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martedì 23 agosto 2016

Milano segreta: Palazzo Dal Verme


Per gli amanti “del bello” Milano riserva sempre gradite sorprese.
Passo per la millesima volta da via Puccini, la via che mette in comunicazione San Giovanni sul Muro con la stazione Cadorna, ed ecco che un giorno quasi mi scontro con due ragazzi che escono da un portone di vetro. L’occhio “cade” all’interno e che vedo? Una serie di colonne, un soffitto decorato, una vera da pozzo… e subito il mio cervello (oddio, quel che rimane) m’invia un messaggio: guarda che questo è un cortile quattrocentesco. Blocco i due giovani e chiedo lumi. Uno non sa niente, l’altro pure, però sa “che è opera del Bramante, che qui fece le prove per Le Grazie”. “Fece le prove per Santa Maria delle Grazie?” dico io. “Sì” mi risponde lui, con indiscutibile sicurezza. Vabbè… La vetrata si è chiusa, noi ci salutiamo.
Ieri, 22 agosto, volutamente ripasso da via Puccini. La porta a vetri, ovviamente chiusa, mostra l’interno e per riflesso anche il cielo azzurro e le mura alle mie spalle. Scatto due fotogrammi e subito mi sposto per far spazio ad una signora munita di chiavi che vorrebbe entrare. Flash: stessa scena capitatami all’androne del 27 di rue de Fleurus a Parigi, il “cortile degli Stein”.
Con gentilezza chiedo alla signora se mi può raccontare qualcosa di quel cortile (oramai davanti ai miei occhi, essendo la porta aperta). Lei, con malcelato orgoglio mi risponde: “è opera del Bramante”. Chiedo se posso entrare e godere di quella bellezza. “Chiuda bene la porta quando esce” è il suo tacito assenso.
Ringrazio… ed eccomi nel quadrato inatteso. Il sole è forte, il contrasto tra luci ed ombre generoso. Mi prendo tutto il tempo, girando in senso orario e strabuzzando gli occhi per cercare i dettagli. Esco felice: questa giornata non è andata sprecata.
A casa mi tuffo nelle ricerche. Apro il pesante volume Milano nell’arte e nella storia di Paolo Mezzanotte, Giacomo C. Bascapè - a cura di Gianni Mezzanotte, Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma, 1968, e alle pp. 380-382 leggo:

Palazzo Dal Verme
Eretto sulla fine del XV secolo appartenne alla celebre famiglia Dal Verme, che ebbe notevole parte nella storia della vita milanese nelle età viscontea e sforzesca. Fu forse costruita da Federico, che nelle guerre tra la Francia e gli Sforza fu a questi fedele. La facciata non aveva interesse: tre piani e tredici aperture, a intonaco colorato simulante un paramento di mattoni a vista.
Per un portale arcuato, attraverso un androne con lunette di volta, poggianti su capitelli pensili arieggianti l’ordine corinzio, si scendeva nel cortile, il cui piano è lievemente più basso del suolo stradale. Il cortile è quadrato, con portico di quattro arcate per lato; appartiene al miglior gusto rinascimentale ed è l’unico residuo antico scampato alla recentissima ricostruzione dell’edificio. Le colonne sono a fusto di serizzo, con basi dello stesso materiale, con foglie di protezione fra il plinto e il toro. I capitelli di pietra di Angera di forma corinzia, hanno targhe a testa di cavallo, che furono spogliate a colpi di scalpelli dei segni araldici durante la Cisalpina. Le ghiere d’arco sono di cotto; nei pennacchi tondi di marmo incorniciati di cotto, recanti i profili in bassorilievo di personaggi sforzeschi, alternati con targhe araldiche; su alcune di queste è la figura del cane col laccio al collo, altra delle imprese assunte dai Dal Verme. L’archivolto è di cotto a tre fasce; nel sommo serraglie di terracotta di uniforme disegno a foglie d’acanto.
Sopra il portico, cornicione, sempre di laterizio, con fascia finemente modellata di delfini affacciati tra baccelli ornamentali; altra fascia superiore dipinta e modanatura a dentelli.
Alle colonne del portico fanno riscontro sulle pareti di fondo altrettanti capitelli pensili, simili nelle forme a quelli delle arcate: in parte autentici, in parte rinnovati nel restauro. Gli interspazi fra le arcate, i tondi a bassorilievo e la cornice, il fregio della cornice stessa, gli intradossi degli archi e le volte del portico, hanno una vivace decorazione pittorica eseguita di recente sulle tracce della originale, venuta in luce.
Sugli intradossi degli archi sono rosoni in riquadri azzurro-cupo; nelle volte finte finestre circolari aperte sul cielo, corone, rosoni, nastri svolazzanti. Sulle pareti di fondo del portico graffiti con prospettive architettoniche di invenzione e di fattura moderna.
Di faccia all’ingresso, nel sottoportico, era murata una lapide di marmo di Candoglia ricordante i restauri del 1914, a cura di Jeannette Dal Verme. Esternamente, a destra dell’ingresso un’altra lapide ricorda che nella casa visse e morì il generale Dezza.

Nessun riferimento al Bramante, però una nota a margine rinvia al secondo tomo di un’opera scritta da Carlo Fumagalli, Diego Sant’Ambrogio e Luca Beltrami: Reminescenze di Storia e d’Arte nella Città di Milano, Milano 1892. Visto che l’ho in casa, lo apro, cerco e leggo:

Il cortile con terrecotte decorative di
Casa Dal Verme in via Foro Bonaparte
Fra i cortili in terracotta nello stile delle civili abitazioni sul finire del XV secolo e sul principio del XVI, vanno menzionati in Milano quello della casa Dal Verme e l’altro in via Passerella di una casa già Litta. Il primo, di cui diamo l’imagine a Tav. XXIII appare certamente di data più antica.
I capitelli sono di puro stile del rinascimento lombardo, con targhe a testa di cavallo fra le volute laterali, i cui scudi vennero guasti e pichiettati sul finire dello scorso secolo. Di disegno uniforme anziché svariato, come nel portico della Canonica di Sant’Ambrogio del Bramante ed in altri edificii, sono invece le protiridi o serraglie degli archi, ma nei pennacchi delle volte appaiono ancora rosoni di terracotta con inclusivi ritratti in bassorilievo di personaggi della famiglia Sforza, duchi di Milano.
Le targhe araldiche che decorano alcuni di quei medaglioni mettono in mostra il cane col laccio al collo e le fascie alternantesi della famiglia Dal Verme, che si rese illustre nelle armi e sotto i Visconti e sotto il dominio sforzesco.
Di vago effetto è il cornicione pure di terracotta con fascia di delfini affrontati fra baccelli ornamentali, e al disopra della fascia decorato di ovoli e listelli.


E il Bramante? Niente. Mi turo il naso e mi metto a cercare su internet:

Per grandi intenditori della città, una vera e propria chicca.
Sconosciutissimo, appartato e forse anche un po’ spaesato ormai. Palazzo Dal Verme è una di quelle tracce lasciate dallo splendore rinascimentale della corte sforzesca, di quei modelli bramanteschi che in una città come Milano non ci si aspetterebbe di trovare. L’abbiamo detto molte volte però, Milano è una città da scoprire, da esplorare e gustare un poco alla volta. Stretto nella morsa della modernità, in mezzo a due palazzoni che non meritano rispetto, rivela la sua identità conservando le sue proporzioni. Due soli piani, piano terra, e piano nobile. Il portone ligneo originale si apre sul quattrocento milanese. Qui costruisce Luigi Dal Verme nella prima metà del ’400 lasciando ai figli il compito di completare l’opera. La famiglia Dal Verme è tra le più importanti del panorama milanese, in stretto rapporto con il Carmagnola con cui legano parentela sposandone la figlia. Capitano di ventura sotto Filippo Maria Visconti e poi al servizio di Francesco Sforza. Dei fasti originali oggi possiamo ammirare solo il portico quadrato che cingeva il cortile principale. Le volte decorate ancora con gli affreschi originali, i profili elegantissimi in cotto tipici del rinascimento lombardo sottolineano i tondi, ancora presenti, con i ritratti d’epoca sforzesca. Qui abitavano i Dal Verme ancora nella seconda metà dell’800 quando proprio di fronte al palazzo si accampava il Politeama Ciniselli, una sorta di teatro di strada, con spettacoli di vario genere ospitante anche compagnie itineranti. Insomma, una zona un tantino caotica e poco rassicurante. Francesco Dal Verme risolve la questione comprando il terreno cacciando così i girovaghi. Vista però la vocazione teatrale del terreno stesso, decide di costruirci un teatro vero e proprio: spettacoli si, ma almeno di un certo spessore. È la nascita del Teatro Dal Verme, proprio di fronte al palazzo rinascimentale dei suoi finanziatori a cui è dedicata qui la nostra attenzione, uno scrigno di cui si è avuto poco rispetto purtroppo. Sano fino al maledetto 1943, viene colpito in pieno. Si salva solo il portico. La facciata viene ricostruita in forme ottocentesche, mentre tutt’intorno si consuma la speculazione. Questo tesoro viene inserito in una lottizzazione senza criterio, alzando palazzine a ridosso dei colonnati e relegando questa perla a banale cortile di passaggio, strozzato, sminuito. Il confronto con il passato fa troppa paura?

Il Palazzo Dal Verme fu la dimora nobiliare di una delle famiglie più potenti della corte viscontea e sforzesca del XV secolo. Resta oggi il cortile, fra le maggiori testimonianze di edilizia civile di epoca rinascimentale a Milano.
Il palazzo fu edificato da Luigi Dal Verme (1390-1449), conte di Sanguinetto, alla metà del XV secolo. Il Dal Verme iniziò la sua carriera di condottiero al servizio del Conte di Carmagnola, di cui sposò la figlia, Luchina Bussone. Fu poi capitano di ventura sotto le insegne di Filippo Maria Visconti, dal quale ottenne i feudi di Bobbio e Voghera, e in seguito alla morte di questi combatté al fianco di Francesco Sforza. La costruzione fu poi proseguita dal figlio Pietro e dal nipote Federico.
Il complesso, giunto in buone condizioni fino al XX secolo, fu duramente colpito dalle bombe del 1943, che ne distrussero la facciata. Sopravvive oggi la corte, inserita all’interno di un moderno complesso condominiale del dopoguerra.
Si accede alla corte da un androne, che presenta la decorazione rinascimentale originaria, costituita da affreschi che ricoprono le volte a crociera, sorrette da peducci scolpiti. Il cortile regolare è aperto da portici sui quattro lati di quattro arcate ciascuno. Reggono le arcate colonne in pietra sormontate da capitelli compositi a foglie d’acanto, che ospitano targhe a testa di cavallo con stemmi non più leggibili. Sopra gli archi corre una decorazione di cornicioni e cordonature in cotto, restaurate in base alle parti superstiti. Fra i pennacchi degli archi, una serie di tondi in pietra alterna stemmi nobiliari a profili di personaggi della corte sforzesca. Al centro, vera da pozzo scolpita, risalente al XV secolo.

Guardo altri siti, istituzionali: del Bramante non v’è traccia.
Un dubbio mi assale. Riapro il librone di Mezzanotte e Bascapè e a p. 147 leggo: Rimangono nel primo cortile, a testimonianza del senso d’arte di Ludovico il Moro, le svelte colonne di perfetta misura e i mirabili capitelli marmorei di squisita esecuzione che strapparono accenti ammirazione incondizionata al Mongeri, non alieno dallo scorgervi l’influsso del Bramante. Bene… se non fossi alle pagine dedicate ad un secondo palazzo appartenuto ai conti Dal Verme, quello noto come Palazzo Carmagnola (già Broletto Nuovissimo dal 1515 al 1861), nel Sestiere di Porta Comasina, oggi via Rovello 2. Adesso mi è chiara la totale dimenticanza di un cortile “del Bramante” da parte dei succitati architetti, grandi conoscitori della storia artistica milanese. Come uso dire: mai credere a niente di quel che ti dicono e credi sempre a metà di quel che vedi… (e nel frattempo apro L’arte in Milano del Mongeri, giusto per vedere quel che scrive).

LE FOTOGRAFIE DI GIANCARLO MAURI

























sabato 23 luglio 2016

Convento delle Monache Umiliate di Sant’Erasmo, Milano


È stupefacente come ancor oggi, nel cuore della Milano da bere tanto cara agli amici ed estimatori di Tinker Bell detto Trilli, si possano scoprire preziosi reperti del bel tempo che fu. Qui alludo a quel che resta del loggiato del soppresso Convento delle Monache Umiliate di Sant’Erasmo, nell’omonima piazza, a due passi da Montenapoleone - e chi meglio degli architetti Emilio Sioli Legnani e Paolo Mezzanotte, autori del delizioso lavoro che porta il titolo Il Borgo Nuovo, edito dalla Fondazione Treccani degli Alfieri per la “Storia di Milano”, Contrade Milanesi, Istituto di Alta Cultura, Milano 1945, potrebbe raccontarci il loro passato? Nessuno, temo. Quindi a loro la parola:

[…] Eccoci finalmente al Convento delle Monache Umiliate di Sant’Erasmo che nascondevano l’immenso spazio del chiostro, del giardino e dell’ortaglia dietro le modeste apparenze della antica Chiesa conventuale doppia (il N. 6) e di una casetta attigua (il N. 8) raffazzonate in una unica facciata neoclassicheggiante dell’epoca della soppressione (1780).

Si chiamava anche Monistero Nuovo. Il Torre suppone perché alla soppressione degli Umiliati nel 1571 le monache passarono alle Regole Benedettine; il Latuada, naturalmente, combatte la supposizione, contraddetta - assicura - da documenti anteriori alla sopressione, ed avanza il parere del « rinomato » Giovan Pietro Puricelli, il quale fa risalire il nuovo nome al Capitolo Generale degli Umiliati tenuto in Mantova nel 1436, e non risolve un bel niente; così che noi, se non avessimo avuto la fortuna di trovarcelo da soli un documento del 1557 che parla del Monastero de Santo Novo - come diremo tra breve - ne sapremmo quanto prima. Finiscono poi entrambi per riferirsi al Borgo Nuovo, ma il Latuada approfitta subito della occasione per vantare come sua la « conghiettura » e per scaricarne la responsabilità sul « prudente leggitore »: comodo metodo critico che gli accade di usare un po’ troppo di frequente.
Non ci sentiamo certo di risolvere l’ardua quistione in momenti come questi: però da quei pochi documenti di seconda mano che abbiamo a disposizione veniamo a sapere che il « Convenium porte Nove Mediolani, iacente in scricta de Tignono in parochia sancti Bartolomei » confinava a ponente, nel 1348, colla domus dominarum Humiliatarum de Tignono cioè con la casa delle Signore Umiliate dei Tignoni. La Stretta dei Tignoni, in fondo alla quale si apriva un accesso secondario al convento, tutti la ricordano: non sono forse cinque anni che le demolizioni per la via dei Giardini l’hanno tolta di mezzo: onde, non per seguire il metodo critico del Latuada, ma in queste condizioni, lasciamo giudicare al prudente leggitore se non sia il caso di pensare ad un nuovo Convento di S. Erasmo che abbia mantenuto questo accesso secondario estendendosi con maggior dignità sino al Borgonuovo.
Monastero de Santo Novo abbiamo già letto - tanto per portare un nuovo raggio di luce - nell’Atto di costituzione dotale di una novizia De Aplano (una Appiani) del 1557, da noi scovato nell’Archivio Spirituale della Curia Arcivescovile. Niente paura: il prudente leggitore potrà sempre pensare che l’amanuense avrebbe dovuto scrivere Monastero de Santo Erasmo Nuovo come nello Status del 1576; e potrà poi lustrass la vista coi più bei nomi - e alto-sonanti - scelti tra le ospiti del convento (43 monache in tutto oltre la superiora Aurelia da Varixio): Paula de Recalchà, Victoria e Clementina di Taberna, Bona Francesca de Morigi, Felice e Candida de Borri, Ippolita de Pegi, Casandra de Coijri, Maria Magdalena e Ludovica de Mantegazi, Scolastica di Ponzoni, Antonia e Gianna di Vesconti. E il valore del documento è di provare la efficienza, la consistenza e il nome che il convento aveva raggiunto già a mezzo il secolo XVI; oltre al merito di avere tagliato la testa al... Torre.
E che il nome lo mantenesse ancora cent’anni dopo, lo conferma indirettamente Marco Cremosano nella sua Cronaca quando scrive che la Serenissima Maria Anna di Austria (ospite di Milano dal 30 maggio al 9 agosto 1649 nel viaggio per raggiungere lo sposo Filippo IV di Spagna), il 20 luglio andò « al monastero di Sant’Erasmo in Borgo Nuovo, poi non uscì di casa per tutto il mese ». Nessuno vorrà imputare a noi l’indisposizione che costrinse in casa per dieci giorni la Augusta Ospite: una settimana prima era stata « alle Grazie e nel ritorno venne un gran temporale che la bagnò tutta », e i raffreddori, trascurati, fanno di questi scherzi. E poi già da prima non si sentiva tanto bene: quando fu ricevuta dai Cappuccini di Porta Orientale « con quella carità di Dio capuccina », e le fu apparecchiata una merenda, « in un piatello di pietra una insalatina et in un altro 4 ovi duri (come si dice in Milano, in ciappa) in un altro 4 olive », la Regina pigliò solo una oliva e « uno puoco di cagiata... et poi si ritirò nel boschetto di detti padri, si sento sopra una vil panca di legno cominciando ad imitare la povertà capuccina, mentre la ciurma si reficiava ».

La Chiesa propriamente detta, quella aperta al pubblico, non si distingue più, trasformata nel corpo verso strada del nostro N. 6. Nel 1674 il Torre - meglio del Latuada - la descrive ad una sola nave, a soffitto di legno, con tre cappelle per lato, adibite a sacristia le due vicine all’altar maggiore posto di fronte all’ingresso dalla via.
La presenza di un custode nella casa precedente che dava accesso al convento è più che naturale: e Messer Giorgio Perigho fattore può solo ringraziare i figli che non ha e Madonna Veronica sua moglie che « aveva passata l’età sinodale dei quaranta » come la immortale Perpetua, se arriva a sottrarsi alle seducenti congetture sull’autore dei fortunati possessori futuri di tutta questa grazia di Dio. Per contro, mal si accorda la presenza degli inquilini con la Chiesa in questo secondo stabile. Ma le medaglie dei Dottori di Santa Chiesa che ne ornavano i pilastri « dipinte non sono molti anni » al tempo del Latuada e l’iscrizione A DI IO A G 1700 che sormontata da tre croci si leggeva sul muro di facciata del coro retrostante riservato alle ospiti della clausura ci indicano la data di un restauro di tutto l’edificio che potrebbe anche essere il coronamento di una riforma generale incominciata colla creazione della chiesa aperta sulla pubblica via; e il passaggio da un affitto come quello del 1576 al Magnifico Signor Hieronimo Visconte con numerosa famiglia e servitù, a una affittanza promiscua di gente modesta come quello del 1610, potrebbe indicare un decadimento dello stabile che abbia poi finito per imporre un provvedimento radicale. E che le monache fossero ancora in truscia per abbellire la loro chiesa nei primi anni del ’700, è provato anche da una tavola della Vergine con San Francesco ed altri Santi che è di Paolo Camillo Landriani detto il Duchino - nostra vecchia conoscenza - nella edizione 1674 del Torre e diventa di Carlo Buzzo nella edizione del 1714; e a quest’ultimo accenna anche il Latuada nel 1738 quando si fa premura di avvertirci che la tavola fu sostituita « per maggior vaghezza » da quelle brave religiose con un S. Erasmo « in atteggiamento di essergli cavate dal ventre le budella e raggirate intorno ad una ruota ». Tre lapidi ricordavano Jacobo Robio (1546) Giovan Battista Carcano (1600) e Marco Aurelio Giussani (1618) che ritroveremo nelle loro case più avanti.
Se la Chiesa è scomparsa, visibilissimo è invece ancora il coro delle monache che le sorgeva dietro: anzi, i bombardamenti hanno fatto riapparire i finestroni e i resti della volta falsa celati da tramezze e plafoni che lo avevano trasformato in studio di artisti prima e in « Galleria d’Arte » poi. In questa occasione sono anche affiorati i frammenti di affreschi seicenteschi allietati da ampi sfondi che fanno passar sopra a molte cose, e da una interessante figura di monaca orante in un angolo: la monaca donatrice, senza dubbio, e ritratta dal vero, come provano i colori a tempera che distesi sopra l’affresco si vanno tranquillamente dilavando.
Ma un altro affresco, di ben altra importanza e di ben altre proporzioni, - benché rovinato - illustrato e studiato dal Beltrami e dal Sant’Ambrogio che lo assegnarono al Borgognone, fu staccato nel 1907 da queste stesse pareti ad opera del Cavenaghi e trasportato su tela nella cappella della famosa villa dei Perego a Cremnago.
Il giardino, con l’annessa peschiera, è diventato il giardino Perego del N. 14, come sappiamo. Il chiostro cinquecentesco distendeva su un ampio rettangolo le sue 90 svelte colonnine di serizzo che in due ordini sovrapposti sostenevano le arcate del portico e le travature del loggiato superiore sui capitelli stranamente girati colle volute alla fronte e le spirali all’interno.
Le sconnesse antiche celle del loggiato ospitarono come potevano, fino al S. Michele 1939, le modeste famiglie di artigiani che avevano il lavorerio nei locali sottostanti del portico (e qualche libro smarginato nel refettorio dalla rinomata legatoria De Ponti lo sapremmo trovare ad occhi chiusi anche nei vostri scaffali).
Un « lavorerio » hors ligne, «La Maison rustique», aveva impiantato in un paio di locali del loggiato, il figlio di Cesare Tallone, Alberto, pittore lui pure, ma anche editore, libraio, artigiano: artista e innovatore in ogni sua manifestazione.
Qui accoglieva con lieta cordialità un « mondo » cosmopolita ed eclettico di pittori, letterati, critici - arrivati ed in arrivo - che si mescolavano tra mobili antichi e tele moderne, libri rari e rilegature d’autore, con i migliori nomi-e colle più belle figure - della buona società milanese, della finanza, dell’industria, del commercio italiano.
Ricordiamo una sera dell’ormai lontano 1931 quando nella cornice fantasmagorica delle colonne illuminate e animate dalle macchiette dei coinquilini, tutti bravi e modesti popolani, Tallone invitò Mariette Lydis - consorte di Giuseppe Govone - in occasione di una esposizione della gentile artista francese; e la ricordiamo perché quella sera, si può ben dire, furono gettate le basi della società artistico-tipografica tra Tallone e Giuseppe Govone, che seppe tenere alta la fama dell’arte editoriale nostra anche fuori d’Italia. Classici i tre tomi del Dante usciti tra il 1939 e il 1941 da quel piccolo gioiello dell’Hotel de Sagonne in rue des Tournelles a Parigi: la casa di Mansard il giovine, conte di Sagonne sotto Luigi XIV, che ospita lo studio della stamperia a cui diede il nome; studio che è fama udisse Molière declamare il Tartuffe ad una scintillante élite e proteggesse l’eterna bellezza di Ninon de Lenclos sotto a un soffitto ancora intatto di Mignard.
(Povere monache di S. Erasmo quali analogie per il vostro chiostro sconsacrato!).
Nel centro del chiostro era sorta « la cavallerizza, nuova nel suo genere, di disegno dell’architetto Clerichetti » informa Milano e le sue bellezze, Strenna per l’anno 1847, a pag. 86: « La sua dimensione è di metri 18 per 36; è racchiusa da muri, alti metri 6. La spaziosa vòlta con graziosa curva catenaria; due tribune laterali dipinte dal pennello maestro del Trolli ». Vi si accedeva dalla antica porta secondaria del convento in fondo al vicolo dei Tignoni: il vecchio maneggio Beretta poi Huber, caro ai nostri ricordi giovanili, dove ci allenammo per andare in guerra appiedati nel 1915.
Nel 1939 il chiostro venne sacrificato alla speculazione edilizia e al suo posto sorsero come per incanto smisurate e bianche costruzioni moderne. Si salvarono solo quattro campate alle quali se ne aggiunsero altre tre verso levante - se non andiamo errati - ricostruite coi materiali di demolizione del resto. Diciamo questo solo col desiderio di risparmiare un rompicapo al postero collega che, con le vecchie mappe alla mano, vorrà un giorno ricostruire la forma del chiostro, attratto da quei poveri mirabili resti, i quali, dietro la cancellata di ferro in fondo alla piazzetta a cui si accede dalla nuova via dei Giardini, hanno tutto il profumo di un cespo di viole mammole sperduto in un campo di grano turco.
Speriamo che tra quei poveri mirabili resti sia almeno rimasta la stanza nella quale la tradizione narrava esser nato il Santo Martire Sebastiano, cittadino milanese; era tenuta in tanta venerazione dalle Religiose! Perché, « in visitandola », potevano ottenere le stesse indulgenze come se salissero la Scala Santa a Roma: ma con molta maggiore comodità.

Il chiostro aveva anche un campanile, o torre campanaria, che doveva essere di rara eleganza, giudicando dalla loggia superiore, o baltresca, costruita, o ricostruita, coi suoi avanzi in cima alla villa Bagatti Valsecchi a Varedo; e a più ordini, come ricaviamo da un curioso contratto con l’impresa che ebbe a demolirlo pericolante nel 1779. Documento che riproduciamo integralmente senza neanche togliere i fiori... edili sempre col desiderio di renderci utili al nostro postero collega scrittore, più che per fornire ai nostri disgraziati contemporanei colleghi proprietari di casa una utile informazione sui prezzi di demolizione.








Già tutto questo potrebbe bastare, ma visto che ho in casa il da me più volte saccheggiato volume scritto da Paolo Mezzanotte (sempre lui!) e da Giacomo C. Bascapè, intitolato Milano nell’arte e nella storia, edito a cura di Gianni Mezzanotte per Carlo Bestetti - Edizioni d’Arte - Milano-Roma 1968, perché non approfittarne ed inserire quanto è scritto a p. 440?

La chiesa claustrale di S. Erasmo.
La chiesa di S. Erasmo risale al XV e al XVI secolo; la facciata sulla contrada fu ricostruita nel XVIII. Il fabbricato si presentava a due piani, oltre al terreno, con aspetto modesto, rabberciato quando, dopo le soppressioni giuseppine, vi furono conglobati il monastero delle Umiliate di S. Erasmo detto anche Monastero nuovo o di Borgonuovo, e la chiesa conventuale doppia di S. Erasmo. Di questa, che si affacciava a via Borgonuovo, appena a destra del n. 8, era ancora riconoscibile, in un locale coperto da volta a crociera, il coro delle monache o aula claustrale. La chiesa aveva pianta rettangolare, con tracce di decorazione pittorica; la parte riservata al pubblico, secondo è descritta dalle antiche guide, era abbastanza vasta, di una sola nave, con due cappelle per lato. Sull’altar maggiore era una tela raffigurante la Vergine con S. Francesco e altri Santi, opera del Duchino (Paolo Camillo Landriani) secondo il Torre; attribuita invece dal Latuada a Carlo Buzzi. Ma nel coro era visibile, fino al principio di questo secolo, un affresco di rara bellezza, benché mutilato, dal Beltrami riconosciuto ad Ambrogio Bergognone, a cui palesemente appartiene: una Crocifissione, con molte figure, contenuta in una grande lunetta a profilo archiacuto appena accennato. L’affresco, molto danneggiato, era troncato sotto il busto delle figure fiancheggianti la croce; della Maddalena inginocchiata rimaneva la sola testa. Sul Crocifisso, a cui faceva corona un coro di angeli di squisita fattura, era la figurazione del pellicano che nutre i piccoli. L’affresco, staccato e trasportato su tela, è oggi collocato nella cappella annessa alla villa dei Perego a Cremnago.
Al chiostro si arrivava dalla stessa casa del n. 8 per una serie di cortiletti. Occupava una vasta area rettangolare invasa nel mezzo dal fabbricato della cavallerizza. Dei quattro lati originari rimaneva integro, sebbene in condizioni di deplorevole abbandono, il lato di tramontana era a due ordini di portici, arcuato l’inferiore, architravato il superiore: colonne di serizzo con capitelli e basi della stessa pietra. I capitelli simili nei due piani, di forme rinascimentali arieggianti l’ordine composito, sommariamente se non rozzamente scolpiti nella dura pietra. Con disposizione singolare rivolgevano alla fronte non le spirali, ma i cartocci delle volute. Basi ancor medievaleggianti, ungulate agli spigoli; architravi di legno nell’ordine superiore, arcate senza ghiere né ornati nell’inferiore. Null’altro rimaneva di notevole se non una vera di pozzo più tarda nel lato di ponente.
Le celle erano adibite ad abitazione di infimo ordine, al piano superiore; all’inferiore ospitavano laboratori modesti artigiani. Fra le colonne dell’ordine superiore, in pittoresco disordine vasi di fiori e stracci sciorinati al sole completavano l’aspetto pittoresco e misero della decadenza di quell’antico edificio.
Quando l’area fu ceduta a speculatori, vi si costruirono case di abitazione; del chiostro rimasero in luogo sei campate ed altre furono aggiunte con materiali delle demo zioni, a cura di Ambrogio Annoni. Per quanto oppresso dalle nuove costruzioni, il tratto di chiostro superstite è interessante, e costituisce la prova della possibilità di salvare almeno alcune vestigia di edifici storicamente e artisticamente notevoli, incorporandoli con gusto e senza stonature in fabbricati nuovi, salvando così preziose memorie del passato e insieme permettendo l’indispensabile rinnovamento edilizio della città.
Le cronache ricordano che l’antico convento ospitava pure un ospedale per i fanciulli tignosi, da cui prese nome il vicolo dei Tignosi, sboccante in via Manzoni.

Troppo noioso culturismo? Delle due l’una: o avete sbagliato blog …oppure procuratevi una copia delle memorie dell’attrice Valentina Cortese - Quanti sono i domani passati, Mondadori Editore, Milano 2012 - e divertitevi a leggere l’infinita tiritera dei suoi litigi con Giorgio Strehler, querelle che hanno avuto a testimonio proprio le mura di questo loro, intimo conventino.

LE FOTOGRAFIE DI
GIANCARLO MAURI