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lunedì 15 settembre 2014

Picasso visto da Jean Cocteau (1942)

Jean Cocteau visto da Modigliani (1916)


Il diario che Jean Cocteau ha tenuto nel periodo dell’occupazione di Parigi da parte delle truppe naziste è ricco di spunti, informazioni e pettegolezzi.

Altrove la guerra imperversava, Parigi languiva, ma lui, il poeta, il regista cinematografico, il commediografo amato/odiato senza mezze misure (cosa abituale per le persone di genio; del resto: se dopo mezz’ora che parli nessuno si è sentito offeso vuol dire che non hai detto niente d’intelligente...) continua a vivere la sua vivace vita da bon-viveur destreggiandosi tra pranzi, cene e frequentando i salotti di ministri e di ambasciatori.
Questo Diario (1942-1945) è anche ricco di stringate annotazioni su uno dei suoi più grandi amici, Pablo Ruiz Picasso, e della sua compagna Dora Maar.
Le citazioni su Picasso sono tante e qui ne riporto soltanto alcune, le prime in ordine di data, intercalate da alcuni poetici camei: delizioso quello sul “vento” sfuggito a tavola da madame Chambrun: noblesse oblige.
PS: le note a piè di pagina sono di Jean Touzot, il curatore del libro.


Modigliani, Picasso e Salmon fotografati da Cocteau (1916)

Marzo 1942 - Prestigio del giornale. Come vivrebbe la folla senza false notizie?

Mercoledì 11 marzo 1942 - Incontrato ieri Picasso, sotto i portici del Palais-Royal. Era un leone incanutito, un qualcosa schiacciato da una leggera montagna. Quegli occhi che divorano tutto. Mi dice: «Vado in banca per incontrare mia moglie.[1] - Ti chiederà dei soldi. - Certo non me ne darà, mia moglie! La banca! Aspettare! Discutere! Non so proprio come si potrà dipingere con tutto ciò».
Straordinaria battuta di un uomo che non sopporta di perdere un minuto e che tributa ad ogni cosa l’onore di essere utile.
Picasso si è anche ricordato di avere, tra altri libri spagnoli rarissimi, la prima edizione introvabile de La Celestina - copia a cui manca la pagina di risvolto. Quell’esemplare deve valere parecchi milioni.
Arrivo di Léonce Rosenberg[3] e naturalmente si parla ancora dell’epoca. Grande stanchezza. Léonce mi dice: «Lei non cambia.» Gli rispondo: «Sono troppo distratto per cambiare». Anche se ci si ribella contro l’universo di Picasso, dovremmo essergli riconoscenti di spingere all’estremo il dramma delle forme e di affrettare così la contraddizione dei giovani. Il primo che uscirà dai suoi tranelli dimostrerà la sua forza. Gli altri o vengono sedotti dalle sue trappole, o girano alla larga.
In arte ci sono solo battaglie o tombe.
Picasso dice: «Si può scrivere e dipingere qualsiasi cosa, perché vi saranno sempre persone che capiranno (e vi troveranno un senso)».
Picasso e suo figlio. Un simile ideatore è uomo e donna. Il risultato sono le opere. Scegliere una donna e, per giunta, farci un figlio, è come se Picasso potesse infondere la vita a un suo quadro. Sarebbe una catastrofe. Suo figlio ha certamente il naso al posto dell’orecchio, un occhio al posto del naso. Ecco la sua anima.
Prima di pranzo, sono andato a portare il discorso su Mallarmé a Delange.[4]
Pare che Sert[5] dica: «Come mai non ci sono libri su di me?» Picasso risponde: «Dato che è tanto ricco, dovrebbe pagare degli autori per scrivere una gran quantità di libri su di lui».
Picasso dice: «Vorrei vedere il disegno di tutti i percorsi di una stessa persona durante la vita. Forse verrebbe fuori il suo ritratto».
Da rue Dauphine, in fondo a rue de Savoie, si vedono l’atrio e la casa. È un’ala del palazzo dei duchi di Savoia. Ci trasportarono Ravaillac, dopo l’assassinio. Quella palazzina è ora la Camera sindacale degli uscieri. Picasso abita nelle soffitte.
Pranzo da Gaffner.[7] Picasso detesta le visite. Vorrebbe che vivessimo insieme, «avessimo lo stesso odore», e che non si dovesse andare da un’estremità all’altra di Parigi per vederci. Ha ragione; arrivavo al punto di preferire gli incontri d’albergo che si ripetono ogni giorno, ogni minuto, alle amicizie sparse qua e là (esempio: Villefranche).
Da Dora. Ho fatto il disegno. Un gran disegno a carboncino su tela. Beviamo del vero caffè e smettiamo di posare e disegnare tra un occhio e l’altro, tra le narici e la bocca, ecc. Penso che il disegno sia bello e le assomigli molto.[8] Cerco di buttarmi nelle linee. Devo fare delle smorfie orribili, e l’insieme delle linee vive senza di me e senza di lei. Dora ha occhi da scimmia (stupendi), un naso di cui una narice fa piegare all’insù il labbro a sinistra, una bocca come un fiore strappato. Arriva Picasso e mi dice che pensa che Éluard desideri che io faccia il suo ritratto. Mi piacerebbe stabilirmi da Dora e fare ritratti come gli artisti di place de la Concorde. Dovrebbero procurarmi solo la tela e i colori secchi. Dove potrei stare meglio che da questi amici, dove la stupidità, la bruttezza, la volgarità, l’attualità, non penetrano da nessuna fessura? Basta entrare da Picasso per provare vergogna di tutto quello che si pensa o si fa superficialmente.[9]
Esiste solo il mestiere. Veramente Picasso dice: «Il mestiere, è quello che non s’impara». Perfezionare il dono del mestiere con una continua osservazione.
Stato a trovare Chanel. «Non ho mai fatto vestiti, dice, ho fatto la moda. Per chi la farei oggi? Non lavoro più perché non ci sono più le belle donne che potrei vestire».
La gente è soffocata dalle inezie. Manca l’esprit de grandeur. I pettegolezzi sostituiscono lo spirito (già detestabile), il denaro sostituisce la ricchezza.
Olga Picasso. Misia mi dice: «Ho sopportato quest’idiota, per liberare un po’ da lei Picasso che adoro». Davanti alle ultime tele di Picasso, gli dice chiaro e tondo: «Sono dei peccati mortali».
Légion d’Honneur: Berthelot[12] mi diceva: «È comoda per i posti in treno. La compri».
Stupidità di Stendhal, l’astio quando parla di Racine, di Shakespeare. Lo spirito ha le sue mode. Pochissimi spiriti vi sfuggono. Baudelaire. E diventa di pubblico dominio.
Il cane di Picasso - un afgano - di una magrezza ed eleganza incredibili. La gente per strada ingiuria Picasso. Credono che sia un cane a cui non si dà da mangiare. Picasso dice: «È il cane più incompreso, e da tutti». Animale favoloso, tutto zampe, ossa e muscoli. Le sue pose minime sono firme ed arabeschi. Rassomiglianza col cane del disegno della camera.
Dopo tre ore di lavoro durante le quali mi esaurisco, la somiglianza viene fuori piano piano. Alle sei mi accorgo che mi sono intirizzito dal principio alla fine della posa. La tensione mi impediva di sentire il freddo.
Picasso parla delle «architetture naturali» a proposito di vecchi palazzi e di vecchi cortili come quello di Dora. Parla cioè delle architetture che si fanno a poco a poco, per necessità. Architettura progettata. Non c’è più niente di umano, di accidentale, di casuale. È il «filo a piombo» che Marais considera responsabile dell’architettura morta.
Asimmetria di un volto (quello di Éluard tra gli altri!). Asimmetria delle belle architetture, - quelle che vivono. Simmetria delle architetture moderne tristi come numeri.
Cena Picasso- Éluard da Zatoste.[15] Riso alla spagnola. Il cane. Picasso dice: «È un cane da grondaia». Il dolore ai reni si è fatto insopportabile. Picasso dice di Jünger (Falaises): «Si serve troppo di quello che sa».[16]
Il gran quadro, Olympia. Una donna sdraiata. Un’altra, ai piedi del divano, suona il mandolino. Questo è il suo regno. Picasso è un re. Può fare ciò che vuole purché non sbagli all’interno del suo registro. Per avvicinarsi al mondo e ai mostri sacri che inventa, bisogna conoscere la sua sintassi e la sua lingua. Altrimenti si è snob o ciechi. Conosco così bene l’una e l’altra che potrei riprodurre a memoria anche i più piccoli tratti con cui raffigura la donna seduta e quella sdraiata.
Picasso racconta ad amici spagnoli, come, tempo fa, avendo visto da lui un immenso disegno, fatto di papiers collés e carboncino, il giorno dopo gli avevo telefonato di venire da Chanel, in Faubourg Saint-Honoré, dove stavo allora, a vedere il disegno. L’avevo riprodotto, senza un errore, su un muro della mia camera. Lo firmò: «Jean ha fatto questo Picasso».
Ci fa vedere le osservazioni inviate da Éluard, copiate da un grafologo al quale[18] aveva dato l’inizio di una lettera di Picasso. È un ritratto impressionante. Tra le altre verità: «l’adulazione lo fa diventare falso». Da Dora, dopo pranzo, termino e firmo il disegno di Éluard. Ho scritto sopra: «Si avvicina con passo felpato. Va via a gambe levate». (La somiglianza.) «Non si muove». (Il mio cuore.)
L’esempio di Picasso. Non perderlo mai di vista. Impero senza limiti. Tutti i giorni distrugge città per sostituirle con altre. Non può toccare nulla senza creare. Un imbrattatele come V. osa insultare quest’uomo e indicare ai giovani delle associazioni la via degli scout del rogo di Savonarola. Leonardo vedeva bruciare la Leda sulla pubblica piazza. Non potremmo allontanare da noi questo calice? No. Chi perde vince.
I lati più neghittosi di noi stessi rischiano di aspirare ad una forma convenzionale di gloria.

Lunedì 23 marzo 1942 - Pranzo con Picasso e Dora.[2] Dopo il pranzo, in cui mi parla delle grane che ha con la moglie e suo figlio e del cambio svizzero che è una rovina (il bambino sta a Ginevra), andiamo a vedere l’appartamento che Dora ha appena affittato vicino a casa sua. È lo stesso stile dei luoghi che subiscono l’influenza di Picasso. Vaste stanze vuote, con un fasto povero. Poi, andiamo in rue des Grands-Augustins, dove Picasso si è stabilito, nella casa dello Chef-d’œuvre inconnu di Balzac. È come se avessero accatastato delle soffitte le une sulle altre, le une vicino le altre, con angolini e scale ovunque. Da Picasso, tutto è regale. Un disordine regale, un vuoto regale - abitato da mostri che inventa e che popolano il suo universo. Gigantesche teste di bronzo, tele, oggetti di legni e di latta.

Mercoledì 24 (sera) - Lapidi commemorative di sconosciuti nel quartiere dei Grands-Augustin. Picasso, giungendo davanti alla nuova casa di Dora, ne propone uno: «In questa casa, Dora Maar morì di noia».

Giovedì 26 marzo - Il vero lusso. Picasso. Questa mattina porto la mia tela, preparata col bianco, da Dora. Non è ancora a casa. Da Picasso, lo trovo che sta uscendo. Sua moglie si rifiuta sempre di partire per la Svizzera, per mancanza di denaro. Picasso: «Allora parto io». La incontra in un caffè all’angolo di rue Dauphine. Neppure da Picasso è cambiato niente. Soltanto, è vero lusso. Niente, e la magnificenza. È superbo, vestito come un povero.[6] Sprigiona genio da tutte le parti, come un serbatoio bucato. Ciò provoca getti di capelli grigi, di sguardi, di rughe.

Mercoledì 1° aprile - L’altra sera Marie de Chambrun a tavola si lascia sfuggire un vento. Chambrun:[10] «Lei parla senza dir niente!».


Sabato 4 aprile 1942 - Cena con Misia Sert[11] […] «Le persone che conservano tutto, non hanno niente. Si è ricchi solo sperperando».

Notte dal 4 al 5 aprile 1942 - «Ciò che importa, diceva il caro vecchio Satie, non è rifiutare la Légion d’Honneur, bisogna anche non averla meritata».

14 aprile 1942 - Alla Francia piace uccidere i poeti, poi imbalsamarli e ammazzare i nuovi poeti a colpi di mummie.

15 aprile 1942 - Paul Smara[13] cita una mia vecchia battuta su Goethe: «Se avesse avuto genio, lo si sarebbe saputo». E Gide mi diceva: «È un piffero enorme, delle dimensioni della colonna Vendôme».

Mercoledì 6 maggio 1942 - Nel periodo in cui tutta la stampa germanofila mi insultava, Arno Breker, lo scultore di Hitler, mi ha dato la possibilità di telefonargli sulla linea speciale a Berlino qualora capitasse qualcosa di grave a me o a Picasso.[17] Oggi, Breker è a Parigi. La Francia organizza la mostra. […] Il dramma è la sua scultura. Penso sia mediocre.

18 aprile 1945 - Sono sempre pronto a dare del tu, purché non venga dato a me.

28 aprile 1942 - Cena ieri sera con Lise[14] e gli Éluard. Farò il ritratto di Éluard lunedì prossimo da Dora.

Lunedì 4 maggio 1942 - Stamattina appartamento pieno di fotografi della zona libera. Pranzo con Picasso e Éluard. Dopo pranzo, da Dora, incomincio il ritratto di Éluard mentre Dora fa il caffè e Picasso fa un grande e meraviglioso disegno che raffigura tutta la stanza, con Éluard che posa e io che disegno.

Mercoledì 3 giugno 1942 - Pranzo Picasso. Da Picasso, non c’è più la testa di toro di cui mi avevano parlato. L’ha fatta fondere in bronzo, ma la descrive e la disegna sulla tela bianca dove era appesa con un chiodo. Poiché era fatta con un vecchio manubrio di bicicletta arrugginito e una sella, dimentica di aver partecipato lui al lavoro, e ne parla come di un oggetto magnifico. Avevo indovinato che l’oggetto non aveva più volume di un teschio dei naturalisti.

Giovedì 4 giugno 1942 - Picasso mi dice al telefono, che un articolo di Vlaminck sarà pubblicato contro di lui su «Comœdia».[19] Risposta di Lhoste. Temevo un articolo provocatore e pericoloso. Invece si tratta delle solite stupidaggini. Picasso aggiunge: «Una mano di V. Una mano di Lhoste sopra. Nessuna importanza». Comunque, ho telefonato a Delange di stare attento. Oggi tutto può essere una minaccia.

Sabato 13 giugno 1942 - L’articolo di Vlaminck contro Picasso ha suscitato un disgusto generale. Ci ritroveremo, Signori agenti provocatori, specialisti di cagnare, signori togliti-di-mezzo-che-mi-ci-metto-io. Non dimenticheremo i vostri putiferi. Ogni volta che credete di colpire delle opere, ferite un mucchio di amici sconosciuti e fate in modo che noi ne reclutiamo altri. Questa folla, un giorno, vi farà pagare la vostra stupidità. Questa folla punirà i vostri crimini. Approfittate in fretta del vento dell’imbecillità che tira in vostro favore. Più agirete e più la rivolta sarà profonda. Chi vince perde, chi perde vince. Basta saper aspettare.

[1] Olga Koklova (1896-1955), ex ballerina di Diaghilev, madre di Paul Picasso (1921-1975), curata in una clinica psichiatrica in Svizzera.
[2] La fotografa Dora Maar, compagna di Picasso tra il 1936 e il 1946, era nata in Iugoslavia nel 1909. L’appartamento che aveva affittato si trovava in rue de Savoie, perpendicolare a rue des Grands-Augustins.
[3] Celebre mercante d’arte, proprietario di una galleria.
[4] René Delange, direttore del settimanale «Comœdia», al quale Cocteau, dopo che fu ripubblicato nel 1941, collaborava regolarmente.
[5] Jesé-Marie Sert (1874-1945), pittore e scenografo spagnolo, ricco collezionista, tornava spesso in Spagna e, al contrario di Picasso, figurava come artista ufficiale del regime franchista. Ne era del resto ambasciatore presso il Vaticano.
[6] Il fotografo Brassaï riferisce queste parole di Picasso mentre osserva Cocteau in una foto di gruppo. «Guardate, cos’è che innanzi tutto attira lo sguardo? È la piega dei pantaloni di Jean Cocteau! […] Cocteau è nato con la piega dei pantaloni nella culla. È nato stirato…» (Conversation avec Picasso, Parigi, Gallimard, 1964, p. 159).
[7] Maurice Sachs cita questo ristorante tra quelli «del mercato nero allora di moda» e ne vanta la costata (secondo Gilles e Jean-Robert Ragache, La vie quotidienne des écrivans et des artistes sous l’occupation 1940-1944, Parigi, Hachette, 1988, p. 140).
[8] Questo non fu il parere di Picasso, che rifece, sopra il ritratto a carboncino, un ritratto di Dora Maar ad olio. Dora Maar ci ha detto di essere stata ritratta con un vestito a righe celesti e gialle. Il quadro poi entrerà a far parte di una collezione americana. Quando Cocteau venne a sapere la fine fatta dal suo disegno a carboncino, non osò dire nulla.
[9] Lo stesso 26 marzo, nel suo diario, Roger Lannes scrive: «Cocteau tiene un diario. Lo trovo appollaiato sul suo tavolo che prende appunti su appunti. Mi diverte. Quest’uomo che ha sempre abbondantemente dissipato il suo tempo, la sua vita, il suo linguaggio e i suoi amori, oggi, come tutti noi, revanscisti, quelli che non hanno nulla e accumulato le loro proteste in silenzio, si mette a prender nota della sua esistenza… Mi legge quello che ha scritto su Picasso».
[10] Il conte Charles de Chambrun (1875-1952), diplomatico e scrittore, entrò più tardi all’Académie Française.
[11] Misia Godebska (Pietroburgo, 1872-Parigi, 1950), sposò nel 1893, Thadée Natanson, direttore de «La Revue blanche», e diventò amica di Mallarmé, di Toulouse-Lautrec, di Renoir. Secondo matrimonio nel 1905 con Alfred Edwards, magnate della stampa. Nel 1909, lo lascia per il pittore José Maria Sert che sposerà nel 1920. Divenne l’eminenza grigia dei Ballets russes e intima di Jean Cocteau. La si riconosce nel personaggio di Clémence di Thomas l’Imposteur. Cfr. Misia di Arthur Gold e di Robert Fizdale, Parigi, Gallimard, 1981). Vi si legge a p. 80, un estratto di una quartina di Mallarmé che si è conservata e (p. 347) un commento illuminante del giudizio dato su Olga Picasso.
[12] Philippe Berthelot (1876-1934), segretario generale del Ministero degli Esteri (1920-1921 e 1924-1932), era un amico intimo di Misia Sert.
[13] Paul Smara, esteta, collezionista di larghe vedute.
[14] Anne-Marie Hirtz (detta Lise Deharme, 1898-1982), egeria del Surrealismo, gran dama delle lettere, apriva ancora un salotto frequentato soprattutto dagli scrittori della Resistenza.
[15] Ristorante basco, vicino a Notre-Dame des Victoires.
[16] Ricevendo Jünger nel suo atelier, il 22 luglio 1942, Picasso gli pone delle domande a proposito del suo libro Sugli scogli di marmo e osserva: «Noi due, seduti qui come siamo, negozieremmo la pace questo stesso pomeriggio. Questa sera gli uomini potrebbero accendere le luci». (Ernst Jünger, Primo diario parigino. Diario II, 1941-1943, cit. dall’ed. francese presso C. Bourgois, 1980, pp. 158-159).
[17] Arno Breker, nato nel 1900, conosceva Cocteau fin dagli anni del perfezionamento a Parigi. Il loro primo incontro risaliva all’inizio del 1925, in occasione di un ricevimento al Boeuf sur le toit cui parteciparono «due figli di Renoir, i pittori Fernand Léger e Rudolf Levy, tutti accompagnati dalle mogli». (Arno Breker, Paris, Hitler et moi, Parigi, Presses de la cité, 1970, p. 290). Dopo l’Occupazione, lo scultore riprese i contatti con Cocteau solo durante l’autunno 1940, desideroso com’era «di preservare un clima d’intesa, nonostante gli avvenimenti» (Ibid., p. 292). Senza citare Cocteau, Breker fa valere i buoni uffici che la sua amicizia con il colonnello Spiedel gli ha permesso di espletare: il colonnello comandava allora la piazza di Parigi: «fu a quel tempo che incominciai a aiutare di nascosto le persone minacciate, quali che fossero, che si rivolgevano a me». (Ibid.)
[18] Raymond Trillat.
[19] Maurice Vlaminck (1876-1958), definisce Picasso l’«impotenza fatta uomo» e gli dà dello «Stavisky della pittura». L’articolo, pubblicato su «Comœdia» il 6 giugno 1942, sarà ripreso nel Portrait avant décès (Parigi, Flammarion, 1943).


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martedì 26 agosto 2014

La liberazione di Parigi, versione Cocteau



Jean COCTEAU. Diario (1942-1945)
A cura di Jean Touzot
Traduzione dal francese di Giovanna Parodi
Note redazionali a cura di Fernanda Littardi
Mursia 1993, pp. 358-363
Titolo originale: Journal 1942-1945
1989 Éditions Gallimard

25 agosto 1944 - Liberazione di Parigi
Mi ero ripromesso di non scrivere niente prima del grande giorno che abbia­mo appena vissuto.
C’era stata l’attesa. C’era stato il panico dei collaborazionisti preceduto da segni di morte. Quella di Fernandez[1] (arresto cardiaco), il suicidio di Drieu La Rochelle (viene salvato),[2] la morte di Saint-Exupéry[3] (aviazione inglese) e la notizia ancora dubbia su Malraux, fucilato dalla Milizia.[4] La fuga di Bonnard, di Brinon, di «Je suis partout», battezzato «Je suis parti», il treno con la famiglia Luchaire, le mogli e le figlie dell’ambiente filotedesco. (Il treno era partito per la Germania con quarant’otto ore di ritardo. Doveva essere convogliato da Fontenoy. È stato convogliato da gangster di Marsiglia, Costantini,[5] se non sbaglio.)
C’era stato il segreto formarsi dei gruppi delle F.F.I.[6] che occupavano i teatri ufficiali, l’Union des artistes, il C.O.I.C., ecc., dato che i comunisti avevano occupato tutti i posti ufficiali e tutti i monumenti pubblici dopo battaglie rapide e decisive. C’era stato lo spettacolo delle bandiere alle finestre e i giornali nuovi che escono durante le operazioni militari tedesche. (I tedeschi occupavano gli Invalides, l’École militaire, la Concorde, il Senato, il Luxembourg, dieci nuclei di resistenza zeppi di munizioni, di truppe S.S. e di esplosivi.) C’era stata l’apertura delle porte di Drancy, di Fresnes, e della Santé, grazie all’incessante mediazione del ministro di Svezia.
C’era stato il cambiamento di stile alla radio, le buone e le false notizie, l’America e l’Inghilterra che festeggiavano la nostra completa liberazione, mentre Parigi si batteva ancora. C’erano state le barricate, le raffiche di mitragliatrice, i miliziani nascosti che sparavano dalle finestre o dai tetti. L’altro ieri, andando a pranzo alla Concorde da Sert nel bel mezzo della difesa tedesca, attraversavamo, Marais, io e Moulouk, una avenue de l’Opéra completamente deserta e assai sospetta. All’angolo con rue des Petits-champs, una raffica di fucile-mitragliatore ci fa voltare. A un metro da noi, l’unico passante visibile incespica e un enorme fiotto di sangue schizza dalla sua schiena. Cade. Perché lui e non noi? È impressionante sapere che forse eravamo presi di mira da un occhio misterioso e che l’abbiamo scampata bella. Il capitano Delrue[7] dirà poi: «Eravate proprio voi ad essere presi di mira. A cento metri, un fucile mitragliatore è sbandato. Avete sentito fischiare la pallottola? No. Vuol dire che sparavano su di voi». I parigini non danno segno di paura. Nonostante il pericolo dei cecchini e delle macchine che sbucano e spazzano la strada, le donne passeggiano come al 14 luglio. Splendida idea di questa folla libera che partecipa al dramma, rischiando di ostacolare le operazioni. (I primi carri armati di Leclerc sparavano in boulevard des Invalides, carichi di donne e bambini che vi si aggrappavano.) C’erano state le visite e le telefonate degli uni e degli altri (come va dalle vostre parti?), ecc. Il telefono non ha mai smesso di suonare. C’era stato perfino l’imbarazzo dei piccoli comitati dei teatri che volevano fare la parte del tribunale rivoluzionario e mettevano le crocette davanti ai nomi delle vedette.
Finalmente l’altro ieri, a mezzogiorno, c’è stata la telefonata di Jacques Fano, l’addetto stampa del generale Leclerc, che annunciava che il generale sarebbe arrivato in giornata. Abbiamo saputo poi che il cerimoniale tra francesi e americani (i francesi diffidano del metodo americano di demolire tutto) aveva fatto ritardare le truppe. I francesi sapevano soltanto che la città si difendeva ancora molto e sarebbe stata a corto di munizioni. Furono informati con esattezza da due gendarmi che andarono in bicicletta ad Antony. La Resistenza non aveva avuto ordini. I comunisti hanno scatenato la sommossa senza aspettare gli ordini. La Resistenza di destra non ha partecipato. Da ciò il ritardo delle truppe che aspettavano. Le truppe hanno fatto duecento chilometri per andare in soccorso delle F.F.I.
Non appena abbiamo saputo che i primi americani arrivavano a Notre-Dame, corsi a dirlo ai Puget.[8] Avevo appena dato la notizia che le campane di Notre-Dame e di Notre-Dame-des-Victoires cominciarono a diffonderla ovunque. Spettacolo sublime: il Palais-Royal illuminato dalle finestre spalancate. Campane, risate, canti. La radio, ancora male organizzata, di nascosto, sotto l’occhio dei tedeschi, trasmette testimonianze di giovani sfiniti, che balbettano per la stanchezza e l’emozione. Il servizio è interrotto continuamente da porte che sbattono. Sono gli inviati delle ultime novità della strada che entrano ed escono, e le voci si confondono con quelle dei reporter ufficiali.
Il giorno dopo, aiutata dai carri armati, l’insurrezione diventa decisiva. In tutti i quartieri ci si batte sulle barricate. Il primo giorno avevo lasciato Roger Stéphane[9] davanti al Municipio, dopo aver visto issare la bandiera francese sulle torri di Notre-Dame, tra una folla che vendeva e comprava distintivi tricolori. Stéphane, in tre giorni, ha combattuto al Municipio, è stato ferito al braccio e nominato capitano della Resistenza (comandante del Municipio). Io non finisco di correre a destra e a sinistra. Cercando di arrivare dai Labourdette, arrivo in place Notre-Dame, dove è difficile muoversi. La folla vuol vedere i prigionieri che vengono condotti in questura. Purtroppo li insultano e i soldati non possono impedire che la collera del popolo si scateni alla cieca. Mi allontano da questo spettacolo che non mi piace e mi rimprovero di non essere abbastanza semplice da trovarlo legittimo. Sul selciato di Notre-Dame scorgo improvvisamente Moulouk, solo, seduto, abbandonato come nelle Due orfanelle. Paul forse l’aveva perso al Municipio. Per lui è molto naturale ritrovarmi e lo porto dai Labourdette.[10]
Vado a vedere De Gaulle che arriva al Municipio. Arriva su una piccola macchina scoperta, con grande semplicità. Compare alla finestra sull’estrema destra, perché il Municipio non ha balconi né finestre tra le colonne. La folla lo distingue male. Sale sul parapetto della finestra e fa dei grandi gesti familiari con le braccia. Applausi. Lo stile è perfetto, antidittatoriale e mi fa pensare alla frase che mi ha detto una volta Lyautey: «Non sono un militare. Sono un soldato». Difficoltà di non essere né legittimato né dittatore, né nominato dal suffragio universale. Difficoltà di arrivare da fuori, solo, sostenuto soltanto da un sogno.
De Gaulle è altissimo, molto magro, in lui tutto si vede: il naso, gli occhi, le orecchie, i gesti. È un divo. Un pezzo grosso. Non c’è dubbio. Porta la divisa kaki con due stelle.
Nulla di più strano di questa città in festa e che si batte. A Parigi, le cose vanno a fasi, a mode: la guerra dei tetti. Le donne rasate, ecc... Fantomas, Belfagor e i film hanno educato una generazione violenta. I nostri amici vanno in giro con fucili o mitra. Ci si separa, ci si ritrova, ci si riperde. Paul, il mio segretario, che rifiuta di portare bracciali e armi, si intrufola in tutti gli attacchi ai monumenti ed entra per primo all’hôtel Crillon e all’Ambasciata americana. Il Crillon, crivellato dalle granate, resta in piedi, tranne una co­lonna (la gente la chiama la quinta colonna).
La guerra dei tetti si fa sempre più subdola. Sparano ovunque. (Era una di quelle cicogne funeste[11] che l’altro giorno ci aveva presi di mira in avenue de l’Opera.) Sparano dai tetti del Palais-Royal. Quelli che rispondono sparano a caso nei vetri.
Il giorno dopo,[12] mattinata di sole e di bandiere. L’aria leggera, la folla leggera. Si rivedono dei volti. Non se ne vedevano più. Andiamo da Maxim’s a mettere le bandiere e a prenderne per la casa. Nel pomeriggio assistiamo a una sfilata da una finestra dell’hôtel Crillon. De Gaulle cammina tra i carri armati e i ragazzi del popolo che si tengono per mano. E il simbolo del suo programma. Una folla immensa (quasi tutte le donne vestite di bianco, blu e rosso) brulica in piace de la Concorde fin sulle statue.
Improvvisamente si scatena il dramma. I tiratori dei tetti cominciano. I carri armati allineati davanti all’hotel rispondono e bombardano. La mia sigaretta è spezzata a metà in bocca. Jeannot e Paul rifiutano di andare via dalla camera sulla facciata. Si buttano a terra, si rialzano e lasciano spuntare la testa dal balcone. Vengono scambiati per cecchini e i carri armati rispondono. Nello stesso momento, a Notre-Dame sparavano sul generale De Gaulle e su alcuni punti del corteo.
Come mai non erano state ispezionate le torri di Notre-Dame da cui i misteriosi cecchini sparavano da tre giorni? Il custode delle torri, interrogato, risponderà: «Le torri sono delle catacombe» (sic). Parigi è attraversata da macchine F.F.I. con la croce di Lorena; sono state più o meno requisite e sono cariche di giovani con bracciali e rivoltelle. E così vedo sbarcare a casa Goddet (capitano) e il figlio dei Capgras.
Le false notizie circolano in fretta come queste automobili pericolose: le teste di tutte le attrici sono state rasate a zero. Hanno arrestato tutti gli scrittori, ecc. Arresto di Sacha Guitry,[13] condotto al municipio della VII circoscrizione parigina, poi alla polizia giudiziaria, poi alla prigione della Santé!
Titayna[14] e Desmarets[15] sono stati arrestati.
Le donne rasate, tutte nude, trascinate con una catena al collo, insultate, picchiate da altre donne che di certo hanno fatto di peggio. Spettacolo vergognoso.
Donne innocenti e rasate vengono condotte al Municipio. Non hanno il coraggio di rimetterle fuori. Le ospita Roger. Vi resteranno sino a quando i capelli saranno ricresciuti.
Immagino un prigioniero che ritorna con i capelli lunghi e trova la moglie con i capelli a spazzola.
Parigi ribolle, fermenta, prepara gli esplosivi. Lo slancio viene meno e lascia il posto ai piccoli rancori, ai garbugli, ai numerosissimi asti individuali.
Prima ondata. I nostri compagni, tanto liberi nell’oppressione, si trovano oppressi in libertà. La loro resistenza segreta diventa un regime sottomesso a leggi, bolli sui manifesti. Tra poco si metteranno di nuovo a lavorare segretamente contro un ordine che li paralizza. Verrà un’altra ondata e li sommergerà. Éluard - perfetto nella sua nobiltà, ma con una gioia infantile per il trionfo della sua causa - mi dice: «Hemingway ha mandato una macchina e lei è stato a fargli visita al Ritz. Non doveva andarci. Ha scritto contro la Spagna. Se i comunisti sapessero che è andato a trovarlo, se la prenderebbero con lei».[16] Non ho quindi tanto torto a temere un rimprovero di «collaborazione americana».
Dai miei conciliaboli con gli uni e con gli altri, risulta che l’unica posizione nobile è l’estremo riserbo, il silenzio, le vecchie e fedeli amicizie.

Da Picasso. È il re, e giustissimo. Dopo la tempesta, lo trovo nei suoi magnifici antri da leone. Sta finendo una testa di donna sul libro che gli scrittori della Resistenza offrono al generale De Gaulle. «Le cose non cambiano mai» mormora strizzando un occhio, «il nostro regno non è di questo mondo.» Parla sottovoce, perché la minima cosa detta viene ripresa, ripetuta, volta a nostro danno. «Dare un colpo di spugna» fra tutte le frasi è quella che viene perdonata più difficilmente. Ed è giusto. Troppi hanno sofferto, troppi hanno subito le torture tedesche.
La Milizia sparava dai tetti. Le F.F.I. sparano alle gambe. Ieri, trentuno agosto, Fargue mi telefona che è appena uscito un omaggio di fedeltà al regime, firmato dai sette membri rimasti francesi dell’Académie Mallarmé. I nostri nomi non ci sono.[17]
Mondor, Charpentier cedono. Dicono che non è colpa loro, e accusano il giornale di aver travisato il testo. Suppongo che, improvvisamente imbarazzati dall’enormità di questo gesto criminale che equivale, in negativo, a una denuncia, tentino di circondare questo verdetto di un ridicolo mistero. Il giorno dopo[18] hanno aggiunto il mio nome e quello di Fargue.

Ho preso una decisione. Ho detto a Jacques Fano, venuto a cena con me ieri, e ad Éluard, stamattina, che non farò mai neanche un passo, non farò neppure una telefonata e metterò tra le mani di Éluard e di Sartre il mio nome, che stanno cercando di disonorare.
Cosa mi viene rimproverato? Di essere amico di Arno Breker. Certo, conosco Breker da molto tempo. Ha continuamente messo a disposizione di Hitler il suo potere, a servizio della Francia. Ha salvato moltissimi prigionieri, perorato la nostra causa, ha impedito che ci trattassero come la Polonia. Non mi aspettavo niente da quell’articolo su Breker, perché ho sempre rifiutato che intervenisse per interrompere la campagna stampa che mi ha infangato. Giraudoux doveva il silenzio a Ribbentrop. Spesso mi consigliava di imporre il silenzio stampa mediante Breker. Breker si era offerto di farlo. Avevo rifiutato rispondendo che la fierezza me l’impediva e che mi rallegravo di essere in­fangato dalla stampa collaborazionista.
Per di più trovavo nobile parlare di un amico nemico come di un amico alleato. Attualmente l’articolo sovrasta tutto. Nessuno tiene conto degli insulti, della rovina dei Parents terribles e delle bombe lacrimogene in sala, della censura della Machine à écrire, del mio rifiuto di salutare la bandiera della L.V.F. e dell’aggressione che per poco non mi ha reso cieco. Conta solo Breker, l’articolo su Breker, l’amicizia con Breker, il solo atto che riuscirà a farmi impiccare.
Meraviglia di un’amicizia nata da un lungo odio. Éluard si accanisce a difendere la mia causa e, nonostante la lettera così dura dopo l’articolo su Breker, pensa che pochi dei nostri amici avrebbero avuto il coraggio di non togliersi il cappello in mezzo ai membri del P.P.F. Ecco a che punto siamo. La coerenza profonda di un individuo non lo discolpa, importa solo mettere dei fatti sulla bilancia.
Perché dovrebbe cambiare il destino di un poeta? Il mio regno non è di questo mondo e il mondo ce l’ha con me perché seguo male le regole. Soffrirò sempre per la stessa ingiustizia. Scateneranno sempre gli scandali, che detesto, accusandomi di desiderarli ed esserne l’istigatore. Di certo il mio angelo mi protegge facendomi commettere degli sbagli che mi salvano dall’azione diretta e dalla vertigine dell’attualità![19]
Ed eccoci al 31 agosto. Le piccole Gip[20] degli americani trasportano le donne, come le carrozze delle giostre. I nostri amici organizzano dei cocktail. Al Ritz liberato, gli ufficiali americani pranzano con donne da marciapiede. Una grande gioia che si doveva provare non riesce a superare, dentro di me, strati di imbarazzo e tristezza. Hanno guastato la gioia. I parigini credono che la guerra sia finita. Incomincia. Sarà feroce. Due notti fa, i tedeschi hanno bombardato Parigi con le bombe al fosforo e hanno incendiato la Halle aux vins.[21] Ce lo ha raccontato Picasso, più vicino di noi al disastro.[22] Bruciava tutto, alberi, pietre, acqua, in un incredibile silenzio. Tutta la città era illuminata da una luce d’alba, e il calore minerale, sconosciuto, del fosforo accompagnava questo grande bagliore immobile, piatto, color rosa tea.
Nel Palais-Royal c’era l’ombra degli alberi immobili e questo bagliore al suolo. E durava. Non cambiava intensità. Durava tutta la notte. Il disordine organizzato degli americani si oppone allo stile della disciplina tedesca, la sconvolge, la disorienta. I combattimenti terminano nello sbandamento, ma le perdite, ancora ieri, alle porte di Parigi sono state pesantissime.






[1] Ramon Fernandez (1894-1944), romanziere (Le Pari, 1932), saggista (Marcel Proust, 1943, e Balzac, 1944), membro influente della «N.R.F.» e delle edizioni Gallimard. Apparteneva al Co­mitato politico del P.P.F. doriotista e collaborava al «Cri du Peuple».
[2] Riproverà, con esito positivo, il 15 marzo 1945.
[3] Il 31 luglio, durante un volo di ricognizione tra la Corsica e le Alpi.
[4] Ferito e fatto prigioniero il 22 luglio, viene imprigionato a Tolosa.
[5] A proposito di Pierre Costantini (nato nel 1899), cfr. Pascale Ory, Les Collaborateurs, 1940-1945, Parigi, Ed. du Seuil, collana «Points», 1976, pp. 96-98. Fondò la Lega francese di epurazio­ne (nel 1941), un piccolo gruppo che si alleò con il P.P.F.
[6] Le F.F.I. sono le «Forces francaises de l’Intérieur». (N.d.T.)
[7] Ufficiale della divisione Leclerc, Jacques Delrue determinò l’arruolamento di Jean Marais nella seconda divisione blindata.
[8] Vicinissimi: abitavano in rue de Montpensier.
[9] Pseudonimo di Roger Woorms, nato nel 1919. R. Stéphane, che conosceva Jean Cocteau già da qualche anno, non ha ancora pubblicato nulla. Giornalista e produttore televisivo, realizzerà nel 1963 un eccellente Portrait-Souvenir dedicato a Cocteau.
[10] I genitori di Elina Labourdette (nata nel 1919; fu protagonista della Dames du Bois de Boulogne); abitava in rue Chanoinesse.
[11] La cicogna era una specie di aeroplano da ricognizione. (N.d.R.)
[12] II 26 agosto.
[13] Il 23 agosto.
[14] Romanziere (La Japonaise, 1931) e giornalista; Jean Cocteau l’aveva incontrato alla fine del suo giro del mondo (Mon premier voyage, p. 366). Scriveva sui giornali collaborazionisti tra cui «La France au travail».
[15] «Desmarets liberato questa sera» (nota di Jean Cocteau).
[16] Giunto a Parigi il 25 agosto, con l’avanguardia della 2a Divisione blindata, nonostante la proibizione del generale Leclerc fattagli a Rambouillet, Ernest Hemingway (1899-1961), corri­spondente di guerra, si stabilisce al Ritz e riprende contatto con i suoi amici. Sul «rapimento» di Cocteau, possiamo citare la testimonianza di R. Lannes: «Quando arriviamo da Cocteau, ve­diamo la polizia che irrompe e lo stesso Cocteau sequestrato dentro una macchina assai misterio­sa. Abbiamo un momento di grande emozione, ma, una volta tornato a casa, Marie-Laure de Noailles mi telefona dicendo che ha incontrato Jean che giocava al soldatino su un carro americano in compagnia dei divi del cinema» (frammento del 27 agosto 1944).
[17] In un foglio del diario, datato 31 agosto, Lannes designa quali responsabili di questa «manovra perfettamente ignobile, gli elementi più ridicoli dell’Académie Mallarmé: gli Charpentier e i Fontainas che hanno fatto firmare a Valéry e a Mondor un manifesto detto dei “cinque rimasti francesi”».
[18] Questa frase sembra un’aggiunta, messa di traverso sulla pagina di sinistra. Ne «Le Figaro» del 2 settembre, il comunicato dell’Académie Mallarmé porta infatti i nomi di Jean Cocteau e di L.-P. Fargue. Il testo è riportato nella biografia di J.-J. Khim, E. Sprigge e H.C. Béhar, p. 290.
[19] Nel manoscritto è stata cancellata una riga: «Mauriac nelle lettere, Salacrou nel teatro, mi perseguitano».
[20] Oltre a testimoniare uno sforzo immediato di assimilazione, questa grafia - meglio di Jeep - permette di conoscere la sigla originale «G.P.», iniziali di general purpose, cioè «macchina tuttofare».
[21] Nella notte tra il 26 e il 27, la Luftwaffe aveva bombardato Parigi. Oltre alla Halle aux vins, era stato duramente colpito l’ospedale Bichat.
[22] Nelle ultime settimane dell’Occupazione, Picasso, per prudenza, aveva lasciato l’atelier della rue des Grands-Augustins, per sistemarsi da Marie-Thérèse Walter, sua ex amante e madre di Maïa, che abitava in boulevard Henri IV.