mercoledì 8 luglio 2020

MANI. Viaggi nel Peloponneso (Githion, il porto d'arrivo)


La pendice che percorrevamo di gran carriera era completamente brulla. Qualche raro cardo, non una traccia di rovo o di cisto, nessuno stelo rinsecchito di asfodelo; neppure quei bulbi a cipolla dell’amaro narciso marino che punteggiano i terreni più aspri di scoppi verde scuro spuntavano dalla sassaglia. Passammo davanti a una casa isolata caduta in rovina, e Vasilio raccontò una macabra storia che corrispondeva mirabilmente alla follia del paesaggio.






Nelle icone, gli antichi significati si dileguarono e il simbolismo religioso, acquistando un potere talismanico suo proprio, assunse nuovi connotati. La Croce e tutto il suo sacro corteggio pittorico non furono più indicazioni del Logos e dei misteri divini, ma, molto semplicemente, gli avversari della Mezzaluna: totem di famiglia che davano sanzione celeste a quei più umili e diretti strumenti di salvezza, yatagan, scimitarra e archibugio. In questa nuova funzione l’iconografia greca - viva e in evoluzione, con periodi di coma, dai mosaici e sculture degli sparsi regni in declino lasciati dalle conquiste di Alessandro e dai malinconici ritratti con gli occhi sgranati del Fayyum - si immobilizzo; e nel buio periodo prima dell’albeggiare della libertà la sua vita impercettibilmente si andò dileguando. Sopravvisse per il resto della sua durata solo come araldica - recondita, arcaizzante e bella arte tenuta prigioniera da un codice non trasgredibile - e si può dire che ancora sopravviva. Luccicanti fumosamente nelle nicchie delle chiese e vegliami come lari di famiglia in ogni casa, da Trebisonda a Corfù e dalla Macedonia a Cipro, le icone furono le armi parlanti, gli scudi, gli emblemi, gli elmi, le corone, i cimieri, i sostegni e i lambrecchini, i guerrieri e i maghi, di un perduto Olimpo bizantino arturiano al quale un giorno sarebbero tornate. Questi ramificanti viticci digressivi hanno oscurato, come un viluppo d’edera, i muri della desolata chiesetta di Lagia da cui sono nati.




L’Alto Mani era finito. La cala, a mezz’ora di cammino a sud di Kotronas, era dominata da un fico gigantesco. Il lungomare era dedicato alla fabbricazione delle reti. Bisognava camminare con cautela. Strisce larghe un metro di trasparenti reti rossicce erano cappeggiate per terra per una lunghezza di cento passi, e i pescatori seduti a terra a un’estremità tenevano tesa la rete con l’alluce e annodavano svelti maglia a maglia con saettanti spolette. Pescatori seduti in fila lungo un muretto erano occupati a innescare le lenze per la pesca alla traina. Uno, al solito, aveva perso una mano usando l’esplosivo. Un cesto che teneva sulle ginocchia era pieno di rotoli di cordicella e aveva il bordo munito di turaccioli irti di ami come puntaspilli. Lui allacciava l’imbando al moncherino, legava con l’altra mano un breve tratto di filo di nailon alla cordicella marrone, stringeva il nodo tirando coi denti, innescava l’amo con un boccone di pesce, e attaccava un altro pezzo di cordicella, tutto a gran velocità, fumando incessantemente e fermandosi solo un attimo per gettarmi una sigaretta vedendo che mi frugavo invano nelle tasche.



La cosa più notevole e rivelatrice in una faccia greca – specialmente in una faccia contadina – sono gli occhi. Sembra che abbiano dietro, aggomitolata, tutta la storia greca. Sono un insieme di esperienza, di alquanto mesta saggezza e di innocenza. Sono al tempo stesso malinconici e indagatori, intelligenti e pronti a schizzare dalle orbite per l’ira o ad accendersi di divertita complicità e di allegria; soprattutto, sono pieni di un vasto, fenomenale, indifeso candore.



Githion, cui un’isoletta era accavezzata con un lungo e stretto molo, tremò verso di noi tra la foschia della calura pomeridiana. La cittadina era immersa nella catalessi del pomeriggio. Niente si muoveva tra i navigli e le gru del lungomare e tra gli inerti filari di case che si arrampicavano su per il colle. Fuori dal tendone della nave il sole picchiava come una maledizione, e sentii il calore della banchina attraverso le suole delle scarpe come se camminassi su un ferro da stiro. Tutte le imposte erano chiuse. «Non si muove un gatto» disse un compagno di viaggio mentre attraversavamo il Sahara del porto. «Solo degli adulteri diretti a un convegno pomeridiano andrebbero in giro a quest’ora. Ma forse non a Githion. Non è Atene, in fin dei conti!...».
Mi svegliai un paio d’ore dopo. I suoni che giungevano attraverso le imposte chiuse indicavano che fuori la città incantata si stava rianimando. Due radio solitarie andavano a tutto volume, e facevano uno strano effetto dopo il Mani incontaminato. C’era il tubo di scappamento di un motore o due, voci, la sirena di una nave, il clop-clop di somari e cavalli, e a tratti lo sbattere di quelle bilance portatili d’ottone che fruttivendoli e droghieri brandiscono come statue della Giustizia. Tutti i suoni, insomma, di un’importante città di provincia che è anche un porto, il maggiore del Peloponneso sudorientale, sede di arcivescovato, di tribunali e di parecchie scuole, una piccola base navale e un florido mercato. Il rumore del risveglio d’attività penetrava tuttavia alquanto attutito nel cubo buio della mia stanza all’Hotel Atteone.
Era ora di mettere una camicia pulita e di farmi la barba.





Githion ha antecedenti venerandi. Se Omero non ne parla, Pausania tramanda un mito che attribuisce la sua fondazione a Eracle e Apollo, per celebrare la fine della loro lunga lite causata dal furto del tripode della Pizia a Delfi.
Altri dicono che Githion fu fondata, dopo la distruzione di Las, da Castore e Polluce al loro ritorno dalla Colchide. I fenici di Tiro vi approdavano per procurarsi il murice, e gli stessi laconi impararono presto e svilupparono l’industria; tutte queste acque infatti, da Githion a Citera, erano ricche del mollusco da cui si ricavava la porpora, e che presumibilmente vi prolifera tuttora indisturbato. Più tardi la città diventò il principale porto marittimo di Sparta, teatro di parecchi assedi; segnatamente quello in cui Tolmide, risalito il golfo con una flotta ateniese di cinquanta triremi, sgozzò quattromila opliti intorno alle mura. Una volta vi sbarcò Alcibiade, e Epaminonda la tolse agli spartani nella sua campagna lungo la valle dell’Eurota. Filippo V il macedone e il tiranno spartano Nabide arricchirono di pagine guerresche i suoi annali. La città fu strappata a Nabide dal generoso generale romano Tito Quinzio Flaminino, impegnato a distruggere, come fece, la flotta pirata di Sparta. Flaminino annesse la città all’Impero. In seguito, cosa abbastanza curiosa, egli fu onorato a Githion quasi come un dio. Sotto i romani la città visse prospera e pacifica: la Libera Federazione Laconica fondata da Augusto era da ogni punto di vista preferibile alla tirannide spartana. In età imperiale il gusto romano per la porpora, usata dapprima solo nella sobria striscia senatoria sopra la toga repubblicana, diventò una passione. L’industria ebbe grande sviluppo, e insieme ad essa l’esportazione del porfido e del marmo «rosa antico»; nel Mani si vedono ancora qua e là lastre incise, e gli squarci sbiaditi sulle pendici dov’erano le cave. Queste pietre erano il principale ornamento dei palazzi di Alessandro Severo e di Eliogabalo. Nuovi templi, dedicati a una varia molteplicità di dèi, sorsero accanto ai vecchi. Ad essi tennero dietro un teatro, fori, ville, acquedotti e terme.
Oggi è molto diversa. Non vi è nulla di particolarmente magnifico, ma il lungomare, con i piroscafi all’ancora, i negozi e uno o due alberghi, ha un certo deperito fascino vittoriano. Qua e là in questa malandata matrice è incastonata la nuda facciata di un edificio moderno. È triste che le città di provincia greche abbiano cominciato a espandersi e a prosperare in un momento in cui l’architettura europea era al suo nadir più ingrato. Se fossero state costruite con vie porticate! Come i portici nobiliterebbero e drammatizzerebbero splendidamente le passeggiate serali! Che riparo benedetto dai diluvi invernali e più ancora dall’assalto del bagliore meridiano!









Marathonissi, scolorata e oscura, nereggiava contro i bagliori d’ambra del tramonto. Il nome vuol dire «isola del finocchio». Ora è brulla, ma dicono che un tempo fosse coperta appunto di finocchi: una bassa foresta di ciuffi svettanti come capitelli corinzi gialli e verdiazzurri, forse intramezzati dalla specie alta e sottile che quando si secca dà a tutta la Maremma odore di curry. L’aria era soffusa di una luce celestina veneziana. I lampioni del molo affondavano lineari riflessi a piombo nel dondolio impercettibile dell’acqua: colonne luminose che si frangevano e riunivano e di nuovo si disperdevano come se le particelle fossero infilzate su un filo che si allentava e si tendeva, volta a volta scombinando e riordinando quei balenanti e fluttuanti frammenti d’oro. Poi l’acqua diventò liscia e ferma e le luci riflesse furono immobili. Una barca, la cui sagoma scura aveva un’aria lievemente sinistra, vogò verso l’isola sbriciolando quei fragili riflessi. I frantumi si sparsero intorno alla scia e si allargarono in una fuga agitata di virgole d’oro, il loro delicato tremolio separato da una fascia scura causata dal movimento della barca; una distesa che rifletteva non i lampioni del molo ma la luna, in una fredda circonferenza incrinata di argento franto da cui scaturivano due fredde code via via più ampie di una scia di mercurio, un lungo triangolo isoscele argenteo. Ci alzammo per andarcene. La taverna ci chiamava. Lo stifado, i pescispada... Il cameriere spazzò dal tavolino il nostro mucchietto di dracme.
«Sapete di Marathonissi, nei tempi antichi?» chiese improvvisamente. «Molti anni fa?».
«Zanetbey aveva là il suo castello» dissi io.
Il cameriere liquidò bey e castello con un gesto. «Quella è roba recente... il mio trisnonno era uno dei pallicari di Zanet. Voglio dire molto molto tempo fa».
Dichiarammo di non sapere altro.
«Ah!» fece, acceso dalla prospettiva di darci una notizia. «Quando Paride, un principe troiano, rubò la bella Elena al marito, il re di Sparta, è là» indicò Marathonissi «che i fuggiaschi gettarono l’ancora. Scesero dal caicco e passarono la prima notte insieme sull’isola. L’ha raccontato Omero. L’isola allora si chiamava Cranae».
Restammo sbalorditi. Cranae! Mi ero sempre chiesto dove fosse. Tutta Githion si trasformò di colpo. Sembrò che ogni cosa svanisse, tranne il profilo scuro dell’isola dove migliaia d’anni fa era cominciata, tra l’erbe mormoranti, quella fatale e incendiaria luna di miele.

 






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