di cavalli volava davanti al carro del dio solare, e ai due grandi luminari celesti, il sole e la luna, due altri minori ne furono aggiunti: Lucifero ed Espero, la stella del mattino e quella della sera].

Ad una struttura basale quadrata - romanica, che le colonne visigotiche a loro volta suddividono in dodici sezioni - è appoggiata una seconda parte formata da un rettangolo suddiviso in tre quadrati. Ancora numeri, tanto cari ai primitivi adoratori del Dio unico, ma anche retaggio di spiritualità arcaiche. Quale basamento dell’altare è stata murata una pietra rettangolare d’origine celtica, con al centro un grande disco solare in movimento circondato da altri sei cerchi minori. In basso, due linee rette sovrastanti linee spezzate riportano - così sembra - al periodo preistorico. Dov’è il legame con la mistica araba? Perché ci si ostina a considerare questa chiesetta quale raro esempio sopravvissuto dell’arte mozarábica? Come a San Baudelio, anche qui il segreto è sotto gli occhi, dunque invisibile al profano: tutta la volumetria della chiesa - altezza, larghezza e profondità - è costruita sul modulo-trama 33,33 - il sacro numero della perfezione, lo stesso che i Padri della teologia cristiana hanno imposto quale periodo di vita del Cristo. Tuttavia, questo modulo numerico è una reinterpretazione occidentale dell’ancor più antico numero 108, caro sia ai monaci jaina e del buddhismo tantrico, sia ai brahmana vedici, gli “inventori” del rito religioso fondato sull’intermediazione del clero: la somma delle tre cifre che formano questo numero dà come risultato nove, a sua volta riportabile a tre volte tre. Nei templi dell’India ancor oggi questa simbologia è rappresentata al suolo da un gruppo di 99 “linga” (“marchi” rappresentati da itifalli di pietra) disposti su tre file, più altri nove “linga” - più importanti per grandezza e sempre disposti su tre file - in testata.
Riepilogo: tre file con 33 pietre cadauna, più altre tre file di tre pietre formano il numero 108, ovvero 36 volte il numero tre; ma 36 è dodici volte tre, e dodici è quattro volte tre, esattamente come lo è il modulo 33,33. Non a caso lo stesso modulo - dodici apostoli suddivisi in quattro gruppi di tre (3, 3, il Cristo, 3, 3) - è stato utilizzato da Leonardo per l’Ultima Cena di Milano. Perché lui - è certo - sapeva...

NOTA. Grossolanamente - perché entrare nello specifico non è compito di questo scritto - in India il numero 33 è così formato: se agli 8 Vasu si sommano i 3 prana principali (prana, apana e vyana) si dà origine agli 11 Rudra; aggiungendovi il manas (rappresentato dal Sole), si hanno i 12 Aditya. Assommando a questi numeri (8, 11 e 12) i 2 gemelli Aśvin si ha come risultato 33: il numero perfetto in cui si manifesta il divino.


Modulo trama 33,33

Credo sia qui opportuno introdurre una breve nota sulla qabbalah, parola derivata da un termine ebraico che significa “ricevere [la tradizione orale]”. Sebbene le formulazioni conosciute della qabbalah ebbero origine nel Medioevo nella Spagna meridionale, di fatto esse affondano le proprie radici in tradizioni esoteriche assai più antiche, risalenti al periodo detto dalla storiografia ebraica “del Secondo Tempio” (dal VI secolo a.e.v. al I secolo e.v.). Secondo i qabbalisti, invece, la qabbalah costituisce la parte segreta della rivelazione divina a Mosè sul Monte Sinai. I suoi testi principali sono il Yesifrah (Libro della Creazione) e il Sefer ha-Zohar. Idra rabba (Libro dello Splendore. Grande assemblea), pubblicato per la prima volta nel 1300.
Succintamente, qabbalah è l’insieme delle teorie e delle pratiche del misticismo esoterico ebraico che associa ad ogni nome un valore numerico e ad ogni valore una “vibrazione metafisica” capace di provocare eventi soprannaturali, nata dal desiderio di svelare anche i significati più reconditi del Vecchio Testamento (Torah, “Legge”, o più esattamente: “Istruzione”) che per la religione ebraica è la parola di Adonai [il nome proprio Jahvèh, in quanto ineffabile, è stato ed è tuttora letto dagli ebrei Adonai, e tradotto nel Settanta in Kyrios, “Signore”]. Quindi, ciascuna parola e ciascuna lettera delle parole che compongono la Torah diventano interpretabili secondo diversi livelli interpretativi, e poiché ogni lettera dell’alfabeto ebraico ha anche un valore numerico basato sul sistema decimale, una delle tecniche interpretative più comunemente usate della qabbalah è la numerologia.
Agli specialisti sono note la qabbalah spagnola - nel XII secolo mistici della Catalogna divulgarono nei circoli spagnoli speculazioni qabbalistiche sul male, la salvezza e l’anima - e la qabbalah lurianica - dopo il 1492, anno del forzato esodo degli ebrei dalla Spagna, Yizhaq Luria promosse da Safed, una città della Galilea, nuovi usi e riti. Ma vi fu, anche se poco o niente “reclamizzata”, una qabbalah cristiana. La scoperta del misticismo giudaico da parte dei cristiani cominciò nel 1486, con le traduzioni dei testi qabbalistici approntate dall’ebreo convertito Flavio Mitridate per Giovanni Pico della Mirandola. Fu Pico il primo intellettuale cristiano a riconoscere alla qabbalah valore interpretativo e dignità di scienza antica. I concetti qabbalistici che egli accolse nelle sue Novecento tesi trasformarono una dottrina guardata con sospetto in tema privilegiato del dibattito culturale dell’epoca. Negli insegnamenti segreti del giudaismo il conte della Mirandola cercava conferma alla propria fede cristiana, e pensava che i misteri della sefirot fossero in accordo con le verità evangeliche. Dopo di lui, l’utopia di una qabbalah cristiana fu coltivata dall’umanista tedesco Johannes Reuchlin, e conquistò persino il favore di un cardinale influente come Egidio da Viterbo, generale degli Agostiniani al tempo di Lutero. Il cardinale - che al pari di Pico si faceva copiare e tradurre opere mistiche - fu consapevole dell’importanza dei diagrammi, tanto da commissionare a un esperto amanuense un rotolo qabbalistico “con disegni di vari colori in un foglio grande di carta pecorina”. Più eclettica di quella ebraica nelle sue aspirazioni, la grafica dei qabbalisti cristiani tende a elaborare immagini composite, in cui il misticismo giudaico convive con spunti astrali e con più prepotente iconismo. Dal francescano musico e alchimista Francesco Zorzi, al medico e mago Cornelio Agrippa, al retore e poeta Achille Bocchi, e fino alle ruote mnemoniche di Giordano Bruno e alle mitologie visive di Robert Fludd, l’elemento qabbalistico divenne lievito di cultura visiva in tutta Europa.

Ma la visita non è ancora finita: avendo sviluppato il simbolismo del cubo all’interno, tocca all’aspetto esterno di Santa María di Lebeña essere modulato con le tre chiese ascensionali. Ed infatti tre sono i livelli dei tetti: quello inferiore copre l’ingresso (suddiviso dalle colonne in tre parti), quello intermedio appartiene alla chiesa, il più elevato si innalza al centro (cupola quadrata, ricoperta da un tetto spiovente sui due lati, a frontone greco, dunque triangolare). Poco discosto vi sono due giganteschi alberi, un tasso e un ulivo, che la tradizione vuole siano stati piantati dai primi costruttori della chiesa; sarebbero vecchi, quindi, di oltre mille anni. L’immancabile corso d’acqua sorgiva, un piccolo ombreggiato cimitero e imponenti pareti rocciose completano la geografia di questa preziosa zolla di Spagna.

[continua, 2/3]

ARTICOLI CORRELATI
San Miguel de Escalada

© Testo e fotografie (da slides) di Giancarlo Mauri













Vincenzo Cartari


L’alfa di Vincenzo Cartari pare sia l’anno 1531 (pare...), mentre resta sconosciuto l’omega, che pure in tempi passati era la data più significativa, tanto da essere l’unica segnata nei registri e/o sulle lapidi: la morte segnava l’inizio della vita nell’aldilà, dunque la vera “nascita”. Concetti presi paro paro dai miti orientali. L’India delle rinascite insegna…
Durante questo incerto periodo di vita, Cartari realizzò molto più di un libro. Gettò le basi dell’iconologia artistico-religiosa, creando storie e miti arrivati - e creduti veri - fino ad oggi.
Tutto iniziò nel 1566, quando dalla tipografia Rampazetto di Venezia uscirono i 184 fogli in ottavo del libro intitolato Le Imagini con la spositione de i dei de gli antichi, raccolte par Vincenzo Cartari ecc. Nero su bianco - opposizione nata proprio con l’avvento della stampa, in sostituzione della precedente coppia di opposti bianco e rosso, tuttora in vigore in Oriente - il Cartari creava l’iconologia degli umori, dei sentimenti, dei vizi e delle virtù degli umani. In altre parole: come poteva un pittore o uno scultore rappresentare la lussuria, l’invidia, la gola, l’invidia, l’accidia? E per descrivere al meglio la singola “figura”, gli abiti, gli orpelli di contorno, Cartari ebbe la necessità di studiare il cosiddetto (dai cristiani) Antico Testamento, speculando sulle frasi, sulle parole, da confrontare e arricchire coi testi degli Antichi e con le storie arrivate “da Oriente”.
Scritto in volgare, il libro di Cartari scosse il suo mondo, ma per il vero successo editoriale si dovrà aspettare la seconda edizione, intitolata Le imagini de i dei de gli Antichi : nelle quali si contengono gl'idoli, riti, ceremonie, & altre cose appartenenti alla religione de gli Antichi raccolte dal sig. Vincenzo Cartari,... appresso Giordano Ziletti (In Venetia) 1571, opera arricchita da riproduzioni che rendevano finalmente “chiare” le idealizzate figure dell’Autore.
Gli stampatori fiutarono l’affare e approfittando del vuoto istituzionale a tutela dei diritti d’autore uscirono con nuove edizioni: fuori dagli italici confini il libro di Cartari venne tradotto in latino col titolo Imagines deorum, qui ab antiquis colebantur olim a Vicentio Chartario rhegiensi ex variis autoribus in unum collectae ; atque Italica lingua expositae: nunc vero ad communem omnium utilitatem latino sermone ab Antonio Verderio, B. Honoratum, Lugduni, 1581 (in quegli anni due importanti sedi di stampa portavano il nome di Lugduni: una è l’attuale Lione; l’altra, Lugduni Batavorum, corrisponde all’olandese Leida).
Gustosa è l’edizione del 1615: Le vere e nove imagini de gli dei delli antichi di Vicenzo Cartari Reggiano. Ridotte da capo a piedi in questa novissima impressione alle loro reali, & non piu per l'adietro osservate simiglianze. Cavate da' marmi, bronzi, medaglie, gioie, & altre memorie antiche. In Padova, Appresso Pietro Paolo Tozzi, nella stampa del Pasquati. Le nove immagini altro non sono che gli dèi degli “Indiani del Messico”, una novità a quei tempi. Lo stesso libro avrà una ristampa nel 1624.
Illuminante, invece, è la Seconda novissima editione delle Imagini de gli dei delli antichi di Vicenzo Cartari reggiano : ridotte da capo a piedi alle loro reali, & non più per l'adietro osservate simiglianze : cavate da' marmi, bronzi, medaglie, gioie, & altre memorie antiche : con esquisito studio, & particolare diligenza. In Padova : Nella stamperia di Pietro Paolo Tozzi, 1626 - edizione contenente la Tavola dei contenuti: Annotationi all'imagini del Cartari, p.[?]-528 -- Aggiunta all'imagini del Cartari / del sig. Lorenzo Pignoria, p. 529-544 -- Seconda parte delle imagini de gli dei indiani / aggionta al Cartari da Lorenzo Pignoria, p. 545-586 -- Catalogo di cento più famosi dei de gli antichi / per Cesare Malfatto Padoano, p. 589-592 -- Catalogo d'autori antichi & moderni, p. 593-594 -- Tavola delle cose notabili, p. 595-606.
Il successo, oltre cento riedizioni, arriva ai giorni nostri: il titolo è ristampato in facsimile da Luni nel 1999. Ne esiste una riedizione del 2004, un po’ più difficile da trovare sulle bancarelle.

I tempi sono cambiati - e con Wikipedia a portata di click si crede di poter accedere all’intero scibile umano, mentre invece è tutto il contrario: i furbi (sempre i soliti) hanno imparato la legge di Darwin e si sono messi a riadattare i testi della “libera enciclopedia” a loro uso e consumo, seminando colta ignoranza a piene mani.
E così le “paurose” storie che intere generazioni di contadini si raccontò nel buio delle stalle durante le lunghe serate invernali, irrobustite dal riutilizzo delle pagine del Cartari da parte degli artisti che riempirono le chiese di statue e affreschi creando l’abbecedario iconologico - e dunque la nostra cultura -, entrarono nell’umano Dna…
Ovviamente Cartari non fu lasciato solo: presto il suo tempo si arricchì di Bestiari, libri che volevano illustrare storie e miti degli animali inclusi nelle varie teologie.
A mio avviso, l’allievo più importante di Cartari resta Cesare Ripa (circa 1560-prima del 1625), che dopo una vita anonimamente trascorsa a Siena al servizio di un cardinal Salviati, nel 1593 dette alle stampe la sua Nova Iconologia del Cavalier Cesare Ripa Perugino, di solo testo. Per un’edizione illustrata si dovrà attendere la seconda edizione (1603), con le incisioni di Giuseppe Cesari detto il Cavalier d’Arpino. In tempi recenti, questo volume è stato riproposto da TEA (1992) e Neri Pozza (2000; non escludo riedizioni più recenti).

Partendo dai libri di Cartari e dai bestiari medievali, Fernando Rigon firma un libro interessante: Arte dei numeri. Letture iconografiche, Skira editore, 2006.
Che l’Autore sia stato direttore del Museo Biblioteca Archivio di Bassano del Grappa dal 1976 al 1983, e poi dirigente del settore Musei e monumenti civici di Vicenza dal 1983 al 1991, lo si intuisce dai continui riferimenti alle stampe dei Remondini e agli affreschi di alcune Ville venete. Il libro racconta la storia dei numeri nell’arte, ovvero del loro inserimento “teologico” nei dipinti chiesistici, con abbondante utilizzo delle pagine di Cartari, il Virgilio di turno.
È un libro interessante, soprattutto per chi è disabituato a “vedere” l’opera artistica, limitandosi al manierismo di facciata. Ignorando le uniche opere d’arte “libere”, quelle preistoriche, una nozionistica scuola dell’obbligo ha insegnato a indugiare sulle pieghe delle vesti piuttosto che a riflettere su come e perché in tempi senza giornali né televisioni intere generazioni di pittori siano state indotte dai padroni di turno a riempire le pareti di edifici civili - ma più ancora religiosi - con dipinti utili alle lotte per il potere. Un esempio: per secoli nella basilica fiorentina di San Lorenzo, chiesa padronale dei ricchi banchieri de’ Medici, sacerdoti cattolici sono stati costretti ad officiare riti cattolici circondati da affreschi volutamente irriverenti verso il vescovo di Roma, con scene “eretiche” tratte da vangeli apocrifi. Tutto questo finisce quando i Medici conquistano l’ambito trono di Pietro: ora quei dipinti hanno perduto il loro valore politico, dunque si possono cancellare, sostituiti da altri, allineati al nuovo potere acquisito. Tutto questo lo ha ben spiegato Massimo Firpo nel suo libro edito da Einaudi nel 1997 col titolo: Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Sottotitolo: Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I.

È in questo modo che si dovrebbe insegnare la Storia dell’arte - che è parte importante della nostra Storia. Disquisire sugli stili non porta molto lontano: il furbesco mantra “capra capra capra capra!” è dietro l’angolo. Per evitare che nasca “l’homo pensante”, televisioni, giornali e libri abbondano di notizie distorte. Credo sia un nostro impegno “non credere a nulla di quel che ci dicono e solo a metà di quel che vediamo”, imparando a incrociare le informazioni - che in materia d’arte ad uso “religioso” coinvolgono pesantemente l’antropologia, più che la teologia e certa filosofia.

© testo di Giancarlo Mauri