Parigi,
6 ottobre 2017. Dalla luminosa vetrata dell’Institut du monde arabe inizia il mio pedestre pomeriggio, che ha per meta l’Île de la Cité. Sul lato opposto, al 19 di quai de Bourbon,
una lapide ricorda ai passanti che in questo stabile, al piano terra rivolto al
cortile, Camille Claudel ha vissuto e lavorato dal 1899 al 1913, data che ha
messo fine alla sua breve carriera d’artista e dato inizio alla lunga notte
dell’internamento in un manicomio. Non è la prima volta che sosto davanti a
questo portone, ma oggi è un giorno diverso. Sento passi, poi il tipico scatto
dell’apertura elettrificata. Esce una signora. L’avvicino, le spiego le mie
ragioni, gentilmente lei mi lascia la porta aperta. Storie che si ripetono,
come già al 27 di rue de Fleurus, ma anche in altri luoghi.
Oggi tutto è stato rimesso a
nuovo, ma non fatico a immaginare come poteva essere quando Camille qui teneva
la sua ultima casa-studio. Lascio i miei sensi liberi di ricostruire i tempi e
i drammi. Prima di uscire noto un foglio appeso al portone. Louise Dreyfus, la
firmataria, scrive “Cari amici, dopo 60 anni in questo appartamento noi ci
separeremo e questa sera, venerdì 6 ottobre, organizzerò una piccola festa … Se
vorrete passare sarete i benvenuti”. Difficile restare insensibili: oggi mi è
stato concesso d’entrare nel cortile della casa dove Camille Claudel ha vissuto
i suoi ultimi anni, il luogo dove - per volontà di sua madre e di sua sorella,
le due Louise di famiglia - è stata prelevata e subito portata in un manicomio
…e sul portone trovo un foglietto d’addio scritto da una donna che dopo 60 anni lascia l'appartamento: per andare dove? In un ospizio? Coincidenze, certo…
Esco. Il
quai de Bourbon finisce alla punta oggi denominata place Louis Aragon. Di
fronte, separati dalla Senna e dalla striscia d’asfalto del quai aux Fleurs, vi
sono i nuovi palazzi borghesi che hanno sostituito i vecchi stabili. Sono
questi i luoghi dove Abélard ed Héloïse
hanno vissuto il loro sogno amore - lui per questo evirato - e dove, alla fine di
giugno del 1901, Max Jacob ha ricevuto nella sua sordida stanza la visita di
Pablo Picasso e dei suoi amici spagnoli, il primo incontro tra i due, l’inizio
di una forte amicizia distrutta dalla guerra civile di Spagna, quando Jacob prese
le parti di Francisco Franco, un insulto intollerabile per Picasso.
Non molto lontano, sull’Île de la Cité, si aprono le porte del sotterraneo
Memorial des Martyrs de la deportation.
Mi metto in coda dietro a un gruppo di sacerdoti, uomini e donne, vestiti coi
colori della Chiesa anglicana. L’interno del memoriale è volutamente buio,
claustrofobico - come lo sono tutti questi luoghi, che così vogliono
ricordare i lunghi viaggi nei vagoni dei treni e l’attesa della morte nei campi
di sterminio. Dio l’ha voluto, ovviamente.
Proseguo con quanto scritto da Reine-Marie Paris
nel suo Camille Claudel 1864-1943, Marsilio Editori, Venezia 1989:
Nel
1896, Camille Claudel lascia il boulevard d’Italie per stabilirsi per un anno
al 63 di rue de Turenne; poi, nel 1899, si trasferisce al 19 del quai de
Bourbon dove rimane fino al 1913, in due stanze tetre, disordinate, ingombre
d’oggetti, immagine stessa delle sue ossessioni. È ancora giovanile, bella e
dinamica quando Henry de Braisne le rende visita nel 1897; le sue fotografie
del 1899 mostrano invece una donna sciupata e vecchia, che dimostra più dei
suoi anni. Insieme alla sua disperazione interiore, sulla quale tenteremo poi
di portare un po’ di luce, bisogna ricordare inoltre che la sua carriera
declina. Camille Claudel non riesce, malgrado Les causeuses, a dimostrare
alla critica che lei non è più l’eterna allieva di Rodin e che la sua arte,
d’ora innanzi, è solamente sua. Tutte le opere di quest’epoca sono altrettanti
appelli a una vera notorietà che tarda ad arrivare. Un grande scultore che può
vivere della propria arte è un artista riconosciuto. La scultura è un’arte
costosa: ciò che fa la sua grandezza fa anche la sua schiavitù. Per poter dare
la sua vera dimensione ha bisogno di committenze ufficiali e di occasioni per
adornare le piazze pubbliche. Rodin, se non avesse mai ricevuto l’ordinazione
delle Portes de l’Enfer,
dei Bourgeois de Calais,
di Victor Hugo
e di Balzac,
sarebbe forse rimasto un ritrattista mondano, un anziano ornatista alla
manifattura di Sèvres, inondando i salotti borghesi di gruppi galanti.
Camille Claudel non
ricevette mai grandi ordinazioni. Si parlò di affidarle la realizzazione di un
monumento a Alphonse Daudet e di un monumento a Auguste Blancqui,
speranze che non si concretizzarono. Un essere meno assoluto, meno ambizioso di
Camille Claudel si sarebbe accontentato di una carriera tranquilla e di una
clientela mondana, ma la certezza del genio era troppo radicata in lei. I
biografi di Paul Claudel vedono in lei, giustamente, l’ispiratrice di un genio
che si colloca subito con la sua opera nella linea d’Eschilo e di Shakespeare.
E allora, così esigente con coloro che amava, come avrebbe potuto accontentarsi
di essere solo una semplice gradevole decoratrice?
Così,
mentre orgogliosamente cercava nuove vie, incurante dei successi mondani in una
semi-oscurità e in una semi-miseria, Camille vedeva svilupparsi, nella vanità
mondane e nelle simpatie politiche, la gloria di Rodin.
Cominciò a dubitare del
genio tanto ammirato un tempo, certamente per disappunto amoroso, ma anche
perché niente era più estraneo al suo temperamento e alle strade che lei
avrebbe voluto aprire a colui che aveva amato di questa carriera ufficiale,
brulicante di accademici, di funzionari delle Belle Arti e di una produzione
artistica che diventava sempre più un’impresa commerciale.
Ciò
nonostante, la solitudine, un sentimento di fallimento non meritato e il
dispetto non sembrano sufficienti a spiegare il senso di persecuzione che
s’impossesserà a poco a poco di Camille Claudel; giacché il suo persecutore non
era né il pubblico né la critica, ma Rodin, sempre Rodin con le sue metamorfosi
demoniache. I suoi modelli, i suoi lavoranti, i suoi ammiratori, i suoi
fonditori, i suoi vicini diventavano, nel suo delirio, tutti membri di un unico
complotto il cui solo obiettivo era derubarla delle sue idee, plagiarla,
rovinare le sue opere.
Nel
labirinto di quest’anima che crolla abbiamo come guida qualche documento, le
lettere di Camille stessa, qualche testimonianza e in particolare quella di
Paul Claudel, la cui rabbia nei confronti di Rodin deve essere compresa in
questa prospettiva.
Ma sono
soprattutto le deduzioni e l’esame dell’opera di Rodin che possono indicare la
via.
Si
prospettano due ipotesi: si può considerare Camille Claudel come assolutamente
pazza e il suo odio per Rodin come un sintomo patologico, oppure si può vedere
in lei la vittima di una nevrosi ossessiva che deforma e ingigantisce le
percezioni e le intuizioni di una intelligenza sana.
I fatti, come li
conosciamo oggi per la prima volta, dopo che il dossier medico si è aperto ai
ricercatori, ci conducono ad adottare le due ipotesi contemporaneamente anche
se coloro che hanno visto e frequentato Camille Claudel in quest’epoca, in
particolare Eugène Blot e Henry Asselin, non fossero unanimi nell’attestare i
segni di una vera demenza. Ma cosa vale la testimonianza di amici che la
vedevano saltuariamente contro le constatazioni dei vicini e dei medici? Prima
di esaminare la patologia di questo essere, ricerchiamone le cause.
Qual è
dunque questa realtà terrificante che faceva credere a Camille in un «complotto
Rodin»? Non c’è motivo di sospettare il grande scultore di aver materialmente
derubato o plagiato Camille Claudel. La realtà è molto più complessa: questa
ossessione del furto e del plagio è la traduzione, deformata dalla psicosi, di
una osservazione sottile e incosciente: Camille Claudel aveva dato a Rodin una
parte del suo genio e non poteva più riprenderglielo. Tutti gli esperti
dell’opera di Rodin sanno che la sua maniera degli anni ottanta è contemporanea
all’incontro con la giovane Camille non ancora ventenne, l’età del genio, nel
senso che Rimbaud vi attribuiva. Più che quarantenne, Rodin, era ancora lontano
dalle radici profonde della sua ispirazione. Se fosse rimasto solo, si sarebbe
evoluto verso un neo-michelangiosismo esasperato; ma improvvisamente si anima
di una voce nuova, una voce che, una volta partita Camille, s’insabbia.
Questa
connivenza di passione e creazione, in due amanti che svolgono lo stesso
mestiere, che operano assieme nei medesimi luoghi e sui medesimi soggetti,
conduce a una inquietante conclusione: durante quasi quindici anni Camille fu
la musa e la mano di Rodin. La celebre frase di Rodin, «le ho mostrato dove
trovare dell’oro, ma l’oro che lei trova le appartiene», prende in questa
prospettiva un significato strano e rivelatore: ci si trattiene
dall’interpretarla: «l’oro che lei trova è il mio».
Da
questa simbiosi, senza dubbio unica nella storia dell’arte, è nato un lavoro
misto. Si è detto di Camille che lavorava alla maniera di Rodin, così come c’è
una parte dell’opera di Rodin che fa eco a quella di Camille. Non è stato
osservato che a cominciare dal Balzac,
la cui elaborazione inizia precisamente nel 1893, l’ispirazione di Rodin segna
il passo? La maggior parte delle opere prodotte tra il 1893 e la sua morte, e
ce ne sono un certo numero, sono molto spesso delle varianti di dannati, di
baccanti e di coppie delle Portes
de l’Enfer. Fino al 1913, Camille Claudel poteva vedere alle
mostre, e presso i collezionisti, modificate, ingrandite, opere alle quali lei
aveva sicuramente lavorato, nate da idee sue o trovate grazie a lei.
[…] A
questo proposito, non si può essere sorpresi del modesto numero d’opere
personali che Camille ha firmato durante il periodo che lavorò con Rodin. Si
potrebbe contarle sulle dita della mano,
quando invece tutti i testimoni ce la descrivono come una lavoratrice accanita
e non certo per produrre brutte copie da principiante, destinate alla
distruzione, ma opere di grande qualità. Cos’è avvenuto del frutto di queste
giornate, mesi, anni di lavoro, se non di diventare proprietà di Rodin? E a lei
cosa importava, dato che, molto donna in questo, era pronta a donare tutto a Rodin,
non solamente la sua vita ma anche la sua arte?
Ora che
la collaborazione reciproca si è allentata, che l’affetto è diventato odio, c’è
un’immensa disperazione, la certezza di essere stata spogliata della sua
energia vitale e del senso stesso della sua vita. Come spiegare altrimenti il
fatto che avvertisse come una ferita l’essere considerata una allieva di Rodin,
quando questo era un elogio nella penna di coloro che lo scrivevano? Nel 1902,
Camille rifiuta un invito a esporre a Praga, soprattutto perché non vuole
vedere le sue opere esposte a fianco di quelle di Rodin.
[…] Vedere
quest’uomo che lei aveva nutrito del suo genio avanzarsi verso la gloria mentre
lei affondava nella notte, era troppo per quest’anima orgogliosa e solitaria.
La sua ragione crolla. A partire dal 1905, le sue ossessioni, le sue angosce si
trasformano in idee fisse, poi in psicosi. Le lettere al fratello Paul, dove si
lascia andare senza ritegno proibendogli di farle leggere a chiunque, rivelano
un disturbo e un delirio incontestabili che avrebbero richiesto una terapia
energica. Rodin si è servito di lei: non distingue più le opere da lei
prodotte, dalle opere che produsse con Rodin: contrazione del tempo, disordine
del processo della creazione artistica, altrettanti tratti psicotici. Tra i
suoi pretesi persecutori, «gli ugonotti» erano
i più feroci, allusione al fonditore Hébrardt, il cui comportamento nei
confronti di Camille non sembra essere stato dei più onesti.
Non è impossibile che
Camille abbia avuto degli imitatori. Les
causeuses fecero sensazione e, in questo mondo delle Belle Arti
dove le idee sono più rare che l’abilità manuale, niente fa dubitare ch’esse
abbiano fatto degli adepti. Per una mente sana, il plagio è piuttosto un
incoraggiamento. Per la mente distrutta di Camille Claudel è un dramma, tanto
più che si persuade che delle fortune si creino con le sue idee e valuta i
guadagni in centinaia di migliaia di franchi.
A queste difficoltà e
ossessioni si aggiungono gli odi familiari: a Villeneuve, tra i suoi, là dove
avrebbe potuto trovare riposo, aiuto e affetto, è persona non gradita. Sua
madre, che misura l’estensione della sua disgrazia di educatrice austera, la
subissa di rimproveri e la condanna. La sorella Louise, di natura poco incline
all’indulgenza, e che non aveva mai guardato senza dispetto ai successi della
sorella a Parigi e allo sbocciare delle sue qualità, trionfa.
A
quest’epoca, anche le distanze sono degli ostacoli: il solo essere vicino che
l’abbia compresa e amata, cosciente dei suoi pregi, è suo fratello Paul,
assente dall’Europa quasi costantemente dal 1895 al 1909, tranne due sole brevi
interruzioni per congedo, nel 1895 e nel 1900. Questa separazione tra fratello
e sorella, durante l’episodio più doloroso della vita di Camille, è un fatto
determinante. Nel momento in cui Camille aveva più bisogno di tenerezza per
compensare la mancanza d’amore, l’unico elemento essenziale alla sua energia
vitale veniva a mancare. Solo Louis-Prosper, il vecchio padre, le mandava di
nascosto del denaro. In questo stato di penosa dipendenza, Camille Claudel
riconosce di nuovo il «complotto Rodin».
[…]
A partire da quel momento (1905), ogni estate Camille si mise a distruggere
sistematicamente, a colpi di martello, tutte le sue opere dell’annata. I suoi
due ateliers offrivano uno spettacolo disastroso, di rovine e di devastazione.
Poi faceva venire un carrettiere al quale affidava l’incarico di interrare, da
qualche parte nelle fortificazioni, questi frantumi informi e miserabili. Dopo
aver fatto questo, metteva le sue chiavi sotto lo zerbino e spariva per lunghi
mesi senza lasciare alcun indirizzo. Nel frattempo Paul Claudel era ritornato
in Cina.
[...] Quando guadagna qualche soldo invita una folla di sconosciuti e bevono tutta la notte, ridendo come bambini. Non è il segno che un po’ d’aiuto, di fortuna, d’amicizia avrebbero potuto, chissà, ancora salvarla?
[...] Quando guadagna qualche soldo invita una folla di sconosciuti e bevono tutta la notte, ridendo come bambini. Non è il segno che un po’ d’aiuto, di fortuna, d’amicizia avrebbero potuto, chissà, ancora salvarla?
Ciò nonostante il mondo
non la dimentica. Nel 1906, Marguerite Durand, fondatrice del giornale «La
Fronde», vuol fare uscire un articolo su di lei redatto da Judith Cladel.
Camille accoglie la notizia con felicità. E un po’ di luce nella sua vita.
[…] La sua ultima mostra
presso Eugène Blot è di questo stesso anno. In seguito, Camille Claudel non
farà più apparizioni pubbliche: non la si vede più dagli amici di sempre come
gli Schwob o i Pottecher.
Nel 1909, Paul Claudel
nota nel suo diario: «A Parigi, Camille pazza [...] enorme è il volto sporco,
parla incessantemente con voce monotona e metallica». Poi nel 1911 queste due
righe cancellate: «27 novembre. Camille alle quattro del mattino è uscita da
casa sua, non si sa dove sia».
L’Île Saint-Louis non è più un chiostro, ma una prigione; e, qui,
lasciamo la parola a Paul Claudel: «Gli inquilini di questa vecchia casa in
quai Bourbon si lamentano. Che cosa ne era di questo appartamento a pianterreno
dai balconi sempre chiusi? All’interno il disordine e la sporcizia erano, come
si dice, indescrivibili. Ai muri, appese con degli spilli, le quattordici
stazioni della Via Crucis prese dal frontespizio del giornale della Rue
Bayard».
In verità Camille Claudel
si stava suicidando lentamente. Avendo distrutto le sue opere, poi le sorgenti
interiori del suo lavoro, i suoi amori, le sue amicizie, i suoi affetti
familiari, Camille non lasciava di sé nel fondo di un atelier oscuro che
un’ombra braccata, implorante il silenzio e l’oblio. Bisognò pertanto
risolversi ad affidare alla crudele macchina medica e amministrativa
l’incombenza finale di condurla dolcemente alla sua seconda morte.
E poi, scrisse Paul
Claudel, «s’è dovuto intervenire [...] e sono passati trent’anni».
In quest’ultimo passaggio, ma non solo, Reine-Marie Paris - nipote di Paul Claudel e figlia di Jacques-Camille Paris, ministro plenipotenziario e tra i fondatori del Consiglio d'Europa - mostra la sua debolezza, sminuendo il ruolo che suo nonno Paul ebbe in questa tragedia.
Le prove cartacee raccontano che il 7 marzo 1913, il giorno successivo
alla tumulazione di Louis-Prosper Claudel, la vedova e il figlio Paul chiedono
a un medico che aveva lo studio proprio al 19 di quai de Bourbon di redigere il
certificato utile a far ricoverare senza altre indagini la figlia e sorella in
un manicomio, un potere previsto dalle leggi allora in vigore e utilizzato in
gran parte contro le donne. L’8 marzo un commissario di polizia autentifica la
firma del dottor Michaux. L’esecuzione del ricovero, prevista per il giorno 9,
subisce un intoppo burocratico (la domanda d’internamento così come redatta non
è valida, quindi da riscrivere, stavolta firmata solo dalla madre: Louise
Cerveaux, vedova Claudel) e il tutto subisce un rinvio di 24 ore.
Il 10 marzo 1913, in seguito all’arresto definitivo del Prefetto di Polizia, Camille Claudel mette piede nella Casa Speciale di Salute n. 3630, meglio nota come Istituto di Ville-Evrard.
Il 5 settembre 1914 la paziente è trasferita (evacuata si legge nel documento) all’Istituto di Montdevergues, presso Avignon, dove viene registrata il giorno 7.
Qui Camille Claudel vi muore il 19 ottobre 1943 alle ore 14:15. Ictus apoplettico è la sentenza medica.
Qui Camille Claudel vi muore il 19 ottobre 1943 alle ore 14:15. Ictus apoplettico è la sentenza medica.
La tumulazione avviene nel locale cimitero, all’interno dello spazio destinato ai pazienti del manicomio. In seguito i suoi resti sono stati riposti in un ossario comune. Oggi una stele ricorda il luogo della sepoltura.
Chiudo questa terza e ultima puntata ricordando un altro libro interessante: Dossier Camille Claudel di Jacques Cassar, Klincksieck et Archimbaud, Paris 2011, un testo ricco di documenti e lettere.
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
6 ottobre 2017
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