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venerdì 15 novembre 2019

Arrampicare ai Corni. Commenti (6/7)

Il 14 settembre 2019 ho inviato questa mail:

Sto riprendendo a scrivere di montagna, mettendo in rete i miei appunti.
Li trovate qui, se volete:

- Gigi Grana, alpinista e operaio





Tra meno di due mesi ricorrerà il 50mo anniversario della Via Giuseppe Verderio da me aperta sulla parete Nord-Est del Corno Orientale di Canzo.
Statemi bene.
Giancarlo Mauri

Queste le risposte “alpinistiche” ricevute, in ordine cronologico:

19.09.2019
Ciao Giancarlo,
grazie per avermi segnalato i tuoi scritti.
In questo periodo arrampico poco.
[…] Ti scrivo però, forse un po’ di corsa, perché ci tenevo alla ricorrenza del 50mo della Giuseppe Verderio (che non avrei colto senza tua indicazione).
È una via particolare, sull’Onda (come la chiamano oggi), per certi versi unica ed irripetibile.
Chiunque tentasse di “riammodernarla” sostituendo i chiodi ad espansione sarebbe un pazzo scriteriato.
Chiunque tentasse di ripeterla, così come è, con i suoi 50 anni, dovrebbe essere mosso da profondi motivi personali.
Sarebbe una salita grandiosa e terribile.
Io, francamente, la guardo con ammirazione ma non potrei ripeterla.
Sulla Luigi Paredi, dedicata a mio nonno, ho “navigato” sui vecchi chiodi ad espansione, ma era una placca liscia “quasi” appoggiata.
L’onda è uno strapiombo che hai affrontato dritto per dritto, come una nave che spinge a fondo i motori puntando alla cresta dell’onda per non essere travolta.
Senza un buon motivo, come lo hai avuto tu, non si può fronteggiare in quel modo qualcosa di simile.
Ciao e grazie!
Davide “Birillo” Valsecchi

* * *

November 1, 2019


La prima guida all’arrampicata dei Corni, di cui ho notizia, fu scritta da Giorgio Tessari e Gian Maria Mandelli nel 1979. Un volume piccolo, quasi tascabile, denso di relazioni, foto in bianco e nero, schizzi delle vie disegnati a mano: “Valmadrera: montagne ed itinerari alpinistici”. La prima ristampa, con aggiornamento, fu pubblicata nel 1996. Due volumi preziosi ed ancora oggi molto validi. Tuttavia ciò che per me ha davvero spalancato un mondo è stata la terza guida, “L’isola Senza Nome: storie di uomini e montagne, dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” pubblicata nel 2005. Probabilmente quel libro ha influito sulla mia vita come pochissimi altri. Tornato dall’Africa ne trovai una copia mentre curiosavo in biblioteca e, da allora, l’ho sfogliato migliaia di volte. Sebbene sia ormai un libro introvabile ne ho posseduto ben due copie. Anche se, purtroppo, ora solo una. La prima infatti la diedi anni fa, in una sera d’inverno, ad un celebre e giovane alpinista erbese: da allora non ci siamo più rivolti parola. Certo, nella vita non si può mai sapere, ma temo che non rivedrò mai quella mia vecchia copia. Tuttavia Ivan Guerini mi ha fatto dono della sua copia, ricevuta con tanto di dedica da Gianni Mandelli, ed in qualche modo l’equilibrio ha ritrovato la sua strada. La grande differenza di questo libro rispetto alle due guide che l’hanno preceduto è chiara fin dal titolo: “L’isola Senza Nome”, un luogo ben preciso - “dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” - che in realtà non esiste, non ha nome, e che in qualche modo è isolato, distante, unico e disgiunto da tutto il resto. Un libro che non è una semplice guida all’arrampicata ma la raccolta di “storie di uomini e montagne”. Fino ad allora tutti mi avevano sconsigliato di arrampicare lassù, raccontandomi che erano vie brutte, pericolose, con vetuste soste tenute insieme con il filo di ferro: “Rischi solo di farti male o lasciarci la pelle!!”. Grazie a questo libro quelle vie restavano “terribili” - e tutt’oggi io credo lo siano - ma acquisivano una storia, una profondità umana che mai avrei immaginato. In quel libro si poteva ripercorrere un secolo di arrampicata scoprendo, con incredibile sorpresa, momenti di straordinario coraggio ed intensa passione. Per me, che ero ventenne a cavallo degli anni 90, l’arrampicata si era trasformata nello “sport” con cui far pubblicità agli orologi “che spaccano il secondo”, mentre all’alpinismo era toccata la pubblicità dell’acqua gasata “purissima” in bottiglie di plastica. Niente che avesse in qualche modo a che fare con il mio viaggio in Pakistan o con la montagna che mi aveva insegnato mio padre, niente che potesse attrarre lo slancio della mia gioventù. Ma in quel libro, in quell’isola ribelle, vi era un mondo nuovo ed allo stesso tempo antico, un mondo intenso, brutale, spaventoso ma capace di scintillare su quella roccia lucida circondata dal verde, un mondo intriso di un’umanità travolgente, capace di brillare nel buio dell’incertezza, capace di accomunare ed unire le generazioni attraverso un secolo di tradizione: “storie di uomini e montagne”. Non potevo che restarne attratto, non potevo che desiderare farne parte.
Una di queste storie è stata scritta da Giancarlo Mauri e ripercorre le vicende che lo portarono all’apertura della via “Giuseppe Verderio” al Corno Orientale. Aperta il 2-3 e 9 novembre del 1969 da Giancarlo Mauri e Diego Pellacini in ricordo dell’amico “Beppe” caduto il 2 marzo di quello stesso anno dalla vetta del Medale. Quest’anno ricorre il 50° anniversario dei fatti narrati in quella storia: “Arrampicare ai Corni”. Confesso che sono state tante le cose “strane” che mi sono capitate lassù ed oggi, anche più della prima volta, trovo speciale il racconto di Giancarlo. C’è qualcosa di trascendentale su queste montagne, qualcosa che spinge a guardare in faccia i propri sogni e le proprie paure. Nel silenzio di quelle pareti aleggiano fantasmi e spiriti che sussurrano le verità che non vogliamo ascoltare, i ricordi che non vogliamo lasciarci sfuggire.
Davide “Birillo” Valsecchi

* * *

2.11.2019
Di questa storia dell’Onda mi piace un sacco l’avventura: dormire in tenda (freddo boia) a 10 minuti dal rifugio, il su e giù dalla parete, gli arditi tratti in libera e poi la progressione in arrampicata artificiale tipica di quegli anni lì. Anche dalle foto, non sembra una roba di pochi tiri, ma ha tutta la dignità di una tosta salita alpina.
Dove si riesce chiodi normali (spesso “psicologici”), poi i terribili chiodini a pressione. Tre centimetri di metallo ruzzati a forza in un buchino fatto a martellate col bulino, ai quali appendere la propria pellaccia... come un quadro alla parete.
Magnifici Conquistatori dell’inutile. Haha
Apprezzo tantissimo ’ste cose, nonostante oggi arrampico praticamente solo in falesia. Per varie ragioni, soprattutto cliniche. Ma anche, lo confesso, per una certa pigrizia. Avvicinamenti brevi, ambiente confortevole, belle sequenze di scalata, spesso difficile (almeno fino a dove oggi posso permettermelo) e di soddisfazione, sportivamente parlando.
Però ricordo con grande piacere quel “ravanage” che racconti, che ho ampiamente goduto su certe nuove salite sulle strutture di Introbio, Medale, Cima Calolden etc. Spesso inconsapevolmente protetti (i miei soci ed io) da qualche buona stella che non finirò mai di ringraziare.
E poi le tue immagini: bellissime. Una in particolare; e non è di scalata... Te la riallego così se intendemo mejo.



Ciao
P [Pietro Corti]

domenica 30 giugno 2019

Una foto che mai avrei voluto scattare


Alpinisticamente, per Gigi Grana il 1967 è stata una buona annata. Dopo la consueta serie di ascensioni preparatorie,  a maggio è in Civetta, dove nei giorni 25 e 26, con Angelo Pizzocolo (a comando alternato, come si usava tra due primi di cordata), ripete la Via Cassin-Ratti allo spigolo SE della Torre Trieste. Oggi è quotata 6b+/6a obbligatorio, ma nel 1967, quando si arrampicava con gli scarponi di cuoio ai piedi, si diceva che era un “sesto più”.



Il 2 giugno Gigi è di nuovo alla Torre Trieste, stavolta con Pierangelo Rolla e insieme portano a casa un altro prezioso trofeo: la via Carlesso-Sandri e le sue varianti Hasse-Brandler.


Il 30 giugno - oggi sono giusto 52 anni - quattro alpinisti risalgono la parete nord della Cima Grande di Lavaredo seguendo la via aperta dalle cordate Hasse-Brandler e Löw-Lehne. Una via “mitica” negli anni Sessanta e quindi un forte richiamo per i migliori nomi dell’alpinismo internazionale, tanto che i giornali usavano darne notizia. Dopo un bivacco al di sopra dei grandi strapiombi, il 1° luglio Gigi Grana e Angelo Pizzocolo (a comando alternato), Carluccio Casati e Gianni Sfilza Arcari escono in vetta. Il giorno dopo, puntuale, Gigi invia la consueta cartolina per informare gli amici.




Due settimane dopo, 15 luglio, lo ritroviamo sui monti del suo Veneto natìo, dove in cordata con lo scledense Gianni Capozzo ripercorre il Camino Carlesso al Sojo d’Uderle, uno sperone roccioso che si distacca dal massiccio del Monte Pasubio.

Il 31 luglio è nel Gruppo di Brenta; qui, con Armando Da Dalt, un altro giovane di Schio, sale il Croz dell’Altissimo seguendo la via tracciata da Armani e Fedrizzi, al tempo quotata V e VI grado della scala di Monaco.

Il 7 agosto è giorno di riposo: assicurato da Eriberto Pedrotti, Gigi sale l’aereo ma non difficile (III+) Spigolo Piaz della Torre Delago, una delle tre Torri del Vajolett.



Già l’aria cambia il giorno dopo, quando col Rola ripete la Buhl, una via aperta da Hasse-Brandler sulla Parete Rossa della Roda di Vael; le difficoltà sono VI, A2 e A3.

Il 10 agosto è una data che mi vede coinvolto. Io, il Beppe e suo fratello Luigi siamo ospiti dell’attendamento Mantovani, predisposto dalla sede di Milano del CAI di Milano al Pian Schiavaneis, accanto al Rifugio Monti Pallidi. Ai giorni dedicati all’arrampicata alternavamo giorni di riposo, che utilizzavo per scendere a piedi a Canazei, acquistare gli immancabili libri, e ritornare, sempre a piedi, alla tenda. Ed è stato proprio a Canazei, per un caso fortuito, che incontro Gigi Grana, il quale - rientrato dalla Roda di Vael - aveva raggiunto Armando Da Dalt ed Eriberto Pedrotti che sapeva attendati nel locale campeggio. Armando era un volto nuovo per me, ma non certo Eriberto, un amico con cui avevo passato non poche serate alla SEM dei Piani Resinelli e fatto alcune arrampicate in Grigna. Il giorno dopo - il fatidico 10 di agosto - sono loro tre a salire al Pian Schiavaneis, ospiti nella nostra tenda. Insieme si parla di arrampicate e da loro apprendo che domani intendono salire la Via Fedele al Sass Pordoi. Basta uscire dalla mia tenda ed eccola lì, davanti agli occhi: sono circa 700 metri di IV con alcuni passaggi di V. Ma io quel giorno esco dalla tenda anche per scattare due foto ricordo: in una si vede Eriberto davanti a Gigi Grana; sullo sfondo, al buio, s’intravvede Luigi Verderio; a destra vi è il Beppe con Armando in primo piano. Il secondo scatto è dedicato a Eriberto e Gigi, con Luigi sullo sfondo. Due fotografie su cui il senno di poi ha giocato non poco.




Sinceramente non so se il giorno dopo i nostri tre amici siano saliti sul Sass Pordoi, anche perché quel giorno io e il Beppe eravamo altrove, alle prese con la nostra prima volta sulla stupenda parete sud del Piz Ciavazes.


Dalle carte di Gigi - messe a mia disposizione da sua figlia, Silvia - non ho trovato nessuna traccia del Sass Pordoi, mentre imparo che il 16 agosto lui ed Eriberto portano a buon fine la salita dello Spigolo del Velo, Cima Madonna, Pale di San Martino.



L’ultima salita del 1967 ritrovata tra gli scritti ricevuti da Silvia porta la data 3 settembre, quando Gigi e Gianni Capozzo firmano la ripetizione della Via delle Guide al Crozzon di Brenta. Non è certamente l’ultima salita di quell’anno, ma i documenti qui si fermano e nessuno mi potrà aiutare a completare il lavoro da me intrapreso di ricostruire il curriculum alpinistico di Gigi Grana, oggi fermo a più di 220 vie, tutte di prim’ordine.

* * *

Poi improvvisa arriva una prima brutta notizia, da me collegata alle due slides del 10 agosto: in un incidente ferroviario, il 24 ottobre 1967 muore Eriberto Pedrotti. Aveva 28 anni.




Meno di due anni dopo, il 2 marzo del 1969 Giuseppe Verderio precipita dalla Corna di Medale, uno sperone alto poco meno di 400 metri che sovrasta Lecco, che insieme avevamo salito per la Via Cassin-Boga. Ormai fuori dalle difficoltà, ci eravamo slegati e intrapreso la breve e facile traccia che porta al prato e al sentiero di discesa. All’improvviso sento un colpo sordo, come di un masso caduto su terreno erboso. Mi giro e non vedo il Beppe. Lo chiamo, ma nessuno risponde. Di corsa scendo ai piedi della parete, ne costeggio la base e mi ritrovo a fronteggiare la dura verità.





L’11 agosto 1974 è giorno di partenza per le vacanze estive, da trascorrere sull’Alta Via delle Dolomiti. Tutto è pronto per essere caricato sull’auto quando il telefono squilla: c’è una emergenza in una cabina della Cartiera Burgo di Lugo. Armando Da Dalt, elettricista, esce di casa assicurando che sarebbe tornato presto ma così non è stato: una scarica elettrica lo fulmina. Sette giorni dopo avrebbe compito 28 anni. Lascia una giovane vedova, Lucia, e una figlia, Laura.

Lasciato il lavoro alla fonderia di Caronno Pertusella, Gigi torna nella sua città natale, Schio. Si sposa con Bruna e diventa padre di Silvia. Continua ad arrampicare, è vero, ma l’ambiente e i tempi sono cambiati. Poi arriva il conto: dapprima alcuni incidenti motociclistici - Gigi si muove solo con la sua Lambretta -, poi gli anni passati in fonderia riaffiorano nel suo corpo. Il 12 maggio del 1995 Gigi non è più. Aveva vissuto 57 anni, un mese e tre giorni.

Quattro persone che una mia diapositiva scattata il 10 agosto 1967 mostra allegri, come possono esserlo quattro amici uniti da una comune passione, ritrovatisi in un ambiente a loro consono, le Dolomiti, intenti a raccontarsi le loro passate arrampicate e progettare le future.
Sì, questa è proprio una di quelle fotografie che mai avrei voluto scattare.


DALL'ARCHIVIO PRIVATO
DELLA FAMIGLIA GRANA























LE FAMIGLIE GRANA E MAURI
IN GITA SULLE
PICCOLE DOLOMITI VICENTINE
5 giugno 1977