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lunedì 10 dicembre 2018

Musée Nissim de Camondo, Paris


Cacciati dalla Spagna per volere degli Inquisitori, alla fine del XV secolo una famiglia di ebrei sefarditi attivi nel mondo della finanza trova riparo all’ombra dei minareti dell’Impero ottomano. Vi rimangono per tre secoli, quando l’ala protettrice offerta dallo statuto di protetti dell’impero Austro-Ungarico consiglia loro di traslocare a Trieste, uno dei centri dell’interscambio commerciale tra il mondo cattolico e quello musulmano. Per non disperdere i contatti in essere, nel 1802 Isaac Camondo fonda a Istanbul una banca che porta il suo nome, poi ereditata nel 1832 da suo fratello Abraham-Salomon, colui che viene ritenuto il patriarca dell’immensa fortuna dei Camondo - e le solide radici da lui piantate a Vienna, Londra e Parigi gli regalano il nomignolo di “Rothschild dell’Est”. La sua visione di sviluppo internazionale - tenere i piedi in più scarpe è una lezione che gli ebrei hanno ben imparata a loro spese - lo induce ad associare alla banca di famiglia i suoi due nipoti Abraham-Béhor e Nissim - dal 1866 rimasti orfani del padre Salomon-Raphaël -, spingendoli ad aprire una sede della banca Isaac Camondo et Cie a Parigi, cittàdove lui stesso s trasferisce nel 1869.
Già naturalizzato italiano nel 1865, nel 1867 (per aver economicamente sostenuto la causa di riunificazione dell’Italia) Abraham-Salomon riceve da Vittorio Emanuele III il titolo di conte, trasmissibile ad Abraham-Béhor, il primogenito maschio, una limitazione poi corretta nel 1870 con un secondo decreto che concede anche a Nissim lo stesso titolo e la sua trasmissibilità.
L’aver scelto Parigi quale nuovo centro operativo non scioglie comunque i legami col passato. A Istanbul il patriarca è impegnato nello sviluppo urbanistico del quartiere di Galata, operazione affiancata da un’intensa attività filantropica, con la costruzione di scuole, di ospedali e dispensari che portano il suo nome.
Portare la sede operativa a Parigi implica la necessità di disporre di una struttura di prestigio, adatta a mostrare la solidità della ditta. L’anno 1869 coincide col periodo in cui i fratelli Pereire, acquisiti i diritti sui terreni a sud del Parc Monceau, danno l’avvio a una nuova speculazione residenziale che vede quegli spazi destinati alla costruzione di hôtels particulier adatti alle esigenze di prestigio delle emergenti famiglie dell’alta società industriale e finanziaria. Nel giugno del 1870 i Camondo acquistano due lotti di terreno tra loro adiacenti, un lato rivolto al Parc Monceau, l’altro aperto sulla rue Monceau. Il lotto indicato col numero stradale 61 viene affidato all’architetto Denis-Louis Destrors, che riceve da Abraham-Béhor l’incarico di costruirvi un fastoso hôtels, struttura completata nel 1875.
Il lotto adiacente, che porta il numero 63 di rue Monceau, non è vergine: nel 1864 Adolphe Violet, un ricco imprenditore attivo nei lavori pubblici, vi aveva fatto erigere una casa, ingrandita nel 1872. L’anno seguente Nissim, il nuovo proprietario, affida all’architetto René Sergeant l’incarico di creare una nuova casa, aggiungendovi una serra decorata secondo lo stile giapponese, mentre nel 1874 l’architetto Destors ne realizza la nuova facciata.
Presto inseritisi nel mondo dell’alta aristocrazia francese, i fratelli Camondo non disdegnano di organizzare dei fastosi ricevimenti, aprendo le porte dei loro saloni adorni di oggetti d’arte.

Nel 1889, a qualche mese di distanza l’uno dall’altro, muoiono entrambi i fratelli, un evento che segna l’inizio del declino della banca Camondo. L’erede designato - Isaac de Camondo, figlio di Abraham-Béhor - pian piano si allontana dagli affari per dedicarsi alla musica e all’arte, le sue grandi passioni. Amante dell’arte decorativa del XVIII secolo, nel 1881 acquista per l’ingente somma di 100.000 franchi la pendola delle Tre Grazie, opera attribuita a Étienne Falconet e poi, sempre per la stessa somma, arricchisce uno dei saloni di casa col mobile degli Dei, una prestigiosa opera di alta ebanisteria. Ma l’interesse di Isaac non si limita all’arredamento. Col tempo raggruppa una eccezionale raccolta di pitture, disegni e pastelli di pittori impressionisti quali Degas, Manet, Monet e Cézanne, collezione in seguito donata al Louvre.
Nel 1893 Isaac vende l’hôtel al 61 di rue Monceau per trasferirsi in rue Gluck, a due passi dall’Opéra, dedicandosi anima e corpo alla melomania.

L’hôtel al 63 di rue Monceau è abitato da Moïse de Camondo, l’erede di Nissim. A differenza del suo estroverso cugino Isaac, Moïse vive una vita più convenzionale. Il 15 ottobre 1891 sposa Irène dei conti Cahen d’Anvers (La Petit Irène ritratta da Pierre-Auguste Renoir nel 1880), nata in seno ad una potente famiglia di finanzieri ebrei. Lui ha 31 anni, 19 la sposa. La luna di miele dura otto mesi, passati nella villa di Cannes. Nel 1892 nasce Nissim, nel 1894 Béatrice. Nel frattempo, giusto per rinforzare i nuovi vincoli familiari, Moïse e suo suocero acquistano un mastodontico yacht, Le Geraldine.
Nel 1897 tutto cambia: Irène fugge di casa in compagnia del conte Charles Sampieri, responsabile delle scuderie Camondo. Le pratiche per il divorzio - interminabili e rese pubbliche e scandaloso dai giornali - si concludono l’8 gennaio 1902, coi figli lasciati alle cure paterne. Venduto lo yacht, Moïse reinveste in una vasta tenuta nei pressi di Chantilly, ricca di boschi adatti per la caccia, rinominando Villa Béatrice l’esistente dimora.
Due annotazioni:
- Per unirsi a Sampieri, coetaneo di Moïse, Iréne si converte al cattolicesimo: non può saperlo, ma nel 1944 questa conversione sarà la sua salvezza.
- Nel dicembre 1903 i due fuggitivi hanno una figlia, Claude Germaine.

Moïse coltiva la passione per i viaggi e per le automobili, già condensate nel 1901 nella partecipazione alla gara Parigi-Berlino. Rimasto solo, in compagnia dei figli ogni anno ama passare il mese di dicembre a Saint-Moritz, quello di gennaio a Monte-Carlo, i mesi estivi a Biarritz, Dinard o altre località à la page.

È solo alla morte del cugino Isaac (1911) che Moïse eredita la direzione della banca di famiglia, a cui s’aggiungono altri incarichi in consigli d’amministrazione. Non amante dei rischi finanziari, la sua direzione bancaria è caratterizzata dalla mera gestione conservativa.

Il tempo passa, i figli crescono, una prima guerra mondiale arriva.
Patriota convinto, nel 1914 il ventiduenne Nissin s’arruola nell’aviazione. Nel 1915, in qualità d’osservatore, partecipa a numerose missioni volte a fotografare i campi di battaglia di Verdun e della Somme. Nel luglio del 1916 prende il brevetto di pilota. Il 5 settembre 1917 Nissim lascia la base di Villers-les-Nancy per una nuova ricognizione. Con lui sul velivolo, un Dorand, vi è Lucien Desessard, fotografo e artigliere. A tremila metri di quota incrociano un aereo tedesco, il Dorand è abbattuto. Tre settimane dopo la conferma: i due aviatori sono stati sepolti con gli onori militari nel cimitero tedesco di Avricourt.
La notizia della morte dell’amato figlio getta Moïse nella più totale disperazione. Per lui tutto è finito. Nel 1919 vende la banca, nel 1924 redige il testamento, donando il suo palazzo e le collezioni in esso contenute allo Stato francese, ponendo precise condizioni, tra cui: «Desidero che il museo sia tenuto in maniera impeccabile e pulito meticolosamente. Non è compito facile, nemmeno con personale di primo livello, che dovrà essere composto da un numero di addetti sufficiente alla bisogna; il lavoro è tuttavia facilitato da un sistema completo di aspirazione che funziona con poca spesa e meravigliosamente bene. […] Nei giorni di pioggia i visitatori potrebbero accedere dal cancello di ferro battuto che dà sul passaggio carrabile coperto che collega il cortile con boulevard Malesherbes. Tale cancello è preceduto da un ampio marciapiede che potrebbe essere ricoperto di stuoie e lungo il quale si potrebbero disporre dei portaombrelli.»

Moïse de Camondo muore il 14 novembre 1935 e a vegliare sull’esecuzione del testamento paterno si applica la figlia Béatrice, colei che il 21 dicembre 1936 - presente il Presidente della Repubblica e altre cariche dello Stato - inaugura ufficialmente il Musée Nissim de Camondo, dedicato al figlio (e fratello) morto per la Francia.

È di nuovo guerra, con l’occupazione tedesca e il governo di Vichy affidato a Pétain.
In quanto ebrei da più di tre generazioni (mentre ne bastano solo due se entrambi i coniugi sono ebrei) nel dicembre del 1942 Béatrice, Léon Reinach (suo marito dal 1919) e i loro due figli - Fanny (1920) e Bertrand (1923) - sono arrestati e deportati nel famigerato campo di Drancy, periferia est di Parigi.
Il 20 novembre 1943 Léon, Fanny e Bertrand vengono stipati sul Convoglio 62 diretto ad Auschwitz. Sono 1200 le persone a bordo. All’arrivo 914 di loro sono subito uccise, mentre Léon e Bertrand vengono fatti proseguire verso i campi di Birkenau (Léon) e Monowitz (Bertrand).
Il 31 dicembre 1943 Fanny viene uccisa ad Auschwitz.
Il 7 marzo 1944 Béatrice è una delle 1501 persone che lascia Drancy per salire sul Convoglio 69 diretto ad Auschwitz.
Il 22 marzo Bertand è ucciso nel campo di Monowitz.
Il 12 maggio Léon è ucciso a Birkenau.
Il 4 gennaio 1945 Béatrice è uccisa ad Auschwitz.

Da questa mattanza ne escono indenni il Musée Nissin de Camondo, dal 1936 non più una depredabile “casa di giudei” ma di proprietà dello Stato francese (Musée des Arts Décoratifs) e Irène nata Cahen d’Anvers, ex moglie di Moïse de Camondo, madre di Béatrice, nonna di Fanny e Bertrand, fortunosamente convertitasi al cattolicesimo “prima” del 1940, data limite imposta dalle leggi razziali. Sarà lei l’erede dei Camondo.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
scatti del 4 novembre 2015
con l’inserimento di brani estratti da
Lettere a Camondo
un libro di Edmund de Waal
edito nel 2021 da Bollati Boringhieri
e di cui ne consiglio vivamente la lettura integrale


Conosco rue de Monceau piuttosto bene. […] Tutto cominciò venti anni orsono, in una mattina non diversa da questa. Percorrevo lentamente il boulevard Haussman per poi svoltare in rue de Courcelles e raggiungere il tratto dove la via inizia a farsi interessante. Poi mi lasciavo alle spalle l’incrocio con avenue Ruysdaël, in fondo alla quale si scorge la macchia verde del Parc Monceau e, proseguendo, passavo davanti alla mastodontica «mostruosità» di vostro zio Abraham al 61, al vostro elegante portone al numero 63, fino al boulevard Malesherbes. [...]
Le famiglie ebree che si trasferiscono nel quartiere arrivano da fuori. Questo posto offre l’opportunità per portare la propria famiglia in una Parigi laica, repubblicana, tollerante, civilizzata, e di costruire qualcosa con fiducia in se stessi, qualcosa di dimensioni appropriate, pubbliche. Entrambe le nostre famiglie, gli Ephrussi e i Camondo, arrivano nel 1869 ed entrambe, quello stesso anno, comprano un lotto di terreno in rue de Monceau. Al numero 55 c’è l’Hôtel Cattaui, residenza di banchieri ebrei trasferiti dall’Egitto. Dall’altra parte della strada ci sono un paio di Rothschild mentre due dei tre facoltosi ed eruditi fratelli Reinach abitano proprio accanto al parco. Henri Cernuschi, che vive quasi dirimpettaio a voi, non è ebreo ma è esule dall’Italia a causa delle sue idee politiche.










Partendo dunque dalle cucine, attraverso la vostra casa evitando gli spazi pubblici. L’architetto che avete scelto, René Sergent, aveva appena finito di ristrutturare il Claridge’s di Londra quando progettò questi spazi che sono il non plus ultra in fatto di efficienza. Impianto idraulico e di ventilazione all’avanguardia, maniglie delle porte sagomate per adattarsi perfettamente alla mano di una cameriera indaffarata. Le mattonelle di maiolica bianca scintillano. Le linee del grande fornello di ghisa sono sinuose e filanti come quelle di una delle vostre automobili nuove custodite negli immensi garage. Tutte le finestre hanno il vetro smerigliato. La luce è soffusa.




La porta che dà sulle scale di servizio è discreta, la si nota appena. […] Salgo. La prima porta mi conduce nel regno del maggiordomo, l’office coi suoi lavandini di zinco per lavare piatti e bicchieri. Una porta nascosta dà accesso alla sala da pranzo.




Vorrei sapere del cabinet delle porcellane dove, dentro vetrinette a sei ripiani, sono esposti i vostri servizi di Sèvres, les services aux oiseaux Buffon, e dove pranzate da solo: chissà se gettate lo sguardo oltre la finestra, verso i rami degli alberi che ondeggiano dolcemente nel vostro giardino e, più in là, nel Parc Monceau? Nel 1913 fate piantare aceri, ligustro della Cina e susini ornamentali, Prunus cerasifera Pissardii, dalla chioma rosso scuro.



In questa casa ogni stanza spinge avanti, si dispiega, interagisce. Sono nella biblioteca e posso proseguire in tre direzioni diverse. Dal salone principale è possibile accedere ad altri quattro spazi. Ci sono nicchie e recessi, scale a chiocciola che dalle camere da letto salgono agli alloggi della servitù, in modo che gli abiti possano apparire e sparire. Si intravede una scalinata curva che sale disegnando un ampio arco, tagliato da una galleria. C’è un appartamento nascosto per il maggiordomo, una stanza per l’argenteria, un locale espressamente dedicato al travaso del vino.
Avete affidato a René Sergent l’incarico di creare questa casa per voi. [...] Ma in questo edificio, tanto splendido quanto disorientante, l’architetto supera se stesso.















Posso parlarvi delle camere dei ragazzi, monsieur?
Quella di Nissim è un santuario. Quando, nel 1923, Béatrice, Léon e i bambini si trasferiscono nell’elegante appartamento di Neullly, voi trasformate la camera di Fanny e Bertrand in salotto. E in effetti è la stanza più accogliente della casa, con finestre su due lati, rivolte verso il parco e verso la casa di Cernuschi, ora trasformata in museo che espone le collezioni d’arte asiatica del defunto proprietario.






...sono nella vostra biblioteca. Adoro questa stanza. È circolare, dettaglio insolito per una biblioteca, e deve aver messo a dura prova i falegnami che hanno realizzato le librerie.
«[La mia biblioteca] è di forma rotonda con un solo lato dritto, che mi serve per il mio tavolo e la mia sedia; e curvandosi viene ad offrirmi, in un colpo d’occhio, tutti i miei libri...» scrive Montaigne nel saggio Di tre commerci.
Dell’avere biblioteche rotonde: Michel Eyquem de Montaigne e Moïse de Camondo.






E poi [nella camera da letto] c’è quel nudo davvero terrificante sopra il vostro letto. A quanto pare si tratta di un’allegoria del sonno ma è bruttina, a essere sinceri.


I sanitari sono in un recesso al di là di un passaggio ad arco, completamente immerso nell’ombra. Richiudo la porta con estrema discrezione.



CIMITERO DI MONTMARTRE





martedì 25 aprile 2017

Binario 21 - Memoriale della Shoah di Milano



Stazione Centrale di Milano. Lasciato il carcere di San Vittore, il 27 aprile 1944 parte dal binario 21 un convoglio carico di prigionieri politici destinati al campo di concentramento di Fossoli, luogo di partenza dei treni diretti ad Auschwitz. Tra gli stipati vi è Leopoldo Gasparotto, avvocato di professione, alpinista per passione, con due spedizioni sulle spalle: una nel Caucaso e l’altra in Antartide. Casualità vuole - ma non tanto - che decenni dopo toccherà a me seguire le sue tracce caucasiche…
Per saperne di più su di lui rinvio a due libri davvero importanti: Leopoldo Gasparotto. Alpinista e partigiano è il titolo della biografia scritta da Ruggero Meles e stampata da Hoepli nel 2011. Il secondo, Diario di Fossoli di Leopoldo Gasparotto, a cura di Mimmo Franzinelli porta il logo di Bollati Boringhieri, 2007. Da questo estrapolo le pagine iniziali, dove Gasparotto descrive le ultime ore passate in carcere e il viaggio sul treno, destinazione Fossoli. Ed è qui che il 22 giugno 1944, con un’esecuzione a freddo, Leopoldo Gasparotto trova la morte.

26 aprile 1944
La giornata si annuncia movimentatissima. Fin dal mattino scopini, guardie, militi si mostrano affaccendatissimi. Aria ottima, atmosfera di partenza, ripetute scene di saluto tra i compagni, che ignorano se si troveranno vicini sul treno. Io saluto tutti perché sono certo di essere tra i partenti. È di servizio un giovane milite, arruolato in seguito alla delazione di un compagno di lavoro, dopo essersi sottratto all’arruolamento nella organizzazione Todt. Ad un certo momento un tizio attraversa il cortile, ed il milite, riconoscendolo, grida al compagno che sta di sentinella sul muro di cinta del carcere «massel, che l’è un fascista!» Passo le ultime istruzioni per coloro che eventualmente rimanessero a S. Vittore.
L’impareggiabile P. mi viene a chiamare; rientro in cella per un ultimo, commovente colloquio con B., poi, di nuovo all’«aria», mentre questa si chiude, e saluto a tutti; calorosa stretta di mano al milite.
Mando a chiamare Cetra, per salutarlo. La sua commozione è tale che non riesce a parlare. Viviamo in una strana atmosfera. Io con P. e altri siamo felici, molti sono contenti, altri impressionati; coloro che restano, invece, e soprattutto le guardie, hanno l’impressione che noi partiamo per la Siberia. Naturalmente il Barba è il più commosso di tutti e mi invia cotolette, pane, un sacchetto, una preziosa scatola di sardine e del formaggio: è addirittura prodigioso. A me piange il cuore all’idea che egli resta, sono in pena per lui e per Luigi, e questa aumenta quando apprendo che verso le 11 egli è stato chiamato all’interrogatorio. Ma dopo mezzogiorno Luigi mi comunica che tutto è andato bene.
Ormai siamo, sia pur per breve ora, al crollo della disciplina dell’isolamento. «Tonorchi» e «Colombi» svolazzano nel 5° raggio, la mia cella rimane aperta, M. R. O. si avvicendano presso di me.
Finalmente, alle 14, risuonano i passi dei tedeschi nel corridoio. «Alles in Zelle!» è il primo ordine, allo scopo di rinchiudere anche gli scopini; ma poco dopo, ecco il contrordine, e si fa semplicemente il contrario; tutti, anche gli isolati, nei corridoi, presso i cancelli del «centro raggi».
Incomincia, dal primo raggio, un appello interminabile, condotto da Stutz, con una strana, spassosa, energica e gutturale pronuncia.
Ora è la nostra volta: i chiamati passano dall’altro lato del corridoio; siamo tutti isolati, ma dall’appello, per ordine alfabetico, pochissimi sono gli esclusi, tutti hanno la sensazione netta che ben pochi rimangano tra le tetre mura del Cellulare, soltanto coloro le cui istruttorie sono ancora in gestazione o che hanno serie probabilità di essere scarcerati.
Ma un grave colpo è inferto al mio ottimismo quando sento scorrere tutta la lettera «d» senza che venga chiamato Dal Pozzo.
Poco dopo odo il mio nome e mi trasferisco anch’io. Ora ho quasi in faccia Dal Pozzo. Il suo volto rimane lungo tempo contratto. Il rimpianto di questa esclusione non lascia dubbi. Io lo guardo lungamente, ma poi noi veniamo avviati verso il fondo del raggio, rimango separato da lui e travolto dalla confusione dei compagni ormai liberi di parlare tra di noi, di riunirsi in gruppi, di ritrovarsi a piacimento. È un piccolo 26 luglio degli isolati, una deliziosa confusione, nella quale, indebolito, non più abituato alla conversazione prolungata, poco dopo mi sento smarrito, mentre mi coglie il mal di testa ed il mal di gola.
In fondo al raggio continuano ad affluire i nuovi chiamati, ed appare anche Dal Pozzo, chiamato colla lettera «P». Respiro generale di sollievo; ormai l’atmosfera tra gli ex isolati è di netta allegria.
Finito l’appello, veniamo avviati a gruppi di 15 verso l’ingresso del carcere; ci vengono restituiti gli oggetti sequestratici addosso, nel carcere, dopo l’arresto, e qui, ancora una volta si ha la riconferma del disordine.
A Coletti vengono restituiti 500 franchi svizzeri, a molti, documenti delicati. A me, al contrario, non vengono restituite le 5000 lire che avevo nel portafoglio caduto sotto il portone della casa di piazza Castello n. 2 al momento dell’arresto.
Al ritorno al 5° raggio abortisce un tentativo di rinchiuderci nei cameroni al 3° piano. Si formano crocchi sui ballatoi, sulle scale, nei «cameroni». È impossibile, anche ai tedeschi, di stabilire un ordine. Intanto giunge la sera, suonano le otto ma non si parla neppure di partire. Viene posto un milite a guardia al finestrone, e questi ci reca la notizia che «fuori» ci sono assembramenti causati dalla notizia della nostra partenza. Da mezzogiorno la truppa blocca la strada attorno al carcere
È una strana impressione quella di conoscere delle persone e parlare di politica, senza che nessun milite intervenga a troncare il colloquio. È piacevole conoscere …
È ormai tutto buio; evidentemente i tedeschi attendono il coprifuoco per celare la nostra partenza. Infatti, soltanto dopo le dieci veniamo avviati a gruppi, incolonnati per due, verso l’uscita.
Il nostro gruppo, costituito per ordine alfabetico, si sta avviando, quando un compagno viene colto da una crisi di epilessia e viene ricoverato all’ambulatorio.
Mentre sostiamo per un ultimo appello, presso il cancello del «centro raggi» si avvicina ancora Cerra, ci saluta collo sguardo, ma non riesce a proferire verbo; si allontana senza, ormai, neppur nascondere le lagrime. Coraggio, Cerra, ci rivedremo, e presto!
Anche il milite … ci saluta con commozione, poi ci mettiamo in marcia verso l’uscita, e ci arrestiamo dietro il penultimo cancello, in attesa che il gruppo che ci precede salga sui camion.
L’apparato di forza è notevole. Parabellum e fucili mitragliatori ovunque.
Ora Stutz cerca qualcuno nella colonna; la percorre due volte, poi si ferma vicino a me, e «Anche questo passerà - mi dice - tanti auguri». «Grazie, arrivederci, in pace» rispondo io, sorpreso perché mai ho avuto contatto con Stutz, e neppure supponevo mi conoscesse. Egli trova ancora un attimo per replicare «Grazie, ho memoria». Poi si allontana, senza essere stato visto dai suoi compagni.
- Sì, Stutz, ci ricorderemo, ma ricorderemo anche e gli altri …, un altro …
Il tuo saluto ha prodotto su tutti gli astanti l’effetto che tu desideravi. Arrivederci in pace, quando la nostra e la tua patria saranno libere.
Poi, avanti. Il cancello si spalanca, eccoci nell’atrio di S. Vittore. Militi, SS, gendarmi armati fino ai denti (persino i marescialli si degnano di portare un mitragliatore ciascuno in spalla) ci fanno ala.
La parte posteriore di un grosso e sgangherato camion è stata infilata nella porta e noi vi saliamo, mentre i tedeschi, nervosi, irritati, urlano «Loss loss! Fondo fondo!» e spingono 45 persone ad entrare in una gabbia che ne potrà ricevere, normalmente, 20, finché uno dei marescialli entra egli stesso nel camion e a calci e urtoni spinge i primi entrati a stiparsi in modo inverosimile, bestiale, nel buio assoluto del fondo.
Compressi in posizioni inverosimili, aggrappati come si può, sostiamo un tempo che ci pare eterno, nel buio, nel caldo soffocante; poi, come Dio vuole, con grande fracasso, la colonna di camion si avvia e una mezz’ora dopo, colle ossa rotte, sbarchiamo nei sotterranei della stazione centrale, dove colla solita gentilezza veniamo introdotti e subito rinchiusi - sempre in 45 - in un vagone merci dove, anche se non fossimo al buio, non è possibile trovare né un fiasco d’acqua né un bugliolo o alcunché di simile. Ci accoccoliamo, si può ben dire, gli uni sugli altri e, nel calore soffocante, e nel tanfo, attendiamo.
Le ore non passano mai, in compenso passa un ferroviere e audacemente apre tre finestrini, protetti da grate, sulle testate del vagone. Dopo complicate manovre, spostandosi sui binari lateralmente, anche il nostro vagone raggiunge il grande ascensore, e viene issato alla stazione centrale, dove i tedeschi si accorgono dell’apertura dei finestrini e li richiudono. Siamo desolati, il senso di soffocazione aumenta. Ma una mezz’ora dopo troviamo il modo di riaprirne uno. Finalmente, alle 5 del mattino il treno si muove, e... riusciamo ad aprire un secondo finestrino.
Dire delle «gioie del viaggio»? È un po’ difficile. Siamo come i pesci che friggono: non troviamo mai la posizione giusta. Anche alzarsi in piedi è un’impresa notevole. Malagodi e Martello litigano tra di loro per una questione di piedi collocati in faccia; qualcuno riesce a dormire. Manzi, conosciuto in montagna e ritrovato qui, mi comunica che l’avv. May, a Bergamo, è stato condannato a morte. Martinelli mi fa bere del caffè e latte, ho perduto il soprabito, l’aria si è rinfrescata, ho un caldo terribile, mi fa male la gola, non mi abituo a tanto movimento. Così passa la notte, poi un chiarore tenue froda i tedeschi e si insinua nel vagone.
Passano infinite stazioni; è giorno. Passa Parma, effetti disastrosi dei bombardamenti. Passa Reggio: «Qui erano le Officine Reggiane», si potrebbe dire. Siamo a Modena, Carpi. Siamo fermi su un binario morto, nel caldo e nel puzzo, perché abbiamo tutti un corpo, e qualcuno ha dovuto ingegnarsi senza un bugliolo.
L’allenamento della cella ci dà la forza di attendere; viene il momento in cui si apre il vagone. Abbacinati dalla luce ci proiettiamo sul marciapiede, raggiungiamo un bell’autobus nel quale ci stipiamo, ma in modo sopportabile. Notiamo l’assenza di fucili mitragliatori; tedeschi anziani, dall’aspetto più trattabile di quelli fin qui incontrati.

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LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI
25 aprile 2017