Il tempo passa e “le salve del
dottor Alzhaimer” - per usare le parole di Patrick Leigh Fermor, che così
definiva “i colpi di amnesia” - sono sempre più frequenti.
Sono giorni che vago fra gli scaffali di casa alla ricerca del libro in
cui si racconta delle italiche vacanze estive del suo autore in compagnia di
Elio Vittorini e della sua compagna Ginetta Varisco. Chissà perché, l’istinto mi
conduce alla voluminosa raccolta delle Cronache
mediorientali di Robert Fisk. Ricerca inutile.
Ho ripreso Edgar Morin, ma anche
qui niente di niente.
Poi …forse Gregor von Rezzori?
Riapro Sulle mie tracce, un
libro a suo tempo raccattato “a nuovo” su di una bancarella e da me letto più volte: l’autore parla di molti suoi amici italiani, ma di Vittorini
non trovo traccia.
Che dire? Me ne faccio una
ragione: in fin dei conti in giro c’è gente che ha problemi ben più grandi del
mio (l’amnesia, ovviamente). NOTA aggiunta il 15.12.2020: eureka! ho trovato.
Il perché di tutto questo
accanimento è subito detto: Vittorini condivise parte della sua
vita con Ginetta Varisco, figlia di un uomo che fu sindaco di Concorezzo e in questo paese, in gran segreto,
Elio Vittorini trovò nuova sepoltura nella tomba di famiglia di Gio. Battista
Varisco, il padre di Ginetta.
Ecco: mi sarebbe piaciuto trovare
quelle pagine dove una terza persona racconta del tempo passato in loro
compagnia, anche se ho la certezza che questo mio momentaneo insuccesso avrà un
riscatto: prima o poi quelle pagine arriveranno “di loro spontanea volontà”
sotto ai miei occhi. Già tante volte è successo… e mi consola [far di necessità
virtù] leggere quanto scrive von Rezzori nel già citato buon libro, edito da
Ugo Guanda nel 2008:
Essere sulle
tracce di se stessi è un’impresa rischiosa, si mettono a nudo cose che si
nasconderebbero volentieri a se stessi, e figuriamoci poi agli altri.
Confessare qualcosa dinanzi a se stessi è già abbastanza imbarazzante; il
decoro vieta di farlo dinanzi agli altri. Ricordo un episodio molto istruttivo
che sta in un libro di Dostoevskij, non so più in quale. Dostoevskij è uno
degli autori che ho letto in un’epoca in cui, tormentosamente conscio della mia
ignoranza, cercavo di colmare le mie lacune leggendo a man bassa «I Cento
Grandi Libri della Letteratura Universale che ognuno deve conoscere». Il
compagno Fédor Michajlovič, che
è uno dei più importanti della compagnia, lo consumai integralmente in un’unica
seduta, e mi si perdonerà se oggi non riesco a estrarre dall’insalata russa che
mi è rimasta nella memoria i singoli bocconi con tanto di denominazione
d’origine.
Il libro di von Rezzori finisce
con delle riflessioni che in parte si ricollegano a momenti della mia vita: Bruce Chatwin e l’India,
terra da me amata e percorsa in lungo e in largo. Da solo il più delle volte, o meglio ancora: da solo, sì ...ma in compagnia di un miliardo di persone.
Scrivo queste
ultime pagine il 13 maggio 1997, nel giorno del mio ottantaquattresimo
compleanno. Dopo una primavera freddissima finalmente è arrivato il sole.
Grazie alla severa educazione venatoria impartitami dalla buonanima di mio
padre, per tutta la vita non mi sono mai curato delle condizioni climatiche: né
freddo polare, né caldo tropicale mi hanno mai disturbato - neanche la scarsità
del cibo degli anni durante e dopo la guerra; piuttosto la cattiva cucina delle
madri di famiglia tedesche, Priska compresa. Adesso invece le mie vecchie ossa
stanno bene al calduccio: il mio ideale è un sonnellino pomeridiano - in
italiano un pisolino - avvolto in
morbide coperte e con il mio carlino più anziano sulla pancia. Saranno
abitudini dell’età. E poi ci sono i malanni della vecchiaia: da un po’ registro
una difficoltà a leggere e a scrivere. Ce l’avevo avuta anche durante la mia
trascurata giovinezza, ma l’avevo superata con l’esercizio. Adesso si è
ripresentata, ed è una difficoltà non più psichica, cioè dovuta alla pigrizia,
bensì eminentemente meccanica: nel mio campo visivo si è insinuato qualcosa che
ricorda nella forma il coccodrillo delle magliette Lacoste e che precede il mio
sguardo divorando le righe prima che io arrivi a decifrarle fino in fondo.
Quando scrivo, non è così grave; ma io leggo volentieri, sono il migliore
lettore dei miei colleghi. Così mi sono risolto ad andare dall’oculista, a
Firenze. «Niente di grave» mi ha detto. «Un fenomeno dell’età.» Ma che si
crede? Ernst Junger e Zsa Zsa Gabor sono molto più vecchi di me e sicuramente
non sono importunati dal piccolo coccodrillo di Monsieur Lacoste. Sia opera
dello «Spirito del mondo» di mia zia Hermine o della «Provvidenza» di Adolf
Hitler, è un fatto che i beni della vita sono distribuiti in modo nient’affatto
equo.
Non voglio
certo ribellarmi, ma nemmeno farmi imporre senza protestare ciò che questo
grandissimo stronzo, l’onnisciente, l’onniprevedente, l’onnigiusto rifugio di
tutti i creduloni, ha deciso per me. So fino a che punto sono stato vissuto al
di sopra e al di là di me - destino che, con mio grande scorno, condivido con
tutti i miei contemporanei. Ma so anche quale tonalità ho dato, a questa vita
vissuta, con il diapason del mio io (ma questo io era davvero io-determinato o
già da subito nelle grinfie dell’onnipotente? Piccolo contributo al tema del
libero arbitrio). Purtroppo, in quanto corresponsabile del mio destino, non posso
accollare a quella potenza tanto citata tutto ciò che ha impedito alla mia vita
di evolversi all’insegna dell’armonia (anche se avrei a disposizione ottime
scuse per farlo). Comunque sia, gli acciacchi fisici non vanno certo addebitati
sul mio conto personale: è il Creatore, nella sua insondabile saggezza, che me
li ha attribuiti. Se fossi un uomo pio direi: «Affinché io non goda troppo le
delizie della tarda età».
Io sono, come
si dice, un robusto vegliardo. Tutti quelli che mi vengono a trovare si stupiscono
di quanto sia ancora vivace intellettualmente. Partecipo attivamente a quanto
accade intorno a me, leggo il giornale con una certa regolarità. Ogni tanto,
nelle dolci ore del mattino, capita che, per rispetto della mia tarda età,
invece di precipitarmi giù dal letto per mettermi subito al lavoro, io rubi al
vortice degli impegni quotidiani un po’ d’ozio e mi dedichi a un gioco che
richiede una concentrazione pari a quella necessaria a risolvere un dilemma
scacchistico: la decifrazione della politica italiana. Di giorno in giorno
cresce in me l’ammirazione per l’abilità dei politici che, fingendosi
drammaticamente impegnati a lottare per la res
publica, tessono in realtà tutta una trama di lotte per il potere che non
ha nulla a che fare con il bene dello stato o del popolo, ma serve ad
accrescere proporzionalmente la partecipazione dei singoli partiti alla
spartizione del bene pubblico. Così facendo, il potere diventa una sorta di
astrazione che se da un lato non favorisce certo il benessere del popolo, dall’altro
non lo danneggia più di tanto. È uno straordinario esempio di democrazia che mi
fa ben sperare nel futuro che non vedrò. I rieducandi di Wilton Park sarebbero
dovuti venire a scuola qui. Quanto a me, non ho più bisogno di sognare utopie.
Comunque non serve a molto che io mi attacchi al giornale come a un’ancora per
non andare alla deriva nell’apatia della vecchiaia. Non posso più farmi carico
del destino del mondo, è troppo il peso del passato che mi trascino dietro, per
quanti sforzi faccia di liberarmene. Invece non mi libero della mia ironia, al
contrario. L’invecchiamento è un processo pieno di seduzioni, la benedetta
distanza dagli eventi, che vado conquistando, comprende anche me stesso. Con lo
stesso ghigno sarcastico con cui accolgo i fatti del giorno in tutta la loro
grottesca contraddittorietà, guardo anche al progressivo calo del mio interesse
per queste cose. Non diventerò mai un buon lettore di giornali. Come potrei non
meravigliarmi del fatto che l’Unione europea, pur essendo nient’altro che una
costruzione burocratica, diventi una realtà, quando vedo sempre più chiaramente
come le nazioni, una dopo l’altra, si spacchino nelle loro diverse componenti
etniche, ciascuna delle quali reclama a gran voce la propria autonomia? Bossi
proclama la Padania libera, la Serenissima vuole che Venezia si autoamministri,
i gallesi si sciolgono dall’Inghilterra dopo che gli scozzesi lo hanno fatto
già da tempo. Intanto Waigel mette a repentaglio l’economia tedesca pur di
introdurre la moneta unica. Mon cul.
Non dovrei scuotere il capo desolato vedendo la nazione americana che davanti
al suo presidente intento, come un borghesuccio qualsiasi, a fare affari con le
lobbies, compresa quella cinese, non
batte ciglio, ma poi freme di sdegno se quello stesso presidente tocca il culo
a una segretaria? No, l’unica cosa da prendere sul serio è la sezione del
Pitaval intitolata Morte e distruzione,
che interessa un numero sempre crescente di giovani. Evviva i giovani! Le
piccole tragedie quotidiane: giovane disoccupato uccide per disperazione moglie
e figli. Quanto è più reale questo rispetto all’angosciosa domanda se un
tribunale riuscirà mai a dimostrare ciò che da cinquant’anni chiunque ritiene
di sapere sul conto di Andreotti!
La distanza tra
me e il presente diventa ogni giorno più grande: davanti a un computer sono
come l’asino in mezzo ai suoni. Il compagno Kasparov è stato battuto agli
scacchi da una macchina, una macchina che in un secondo è in grado di elaborare
non so quanti calcoli. Evviva! Sarà più facile calcolare la potenza esplosiva
della bomba al cobalto, o la possibilità di clonare soldati (come il mio
amatissimo «fratello tedesco» con la coccarda nera, bianca e rossa sul chepì),
o cose del genere. Quello che, personalmente, potrebbe riguardarmi un po’ di
più è il tramonto della civiltà orientale nel gorgo del progresso occidentale.
Mi dispiace. Lo so: al cospetto della televisione la giovane lepre di Dürer si allontana a balzelloni,
rassegnata. Non piangerò per lei, di cultura mi sono occupato fin troppo. J’en ai soupé.
Con Beatrice
questa mia moderna barbarie devo nasconderla: lei appartiene alla schiera
abbastanza nutrita di quelli che mi agitano sotto il naso l’insegna dell’arte,
e dunque, discorsi di questo genere è bene che io li eviti. L’importante è che
io sia avveduto e obbediente sotto altri riguardi: per esempio, scorpacciate di
India. È naturale che, in qualità di contemporaneo, abbia dato anch’io il mio
contributo al turismo mondiale. Bruce Chatwin era nostro amico; non abbiamo mai
fatto un viaggio con lui, ma in compenso abbiamo introiettato scrupolosamente
le avventure di viaggio di tutti i suoi illustri predecessori, da Richard
Burton a Robert Byron. Ne sono venuti fuori giri turistici dall’Etiopia all’Alaska,
dal Giappone al Kashmir, prima che anche laggiù cominciassero a sparare. Il
mondo era più romantico senza le piramidi di teschi della Cambogia e le
sparatorie dell’Afghanistan e con minore traffico di autobus a Katmandu. Più
variopinto e più folkloristico. Ormai non è più quasi da nessuna parte quello
che era stato prima di me. Le mandrie di zebre della pianura del Serengeti
erano state cento volte più numerose, il cielo di Kyoto non era stato livido di
smog. Per questo è diverso il senso di colpa collettivo che porto in me.
Non amo la mia
razza, la razza bianca che più di tutte ha colpa se il nostro tempo è diventato
un non tempo. Dappertutto progresso, e la giovane lepre di Dürer ne è morta soffocata. Eppure, l’odio
mi ha abbandonato. Vedo i miei poveri contemporanei più giovani piegati sotto
una grandine di informazioni che ha il solo scopo di ricordare loro che la fine
è vicina. Meritata, immeritata, provocata... Che vuol dire? Noi veniamo
vissuti. Il Dio degli eserciti saprà quello che fa. Quanto a me, sono un Epochenverschlepper, pratico il
«differimento epocale» e mi accontento di una piccola vita biedermeier. Amo questa casa in Toscana, amo la mia Beatrice.
Insieme guardiamo pieni di fiducia e di speranza al futuro, e al mio prossimo
libro: finalmente una vera biografia.
Ortigia (Siracusa)
la casa natale di Elio Vittorini
La tomba di Elio Vittorini e di Ginetta Varisco