Le
montagne erano alle nostre spalle, e le colline pedemontane digradavano in
dolci ondulazioni verso il mare punteggiate di villaggi e di aie
biancheggianti. Al di là degli ultimi colli erano la placida distesa del golfo
di Messenia e la penisola più occidentale del Peloponneso, dove si trovano
Methoni e Koroni. A nord una grigia spalla del Taigeto celava la parte più
interna del golfo, dove friggeva Kalamata. A Galtes, il primo villaggio, ci
fermammo per un bicchiere di vino sotto una pergola in compagnia del prete e di
alcuni paesani con quei grandi cappelli manioti, poi continuammo a scendere. La
strada si snodava in agevoli sinuosità. Il sole del tardo pomeriggio
ammorbidiva ogni cosa, e insieme al sollievo di essere sfuggiti alla prigione
dei monti caricava l’aria di un senso di benessere e di vacanza. Arrivati a una
piccola pianura ci imbattemmo in una schiera di muli, tre dei quali montati da
giovanotti. Uno era un compagno di battesimo di Chrisanthos, sicché potemmo
subito issare le nostre stanche membra su una sella.
«Da
Kalamata?» chiese il compagno di battesimo.
«No,
da Anavriti».
«E
dov’è?».
«Dall’altra
parte del Taigeto».
Era
chiaramente incredulo, finché Chrisanthos non gli assicurò che era vero. La sua
compassione fu immediata «E la signora... mi scusi, non conosco il suo
nome...?».
«Ioanna».
«E
la kiria Ioanna anche? Po, po, po! Sarete morti! Quelle rocce da capre ammazzerebbero
chiunque. Sono una disperazione, ti fanno sputare l’anima».
Fece
un viso grave. «C’è solo un rimedio, quando uno è tanto stanco». Parlava con la
serietà di un diagnosta. «Un caffè medio ben bollito. Poi, dopo mezz’ora,»
chiuse e alzò il pugno, e col pollice teso fece il gesto di versare in bocca
«vino. Vino buono. Molto vino». La sua fronte corrugata divenne ancora più grave,
e per evitare ogni equivoco decise di riformulare la frase. «Quando arrivate a
Kambos» indicò la cittadina davanti a noi, di cui sentivamo da qualche minuto
le campane «dovete bere molto vino».
Passavamo
per un oliveto che cresceva da una terra rossa sparsa di pietre. I rami
contorti erano striduli di cicale. I muli trottavano svelti, e nell’eccitazione
di avvicinarsi a casa ruppero quasi in un galoppo. La piccola cavalcata
sollevava un polverone che i raggi del sole mutavano in una trasfigurante nuvola
rosso-oro. Tirammo le redini ai margini di Kambos, perché i muli andavano a
Varousia a prendere dei sacchi per il grano trebbiato durante la giornata. Il
sole era tramontato ma gli alberi e le prime case di Kambos splendevano ancora
della luce immagazzinata dall’alba. Sembrava che ardesse dal di dentro col
fulgore particolare, interiore, dell’estate greca, che dura per un’oretta dopo
il tramonto, di modo che i muri bianchi e i tronchi degli alberi e le pietre
svaniscono infine nell’oscurità come lampade che si spengono lentamente.
«Non
dimenticate il mio consiglio» disse il mulattiere, e con un tamburellare di
zoccoli la vispa truppa di muli si allontanò tra gli olivi nella sua strana
aureola di polvere.
La
ricetta era eccellente. Seduti dopo cena nell’umile platia di Kambos,
convenientemente narcotizzati dal vino, tutta la stanchezza della lunga
scarpinata diurna si risolse in un torpore piacevolmente nebuloso. Di là dai
tetti e dal fogliame, nel baluginio delle stelle e di un esile fantasma di luna
nuova, la mole del Taigeto appariva più che mai dirupata e impervia. Sembrava
impossibile che solo quella mattina fossimo partiti dalla remota pseudo-Giudea
dell’altro lato... La nostra fierezza, peraltro, si sgonfiò alquanto al
pensiero di Iorgo che in quello stesso istante attraversava i monti a gran
passi... Un’alta figura, dandoci la buonasera e sedendosi su una sedia accanto,
ruppe il filo della nostra sonnolenta conversazione. Era un tipo magro,
donchisciottesco, con guance infossate e foltissimi sopraccigli. Mise sul
tavolo un ekatostáriko di vino e riempì i
bicchieri. Gli chiedemmo notizie sulla cittadina di Kambos.
«Un
posto miserabile,» disse «praticamente un sobborgo di Kalamata, anche se ci
corrono ore di strada, e gli abitanti sono un branco di buoni a nulla. Sono
valacchi».
«Valacchi?
Nel Peloponneso?».
«Noi
li chiamiamo così».
Dissi
che non avevo mai sentito che ci fossero valacchi a sud del golfo di Corinto, e
mai pensavo di trovarne nel Mani.
«Qui
non è il vero Mani,» disse lui «è quello che chiamano l’Exo Mani, il Mani
Esterno. Dovete arrivare al Mesa Mani, il Mani Centrale o Alto Mani, a sud di
Areopolis, per trovare dei veri manioti. Loro sono tutta un’altra cosa. Gente
onorata, alti, di bell’aspetto, ospitali, patriottici, intelligenti, modesti...».
«Sicché
lei non è di Kambos?».
«Dio
mi guardi!».
«E
di dov’è?».
«Dell’Alto
Mani».
Kambos
di giorno era un paesotto torrido e anonimo, e fummo lieti di andarcene. Mentre
aspettavamo la corriera sulla piazza del mercato, l’alto-maniota dal volto
dolente venne verso di noi a lunghi passi, sotto la paglia del suo gigantesco
elmo di Mambrino. Tirò fuori un lindo fazzoletto azzurro in cui erano annodate
susine e regine Claudie. Le sbucciò per benino con un coltello a serramanico,
le gettò a rinfrescare in bicchieri di retsina e ce le offrì a turno infilzate
in una forchetta. Ci sono momenti in Grecia in cui sembra di poter vivere al
modo di Elia, senza preoccuparsi del cibo: il pasto ti compare sotto il naso
come portato dai corvi. Il nostro benefattore era in preda a un’acuta
malinconia. Detestava vivere a Kambos fra quegli scimuniti valacchi. Tornò a
parlare dell’Alto Mani come di una Canaan bramata e irraggiungibile. E perché
non viveva là? «Non me lo chiedete» disse, e fece con la mano aperta quello
stanco gesto circolare che allude a un cumulo di complicazioni sulle quali è
tedioso e irritante diffondersi. «Problemi...» disse.
Mi
balenò che si trovasse coinvolto in una delle faide per cui il Mani è famoso, e
fosse venuto a rifugiarsi in questi alieni bassipiani.
«Dovreste
essere là in autunno,» disse «quando le quaglie passano a milioni. Noi
stendiamo reti e mettiamo trappole, e le arrostiamo allo spiedo... Se mi date
il vostro indirizzo di casa e se Dio mi dà vita fino all’autunno potrei mandare
laggiù mia nipote a riempire un bel barattolo di quaglie sott’olio, e ve le
mangerete a Londra come mezé... Il coperchio
potremmo chiuderlo col saldatoio...».
LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
Agioi Theodoroi
SOTIRIANIKA
Agios Nikolaos
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