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giovedì 21 aprile 2022

Milano brucia

Preambolo

Da un fascicolo messo in rete dalla Fondazione Isec estraggo:

14 febbraio 1943, Milano brucia. È stato il secondo bombardamento pesante (dopo quello del 24 ottobre 1942), due volte più catastrofico perché eseguito con tecniche più sofisticate. Alcuni dati: vennero impiegati 142 quadrimotori Lancaster, 122 di essi raggiunsero Milano. Il bombardamento iniziò alle 22,30 e in 30 minuti furono sganciate quasi 80 bombe esplosive, per un totale di 1124,68 quintali. 81.000 ordigni incendiari per 1660 quintali. Ordigni da 113 kg che esplodevano a 2000 metri. Bombe photoflash che esplodevano a un centinaio di metri d’altezza. Furono distrutte quasi 1000 case civili e un numero elevato di edifici pubblici, 27 fabbriche, la Stazione Centrale. Tra la popolazione civile si contarono 259 morti e 200 bersagli. Gli ultimi incendi furono spenti solo il 17 febbraio.
Nell’estate 1943 per convincere Badoglio a porre fine alla guerra contro gli Alleati e firmare l’armistizio, i quadrimotori della Royal Air Force inglese bombardarono il centro storico e ridussero i quartieri limitrofi a un cumulo di macerie. La città fu paralizzata. Nel settembre 1943 Milano aveva un aspetto spettrale e, dopo un lungo inverno di privazioni, si ritrovò sotto le incursioni diurne degli angloamericani, che dal marzo 1944 ripresero i bombardamenti nel tentativo di interrompere le vie di comunicazione utilizzate dai tedeschi. I bersagli principali furono ponti, strade e ferrovie, ma le bombe colpirono anche fabbriche e obiettivi civili.
Domenica 30 aprile 1944 rasero al suolo la V Sezione Aeronautico Breda. Il 20 ottobre 1944 nella scuola elementare di Gorla morirono 205 tra bambini, maestre e bidelli. Sotto le bombe morirono 55 operai della Pirelli. Nei quartieri di Precotto e Turro vi furono 600 vittime.

Sui danni causati dai bombardamenti degli “alleati” sono stati scritti molti libri. Qui suggerisco la lettura di due agili testi reperibili in rete:
- I bombardamenti aerei su Milano durante la II guerra mondiale, di Mauro Colombo per il Comune di Cinisello Balsamo
- I bombardamenti sull’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. Strategia anglo-americana e propaganda rivolta alla popolazione civile, di Claudia Baldoli, un progetto di ricerca sponsorizzato dall’Art and Humanities Research Council.

Fine del preambolo.


Per volontà della municipalità meneghina, nel mese di novembre dell’anno 1955 usciva Milano 1945-1955, un libro fotografico che aveva lo scopo di documentare quanto fino ad allora fatto per ricostruire la città dopo gli orrori della guerra.
Non la guerra combattuta sul terreno dalle forze armate, bensì quella dei bombardamenti aerei da parte degli “alleati”, stupendo termine coniato per non dover pronunciare i nomi dei responsabili dello sterminio di migliaia di inermi civili, in gran parte anziani, donne e bambini.
Ma la retorica di Stato vuole che così facendo gli “alleati” ci abbiano liberato dagli ex amici e sodali nazisti e a questa narrazione ancor oggi la moltitudine tele-rimbecillita (dai social network oggi) deve continuare a credere.
Chissà perché, il tutto mi riporta alla mente un fatto accaduto ai tempi dell’ultima crociata bandita dal vescovo di Roma, quella contro i Catari nella Francia del sud. Sintetizzo riprendendo quanto scritto da Simone Weil ne I Catari e la civiltà mediterranea, prezioso volumetto di 98 pagine edito nel 2004 da Marietti:

Di fronte al massacro [lo sterminio degli abitanti di Béziers], gli stessi crociati dovettero esitare, se dice il vero il cronista Cesario di Heisterbach riportando la scarna indicazione dell’abate cistercense Arnaldo Amalrico, guida spirituale delle operazioni: «Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi».

Ecco: «Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi» si adatta perfettamente al vigliacco metodo del bombardamento aereo su di una città e di questa opinione era anche Gino Strada, il quale, intervistato da Corrado Formigli, dichiarava: «Quando si bombarda un villaggio non si colpisce un villaggio. Si colpiscono i civili».

Milano 1945-1955 è un libro agiografico, inteso a mostrare il meglio della politica milanese. A fotografie dei luoghi distrutti immancabilmente segono le immagini della loro subitanea ricostruzione e, se necessario, della ritornata fruizione pubblica con tanto di signore vestite alla moda accompagnate da cummenda in abito grigio topo.
Per completezza, non mancano le immagini di scuole distrutte e ricostruite per essere frequentate da bambini giocosi (gli asili e le elementari) e da seriosi studendi impegnati nelle aule di una scuola per l'avviamento al lavoro, come lime e pezzi metallici disposti sui banconi chiaramente lo dimostrano. E qui ricordo che fino alla riforma del 1962 le “avviamento” erano scuole che non permettevano di avanzare negli studi: salvo esami speciali, dopo i tre anni l’unico sbocco era un lavoro in fabbrica, da operaio. Per chi voleva che i propri figli potessero conseguire un diploma e una laurea esistevano le Scuole medie inferiori, dove la lima, la raspa ed il calibro non erano oggetti da infilare nella cartella …e nemmeno la tuta blu - in milanese el toni - obbligatoria per le “avviamento al lavoro”.
Dopo questa ventata di gioiosa freschezza, alimentata da fotografie con giovani madri contrapposte ad anziani seduti sulle panchine, seguono decine di pagine dedicate all’edilizia popolare e al ripristino delle aziende bombardate, fino ad arrivare - il dolce alla fine - ad un piazzale saturo di automezzi posteggiati: FIAT voluntas tua!

Concludo: le immagini sono utili per comprendere come tante opere d’arte spacciate per “originali” - con tanto di biglietto da pagare per la loro visione - in realtà sono rifacimenti dovuti alla bravura dei restauratori - e per quanto talvolta ben fatti ...mai più potranno tornare ad essere gli originali usciti dalla scuola dell’acclamato artista di turno. Ma tantè...



























































domenica 16 ottobre 2016

I Catari, Oldrado da Tresseno, Simone Weil e Marc Augé


Ho appena finito di leggere lo scritto di Carlo Bordoni - pubblicato su La Lettura #255 da oggi in edicola - che porta il provocatorio titolo: Augé: se il Papa negasse Dio avremmo la fine dei conflitti. Lo trovate a pagina 11. In realtà, con diversa argomentazione, l’articolo recensisce Le tre parole che cambiarono il mondo, un libro scritto dall’antropologo francese Marc Augé e pubblicato in Italia da Raffaello Cortina, con tanto d’intervista all’autore.
Stavolta ho deciso di restare seduto sulla riva del fiume, i piedi sciacquati dall’acqua che scorre. Sulle guerre nate e cresciute in seno alle religioni monoteiste - quante “crociate” e quante guerre mondiali hanno scatenato gli “incivili” popoli politeisti/animisti? - tanto ho scritto in passato, quindi quel che potevo dire (e dare) ho detto (e ho dato), salvo ripescare dal fondo del pentolone una mail da me inviata otto anni fa, che qui ripropongo.

Mail inviata il
31 ottobre 2008

Ho sotto gli occhi il libro di Paul Vayne, Quando l’Europa è diventata cristiana (312-394). Costantino, la conversione, l’impero, Garzanti 2008.
A pagina 10 leggo:

Gli storici non amano tanto la ricerca delle eccezioni e preferiscono il sano metodo della «serializzazione»; inoltre, hanno un senso della banalità, della quotidianità, di cui mancano così tanti intellettuali che credono al miracolo in politica o, al contrario, «calunniano il loro tempo per ignoranza della storia», come diceva Flaubert.

Questa semplice verità mi rimanda ad un importante saggio: I Catari e la civiltà mediterranea di Simone Weil, edito nel 2004 da Marietti 1820. È un volumetto - 98 pagine in tutto - da leggere con estrema attenzione, tanto bella e profonda è l’analisi che la Weil dedica alla crociata scatenata dal vescovo di Roma contro i Catari, cristiani manichei che abitavano nel Sud della Francia - ma anche in Italia, dove avevano in quel di Concorezzo una delle loro più importanti comunità ecclesiastiche, prima di finire arsi vivi, in compagnia dei confratelli di Sirmione e Desenzano, nell’Arena di Verona.
I due scritti di Simone Weil - assolutamente da leggere - sono accompagnati da una Nota di Gian Luca Potestà e da questa estraggo alcuni brani:

Nella storia, i vinti sfuggono all’attenzione. La storia è sede di un conflitto darwiniano anche più spietato di quello che governa la vita animale e vegetale. I vinti spariscono. Non sono. (p. 77)

Di fronte al massacro [lo sterminio degli abitanti di Béziers], gli stessi crociati dovettero esitare, se dice il vero il cronista Cesario di Heisterbach riportando la scarna indicazione dell’abate cistercense Arnaldo Amalrico, guida spirituale delle operazioni: «Uccideteli tutti. Dio riconoscerà i suoi». (pp. 82-83)

Cartagine, Troia: due storie che dimostrerebbero la profonda differenza fra lo spirito dei Romani e quello dei Greci: da un lato la pax romana come ideologia intimamente sopraffattrice, che del vinto vuole cancellare ogni residuo e ogni traccia; dall’altro una campagna vittoriosa che non consegna i vinti dall’oblio, ma ne celebra il ricordo [con l’Iliade]. (p. 84)

Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e nelle parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo. (p. 86)

Per Simone Weil la Chiesa è venuta assumendo nel corso della sua storia le fattezze, quasi apocalittiche, di un «grosso animale totalitario». Un punto molto importante e delicato riguarda il nesso religione/forza/guerra. A questo proposito le sue parole danno ancora a pensare, anche ben oltre il momento in cui le scrisse. Per lei, passa infine di qui la differenza fondamentale che oppone il testo della Bhagavadgītā a quello della Leggenda di Giovanna d’Arco: «Differenza capitale: egli fa la guerra sebbene ispirato da Dio, ella fa la guerra perché ispirata da Dio». (pp. 92-93)

Richiamo l’attenzione su questa grandiosa intuizione:

«Differenza capitale: egli [Arjuna] fa la guerra sebbene ispirato da Dio [Kŗsna], ella fa la guerra perché ispirata da Dio».

Un testo da mettere sotto il cuscino, affinché ci rechi beneficio anche durante il sonno.



Oggi, a.d. 2016, aggiungo: l’Adelphiana datata 11 ottobre 2002 include tra le sue pagine Riflessioni sulla guerra, uno scritto di Simone Weil estratto da Oeuvres complètes, vol. II: Écrits historiques et politiques, Éditions Gallimard 1988. Riprendo l’esergo:

Il demone dell’analogia mal si presta a essere maneggiato dai dilettanti, e i richiami storici hanno la sgradevole caratteristica di ritorcersi, spesso, contro chi li propone.
Così, a forza di considerare il satrapo di Baghdad l’erede naturale - o l’equivalente postmoderno - di quello che governò Berlino fra il 1933 e il 1945, si pensa di scatenargli contro una guerra. Non più «nuova», stavolta, ma semplicemente «preventiva» - proprio come quella di cui si discuteva nell’Europa del 1933, e a cui Simone Weil dedicò, su «La Critique sociale» (X, novembre 1933), queste pagine dense e ferventi.

Faccio un passo indietro e ritorno al provocatorio (?) titolo: Augé: se il Papa negasse Dio avremmo la fine dei conflitti. A Milano ogni giorno centinaia di persone circondano chi racconta loro le bellezze di Piazza Mercanti, ed io - che da quelle parti sono di casa - ogni volta mi chiedo: quante di queste persone hanno conoscenza dei fatti e dei misfatti dell’uomo a cavallo che dall’alto domina quella stupenda piazza, noto col nome di Oldrado da Tresseno? Sì. Perché fu lui a distruggere la comunità catara di Concorezzo, incamminando gli adepti - con deviazione per raccattare i confratelli di Sirmione e Desenzano - fino a Verona, dove le autorità locali pensarono bene di completarne la purificazione dell’anima e del corpo organizzando un gigantesco falò. In 166 si riscaldarono le ossa quel 13 febbraio dell’anno 1278. Deus le volt!

In seguito, gli storici entrati nei panni dell’avvocato difensore del cavalier Oldrado, scrissero che lui fu costretto a sterminare i Catari per ordini calatigli dai suoi superiori, residenti in Germania. Le stesse cose che diranno i gerarchi di grigio e di nero vestiti nei processi dell’ultimo dopoguerra. Gott mit uns stavolta.

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sabato 23 gennaio 2016

Come e quando è nato il Rinascimento


Via posta elettronica, Michel Paoli (o chi per lui) m’informa che martedì 26 gennaio 2016, alle ore 18, all’Università di Liegi terrà una conferenza sul tema “Possiamo conservare il concetto di Medioevo se sopprimiamo il concetto di Rinascenza?”. Un’argomentazione debole, a mio avviso, e vado a raccontare il perché partendo da una puntata dell’ormai defunto programma Le storie - targato RAI3 e condotto da Corrado Augias - dove Philippe Daverio, l’ospite del giorno, così discetta sul tema rinascenza e rinascimento:

Domanda: “Io volevo chiedere - sono Claudia - volevo chiedere qual è la differenza fondamentale tra il Rinascimento e l’Ottocento …l’arte dell’Ottocento?
Precisa Augias: “Perché lei dice: anche il Rinascimento a suo modo fu una rivoluzione. È così?
Daverio: “No. Il Risorgimento esiste, il Rinascimento non esiste. Il Rinascimento è una categoria che abbiamo inventato nell’Ottocento per giudicare il Quattrocento e il Cinquecento, ma la gente del Rinascimento non sapeva che faceva rinascimento. Faceva un’altra cosa. Leon Battista Alberti quando ripristinava gli acquedotti di Roma parlava di risorgenza delle acque. Chi si occupava di letteratura andava a riscoprire il valore di Cicerone. Chi si occupava di pittura non capiva nulla perché non c’erano i quadri dell’antichità da guardare, quindi leggeva Plinio e si reinventava Plinio. Poi nell’Ottocento noi abbiamo inventato questa parola bizzarra che non era affatto Rinascimento ma che è Renaissance, che appare per la prima volta in un libro di Balzac del ’29. Sempre in quel periodo lì, e che riprende dopo - l’ho ritrovato recentemente - quella rompiscatole terribile che è George Sand nella Mare au diable del ’31. Quindi in quei due anni la Francia inventa la parola renaissance.

Per chi è interessato ad ascoltare l’intera puntata, questo è il link:


Ottimo e abbondante. È ovvio che chi viveva nel Quattrocento o nel Cinquecento non poteva essere a conoscenza di questa etichettatura postuma. La cosa è talmente banale …che una precisazione è sempre necessaria, vista l’orrida scolastica mondiale - e non me ne vogliano i docenti, che della disinformazione ad hoc sono le prime e non sempre inconsapevoli vittime: si è stati formati da una scuola impostata sulla bugia come verità assoluta e altro non si può fare che propagare a mo’ di catena di sant’Antonio quello che ci è stato imposto dai padroni del vapore.

Veniamo al dunque: perché l’argomentazione di Paoli è debole. Come racconta Daverio, fino al 1829 nessuno aveva mai utilizzato il termine rinascenza per definire un determinato periodo storico. Certo, altri avevano usato questa parola, ma solo per definire casi specifici, ristretti, fini a sé stessi. Il Vasari, giusto per fare un esempio, usa il termine rinascita per rimarcare uno stile artistico opposto alla “buona maniera greca antica”. In Francia, nel 1533, il naturalista Pierre Belon scrive dell’eureuse & desirable renaisance di toutes especes de bonnes disciplines. Niente a che vedere col Rinascimento inteso come epoca storica, dunque.
Continuo. La prima volta che il termine Rinascenza - e poi Rinascimento - viene utilizzato per designare un concetto culturale indipendente, legato con la modernità, è stato nel 1829, quando Balzac, ne Le Bal de Sceaux, per caratterizzare la conversazione della giovane figlia del conte de Fontaine scrive: “Elle raisonnait facilement sur la peinture italienne ou flamande, sur le Moyen Âge ou la Renaissance, jugeait à tort et à travers les livres anciens ou nouveaux, et faisait ressortir avec une cruelle grâce d’esprit les défauts d’un ouvrage.





Due anni dopo, 1831, George Sand riprende da Balzac il termine Rinascenza - mi ripeto: per la prima volta inteso come periodo storico - inserendolo nella sua opera La Mare au diable (La Palude del diavolo): “Un enfant de six à sept ans, beau comme un ange, et les épaules convertes, sur sa blouse, d’une peau d’agneau qui le faisait ressembler au petit saint Jean-Baptiste des peintres de la Renaissance,» etc. etc. (con seconda, rafforzativa, citazione molte pagine dopo; vedi immagini) - e tanto basta perché due secoli di storia italiana siano per sempre (?) etichettati Rinascimento.








In verità, di che e di che cosa siamo rinati è ancora tutto da spiegare, a meno che non si accetti per buona la bestialità storica e intellettuale del Medioevo come periodo buio, nozione tanto cara alle gerarchie indaffarate a nascondere sotto il tappeto gli orrori delle torture e dei roghi da loro accesi. Per documentarsi i buoni libri non mancano, soprattutto quelli scritti da buoni e bravi docenti embedded, con tanto di tabelline esplicanti il numero dei vivi bruciati sui roghi, coi giorni di prigionia e i giorni di tortura patiti, salvo poi concludere che erano loro stessi la causa della propria morte: rifiutando di abiurare l’errore commesso inevitabilmente dimostravano una precisa volontà suicida... Tutto questo e altro ancora si legge nei preziosi Cahiers de Fanjeaux, saggi di cui facevo incetta ogni volta che passavo da Minerve, importante centro enologico della Francia, il cui nome rimanda al massacro degli eretici Catari.

La colomba di Minerve, Francia

Trent’anni dopo (1860) i libri di Balzac e George Sand a Basilea esce Die Cultur der Renaissance in Italien; ein Versuch’von I. Burckhardt, un saggio subito recensito sull’Archivio Storico Italiano da Giuseppe Dalla Vedova: il concetto di Rinascimento come periodo storico tra il Medioevo e l’Era dei Lumi - nato dalla fantasia di Balzac e riproposto dalla Sand - ha avuto fortuna, imponendosi nel linguaggio dei dotti e da questi imposto urbi et orbi, acritiche scuole incluse.


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