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sabato 20 giugno 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Anavriti, Kambos e Sotirianika)


Le montagne erano alle nostre spalle, e le colline pedemontane digradavano in dolci ondulazioni verso il mare punteggiate di villaggi e di aie biancheggianti. Al di là degli ultimi colli erano la placida distesa del golfo di Messenia e la penisola più occidentale del Peloponneso, dove si trovano Methoni e Koroni. A nord una grigia spalla del Taigeto celava la parte più interna del golfo, dove friggeva Kalamata. A Galtes, il primo villaggio, ci fermammo per un bicchiere di vino sotto una pergola in compagnia del prete e di alcuni paesani con quei grandi cappelli manioti, poi continuammo a scendere. La strada si snodava in agevoli sinuosità. Il sole del tardo pomeriggio ammorbidiva ogni cosa, e insieme al sollievo di essere sfuggiti alla prigione dei monti caricava l’aria di un senso di benessere e di vacanza. Arrivati a una piccola pianura ci imbattemmo in una schiera di muli, tre dei quali montati da giovanotti. Uno era un compagno di battesimo di Chrisanthos, sicché potemmo subito issare le nostre stanche membra su una sella.
«Da Kalamata?» chiese il compagno di battesimo.
«No, da Anavriti».
«E dov’è?».
«Dall’altra parte del Taigeto».
Era chiaramente incredulo, finché Chrisanthos non gli assicurò che era vero. La sua compassione fu immediata «E la signora... mi scusi, non conosco il suo nome...?».
«Ioanna».
«E la kiria Ioanna anche? Po, po, po! Sarete morti! Quelle rocce da capre ammazzerebbero chiunque. Sono una disperazione, ti fanno sputare l’anima».
Fece un viso grave. «C’è solo un rimedio, quando uno è tanto stanco». Parlava con la serietà di un diagnosta. «Un caffè medio ben bollito. Poi, dopo mezz’ora,» chiuse e alzò il pugno, e col pollice teso fece il gesto di versare in bocca «vino. Vino buono. Molto vino». La sua fronte corrugata divenne ancora più grave, e per evitare ogni equivoco decise di riformulare la frase. «Quando arrivate a Kambos» indicò la cittadina davanti a noi, di cui sentivamo da qualche minuto le campane «dovete bere molto vino».
Passavamo per un oliveto che cresceva da una terra rossa sparsa di pietre. I rami contorti erano striduli di cicale. I muli trottavano svelti, e nell’eccitazione di avvicinarsi a casa ruppero quasi in un galoppo. La piccola cavalcata sollevava un polverone che i raggi del sole mutavano in una trasfigurante nuvola rosso-oro. Tirammo le redini ai margini di Kambos, perché i muli andavano a Varousia a prendere dei sacchi per il grano trebbiato durante la giornata. Il sole era tramontato ma gli alberi e le prime case di Kambos splendevano ancora della luce immagazzinata dall’alba. Sembrava che ardesse dal di dentro col fulgore particolare, interiore, dell’estate greca, che dura per un’oretta dopo il tramonto, di modo che i muri bianchi e i tronchi degli alberi e le pietre svaniscono infine nell’oscurità come lampade che si spengono lentamente.
«Non dimenticate il mio consiglio» disse il mulattiere, e con un tamburellare di zoccoli la vispa truppa di muli si allontanò tra gli olivi nella sua strana aureola di polvere.

La ricetta era eccellente. Seduti dopo cena nell’umile platia di Kambos, convenientemente narcotizzati dal vino, tutta la stanchezza della lunga scarpinata diurna si risolse in un torpore piacevolmente nebuloso. Di là dai tetti e dal fogliame, nel baluginio delle stelle e di un esile fantasma di luna nuova, la mole del Taigeto appariva più che mai dirupata e impervia. Sembrava impossibile che solo quella mattina fossimo partiti dalla remota pseudo-Giudea dell’altro lato... La nostra fierezza, peraltro, si sgonfiò alquanto al pensiero di Iorgo che in quello stesso istante attraversava i monti a gran passi... Un’alta figura, dandoci la buonasera e sedendosi su una sedia accanto, ruppe il filo della nostra sonnolenta conversazione. Era un tipo magro, donchisciottesco, con guance infossate e foltissimi sopraccigli. Mise sul tavolo un ekatostáriko di vino e riempì i bicchieri. Gli chiedemmo notizie sulla cittadina di Kambos.
«Un posto miserabile,» disse «praticamente un sobborgo di Kalamata, anche se ci corrono ore di strada, e gli abitanti sono un branco di buoni a nulla. Sono valacchi».
«Valacchi? Nel Peloponneso?».
«Noi li chiamiamo così».
Dissi che non avevo mai sentito che ci fossero valacchi a sud del golfo di Corinto, e mai pensavo di trovarne nel Mani.
«Qui non è il vero Mani,» disse lui «è quello che chiamano l’Exo Mani, il Mani Esterno. Dovete arrivare al Mesa Mani, il Mani Centrale o Alto Mani, a sud di Areopolis, per trovare dei veri manioti. Loro sono tutta un’altra cosa. Gente onorata, alti, di bell’aspetto, ospitali, patriottici, intelligenti, modesti...».
«Sicché lei non è di Kambos?».
«Dio mi guardi!».
«E di dov’è?».
«Dell’Alto Mani».


Kambos di giorno era un paesotto torrido e anonimo, e fummo lieti di andarcene. Mentre aspettavamo la corriera sulla piazza del mercato, l’alto-maniota dal volto dolente venne verso di noi a lunghi passi, sotto la paglia del suo gigantesco elmo di Mambrino. Tirò fuori un lindo fazzoletto azzurro in cui erano annodate susine e regine Claudie. Le sbucciò per benino con un coltello a serramanico, le gettò a rinfrescare in bicchieri di retsina e ce le offrì a turno infilzate in una forchetta. Ci sono momenti in Grecia in cui sembra di poter vivere al modo di Elia, senza preoccuparsi del cibo: il pasto ti compare sotto il naso come portato dai corvi. Il nostro benefattore era in preda a un’acuta malinconia. Detestava vivere a Kambos fra quegli scimuniti valacchi. Tornò a parlare dell’Alto Mani come di una Canaan bramata e irraggiungibile. E perché non viveva là? «Non me lo chiedete» disse, e fece con la mano aperta quello stanco gesto circolare che allude a un cumulo di complicazioni sulle quali è tedioso e irritante diffondersi. «Problemi...» disse.
Mi balenò che si trovasse coinvolto in una delle faide per cui il Mani è famoso, e fosse venuto a rifugiarsi in questi alieni bassipiani.
«Dovreste essere là in autunno,» disse «quando le quaglie passano a milioni. Noi stendiamo reti e mettiamo trappole, e le arrostiamo allo spiedo... Se mi date il vostro indirizzo di casa e se Dio mi dà vita fino all’autunno potrei mandare laggiù mia nipote a riempire un bel barattolo di quaglie sott’olio, e ve le mangerete a Londra come mezé... Il coperchio potremmo chiuderlo col saldatoio...».

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI






Agioi Theodoroi






























SOTIRIANIKA
Agios Nikolaos