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giovedì 5 gennaio 2017

Elio Vittorini, Ginetta Varisco e Gregor von Rezzori




Il tempo passa e “le salve del dottor Alzhaimer” - per usare le parole di Patrick Leigh Fermor, che così definiva “i colpi di amnesia” - sono sempre più frequenti.
Sono giorni che vago fra gli scaffali di casa alla ricerca del libro in cui si racconta delle italiche vacanze estive del suo autore in compagnia di Elio Vittorini e della sua compagna Ginetta Varisco. Chissà perché, l’istinto mi conduce alla voluminosa raccolta delle Cronache mediorientali di Robert Fisk. Ricerca inutile.
Ho ripreso Edgar Morin, ma anche qui niente di niente.
Poi …forse Gregor von Rezzori? Riapro Sulle mie tracce, un libro a suo tempo raccattato “a nuovo” su di una bancarella e da me letto più volte: l’autore parla di molti suoi amici italiani, ma di Vittorini non trovo traccia.
Che dire? Me ne faccio una ragione: in fin dei conti in giro c’è gente che ha problemi ben più grandi del mio (l’amnesia, ovviamente). NOTA aggiunta il 15.12.2020: eureka! ho trovato.


Il perché di tutto questo accanimento è subito detto: Vittorini condivise parte della sua vita con Ginetta Varisco, figlia di un uomo che fu sindaco di Concorezzo e in questo paese, in gran segreto, Elio Vittorini trovò nuova sepoltura nella tomba di famiglia di Gio. Battista Varisco, il padre di Ginetta.
Ecco: mi sarebbe piaciuto trovare quelle pagine dove una terza persona racconta del tempo passato in loro compagnia, anche se ho la certezza che questo mio momentaneo insuccesso avrà un riscatto: prima o poi quelle pagine arriveranno “di loro spontanea volontà” sotto ai miei occhi. Già tante volte è successo… e mi consola [far di necessità virtù] leggere quanto scrive von Rezzori nel già citato buon libro, edito da Ugo Guanda nel 2008:

Essere sulle tracce di se stessi è un’impresa rischiosa, si mettono a nudo cose che si nasconderebbero volentieri a se stessi, e figuriamoci poi agli altri. Confessare qualcosa dinanzi a se stessi è già abbastanza imbarazzante; il decoro vieta di farlo dinanzi agli altri. Ricordo un episodio molto istruttivo che sta in un libro di Dostoevskij, non so più in quale. Dostoevskij è uno degli autori che ho letto in un’epoca in cui, tormentosamente conscio della mia ignoranza, cercavo di colmare le mie lacune leggendo a man bassa «I Cento Grandi Libri della Letteratura Universale che ognuno deve conoscere». Il compagno Fédor Michajlovič, che è uno dei più importanti della compagnia, lo consumai integralmente in un’unica seduta, e mi si perdonerà se oggi non riesco a estrarre dall’insalata russa che mi è rimasta nella memoria i singoli bocconi con tanto di denominazione d’origine.

Il libro di von Rezzori finisce con delle riflessioni che in parte si ricollegano a momenti della mia vita: Bruce Chatwin e l’India, terra da me amata e percorsa in lungo e in largo. Da solo il più delle volte, o meglio ancora: da solo, sì ...ma in compagnia di un miliardo di persone.

Scrivo queste ultime pagine il 13 maggio 1997, nel giorno del mio ottantaquattresimo compleanno. Dopo una primavera freddissima finalmente è arrivato il sole. Grazie alla severa educazione venatoria impartitami dalla buonanima di mio padre, per tutta la vita non mi sono mai curato delle condizioni climatiche: né freddo polare, né caldo tropicale mi hanno mai disturbato - neanche la scarsità del cibo degli anni durante e dopo la guerra; piuttosto la cattiva cucina delle madri di famiglia tedesche, Priska compresa. Adesso invece le mie vecchie ossa stanno bene al calduccio: il mio ideale è un sonnellino pomeridiano - in italiano un pisolino - avvolto in morbide coperte e con il mio carlino più anziano sulla pancia. Saranno abitudini dell’età. E poi ci sono i malanni della vecchiaia: da un po’ registro una difficoltà a leggere e a scrivere. Ce l’avevo avuta anche durante la mia trascurata giovinezza, ma l’avevo superata con l’esercizio. Adesso si è ripresentata, ed è una difficoltà non più psichica, cioè dovuta alla pigrizia, bensì eminentemente meccanica: nel mio campo visivo si è insinuato qualcosa che ricorda nella forma il coccodrillo delle magliette Lacoste e che precede il mio sguardo divorando le righe prima che io arrivi a decifrarle fino in fondo. Quando scrivo, non è così grave; ma io leggo volentieri, sono il migliore lettore dei miei colleghi. Così mi sono risolto ad andare dall’oculista, a Firenze. «Niente di grave» mi ha detto. «Un fenomeno dell’età.» Ma che si crede? Ernst Junger e Zsa Zsa Gabor sono molto più vecchi di me e sicuramente non sono importunati dal piccolo coccodrillo di Monsieur Lacoste. Sia opera dello «Spirito del mondo» di mia zia Hermine o della «Provvidenza» di Adolf Hitler, è un fatto che i beni della vita sono distribuiti in modo nient’affatto equo.
Non voglio certo ribellarmi, ma nemmeno farmi imporre senza protestare ciò che questo grandissimo stronzo, l’onnisciente, l’onniprevedente, l’onnigiusto rifugio di tutti i creduloni, ha deciso per me. So fino a che punto sono stato vissuto al di sopra e al di là di me - destino che, con mio grande scorno, condivido con tutti i miei contemporanei. Ma so anche quale tonalità ho dato, a questa vita vissuta, con il diapason del mio io (ma questo io era davvero io-determinato o già da subito nelle grinfie dell’onnipotente? Piccolo contributo al tema del libero arbitrio). Purtroppo, in quanto corresponsabile del mio destino, non posso accollare a quella potenza tanto citata tutto ciò che ha impedito alla mia vita di evolversi all’insegna dell’armonia (anche se avrei a disposizione ottime scuse per farlo). Comunque sia, gli acciacchi fisici non vanno certo addebitati sul mio conto personale: è il Creatore, nella sua insondabile saggezza, che me li ha attribuiti. Se fossi un uomo pio direi: «Affinché io non goda troppo le delizie della tarda età».
Io sono, come si dice, un robusto vegliardo. Tutti quelli che mi vengono a trovare si stupiscono di quanto sia ancora vivace intellettualmente. Partecipo attivamente a quanto accade intorno a me, leggo il giornale con una certa regolarità. Ogni tanto, nelle dolci ore del mattino, capita che, per rispetto della mia tarda età, invece di precipitarmi giù dal letto per mettermi subito al lavoro, io rubi al vortice degli impegni quotidiani un po’ d’ozio e mi dedichi a un gioco che richiede una concentrazione pari a quella necessaria a risolvere un dilemma scacchistico: la decifrazione della politica italiana. Di giorno in giorno cresce in me l’ammirazione per l’abilità dei politici che, fingendosi drammaticamente impegnati a lottare per la res publica, tessono in realtà tutta una trama di lotte per il potere che non ha nulla a che fare con il bene dello stato o del popolo, ma serve ad accrescere proporzionalmente la partecipazione dei singoli partiti alla spartizione del bene pubblico. Così facendo, il potere diventa una sorta di astrazione che se da un lato non favorisce certo il benessere del popolo, dall’altro non lo danneggia più di tanto. È uno straordinario esempio di democrazia che mi fa ben sperare nel futuro che non vedrò. I rieducandi di Wilton Park sarebbero dovuti venire a scuola qui. Quanto a me, non ho più bisogno di sognare utopie. Comunque non serve a molto che io mi attacchi al giornale come a un’ancora per non andare alla deriva nell’apatia della vecchiaia. Non posso più farmi carico del destino del mondo, è troppo il peso del passato che mi trascino dietro, per quanti sforzi faccia di liberarmene. Invece non mi libero della mia ironia, al contrario. L’invecchiamento è un processo pieno di seduzioni, la benedetta distanza dagli eventi, che vado conquistando, comprende anche me stesso. Con lo stesso ghigno sarcastico con cui accolgo i fatti del giorno in tutta la loro grottesca contraddittorietà, guardo anche al progressivo calo del mio interesse per queste cose. Non diventerò mai un buon lettore di giornali. Come potrei non meravigliarmi del fatto che l’Unione europea, pur essendo nient’altro che una costruzione burocratica, diventi una realtà, quando vedo sempre più chiaramente come le nazioni, una dopo l’altra, si spacchino nelle loro diverse componenti etniche, ciascuna delle quali reclama a gran voce la propria autonomia? Bossi proclama la Padania libera, la Serenissima vuole che Venezia si autoamministri, i gallesi si sciolgono dall’Inghilterra dopo che gli scozzesi lo hanno fatto già da tempo. Intanto Waigel mette a repentaglio l’economia tedesca pur di introdurre la moneta unica. Mon cul. Non dovrei scuotere il capo desolato vedendo la nazione americana che davanti al suo presidente intento, come un borghesuccio qualsiasi, a fare affari con le lobbies, compresa quella cinese, non batte ciglio, ma poi freme di sdegno se quello stesso presidente tocca il culo a una segretaria? No, l’unica cosa da prendere sul serio è la sezione del Pitaval intitolata Morte e distruzione, che interessa un numero sempre crescente di giovani. Evviva i giovani! Le piccole tragedie quotidiane: giovane disoccupato uccide per disperazione moglie e figli. Quanto è più reale questo rispetto all’angosciosa domanda se un tribunale riuscirà mai a dimostrare ciò che da cinquant’anni chiunque ritiene di sapere sul conto di Andreotti!
La distanza tra me e il presente diventa ogni giorno più grande: davanti a un computer sono come l’asino in mezzo ai suoni. Il compagno Kasparov è stato battuto agli scacchi da una macchina, una macchina che in un secondo è in grado di elaborare non so quanti calcoli. Evviva! Sarà più facile calcolare la potenza esplosiva della bomba al cobalto, o la possibilità di clonare soldati (come il mio amatissimo «fratello tedesco» con la coccarda nera, bianca e rossa sul chepì), o cose del genere. Quello che, personalmente, potrebbe riguardarmi un po’ di più è il tramonto della civiltà orientale nel gorgo del progresso occidentale. Mi dispiace. Lo so: al cospetto della televisione la giovane lepre di Dürer si allontana a balzelloni, rassegnata. Non piangerò per lei, di cultura mi sono occupato fin troppo. J’en ai soupé.
Con Beatrice questa mia moderna barbarie devo nasconderla: lei appartiene alla schiera abbastanza nutrita di quelli che mi agitano sotto il naso l’insegna dell’arte, e dunque, discorsi di questo genere è bene che io li eviti. L’importante è che io sia avveduto e obbediente sotto altri riguardi: per esempio, scorpacciate di India. È naturale che, in qualità di contemporaneo, abbia dato anch’io il mio contributo al turismo mondiale. Bruce Chatwin era nostro amico; non abbiamo mai fatto un viaggio con lui, ma in compenso abbiamo introiettato scrupolosamente le avventure di viaggio di tutti i suoi illustri predecessori, da Richard Burton a Robert Byron. Ne sono venuti fuori giri turistici dall’Etiopia all’Alaska, dal Giappone al Kashmir, prima che anche laggiù cominciassero a sparare. Il mondo era più romantico senza le piramidi di teschi della Cambogia e le sparatorie dell’Afghanistan e con minore traffico di autobus a Katmandu. Più variopinto e più folkloristico. Ormai non è più quasi da nessuna parte quello che era stato prima di me. Le mandrie di zebre della pianura del Serengeti erano state cento volte più numerose, il cielo di Kyoto non era stato livido di smog. Per questo è diverso il senso di colpa collettivo che porto in me.
Non amo la mia razza, la razza bianca che più di tutte ha colpa se il nostro tempo è diventato un non tempo. Dappertutto progresso, e la giovane lepre di Dürer ne è morta soffocata. Eppure, l’odio mi ha abbandonato. Vedo i miei poveri contemporanei più giovani piegati sotto una grandine di informazioni che ha il solo scopo di ricordare loro che la fine è vicina. Meritata, immeritata, provocata... Che vuol dire? Noi veniamo vissuti. Il Dio degli eserciti saprà quello che fa. Quanto a me, sono un Epochenverschlepper, pratico il «differimento epocale» e mi accontento di una piccola vita biedermeier. Amo questa casa in Toscana, amo la mia Beatrice. Insieme guardiamo pieni di fiducia e di speranza al futuro, e al mio prossimo libro: finalmente una vera biografia.

 LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI

Ortigia (Siracusa)
la casa natale di Elio Vittorini






Concorezzo (MB)
La tomba di Elio Vittorini e di Ginetta Varisco






domenica 16 ottobre 2016

I Catari, Oldrado da Tresseno, Simone Weil e Marc Augé


Ho appena finito di leggere lo scritto di Carlo Bordoni - pubblicato su La Lettura #255 da oggi in edicola - che porta il provocatorio titolo: Augé: se il Papa negasse Dio avremmo la fine dei conflitti. Lo trovate a pagina 11. In realtà, con diversa argomentazione, l’articolo recensisce Le tre parole che cambiarono il mondo, un libro scritto dall’antropologo francese Marc Augé e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, con tanto d’intervista all’autore.
Stavolta ho deciso di restare seduto sulla riva del fiume, i piedi sciacquati dall’acqua che scorre. Sulle guerre nate e cresciute in seno alle religioni monoteiste - quante “crociate” e quante guerre mondiali hanno scatenato gli “incivili” popoli politeisti/animisti? - tanto ho scritto in passato, quindi quel che potevo dire (e dare) ho detto (e ho dato), salvo ripescare dal fondo del pentolone una mail da me inviata otto anni fa, che qui ripropongo.

Mail inviata il
31 ottobre 2008

Ho sotto gli occhi il libro di Paul Vayne, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Garzanti 2008.
A pagina 10 leggo:

Gli storici non amano tanto la ricerca delle eccezioni e preferiscono il sano metodo della «serializzazione»; inoltre, hanno un senso della banalità, della quotidianità, di cui mancano così tanti intellettuali che credono al miracolo in politica o, al contrario, «calunniano il loro tempo per ignoranza della storia», come diceva Flaubert.

Questa semplice verità mi rimanda ad un importante saggio: I Catari e la civiltà mediterranea di Simone Weil, edito nel 2004 da Marietti 1820. È un volumetto - 98 pagine in tutto - da leggere con estrema attenzione, tanto bella e profonda è l’analisi che la Weil dedica alla crociata scatenata dal vescovo di Roma contro i Catari, cristiani manichei che abitavano nel Sud della Francia - ma anche in Italia, dove avevano in quel di Concorezzo una delle loro più importanti comunità ecclesiastiche, prima di finire arsi vivi, in compagnia dei confratelli di Sirmione e Desenzano, nell’Arena di Verona.
I due scritti di Simone Weil - assolutamente da leggere - sono accompagnati da una Nota di Gian Luca Potestà e da questa estraggo alcuni brani:

Nella storia, i vinti sfuggono all’attenzione. La storia è sede di un conflitto darwiniano anche più spietato di quello che governa la vita animale e vegetale. I vinti spariscono. Non sono. (p. 77)

Di fronte al massacro [lo sterminio degli abitanti di Béziers], gli stessi crociati dovettero esitare, se dice il vero il cronista Cesario di Heisterbach riportando la scarna indicazione dell’abate cistercense Arnaldo Amalrico, guida spirituale delle operazioni: «Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi». (pp. 82-83)

Cartagine, Troia: due storie che dimostrerebbero la profonda differenza fra lo spirito dei Romani e quello dei Greci: da un lato la pax romana come ideologia intimamente sopraffattrice, che del vinto vuole cancellare ogni residuo e ogni traccia; dall’altro una campagna vittoriosa che non consegna i vinti dall’oblio, ma ne celebra il ricordo [con l’Iliade]. (p. 84)

Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e nelle parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo. (p. 86)

Per Simone Weil la Chiesa è venuta assumendo nel corso della sua storia le fattezze, quasi apocalittiche, di un «grosso animale totalitario». Un punto molto importante e delicato riguarda il nesso religione/forza/guerra. A questo proposito le sue parole danno ancora a pensare, anche ben oltre il momento in cui le scrisse. Per lei, passa infine di qui la differenza fondamentale che oppone il testo della Bhagavadgītā a quello della Leggenda di Giovanna d’Arco: «Differenza capitale: egli fa la guerra sebbene ispirato da Dio, ella fa la guerra perché ispirata da Dio». (pp. 92-93)

Richiamo l’attenzione su questa grandiosa intuizione:

«Differenza capitale: egli [Arjuna] fa la guerra sebbene ispirato da Dio [Kŗsna], ella fa la guerra perché ispirata da Dio».

Un testo da mettere sotto il cuscino, affinché ci rechi beneficio anche durante il sonno.



Oggi, a.d. 2016, aggiungo: l’Adelphiana datata 11 ottobre 2002 include tra le sue pagine Riflessioni sulla guerra, uno scritto di Simone Weil estratto da Oeuvres complètes, vol. II: Écrits historiques et politiques, Éditions Gallimard 1988. Riprendo l’esergo:

Il demone dell’analogia mal si presta a essere maneggiato dai dilettanti, e i richiami storici hanno la sgradevole caratteristica di ritorcersi, spesso, contro chi li propone.
Così, a forza di considerare il satrapo di Baghdad l’erede naturale - o l’equivalente postmoderno - di quello che governò Berlino fra il 1933 e il 1945, si pensa di scatenargli contro una guerra. Non più «nuova», stavolta, ma semplicemente «preventiva» - proprio come quella di cui si discuteva nell’Europa del 1933, e a cui Simone Weil dedicò, su «La Critique sociale» (X, novembre 1933), queste pagine dense e ferventi.

Faccio un passo indietro e ritorno al provocatorio (?) titolo: Augé: se il Papa negasse Dio avremmo la fine dei conflitti. A Milano ogni giorno centinaia di persone circondano chi racconta loro le bellezze di Piazza Mercanti, ed io - che da quelle parti sono di casa - ogni volta mi chiedo: quante di queste persone hanno conoscenza dei fatti e dei misfatti dell’uomo a cavallo che dall’alto domina quella stupenda piazza, noto col nome di Oldrado da Tresseno? Sì. Perché fu lui a distruggere la comunità catara di Concorezzo, incamminando gli adepti - con deviazione per raccattare i confratelli di Sirmione e Desenzano - fino a Verona, dove le autorità locali pensarono bene di completarne la purificazione dell’anima e del corpo organizzando un gigantesco falò. In 166 si riscaldarono le ossa quel 13 febbraio dell’anno 1278. Deus le volt!

In seguito, gli storici entrati nei panni dell’avvocato difensore del cavalier Oldrado, scrissero che lui fu costretto a sterminare i Catari per ordini calatigli dai suoi superiori, residenti in Germania. Le stesse cose che diranno i gerarchi di grigio e di nero vestiti nei processi dell’ultimo dopoguerra. Gott mit uns stavolta.

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LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI