LA
CITTÀ DI MARTE (AREOPOLIS)
La via per il mondo
superno era una stradicciola sassosa traversata da lame di roccia, per dar
presa ai piedi dei muli che portano carichi su ad Areopolis dal torrido
porticciolo di Limeni. Ogni pianta d’olivo, immobile nell’aria immota, era
trasformata dagli insetti in un gigantesco sonaglio, un vorticoso asilo di
limatura di ferro. Ma quando di curva in curva sassosa salimmo più in alto il
fragore si smorzò e la strada, spazzata da un fresco venticello, si appianò per
due miglia di un nudo altopiano, che a ovest cadeva precipite al mare e a est
tornava a salire a prosecuzione del Taigeto; e là davanti a noi, mezzo
fortificata e con i tetti sormontati da un paio di torri e da cupola e
campanile di un piccolo duomo, ecco la capitale dell’Alto Mani. Le viuzze di
Areopolis ci attorniarono.
Come tutte le città
d’altopiano aveva un che di arioso, e verso il golfo di Messenia le stradine
finivano nel cielo come trampolini. Nell’entroterra l’anfiteatro incombente si
ingentiliva dall’asprezza pomeridiana in una serie di coni ombrosi color malva.
In questo ambiente solenne la piccola capitale aveva un’aura di solitudine e di
lontananza. Ma le vie acciottolate, in pendenza, traboccavano di vita sociale,
come se i manioti si adunassero là fuggendo dal vuoto di fuori infestato dai
cactus.
In fondo alla via
principale una cattedrale primitiva, più piccola di una piccola chiesa
parrocchiale inglese, stava in mezzo a un grappolo di gelsi. Tutta imbiancata a
calce, aveva una cupola bizantina di laterizio sorretta da un tamburo ad archi
e pilastri ed era affiancata da un candido campanile a punta. Una modanatura
dipinta di giallo chiaro cingeva l’abside a coste. Guarnita alternativamente di
rosette rosa e di foglie verde vivo, avrebbe potuto essere la decorazione di
una chiesa maya barocca sulle montagne del Guatemala. Nella parte alta dei muri
lesene color malva sostenevano colonnette racchiudenti riquadri color albicocca,
e goffi serafini con sei ali spiegavano le piume in un rilievo bitorzoluto. Due
puerili dischi solari avevano una corona di petali puntuti adorni di occhi
simili a uva passa e di larghi sorrisi, e i segni dello Zodiaco, eteroclito e
amabile serraglio, ruzzavano attraverso il bianco calce. La decorazione sopra
la porta principale era un vero rompicapo: un grande riquadro con lo stesso
rilievo bitorzoluto era dipinto di giallo, nero e verde. Rose Tudor e foglie e
rosette e soli da filastrocca infantile facevano da sfondo a due angeli, uno in
vesti scanalate, l’altro in armatura e coturni; e tra loro, sorretta da due
piccoli e rudimentali leoni rampanti, un’aquila bicipite ad ali spiegate recava
sul petto un complicato stemma con strani emblemi talmente dipinti e ridipinti
che anche stando in piedi su una seggiola di caffè era difficile decifrarli. Le
due teste dell’aquila erano aureolate, e lo stemma era sormontato da una sorta
di corona, mentre sopra le teste del rapace una corona imperiale, simile a quella
dell’Austria-Ungheria o dell’Impero russo, spiegava i suoi due nastri come una
mitra. Un cartiglio sottostante recava la data 1798.
L’aquila a due
teste, emblema di Bisanzio e in certo modo della Chiesa ortodossa, è un simbolo
che ricorre di frequente nella decorazione ecclesiastica; la formula della sua
rappresentazione sui muri e sul pavimento delle chiese è poco mutata da quando
all’aquila imperiale di Roma crebbe una seconda testa con la fondazione
costantiniana dell’Impero d’Oriente nel 330. Ma l’elaborazione araldica del
rapace di stucco sopra la porta non le somigliava affatto. Nonostante la
grossolanità, il disegno - le aureole, l’assetto di ali, artigli e coda -
echeggiava la sofisticatezza e il formalismo della moderna araldica
occidentale. Mi chiesi se non fosse stato copiato, arbitrariamente e a puro
scopo decorativo, dal blasone di un tallero di Maria Teresa; ma tranne le fasce
(o strisce) nel capo destro, vagamente simili a una parte dello stemma
ungherese, la somiglianza è nulla. Che fosse stato ispirato dallo stemma della
Russia? Improbabile, a causa della data, posteriore di un ventennio alla
fallita campagna di Orlov nel Peloponneso, che di fatto screditò la Russia come
protettrice dell’Ortodossia. L’unico fatto importante della storia locale nel
1798 è l’avvento di Panagioti Koumoundouros come quarto bey del Mani. Ma per
quanto i bey fossero grandi potentati locali, non mi risulta che si fregiassero
di un blasone. Questi emblemi, con data annessa, sembravano (e sembrano
tuttora) problematici come una statua dell’Isola di Pasqua nelle Ebridi.
Accludo una copia fedele di questo stemma semiobliterato, caso mai qualcuno
riuscisse a identificarlo e forse a disseppellire un capitolo perduto di storia
maniota.
Dopo la conquista
franca della Grecia il Mani era stato una tempestosa oligarchia feudale di
potenti famiglie. Il clan di gran lunga più forte, ricco e numeroso era quello
dei Mavromichalis, ai quali sono state attribuite varie origini. Una tradizione
li dice famiglia originariamente tracia di nome Gregorianos, fuggita qui quando
i turchi varcarono per la prima volta l’Ellesponto nel 1340. È certo che nel
XVI secolo essi erano ormai stanziati nella parte occidentale dell’Alto Mani.
Nelle cronache dei secoli successivi il nome ricorre di frequente. Secondo una
leggenda ben radicata la loro grande bellezza fisica derivava dallo sposalizio
di un Giorgio Mavromichalis con una sirena; allo stesso modo, nel folklore
celtico chiunque si chiami Connolly discende da una foca. Pari alla bellezza
era il loro coraggio e intraprendenza, e Skiloianni Mavromichalis - Giovanni il
Cane - fu nel XVIII secolo uno dei grandi paladini contro i turchi. Suo figlio
Petro fu capo di questa vasta famiglia a cavallo tra il Sette e l’Ottocento,
quando i Mavromichalis erano all’apice della loro prosperità e potenza, dovute
principalmente all’importanza commerciale e strategica della loro roccaforte
ereditaria nella fortezza naturale di Tzimòva con il porto annesso di Limeni.
Questa controlla il solo valico che attraverso il Taigeto porta a Githion e al
resto della Laconia; ed è anche l’ingresso all’Alto Mani. Molto prima della sua
nomina a bey l’autorità e influenza territoriale di Petro superava d’assai
quella dei predecessori, e il conferimento nel 1808 della carica fu la ratifica
di un potere già assoluto. La figura bella e dignitosa e la cortesia dei modi
erano i segni esteriori di un’indole retta e onorevole, di alta intelligenza,
abilità diplomatica, generosità, patriottismo, coraggio e forza di volontà
incrollabili: qualità convenientemente intensificate dall’ambizione e
dall’orgoglio di famiglia e deturpate talvolta dalla crudeltà. Anche lui
negoziò con Napoleone (ma senza gran frutto, essendo quest’ultimo troppo
occupato altrove) e riconciliò i clan guerreggianti, imponendo una tregua alle
faide. Pacificò in particolare i clan Troupakis e Grigorakis, i quali, aizzati
dai turchi nella speranza che i dissidi interni facilitassero l’invasione del
Mani o almeno lo neutralizzassero nella lotta imminente per la liberazione
della Grecia, erano aspiranti rivali al rango di bey.
Fu il Mani a colpire
per primo. Petrobey e tremila manioti insieme a Kolokotronis e a una schiera di
grandi clefti di Morea mossero contro la guarnigione turca di Kalamata. Dopo la
resa di questa, egli diramò alle corti d’Europa una dichiarazione delle
aspirazioni greche firmata «Petrobey Mavromichalis, Principe e Comandante in
capo». I vessilli della libertà si alzavano intanto in tutta la Grecia, e
l’intera penisola divampò in un incendio che dopo quattro secoli di schiavitù
abbatté per sempre il potere turco nel paese e fece rinascere la splendente
fenice della Grecia moderna. Petrobey, alla testa dei suoi manioti, combatté
battaglie e battaglie in quegli anni feroci, e fu uno dei giganti della lotta.
La sua figura si staglia ben al di là dei limiti rocciosi di queste pagine, in
quelle della storia moderna europea. Non meno di quarantanove suoi familiari
perirono nel conflitto e la sua capitale Tzimòva fu ribattezzata in suo onore
Areopolis: la città di Ares, dio della guerra. Nell’intrico di contrasti
ideologici che seguì la liberazione Mavromichalis venne in urto con il nuovo
capo dello Stato, Giovanni Antonio conte di Capodistria, e fu imprigionato
nella nuova capitale Nauplia. Il Mani insorse; Petrobey fuggì ma fu ripreso e
rimesso in carcere, e due suoi turbolenti nipoti, infuriati per l’ingiuria,
uccisero in un agguato Capodistria. Durante il regno del re Ottone,
Mavromichalis ebbe alti onori, e morì, circonfuso di gloria, nel 1848. In
seguito i suoi discendenti hanno avuto sempre una parte di rilievo nei vari
governi e gabinetti di guerra, anche se nessuno di loro - e come sarebbe stato
possibile, nel mondo ateniese della politica di partito? - ha eguagliato la
statura del grande avo.